Guerre per e sul il petrolio e mercati irrequieti: incertezze anche sul prezzo dell’oro nero

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** *già sottosegretario all’Economia  **economista

Il recente andamento del prezzo del petrolio riflette qualche cosa di più serio e complesso rispetto al solo comportamento della domanda e dell’offerta. Ora è al livello di circa 70 dollari al barile. Una crescita importante dai 53 dell’inizio dell’anno.

Solitamente l’aumento è spiegato con la decisione dei Paesi dell’OPEC e della Russia di diminuire la loro produzione. A dicembre avevano annunciato di ridurla di 1,2 milioni di barili al giorno (bpd). A ciò naturalmente si aggiungono gli effetti della crisi politica e sociale del Venezuela, dell’embargo americano verso l’Iran, della preoccupante crescente incertezza sulla situazione libica e del raffreddamento della crescita globale. Globalmente, la produzione e il consumo di petrolio oggi si stimano in circa 100 milioni di bpd.

Si dimentica, però, di dire che le evoluzioni negative sono ampiamente compensate dall’aumento della produzione di petrolio da parte degli Stati Uniti, che hanno raggiunto i 12 milioni di bpd.  Anche le esportazioni americane di petrolio hanno toccato il livello record di 3,6 milioni bpd e ci si aspetta che presto arrivino fino ai 4,6 milioni bpd. Si stima che la produzione giornaliera di petrolio da parte dei paesi non-OPEC, con gli Usa in testa, possa presto crescere di circa 2 milioni di barili al giorno.

Già nel 2018 il prezzo medio del barile di greggio aveva registrato un aumento del 30% rispetto all’anno precedente. Però, l’aumento della media annuale salirebbe al 65% se il paragone lo facessimo con i dati del 2016, quando il prezzo del barile era poco sopra i 40 dollari.

Certamente sono lontani anni luce dai 100 dollari del periodo 2011-2013 e dai picchi di 150 dollari nel mezzo dell’euforia speculativa legata alla grande crisi finanziaria.

Com’è noto, a ottobre del 2018 si raggiunsero i 73 dollari al barile per poi scendere ai 53 dollari di dicembre. Da gennaio scorso il prezzo è in progressiva salita.

Si può dedurre che le varie spiegazioni fornite dagli esperti e dalle stesse compagnie circa le variazioni dei livelli delle produzioni non sono molto convincenti. In particolare non si giustificano le repentine oscillazioni del prezzo e i loro strettissimi tempi non riflettono gli andamenti della domanda e dell’offerta. Né l’evidente cambiamento del tasso della crescita globale e di quello del commercio internazionale può essere una giustificazione valida.

A nostro avviso, l’attuale volatilità dei mercati energetici deve essere spiegata anche dalla crescente attenzione posta da settori della finanza sul petrolio e sulle commodity. La storia insegna che, quando altri settori finanziari – quali quelli del corporate bond, dell’immobiliare e dei titoli di stato arrancano, proprio come adesso, – le grandi banche e i fondi di investimento più speculativi tendono a cercare altrove possibilità di profitto, anche al prezzo di maggiori rischi. E i prodotti energetici e in generale le commodity possono diventare oggetto di speculazioni.

Infatti, i recenti venti di guerra in Libia, anche intorno ai maggiori pozzi petroliferi, avrebbero accresciuto l’interesse da parte di taluni speculatori per operazioni finanziarie legate ai futuresul prezzo del petrolio.

Non è un caso che la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea abbia rilevato un notevole aumento nelle attività legate ai derivati finanziari otc.  Il suo ultimo rapporto trimestrale, pubblicato in aprile, evidenzia che già a metà 2018 il valore nozionale totale degli otc ha raggiunto i 600.000 miliardi di dollari. Anche i derivati sulle commodity hanno registrato un notevole aumento, superando, dopo molti anni, i 2.000 miliardi di dollari, con un aumento del 15% rispetto ai dati rendicontati del semestre precedente. La Bri, perciò, parla “di mercati finanziari particolarmente irrequieti”. Bisognerà tenerne conto.

Non è nostra intenzione immaginare future gravi crisi finanziarie frutto di nuove speculazioni. Sono tante le variabili, economiche e geopolitiche, in gioco. Inoltre, la storia non si ripete mai negli stessi modi. Dato, però, l’aggravamento generale del processo debitorio pubblico e privato, come da noi recentemente evidenziato, auspichiamo che non sia una ripetuta mancanza di controlli e di interventi a mettere il mondo di fronte a nuovi e insostenibili rischi di crisi.

Soprattutto non vorremmo che, ai tanti danni che di norma le attività petrolifere generano (guerre, colpi di stato, corruzione, danni alla salute e all’ambiente), si aggiungano quelli più diffusi della speculazione finanziaria fatta sui barili di petrolio, che spesso sono solo sulla carta e non realmente pieni del liquido nero.

 

SENZA PROGETTI E SENZA FONDI NIENTE RIPRESA

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Non si può essere soddisfatti di riconoscere che l’economia italiana è fortemente peggiorata nei passati mesi, come ammette lo stesso Documento di economia e finanza appena presentato. Sarebbe, però, ancora più preoccupante se, di fronte a questa triste ed evidente realtà, il governo volesse continuare a “vivere sulle nuvole”, spargendo illusioni e promesse insostenibili.

 Palazzo Chigi ha messo nero su bianco che per il 2019 l’aumento del pil dovrebbe passare dall’1% allo 0,2% e che di conseguenza il deficit di bilancio dovrebbe crescere dal 2,04% al 2,4%. Sono stime ancora troppo benevoli che non tengono conto, purtroppo, degli effetti negativi a spirale che solitamente accompagnano la recessione economica.

 Di ciò siamo fortemente preoccupati, anche perché il confronto politico è soprattutto di natura ideologica ed elettorale e, a volte, anche di rivalsa. Riequilibrare il bilancio dello Stato richiede decisioni chiare e tempi medi poiché si basa sulla ripresa degli investimenti, della produzione, dell’innovazione e dell’occupazione nei settori dell’economia reale.

 Perciò, mantenere a tutti i costi le promesse fatte durante le campagne elettorali potrebbe sembrare positivo ma, in verità, non fa parte delle leggi che regolano il sano andamento e lo sviluppo dell’economia, sia nella teoria che nella prassi. Vale per tante iniziative, a cominciare dalla flat tax che ha fatto capolino nel Def. Per ora è una semplice enunciazione.

 Per serietà e credibilità, portare come esempio da seguire nel nostro paese il modello ungherese della flat tax, che sarebbe la ragione del buon andamento dell’economia di Budapest, è un errore.

 Per chiarezza è opportuno ricordare, invece, che la recente ripresa economica dell’Ungheria si basa su tre condizioni convergenti: il contributo a fondo perduto di ben 3,5 miliardi di euro annui da parte dell’Unione europea, l’intensa partecipazione economica e industriale della Germania verso i paesi dell’Europa centrale e il basso costo della mano d’opera ungherese, con una qualifica tecnologica mediamente elevata, che ha attirato notevoli investimenti. Tutte condizioni che in Italia non ci sono.

 Ovviamente, il documento del Def non contempla aumenti nella tassazione: sarebbe una clamorosa ammissione di totale fallimento. Per i prossimi mesi, però, il governo dovrà dimostrare come “bilanciare” l’aumento delle uscite con le minori entrate. Naturalmente, per il bene degli italiani ci si augura che lo sappiano fare. Ma è indubbio che dal prossimo gennaio possa scattare l’aumento delle aliquote Iva.

 A nostro avviso la priorità dovrebbe essere la ripresa degli investimenti pubblici in infrastrutture per l’effettiva apertura dei cantieri, a partire dal Mezzogiorno dove la situazione economica e occupazionale è a dir poco disperata. Secondo varie stime, oltre ai fondi recuperabili dall’enorme evasione fiscale, ci sarebbero 140 miliardi di euro già stanziati nei bilanci degli anni passati per svariati progetti.

 Attraverso un accordo già operativo con la Banca europea per gli investimenti essi potrebbero diventare subito spendibili. Il vero problema sono le lungaggini delle burocrazie statali, regionali e locali.

 Secondo l’Associazione nazionale costruttori edili (ANCE) si tratterebbe, tra l’altro, di 60 miliardi del Fondo investimenti e sviluppo infrastrutturale, di 27 miliardi del Fondo sviluppo e coesione, di 15 miliardi di Fondi strutturali europei, ecc.

 Se si riuscisse a spendere in tempi ragionevolmente brevi i soldi in questione, sarebbe una leva per la ripresa economica. Si ricordi che l’Istat sostiene che ogni euro pubblico investito nelle infrastrutture possa generare una crescita di investimenti diretti e indiretti di 3-4 volte. 

 E’ il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), presso Palazzo Chigi, responsabile della gestione delle risorse sopra menzionate, che non ha svolto un’effettiva azione incisiva nei confronti degli enti e delle amministrazioni beneficiari dei progetti.

 Bisogna accelerare i processi decisionali, snellendo il codice degli appalti e affidando, contemporaneamente, alle autorità anti corruzione il compito di prevenire e colpire le infiltrazioni malavitose e le mazzette legate ai lavori pubblici.

 La situazione, nella sua complessità e urgenza, non può ancora essere lasciata alle lentezze burocratiche. Serve, invece, una chiara e netta assunzione di responsabilità da parte del governo e delle altre istituzioni. Il paese non può più aspettare.

 *già sottosegretario all’Economia  **economista

Per un socialismo autogestito

Se fosse chiaro a tutti che nessuno può essere o sentirsi obbligato a “vendersi”, cioè a vendere la propria capacità lavorativa, fisica o intellettuale, per poter vivere, indipendentemente dalla forma o entità del corrispettivo che si ottiene; se a tutti fosse chiaro che questa forma di “prostituzione” è indegna per qualunque persona, è immorale sotto ogni punto di vista (anche se ovviamente non per quello economico della borghesia) e che, per il bene complessivo della società, andrebbe aspramente combattuta, anzi, assolutamente vietata, nulla potrebbe impedire l’esistenza della proprietà privata dei mezzi produttivi.

Infatti non è la proprietà “in sé” (pubblica o privata) che fa nascere o che impedisce l’antagonismo sociale, proprio perché tale antagonismo sorge quando uno si serve dei propri mezzi produttivi per sfruttare il lavoro altrui. Non serve a niente costruire una comunità in cui, pur essendo vietata la proprietà privata dei singoli suoi componenti, la comunità, nel suo insieme, può assumere un personale lavorativo privo di proprietà, che viene pagato, in qualsivoglia forma, per il lavoro che svolge, e che può essere licenziato quando tale lavoro è ultimato. Non ha senso vietare la “prostituzione lavorativa” all’interno di una comunità, e legalizzarla nei rapporti col mondo esterno.

Non solo quindi tutti devono avere la proprietà dei mezzi lavorativi, ma nessuno dovrebbe impiegarli per sfruttare il lavoro di chi non ha proprietà, cioè il lavoro di chi ha perduto, per qualche motivo, tale proprietà o, per qualche motivo, non è in grado di metterla a frutto in maniera sufficiente per la propria esistenza. Questo vuol dire che, in presenza di una proprietà privata, tutti dovrebbero accontentarsi di ciò che serve per riprodursi, per avere quanto è necessario per vivere.

In presenza di proprietà privata ci si dovrebbe accontentare di una società basata sull’autoconsumo e sul baratto delle eccedenze (compiuto solo tra persone ugualmente proprietarie e quindi libere). Parlare di “libertà” senza “proprietà” è un controsenso, ma anche parlare di “proprietà” e di “libertà giuridica”, cioè quella libertà formale, inventata dalla borghesia, che non implica, di necessità, il possesso di una proprietà. Non ha senso che una libertà giuridica implichi il libero possesso del proprio corpo, per poi essere costretti a vederlo, subito dopo, rendendolo schiavo per mancanza di proprietà. Non conta niente, quindi, ai fini della libertà personale, che una proprietà sia sociale o privata: conta che non venga usata per sfruttare il lavoro altrui o per togliere agli altri la legittima proprietà.

Semmai è un’altra cosa che ci si deve chiedere: in presenza di proprietà privata, equamente distribuita in base alle necessità dei soggetti che la lavorano, quali sono le garanzie che permettono a un sistema del genere di funzionare nel tempo? Purtroppo non esistono garanzie “assolute”. La storia ha dimostrato che laddove si afferma la proprietà privata, pur in assenza di sfruttamento del lavoro altrui, possono sempre accadere eventi imprevedibili, come p.es. la morte per malattia di un componente (animale o umano) della comunità, oppure un disastro ambientale. In casi del genere, se la comunità è piccola e quindi debole, facilmente si finisce nella tragedia. Un evento fortuito può portare qualunque persona, che fino a un momento prima stava bene, ad essere costretta a chiedere un lavoro dietro compenso.

Questo spiega il motivo per cui la concessione dei mezzi produttivi in proprietà privata a nuclei troppo ristretti di persone, non è conveniente. Il concetto di “famiglia” è un’astrazione priva di senso. Quanto meno si deve parlare di una comunità composta almeno da 50-100 elementi. Molte famiglie, poste di fronte ai principali mezzi produttivi, gestiti collettivamente, possono garantire a tutti la sopravvivenza, previa rinuncia a qualunque proprietà privata (al massimo è possibile tollerare una proprietà “personale”, relativa a mezzi che non sono di uso comune o che comunque non incidono ai fini della sopravvivenza dell’intera comunità).

Cerchiamo ora di spiegare bene questo punto, poiché la differenza da questa forma di socialismo autogestito a quella del socialismo industriale o mercantile o statale o “scientifico”, è netta.

L’assenza totale di proprietà privata nell’ambito di una vasta comunità di famiglie, in relazione esclusiva ai mezzi produttivi che garantiscono la sussistenza, va vista come una questione interna a tale collettivo, che solo quest’ultimo è titolato ad affrontare. Non possono esserci direttive piovute dall’alto, siano esse politiche o economiche. La coordinazione degli interessi trasversali alle varie comunità va affrontata autonomamente dalle stesse comunità, che si terranno in rapporto tra loro. Quindi lo Stato va eliminato, come pure tutte le istituzioni che lo rappresentano, per non parlare dei Mercati, che ci condizionano sin nei più piccoli particolari.

Non solo, ma le comunità rurali non possono sentirsi vincolate al mantenimento delle comunità urbane, neppure se queste offrissero in cambio mezzi tecnici sofisticati con cui sfruttare la natura. L’idea di avere mezzi e strumenti tecnici del genere, da usare nel nostro rapporto di dominio con la natura, è completamente sbagliata: è nata nell’ambito delle civiltà antagonistiche e, come tale, va rimossa. L’esigenza riproduttiva della natura va considerata superiore a quella produttiva degli esseri umani, proprio perché noi siamo “enti di natura” e non è la natura che appartiene a noi, ma il contrario.

Un altro aspetto di fondamentale importanza è che la vita urbana, priva di riferimenti alla natura, va considerata come una forma di “alienazione”. Bisogna pertanto pensare a come chiudere le città, a come trasferire i suoi abitanti nelle campagne, a come far di nuovo crescere i boschi e le foreste, a come proteggere da qualunque forma d’inquinamento l’aria e l’acqua. L’industria va ridotta al minimo indispensabile, anzi, possibilmente va ricondotta ai limiti dell’artigianato. Dobbiamo recuperare tutte le aree agricole abbandonate da uno sviluppo scriteriato dell’industrializzazione. Dobbiamo smantellare progressivamente il macchinismo applicato all’industria, poiché esso è la fonte principale dell’inquinamento del pianeta, ed è illusorio pensare che si possa risolvere un problema tecnologico con una nuova tecnologia, ancora più sofisticata della precedente. Il vero problema è come ripensare completamente le categorie tipiche della nostra attuale forma mentis: “benessere”, “comodità”, “agio”, “sviluppo”, “crescita”, “sicurezza materiale”…

Ci vorrà un tempo lunghissimo per tornare a un tipo di esistenza simile a quella del “comunismo primitivo”, ma se non facciamo partire la transizione, se non cominciamo a pensarci da adesso, ci vorrà un tempo molto più breve per arrivare a un’apocalisse di immani proporzioni. Ed è evidente che per pensare a una transizione del genere, inconcepibile ai più, occorre rovesciare con la forza qualunque forma di potere che rende schiavi gli esseri umani.