URGE UNA PROFONDA REVISIONE DELLE REGOLE ECONOMICHE DELL’UNIONE EUROPEA!

Di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Il messaggio del presidente Mattarella per il riesame delle regole del Patto di stabilità, allo scopo di rinnovare la coesione europea e indirizzarla verso la crescita e gli investimenti produttivi, può aprire una stagione di grandi cambiamenti e innovazioni in tutti i campi della politica e dell’economia. Il Presidente interpreta bene le esigenze del nostro popolo e, soprattutto, la delicatezza della situazione che potrebbe minare l’unità dell’Unione europea.  Infatti, il momento economico è difficile per tutti i paesi dell’Ue, colpiti dalla recessione, dalla deflazione e da ondate destabilizzanti di guerre doganali. Ciò, però, potrebbe augurabilmente consentire a dare la spallata definitiva all’assurda politica dell’“austerità a tutti i costi”.

 Negli anni scorsi anche noi abbiamo sovente rilevato le esigenze più stringenti che in Europa si dovrebbero affrontare. Anzitutto sottrarre gli “investimenti per la crescita”, quelli in infrastrutture, reti, innovazione, educazione e ricerca, alla logica delle spese correnti, alle restrizioni di bilancio e al calcolo del deficit. Il rigore non può essere fine a se stesso. E’ da prima dell’Accordo di Maastricht che la politica economica dell’Ue è stata improntata all’esclusiva bussola dell’austerità. Oggi, per fortuna, anche gli economisti monetaristi riconoscono l’errore e ne ammettono il fallimento.  Tra l’altro, occorrerebbe ridefinire, con responsabilità e coraggio, anche la cosiddetta politica del bail in, che, in caso di crisi bancaria, prevede il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e correntisti della stessa banca. Fu introdotto nel 2016, quando era previsto soltanto il salvataggio con soldi pubblici.  

 Ora, a nostro avviso, sarebbe necessario introdurre la “separazione bancaria” tra le banche d’investimento e quelle commerciali. Le eventuali operazioni speculative dovrebbero essere consentite soltanto alle banche d’investimento. Alle altre, invece, dovrebbe essere vietato. Il risparmio delle famiglie andrebbe, quindi, maggiormente tutelato. Un bail in più duro dovrebbe essere applicato alle banche d’investimento che intendano usare i loro capitali per operazioni rischiose e speculative. 

 Per aiutare la ripresa economica si potrebbe, inoltre, come più volte in passato indicato, fare ricorso agli eurobond. Sebbene reputiamo ancora difficile e lontana la piena trasformazione dei debiti nazionali in debito europeo, gli eurobond di project financing, cioè obbligazioni europee mirate a specifici investimenti produttivi, potrebbero essere attivati da subito. Gli eurobond sarebbero emessi dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei) e acquistati dalla Bce ed eventualmente anche dagli Stati membri.

Finora il Quantitative easing della Bce è stato usato per acquistare titoli di Stato dei paesi Ue, in proporzione al loro livello di Pil, e altri titoli in possesso delle banche europee. Purtroppo, troppo spesso la liquidità ottenuta dalle banche non è stata destinata ai crediti per l’economia reale ma è stata deposita presso la stessa Bce. Sarebbe, invece, opportuno vincolare le politiche monetarie della Bce, e quindi anche il Qe,  direttamente ai programmi di sviluppo economico dell’Ue.

Naturalmente l’Europa non può sottovalutare i gravi problemi della fiscalità e la necessità della lotta contro l’evasione e l’elusione. Si stima che l’evasione fiscale a livello europeo sia di circa 900 miliardi di euro. La cifra è enorme, in cui la quota italiana è, purtroppo, notevole. 

La tassazione delle grandi imprese multinazionali, che finora hanno cercato abilmente di sottrarsi ai controlli, non è rinviabile. La vera sfida è uniformare i sistemi fiscali dei vari paesi Ue. Del resto non si può ignorare che alcuni paesi – Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda – “mostrano tratti da paradiso fiscale e facilitano l’approccio fiscale aggressivo”, come dice anche il rapporto preparato da una commissione del Parlamento europeo.

L’Europa deve sempre più essere la nostra casa comune. Perciò, a partire dall’Italia, è dovere di tutti mantenerla, cambiarla e migliorarla. 

 *già sottosegretario all’Economia

 **economista

 

 

 

 

 

 

L’Inghilterra molla l’Europa e per punire la Cina propone una moneta internazionale virtuale

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Alla recente riunione di banchieri a Jackson Hole il governatore della Bank of England, Mark Carney, ha proposto di sostituire il dollaro, come moneta di riferimento negli scambi commerciali e nelle riserve internazionali, con la Synthetic  Hegemonic Currency (SHC), una nuova valuta, non più fisica ma digitale.

Un’idea temeraria, come lui stesso ammette. Secondo noi, si tratta di una proposta che potrebbe rendere ancor più instabile il già precario sistema monetario internazionale.

Il governatore centrale inglese prende come esempio la moneta digitate Libra, recentemente proposta da facebook.com, che dovrebbe diventare il nuovo strumento di pagamento per le transazioni commerciali fatte sempre più online. Libra dovrebbe essere la nuova moneta privata che sostituirebbe le valute nazionali finora utilizzate, a cominciare dal dollaro. Sarebbe utilizzata da acquirenti e altri clienti privati che operano con strumenti telematici.

La SHC, invece, dovrebbe essere emessa dall’autorità pubblica, cioè dalle banche centrali attraverso una loro rete di monete digitali. L’intento britannico sembra essere soprattutto volto a opporsi alla tendenza egemonica dello yuan cinese che, come Carney afferma, dal 2018 avrebbe già superato la sterlina nei contratti petroliferi. Naturalmente la nuova moneta digitale ridurrebbe anche l’influenza dominante del dollaro stesso.

Un mondo con due monete competitive di riserva, afferma il governatore, renderebbe instabile l’intero sistema monetario mondiale. La Grande Depressione del ’29, aggravata dalle tensioni tra la sterlina e il dollaro, dovrebbe essere d’insegnamento.

La nota di Carney rivela che la Bank of England è consapevole di ciò che avviene a livello globale. Del resto egli sottolinea che “la City è il principale centro finanziario internazionale”.

La conclusione della Bank of England è sicuramente azzardata. Le sue analisi di fondo, però, meritano una certa considerazione. Il governatore afferma che la globalizzazione ha accresciuto l’impatto e i riverberi degli eventi internazionali sulle varie economie. Di conseguenza, il sistema del tasso d’inflazione flessibile e dei tassi d’interesse fluttuanti, adottato dalle banche centrali, non regge più.

Ciò ha determinato destabilizzanti asimmetrie nel sistema monetario internazionale. Infatti, mentre l’economia mondiale è passata attraverso processi di aggiustamenti, il ruolo del dollaro, invece, è rimasto uguale a quello che aveva quando il sistema di Bretton Woods nel 1971 collassò. E’ innegabile il fatto che le decisioni monetarie della Federal Reserve stiano producendo effetti negativi in molti paesi, anche in quelli che hanno pochi rapporti economici con gli Usa.

Egli afferma giustamente che “un sistema unipolare non è adatto per un mondo multipolare”. Ricerche ufficiali dimostrano come una rivalutazione del dollaro dell’1% comporterebbe una contrazione dello 0,6% nei volumi di commercio nel resto del mondo.

Si ricordi che metà delle transazioni commerciali mondiali è effettuata ancora in dollari! Ma la quota delle importazioni Usa è solo un quinto del totale dell’import mondiale. Perciò, a nostro avviso, anche la riforma delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), è sempre più necessaria.

Il dollaro, in quanto moneta dominante del commercio mondiale, è anche la valuta principale di riserva e di rifermento per la maggior parte dei titoli emessi nei paesi emergenti. Per circa due terzi del totale. Ciò ha inevitabilmente indotto queste economie a creare delle misure di sicurezza, aumentando le loro riserve in dollari e contribuendo così a creare quello che da tempo è chiamato “carenza mondiale di risparmi”. Si stima che le riserve monetarie dei paesi emergenti potrebbero raddoppiare nei prossimi dieci anni, con un aumento di ben 9.000 miliardi di dollari.

Noi riteniamo che la nuova moneta digitale SHC non sia la soluzione giusta. Essa, di fatto, annullerebbe progressivamente il ruolo, anche di controllo, delle banche centrali e degli stessi governi.

Una questione, affatto secondaria, riguarda la sicurezza e le garanzie monetarie: chi sarebbe il “prestatore di ultima istanza”? Finora, e lo abbiamo visto nella Grande Crisi anche se con ritardi e lacune, il garante finale è stato la banca centrale dei vari paesi coinvolti.

Come abbiamo più volte scritto in passato, il dollaro da solo non è oggettivamente più in grado di sostenere l’intero sistema monetario, finanziario, economico e commerciale mondiale. Riteniamo perciò che sia giunto il tempo per la creazione di un sistema monetario multipolare basato su un paniere di monete importanti e per l’attivazione di una nuova “moneta di conto” simile ai Diritti Speciali di Prelievo.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

 

INCREDIBILE E PERICOLOSO: tre fondi indicizzati controllano tutte le US corporation

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Le grandi istituzioni economiche, come il Financial Stability Board e il Fmi, alla fine hanno dovuto ammettere che il sistema finanziario non bancario, ufficialmente chiamato “shadow banking”, ha surclassato il tradizionale sistema bancario nella gestione del risparmio e degli investimenti finanziari.

Un recente paper “The specter of giant three”, preparato da due professori americani, Lucian Bebchulk e Scott Hirst, e pubblicato dalla rinomata Harvard Law School University di Cambridge, Massachusetts, analizza in dettaglio il ruolo dominante degli exchange trade funds (etf) nel variegato e sempre meno controllato mondo della finanza.

“Lo spettro dei tre giganti” non è soltanto un titolo provocatorio. Esso mostra una precisa fotografia del crescente potere di tre etf americani, i fondi BlackRock, Vanguard e State Street Global Advisors (SSGA).

Il primo è di gran lunga il più conosciuto in quanto a suo tempo venne utilizzato dal Dipartimento del Tesoro per “fare pulizia” di titoli tossici presenti in varie istituzioni finanziarie americane.

I fondi indicizzati etf sono fondi d’investimento che raccolgono capitali e risparmio da diversi soggetti e li investono in un “portafoglio di titoli” di corporation comprese in alcuni indici borsistici di Wall Street. Il caso emblematico è quello di Standard&Poor’s 500., Detti fondi comprano un ventaglio di partecipazioni azionarie, replicando così fedelmente la composizione dell’indice di riferimento. Com’è noto, gli etf sono anche quotati in borsa.

I Tre Giganti complessivamente gestiscono ben 14.000 miliardi di dollari di attivi (assets under management).

La loro crescita è stata vertiginosa, anche per le non irrilevanti agevolazioni fiscali. In dieci anni, di tutti i capitali confluiti nei vari fondi d’investimento, l’80% è finito nei tre colossi. In venti anni la loro partecipazione azionaria nelle grandi corporation americane, che fanno parte dello S&P 500, è quadruplicata, passando dal 5,2% al 20,7%.

BlackRock e Vanguard, di fatto, detengono ognuna più del 5% delle azioni di tutte le corporation comprese nell’indice menzionato. Ilpapersuccitato stima che i Three Giants rappresentino il 25% dei voti nelle assemblee direttive delle imprese in questione.

Questo, ci sembra, l’aspetto più preoccupante. I manager delle Tre Big sarebbero nella posizione di essere azionisti dominanti in tutte le più importanti company americane, soprattutto in quelle ad azionariato diffuso e senza un azionista di controllo. Non è un caso, quindi, che molte istituzioni pubbliche, a cominciare dal Dipartimento di Giustizia Usa e dalla Commissione federale del commercio, che vigila sulla concorrenza, siano attenti al rispetto delle leggi anti trust, al conflitto d’interesse e in generale alle eventuali manipolazioni dei mercati e delle borse.

Dopo la Grande Crisi del 2008 giustamente si era molto parlato della concentrazione di potere delle banche cosiddette “too big to fail” per tentare di introdurre nuove regole per contenerne lo strapotere. Oggi, invece, i giganti dello “shadow banking” hanno bypassato il sistema bancario, creando un nuovo e più potente oligopolio finanziario.

Nessuno può essere indifferente. Con un’attività sempre più agguerrita i Tre Giganti puntano verso i mercati asiatici e verso quelli europei. Si spera che la Commissione Antitrust dell’Ue vigili con puntualità.

 

E’ molto preoccupante assistere alla faticosa e spesso poco produttiva rincorsa delle varie agenzie di controllo dietro questi attori della grande finanza, che naturalmente corrono più veloci rispetto ai controllori. I numeri in questione e i tanti rischi per l’economia reale di molti paesi sono troppo grandi perché siano sottovalutati da parte dei decisori globali.

*già sottosegretario all’Economia **economista