19 FEBBRAIO – IL GIORNO DELLA MEMORIA INFOIBATA DEL BELPAESE, QUELLO DEGLI “ITALIANI BRAVA GENTE” SEMPRE E COMUNQUE.

POI C’E’ ANCHE LA MEMORIA INFOIBATA DEI CRIMINI COMMESSI DA NOI ITALIANI “BRAVA GENTE” NELL’EX JUGOSLAVIA, ALBANIA E GRECIA.

NELLE FOIBE DEL SILENZIO, DELL’IGNORANZA E DEL’IPOCRISIA – COMPLICI DI FATTO DEI NOSTRI CRIMINI- ABBIAMO GETTATO I CORPI E LA DIGNITÀ DI UN MARE DI ESSERI UMANI. VI ABBIAMO GETTATO ANCHE LA NOSTRA MEMORIA, LA NOSTRA CREDIBILITÀ E LA NOSTRA DIGNITÀ

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La giornata della memoria che manca per i massacri degli italiani in Africa

Luigi Mastrodonato

19 febbraio

«Gli italiani stanno uccidendo la gente con vanghe e badili, chiunque sia, tutti quelli che incontrano. È meglio essere divorati da una iena che farsi uccidere dagli italiani».

A parlare è un cittadino etiope, la sua testimonianza è una delle tante raccolte in decenni di ricerca dallo storico Ian Campbell e presenti nella monografia Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana (Rizzoli).

19 febbraio 1937 (Yekatit 12 nel calendario locale), capitale dell’Etiopia. Da due anni sono arrivati i fascisti italiani per riscattare la disfatta tricolore di Adua del 1896 e mostrare i muscoli, colonizzando l’unico stato africano ancora libero dalla dominazione europea.

Un’operazione di propaganda, dai costi economici altissimi e per cui vengono mobilitati mezzo milione di soldati. Fallito il progetto di una guerra lampo per la strenua resistenza etiopica, nel maggio del 1936 i fascisti conquistano Addis Abeba.

Dal balcone di Piazza Venezia Benito Mussolini annuncia «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma», ma in realtà vaste lande d’Etiopia sono fuori dal controllo italiano. La guerra contro le forze locali prosegue finché gli italiani hanno la meglio.

Sembra la fine delle preoccupazioni fasciste nel Corno d’Africa, ma un evento cambia le carte in tavola e diviene il pretesto per mostrare nel modo più chiaro possibile quella brutalità italiana che tra fucilazioni di massa, campi di concentramento e bombardamenti chimici si stava in realtà palesando già da due anni. 

L’ATTENTATO

Durante una cerimonia nel palazzo del governo coloniale di Addis Abeba, il 19 febbraio appunto, due ragazzi eritrei lanciano delle bombe verso le autorità.

Il generale Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, è ferito, qualcun altro muore e l’attentato dà il via a quello che il collettivo Wu Ming ha definito «uno dei peggiori crimini mai compiuti dal Regno d’Italia nelle sue colonie».

Una forma di vendetta collettiva per l’attentato fallito, ma soprattutto una cruenta prova di forza per ristabilire la supremazia bianca e fascista sul territorio.

I carabinieri sparano sulla folla, l’area intorno al palazzo viene chiusa e chiunque si trova al suo interno e non è bianco viene ucciso. Mussolini ordina un «radicale repulisti», funzionari locali diffondono un documento in cui si dice che «Graziani farà sentire a tutti che se la sua pietà è infinita, altrettanto è la sua forza».

Inizia una caccia all’etiope che nella capitale durerà tre giorni, condotta non solo dai militari ma anche dai civili italiani presenti sul territorio.

Tra le testimonianze raccolte da Campbell c’è quella del medico Ladislav Sava: «Revolver, manganelli, pistole e pugnali venivano usati per massacrare gli etiopi disarmati di tutti i sessi, di tutte le età. Qualsiasi uomo di colore visto è stato arrestato, caricato su un camion e ucciso. Case o capanne etiopi sono state perquisite e poi bruciate con i loro occupanti. La maggior parte delle uccisioni sono state eseguite con coltelli e stordendo le vittime con i manganelli. Intere strade venivano date alle fiamme e se gli occupanti delle case in fiamme uscivano nelle strade venivano mitragliati o pugnalati al grido di Duce! Duce! Duce! Le camicie nere si facevano fotografare tenendo in mano teste mozzate di etiopi».

Altri testimoni raccontano che camminando per Addis Abeba si doveva fare i conti con cataste di persone carbonizzate, corpi di bambini mutilati, donne incinte sventrate, figure impalate, superstiti che vagavano disperati alle ricerca di parenti dispersi, chiese saccheggiate.

NON LASCIARE TRACCIA

In loco c’era anche Ciro Poggiali, inviato del Corriere della Sera, che scrive: «Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».

Vengono uccisi molti intellettuali, così come chi prova a documentare i fatti, mentre agli italiani sono sequestrate le macchine fotografiche. Dell’eccidio i fascisti non vogliono lasciare tracce e nel momento stesso in cui inizia il massacro comincia anche un’opera di insabbiamento che si prolungherà fino a oggi.

La violenza nei giorni successivi si sposta nelle campagne, vengono date alle fiamme oltre 100mila case, spesso con le famiglie al loro interno.

Il capitolo finale avviene nel convento di Debra Libanos: i monaci cristiani copti sono accusati dai fascisti di aver dato ospitalità ai due attentatori eritrei. «Liquidazione completa», ordina il generale Pietro Maletti e sotto il fuoco italiano finiscono tutti, anche i civili che si trovano nel villaggio monastico.

Secondo le ricostruzioni a Debra Libanos muoiono in 2mila, ad Addis Abeba 19mila, il 20 per cento della popolazione della capitale. Con i morti delle campagne si arriva a 30mila persone brutalmente uccise dagli italiani in poche settimane.

Un massacro di cui il governo etiope nel 1946 ha chiesto conto durante la Conferenza di pace di Parigi, senza ottenere risposta.

Così come da 16 anni non ottiene risposta la proposta di legge presentata da alcuni parlamentari italiani di istituire per il 19 febbraio il Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana.

«In Etiopia le date civili hanno a che vedere essenzialmente con le infamie lì commesse dai governi italiani del passato. Da noi però non si è mai voluto riconoscere questi eccidi», spiega lo storico Alessandro Triulzi.

«Quelle come lo Yekatit 12 sono però questioni che si affacciano con sempre più urgenza nella società italiana. La presenza di migranti che vengono dai contesti del nostro passato coloniale e che si sentono addosso quei traumi, se li portano dietro, sta favorendo questo processo. Eppure si continua a non dare risposte sul perché stavamo lì e cosa abbiamo fatto realmente: politica e istituzioni voltano lo sguardo».

A tenere viva la memoria, visto che rimuovere il ricordo di un crimine significa commetterlo di nuovo, ci pensano le iniziative dal basso, come quella del collettivo Wu Ming e di Resistenze in Cirenaica, che per l’anniversario del 19 febbraio hanno organizzato un trekking urbano a Bologna alla scoperta di luoghi e simboli legati alle nefandezze coloniali; o della Federazione delle Resistenze, che in diverse città italiane ha organizzato azioni di guerriglia odonomastica, camminate e conferenze.

«Finché l’Italia non avrà fatto un lavoro di presa di consapevolezza su cos’è stata la sua presenza coloniale nel periodo liberale e fascista e finché non si riconoscerà che l’Italia ha condotto azioni di criminalità organizzata, non si risolveranno mai i problemi del passato che poi sono anche quelli del presente, come il razzismo», sottolinea Triulzi.

«La nostra eredità coloniale ce la siamo portata appresso per i decenni senza mai investigarla. È ora di cambiare il messaggio e la memoria».

 

14 commenti
  1. Uroburo
    Uroburo says:

    Caro Pino,
    come truppa di occupazione gli italiani si sono SEMPRE distinti per la loro primitiva ferocia, una ferocia individuale, personale, a differenza di quella tedesca o inglese che erano di sistema. I nostri massacri venivano agiti da persone singole contro persone: uccidere con un fucile è diverso che uccidere a vangate o sprangate!
    Nel fondo del nostro popolo c’è un aspetto primitivo, distruttivo, feroce, che emerge SEMPRE tutte le volte che contro di noi si sviluppa una resistenza purchessia. Le nostre reazioni sono sempre fuori misura, strutturalmente disumane e vergognose. A cominciare dalla guerra al brigantaggio.
    Se ce ne prendessimo conto potremmo cercare di tenere sotto controllo la bestia che è in noi.
    Un saluto u.

  2. Peter
    Peter says:

    @Uroburo

    Non condivido la sua opinione sugli italiani.
    Rilevo pero’ cio’ che Pino ha detto spesso, cioe’ che i crimini di guerra degli italiani sono sempre rimasti impuniti e neanche indagati. Ma non solo quelli degli italiani, vedasi US in tempi assai piu’ recenti.
    Gli italiani non arriverebbero a bombardare regolarmente un paese collaterale inerme solo per liberarsi dei carichi di bombe.
    Questo sembra che successe per mesi in Laos durante la guerra del Vietnam; a soffrire i bombardamenti sistematici furono contadini inermi nel Laos, e le bombe inesplose finora continuano a fare altre vittime.
    Bastava premere un bottone sui B 52, senza nessuna ferocia, appunto, ma dopo ammisero che non vi era nessun motivo bellico di farlo.
    Ammesso poi che in Vietnam…

    P.

  3. Uroburo
    Uroburo says:

    Caro Peter,
    in questi argomenti le visioni soggettive ed individuali sono sovrane.
    Tuttavia i bombardamenti a tappeto (o se preferisce: le camere a gas) sono, appunto, atti impersonali. Sparare è ancora un atto relativamente distaccato; massacrare un essere umano a colpi di spranga richiede un intervento personale ancora diverso. Secondo me disumano.
    Ovviamente sto solo cercando di fare una (ancora legittima???) graduatoria di crudeltà. Discutibilissima, me ne rendo conto.
    Mi raccontava un comandante partigiano che nei plotoni d’esecuzione metteva proprio quelli a cui dava molto fastidio, proprio perché non ci prendevano gusto.

  4. Peter
    Peter says:

    @Uroburo

    Premesso che non sono mai stato violento, e detesto la violenza individuale, quella ‘impersonale’ che dice lei ha fatto di gran lunga piu’ danni. Inutile fare ovvi esempi, cioe’ superfluo.
    Se periremo col resto del mondo nei possibili sviluppi di quest’ultima crisi, sara’ per via di violenza globale impersonale.
    Le persone che la eseguiranno potrebbero non avere mai torto un capello a nessuno di persona in vita loro.
    La nostra natura animale (in generale) puo’ fare ribrezzo, ma e’ quella specificamente ‘umana’ a distruggere il mondo.

    P.

  5. Uroburo
    Uroburo says:

    Caro Peter,
    son proprio totalmente d’accordo con il sull’ultimo capoverso.
    Gli animali, intendo le bestie, sono necessariamente violenti ma non sono mai crudeli. Neppure i primati, da cui discendiamo e che ci assomigliano tanto, sono, ch’io sappia, crudeli. Nel mondo animale non esiste la tortura, neppure la morte prolungata: si uccide per mangiare, solitamente nel modo più rapido possibile.
    Il piacere per la sofferenza altrui nel mondo animale non esiste. Questa è una caratteristica solo umana, direi poco animale ma molto psicologica, quindi evoluta. E in effetti il piacere della sofferenza altrui richiede un pensiero, immaginazione, studio, compiacimento.
    Non è la nostra parte primitiva, tutt’altro!
    Un saluto u.

  6. Uroburo
    Uroburo says:

    PS. Dimenticavo che nelle lotte interne ad una specie, o addirittura allo stesso gruppo familiare, la lotta ed il combattimento (ad esempio quello tra i maschi per il controllo del territorio) possono arrivare all’ultimo sangue solo quando ambedue i contendenti non demordono. Altrimenti quando il perdente fugge la lotta cessa con la vittoria del più forte. Accade anche tra i gatti dominanti, che per quanto piccoli sono ferocissimi: chi fugge viene risparmiato, ma tra gatti dello stesso peso e determinazione la lotta può essere mortale. U.

  7. Peter
    Peter says:

    @Uroburo

    Curioso che parli di gatti, animali che io conosco fin troppo bene.
    Una volta feci arrabniare moltissimo un veterinario ed una sua cliente mia conoscente. Lei descriveva il comportamento recente del suo gatto, ed io dissi senza neache pensare, il tuo gatto sta’ morendo.
    In seguito mi fece sapere che il suo gatto mori’ 6 giorni dopo.

    Ma a proposito di animali che nin sarebbero ‘mai’ sadici, immagino che lei nin abbia mai visto un gatto ‘giocare’ col topo catturato da lui. Specie se il gatto ha gia’ mangiato.

    P.

  8. Uroburo
    Uroburo says:

    @Peter
    Non è il.piacere della sofferenza altrui, è un gioco di abilità. I gatti attaccano qualunque cosa piccola in movimento, che per loro è una preda, ed esercitano la loro sveltezza. U.

  9. Uroburo
    Uroburo says:

    Quando si dice aver la faccia di bronzo…
    Notizie (epperò mai ufficiali in modo da non esser mai responsabili di eventuali errori o menzogne) useggetta riprendono il tema della responsabilità cinese sulla diffusione del vairus.
    Da parte di un paese che per mesi e mesi, ai più alti livelli, ha negato l’epidemia, ha rifiutato ogni e qualunque contenimento ed ha contribuito a rendere ancora più critica la situazione sanitaria mondiale!

  10. Uroburo
    Uroburo says:

    Caro Pino,
    si parla molto dell’Etiopia, giustamente, ma assai poco della Libia. La Libia aveva circa un milione di abitanti all’inizio del Novecento e ne aveva la metà alla vigilia della guerra! Quasi il 50% della popolazione evaporato in 30 anni. Un miracolo!!! U.

  11. Peter
    Peter says:

    @Uroburo

    Difficile valutare la psicologia di un gatto, e sicuramente entra in gioco il doversi tenere allenati, svelti etc.
    Pero’ gli etologi ammettono che il gatto sa che il topo e’ terrorizzato e probabilmente ci prova gusto

    P.

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