La critica di Marx ed Engels a Mazzini

Gran parte dei giudizi di Marx su Mazzini si trovano nel “New York Daily Tribune”, ove Marx scriveva come giornalista, e ovviamente nell’epistolario con Engels. In genere sono giudizi negativi, come quando dice, in riferimento ai vari manifesti del leader repubblicano, che usava “roboanti proclami”.

Quello che Marx proprio non sopportava era il bisogno di una continua cospirazione, come se le rivoluzioni potessero essere fatte “su ordinazione”, a prescindere dalle “possibilità favorevoli che offrono le complicazioni europee”. Per di più – diceva con un certo fastidio – venivano promosse da un leader molto lontano dalla sua patria, che pretendeva “azioni individuali da parte di cospiratori che dovevano agire di sorpresa”.

Secondo lui Mazzini ebbe modo di capire, dal fallimento delle Cinque giornate di Milano del 1848, che nei moti rivoluzionari “non è alle classi superiori che si deve guardare, bensì alle differenze di classe”. Tuttavia gli rimproverò sempre di non tenere in alcun conto le “condizioni materiali della popolazione italiana delle campagne”, quelle che l’avevano resa “indifferente alla lotta nazionale”. Lo dice anche nella lettera a Joseph Weydemeyer (11-09-1851): “la politica di Mazzini è fondamentalmente sbagliata, in quanto trascura di rivolgersi a quella parte dell’Italia che è oppressa da secoli, ai contadini, e in tal modo prepara nuove riserve alla controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce soltanto le città con la loro nobiltà liberale e i loro cittadini illuminati. I bisogni materiali delle popolazioni agricole italiane – dissanguate e sistematicamente snervate e incretinite come quelle irlandesi – sono troppo al di sotto del firmamento retorico dei suoi manifesti cosmopolitici, neocattolici e ideologici. Certo ci vorrebbe del coraggio per dichiarare ai borghesi e alla nobiltà che il primo passo, per fare l’indipendenza dell’Italia, è la completa emancipazione dei contadini e la trasformazione del loro sistema di mezzadria in libera proprietà borghese. A quanto pare per Mazzini un prestito di 10 milioni di franchi [quello che da Londra aveva chiesto per finanziare i moti insurrezionali] è più rivoluzionario che conquistare 10 milioni di uomini”.

Marx era altresì convinto che se non si fossero coinvolti i contadini promettendo loro la fine del latifondo e la loro trasformazione da mezzadri a liberi proprietari 1, il governo austriaco avrebbe fatto ricorso ai metodi cosiddetti “galiziani”, quelli cioè che usò per rivolgere i contadini insorti della Galizia contro i nobili rivoltosi polacchi, che chiedevano la liberazione della Polonia; dopo di che, repressa la rivolta di Cracovia, il governo austriaco fece altrettanto con quella galiziana. Questo nel 1846. Ma due anni dopo fece lo stesso, quando dichiarò in Galizia l’abolizione delle corvées obbligatorie e gratuite, senza però intaccare la proprietà fondiaria, anzi scaricando sui contadini un enorme riscatto che si protrasse per decine di anni.

Questo per dire che Marx vide molto positivamente il fatto che il comitato degli esuli italiani guidato da Mazzini a Londra, dopo il fallimento della Repubblica romana nel 1849, si spaccasse in due, con una minoranza che gli rimproverava di parlare troppo di dio e di predicare continuamente l’insurrezione senza cercare di coinvolgere le masse contadine, ovvero di non voler intaccare minimamente gli interessi materiali dei borghesi e della nobiltà liberale, che rappresentavano “la grande falange mazziniana”.

Sotto questo aspetto Marx era convinto che sarebbe stato piuttosto il generale Radetzky, saccheggiando enormemente il nord Italia, a fare della penisola quel “cratere rivoluzionario” che Mazzini non era riuscito a evocare con le sue declamazioni.

Marx però deve ammettere che “la rivoluzione italiana è stata legata per quasi trent’anni al nome di Mazzini e durante questo periodo l’Europa ha visto in lui il miglior esponente delle aspirazioni nazionali dei suoi compatrioti”. Fu lui infatti che denunciò i piani segreti concordati tra Francia, Russia e Regno Sabaudo per cacciare gli austriaci senza fare alcuna rivoluzione. Evidentemente – sostiene Marx – Mazzini “disponeva dei mezzi più ampi per penetrare nei foschi segreti delle potenze dominanti”. Infatti la Francia voleva in qualche modo amministrare il Mezzogiorno e parte del centro della penisola, senza eliminare lo Stato della chiesa. Quanto ai Savoia, si sarebbero accontentati di gestire il nord Italia.

In una lettera a Engels (8-10-1858), Marx sostiene che finalmente Mazzini, in uno dei suoi ultimi proclami, si era degnato “di non considerare più il sistema del salario come la forma ultima e assoluta del lavoro”. Tuttavia l’ultimo Mazzini scrisse cose del tutto calunniose, in quanto non provate, o addirittura palesemente false contro l’Internazionale socialista e la Comune di Parigi. Lo fece alla vigilia del Congresso delle Società operaie italiane (novembre 1871), allo scopo d’impedire la creazione di un’organizzazione proletaria in Italia.

In quell’occasione sarà Engels a farsi sentire. In particolare dirà, in una lettera a Carlo Cafiero, che non era vero che Mazzini non avesse mai partecipato all’Internazionale socialista; semmai aveva cercato di strumentalizzarla per i propri fini, servendosi di un garibaldino, il maggiore Luigi Wolff (principe Thurn und Taxis), ch’era una spia della polizia francese, smascherata da Paolo Tibaldi, un comunardo parigino.

I mazziniani – disse Engels – uscirono dall’Internazionale nel 1865, quando si resero conto che la loro strategia politica, secondo cui “la democrazia borghese offriva diritti politici agli operai, onde poter conservare i privilegi sociali delle classi medie e superiori”, non aveva avuto alcun successo.

D’altra parte Mazzini attaccava sempre i proletari quando si sollevavano: non l’aveva fatto solo in occasione della Comune di Parigi, ma anche prima, con l’insurrezione parigina del giugno 1848, tant’è che Louis Blanc scrisse un opuscolo contro di lui.

Engels usa, nelle sue lettere a Marx o in articoli pubblicati su varie riviste, parole severe contro di lui. Gli rimprovera di manifestare una “mal dissimulata libidine di autorità”, “un’astratta furia insurrezionale”; lo definisce uno “scaltrito fanatico” e, proprio per questo, ritiene che “la rivoluzione italiana superi di gran lunga quella tedesca per la povertà delle idee e l’abbondanza delle parole”. Lo prende poi in giro con questa eloquente frase: “Mazzini non ha per gli operai altro consiglio che: Educatevi, istruitevi come meglio potete (come se ciò potesse essere fatto senza mezzi!)… Adoperatevi a creare più frequenti le società cooperative di consumo (nemmeno di produzione!) e fidate nell’avvenire!”.

Nota

1 Da notare che nelle sue lettere e negli articoli di giornale neppure Marx prevede per i contadini un’alternativa alla mezzadria che non sia di tipo “borghese”.

Disgregare la Siria e continuare a rimpicciolire la Russia.

ROMA – L’abbattimento dell’aereo russo per ordine del governo turco è un atto gravissimo che, nonostante il baccano contro la Russia sollevato anche da Obama e dall’intera Nato, non può nascondere alcune cose. Una più chiara dell’altra anche nelle conseguenze future. Che saranno nefaste.
Attacco pretestuoso. Intanto c’è da notare che la Russia se non è amica della Turchia non è comunque una sua nemica, e quindi la presenza di un suo singolo aereo con un equipaggio di appena due persone, aereo non del tipo addetto allo spionaggio e ormai privo di bombe per averle sganciate sui miliziani dell’Isis, NON poteva in ogni caso essere una minaccia. Di nessun tipo.
Ma la cosa più importante è che i filmati mostrano chiaramente come l’aereo colpito e ormai in fiamme sia precipitato in verticale per infine schiantarsi in territorio siriano. Il che DIMOSTRA in modo INCONFUTABILE che l’aereo russo o stava volando sul territorio della Siria, con tanto di autorizzazione del governo siriano, oppure anche se ha superato il confine turco non può averlo superato in profondità.

Poiché era inoltre chiarissimo che – come annunciato da giorni – quel velivolo militare si trovava nella porzione di cielo NON per attaccare la Turchia, cosa peraltro impossibile da fare da solo, ma perché aveva attaccato basi dell’Isis vicine al suo confine, la Turchia – e l’Europa intera – quell’aereo doveva semmai ringraziarlo e difenderlo dai tiri dei terroristi. Invece…. L’abbattimento è quindi un atto pretestuoso. Anzi, un vero e proprio atto di guerra contro la Russia, che certamente il presidente turco Erdogan non può avere deciso senza il permesso degli Usa.

Il “grande gioco” siriano. L’abbattimento DIMOSTRA inoltre che la Turchia, non ostacolata in questo dalla Nato della quale fa parte, da quattro anni preferisce avere ai suoi confini sul territorio turcomanno della Siria i terroristi dell’Isis, senza mai disturbarli in modo credibile, anziché una presenza militare che quei terroristi combatta seriamente. Perché li preferisce? Per il semplice ed evidente motivo che la Turchia, anche per rafforzarsi contro la minoranza curda, ha da tempo già messo gli occhi su una “sua” fetta di Siria quando ANCHE la Siria sarà smembrata come già fatto con l’Iraq, la Libia e – non dimentichiamolo – con la Russia tramite la secessione dell’Ucraina, anch’essa voluta, finanziata e armata da Usa ed Europa.

La partita Usa in Ucraina. L’uomo forte, a Kiev, è in realtà il premier Arsenij Yatsenyuk, ferreo filo Nato, al quale gli Usa hanno “consigliato” di nominare ministro dell’Economia Natalia Jaresko, cittadina Usa con bella carriera al Dipartimento di Stato e all’ambasciata Usa in Ucraina, omaggiata della sua cittadinanza concessale nel tempo record di appena due ore, e hanno “consigliato” come ministro della Sanità Aleksander Kvitashvili.

Si tratta di un georgiano che ha collaborato strettamente con Mikhail Saakashvili, il quale quando era presidente della Georgia la precipitò, con tanto di aiuto della Nato, nella disastrosa guerra del 2008 contro la solita Russia. Saakashvili, anche lui omaggiato dal fulmineo regalo della cittadinanza ucraina, ha avuto come premio di consolazione il governatorato di Odessa, che il caso vuole confini con la Crimea. Proprio quella Crimea che si vuole strappare da Mosca per privare l’immenso territorio russo dell’accesso delle sue navi al mare Mediterraneo partendo dal mare d’Azov.

A conti fatti, si può legittimamente sospettare che gli Usa dopo avere voluto e ottenuto lo smembramento dell’Unione Sovietica puntino ora allo smembramento della Russia, lo Stato più grande esistente al mondo. Stato che, non dimentichiamolo, è una federazione di ben 84 entità federali, cioè singoli Stati federati, 22 delle quali sono repubbliche autonome. La tentazione di privare la Russia di alcuni “pezzi” è quindi inevitabile. Ci hanno già tentato i francesi con Napoleone e i tedeschi con Hitler.
Il ruolo di Arabia Saudita e Israele. Sul crollo della Siria scommette anche l’Arabia Saudita, non a caso grande finanziatrice dell’Isis, ruolo che ormai nessuno più osa negare, così come in passato è stata la grande finanziatrice del suo cittadino Bin Laden e dei suoi talebani, usati militarmente dagli Stati Uniti in Afganistan, all’epoca occupato dai sovietici, per spingere al crollo dell’Unione Sovietica come in effetti poi avvenuto (penultimo strascico prima della stagione talebana del “Grande gioco”, formula divenuta famosa grazie a Rudyard Kipling all’epoca della seconda guerra anglo-afghana).

Sul crollo della Siria scommette anche Israele, che, oltre ad essersi di recente alleata con l’Arabia Saudita in funzione anti Iran, ha già fatto sapere ad Obama che vista la riduzione della Siria a potenza zoppa avviata alla paralisi intende annettersi appena possibile l’intero Golan. Il che ovviamente porterà alla riesplosione del Libano, del quale Israele già occupa una piccola porzione, con annesse mire non solo israeliane di frantumazione anche della già difficile unità statale libanese.

Uso strumentale della guerra all’Isis. La prontezza con la quale la Turchia ha invocato una apposita riunione della Nato e la ridicola affermazione di Obama che “la Turchia ha il diritto di difendersi” – contro un singolo aereo impegnato a bombardare l’Isis! – confermano che la Nato è lo strumento politico-militare degli Usa anche per il progetto di spartizione della Siria. Spartizione voluta da Usa, Turchia e Arabia Saudita.
Tutto ciò dimostra che contro l’Isis in realtà non c’è nessuna guerra da parte del tandem Usa-Arabia Saudita e annessi e connessi: come è stato a suo tempo per Bin Laden e i talebani, c’è invece un uso strumentale dell’Isis e delle altre milizie islamiste per ridisegnare parte del Medio Oriente e annettersene porzioni di territorio – come puntano a fare Turchia, Arabia Saudita e Israele – oppure metterle sotto la propria sfera d’influenza, come puntano a fare Usa, Francia e, obtorto collo, anche la Russia.

Il tutto distruggendo centinaia di migliaia di vite umane, provocando distruzioni immani e provocando milioni di feriti, mutilati, profughi e migranti. Insomma, una sorta di 13 novembre parigino moltiplicato però per almeno 3-4 mila volte. Il tutto non solo nella più completa indifferenza dell’opinione pubblica occidentale, ma anzi col plauso di non piccoli suoi settori.

POST SCRIPTUM

1) – Gli Usa, con l’appoggio dell’Europa, negli ultimi decenni sono sempre stati pronti a “esportare la democrazia” e a “combattere il terrorismo” con interventi militari e anche con vere e proprie invasioni come quella dell’Iraq. Ma di “esportare la democrazia” e di “combattere il terrorismo” invadendo o intervenendo comunque militarmente contro l’Arabia Saudita non se ne parla proprio.
Eppure l’Arabia Saudita è la madre di tutti i terrorismi islamisti, che alimenta – oltre che con armi e soldi – col suo credo wahabita, il più arretrato di tutto l’Islam. Inoltre l’Arabia Saudita ha un regime feudale nel quale le donne non hanno diritti, sono poco più di oggetti col buco, e i diritti umani sono calpestati allegramente (150 decapitazioni in piazza per i motivi più disparati e abietti solo nell’ultimo anno). Per il petrolio dell’Arabia Saudita gli Usa e l’Europa hanno venduto l’anima.

2) – A suo tempo, nel 1991, gli Usa vollero e guidarono una coalizione militare, comprendente anche l’Italia, che fece guerra all’Iraq per “liberare” il Kuwait – piccolo Stato con una monarchia di fatto assoluta e retriva, ma ricco di petrolio – invaso dall’Iraq, peraltro con l’esplicito con l’esplicito consenso dell’ambasciatrice Usa April Gaspie. Per convincere l’opinione pubblica occidentale ad accettare di buon grado quella guerra venne detto e ripetuto in tutte le salse che il Kuwait sarebbe diventato se non proprio democratico almeno una monarchia meno retriva.
L’emiro del Kuwait si è limitato a qualche riforma, ha varato una monarchia costituzionale e un governo parlamentare, concedendo però il voto alle donne solo nel 2005. Su 3.100.000 abitanti, solo 960.000 sono cittadini kuwaitiani. E se fino al 2005 avevano diritto al volto solo 139 mila maschi adulti, con il voto alle donne tale diritto resta appannaggio del solo 10% della popolazione, costituita in gran parte da immigrati e discendenti, per i quali la cittadinanza resta un miraggio.
Quella del Kuwait sarà forse una monarchia costituzionale con sistema democratico parlamentare, sta di fatto che, senza forse, è ormai appurato da tempo che dà un non trascurabile appoggio all’Isis. E che lo ha dato e lo dà ancora anche ad Al Qaeda, uno degli eredi del terrorismo di Bin Laden e del fanatismo guerriero dei talebani.

Parigi brucia? I tragici errori dell’interventismo Usa e della Francia

La notizia mi è arrivata tramite messaggio whatsapp di una mia amica mentre a Milano ascoltavo un concerto di musica sacra nella chiesa di S. Maria dei Miracoli presso S. Celso: “Parigi, spari ed esplosioni in vari punti della città, almeno 18 morti”. Ho pensato a uno scherzo di pessimo gusto, ma il messaggio conteneva anche un link di Repubblica che parlava di un bilancio tanto catastrofico da parermi impossibile, irreale.
Sono uscito di corsa dalla chiesa e mi sono attaccato al telefono per cercare notizie di miei amici e amiche care con casa a Parigi. Non ho trovato nessuno e ho lasciato messaggi, rimasti senza risposta fino al pomeriggio del giorno dopo. Ho rivissuto così, ma molto ampliata, l’ansia provata lo scorso 26 giugno quando al computer ho letto del massacro di Sousse, in Tunisia: 38 morti e 36 feriti a soli 350 metri da dove abitano miei amici di quando ero adolescente, che per fortuna mi hanno richiamato dopo qualche minuto per tranquillizzarmi sulla loro sorte, non si erano accorti di niente ( http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/terrorismo-italiani-di-tunisia-non-hanno-paura-sono-meglio-di-noi-tasse-solo-3-clima-per-pensionati-2221165/ ).

E m’è tornato il gelo alla schiena del 7 luglio 2005, quando mentre ero in auto per andare in vacanza mi ha raggiunto la telefonata di un mio amico medico che chiedeva con insistenza e voce preoccupata se un mio familiare era tornato in Italia o ancora a Londra. Seppi così dal mio amico che alle 8:50 di mattina c’era stata la strage alla metropolitana di Londra ( https://it.wikipedia.org/wiki/Attentati_del_7_luglio_2005_a_Londra ): tre bombe su altrettanti convogli che massacrarono 56 persone e ne ferirono ben 700. Un ordigno era esploso tra le stazioni di King’s Cross St. Pancras e Russell Square, e il mio familiare usava prendere il metrò a Russel Square. Seduto sui banchi di una scuola di lingua inglese, il mio familiare aveva il telefonino spento. Poté richiamarmi solo nel primo pomeriggio, quando ero ormai in paranoia. Seppi così che non gli era successo niente, ma l’aveva scampata per poco: aveva preso il metrò un quarto d’ora prima di quello fatale.

Tutto ciò premesso, veniamo al venerdì nero di Parigi, concluso con l’agghiacciante bilancio di 129 morti e 352 feriti. Oltre al dolore per la mattanza, c’è lo sbigottimento e l’incredulità per la strana e sensazionale inefficienza dei servizi di informazione e di sicurezza francesi e della Nato, tanto che credo proprio che il capo di Stato Hollande dovrebbe dimettersi e con lui qualche ministro e i vertici dei servizi. Come è possibile che dopo le stragi nella redazione del settimanale Charlie Hebdo a Parigi e nell’ipermercato kosher a Porte de Vincennes, fresche di sangue perché avvenute il 7 gennaio di quest’anno ( http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-mondo/terrorismo-assalto-armato-a-parigi-charlie-hebdo-strage-10-morti-2066504/ ), nessuno degli addetti ai lavori abbia avuto notizia del nuovo pericolo? Come è possibile che nessuno si sia accorto di quanto stavano preparando non tre cani sciolti come quelli del 7 gennaio, ma un nutrito gruppo di persone? Persone che hanno potuto scegliere indisturbati i vari obiettivi dove seminare la morte. Come è possibile che la Francia, sapendo bene di essere molto implicata nel crollo del regime libico di Gheddafi, finito anche ammazzato come un cane, e quindi sapendo bene di essere sicuramente nel mirino di gruppi e bande assetate di vendetta, si sia fatta cogliere così impreparata?

I dubbi aumentano, legittimamente, visto che nessuno smentisce le notizie pubblicate dal giornale di Calais La Voix du Nord ( https://www.wsws.org/fr/articles/2015/oct2015/cach-o05.shtml ) riguardo il segreto di Stato opposto ai magistrati di Lille che volevano sapere come mai il terrorista Amedy Coulibaly, autore del massacro di cinque clienti dell’ipermercato, si trovasse in possesso di un mitra Skorpion, un fucile d’assalto vz 58 e due pistole Tokarev. Tutte armi da guerra prodotte in Cecoslovvachia. La Voix du Nord ha scritto che quelle armi, per comprare le quali Coulibaly ha dovuto chiedere un prestito di 6.000 euro ( http://www.lavoixdunord.fr/france-monde/amedy-coulibaly-avait-contracte-un-pret-de-6000-qui-ia0b0n2599793 ) arrivavano da “una rete costituita da forze dello Stato. Rete che le comprava dal mercato delle armi dismesse servendosi di intermediari malavitosi per farle avere in Siria ai ribelli jihadisti. Tradotto in italiano: la strage dell’ipermercato è stata perpetrata con armi procurate dallo Stato francese per supportare i terroristi impegnati in Siria contro Assad, terroristi dal cui bacino si sono materializzati sia i loro compari del 7 gennaio che quelli del 13 novembre.

E dire che Assad nella sua intervista del 5 dicembre 2014 a Paris Match ( http://www.statopotenza.eu/17130/assad-a-paris-match-mai-una-siria-giocattolo-delloccidente ) era stato chiaro:

“…Da 20 anni il terrorismo è stato esportato dalla nostra regione, in particolare dai paesi del Golfo come l’Arabia Saudita [ndr: Bin Laden era una creature dei sauditi, che finanziavano volentieri i suoi talebani] . Ora viene dall’Europa, specialmente dalla Francia. Il più grande contingente di terroristi occidentali in Siria è quello francese. Il terrorismo in Europa non sta dormendo, è sveglio….Siamo spiacenti di non vedere l’Occidente, che credevamo in grado di aiutare con l’apertura e lo sviluppo, prendere la direzione opposta. Peggio, i suoi alleati sono i paesi medievali del Golfo come l’Arabia Saudita…”.

E a proposito di Arabia Saudita, regno dal regime medioevale e con le donne prive del diritto perfino di poter guidare l’auto a piacimento, forse il nostro capo del governo poteva risparmiarsi la recente visita ( Renzi a Ryad: http://www.huffingtonpost.it/2015/11/07/matteo-renzi-viaggio-arabia-saudita_n_8499612.html ): certo, gli affari sono affari, ma in certi casi non è vero che i soldi non puzzano, e comunque per gli affari con i sauditi non c’è bisogno delle visite a Ryad di Renzi.

Riguardo gli errori commessi da Europa e Usa nel servirsi dei fanatici dell’Isis, così come a suo tempo gli Usa si servirono di Bin Laden e dei talebani, e riguardo le responsabilità, ormai ammesse dagli Usa e dall’Inghilterra, dell’avere fatto nascere e crescere l’Isis come a suo tempo Bin Laden e i talebani, e poi anche al Qaeda, per chi vuole approfondire l’argomento pripongo un’utile scelta di articoli e video:

http://www.corriere.it/esteri/15_luglio_26/curdi-pkk-amici-tempo-turchia-stati-uniti-iraq-iran-ambiguita-92115652-336c-11e5-b9cb-8f0de84308fe.shtml
http://www.piovegovernoladro.info/2015/08/16/quella-maledetta-profezia-di-gheddafi/
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Tony-Blair-chiede-scusa-ea200e11-119a-470a-bb1a-c72ae1c52fa1.html
http://nypost.com/2015/05/27/rand-paul-says-gop-hawks-created-isis/
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/30/isis-chi-lo-finanzia-americani-e-alleati-naturalmente/1733028/
http://www.washingtontimes.com/news/2015/jun/9/bruce-fein-rand-paul-is-right-neocons-created-isis/?page=all
http://www.wallstreetitalia.com/john-mccain-un-uomo-pericoloso-il-suo-ruolo-nel-lancio-dell-isis/

http://www.thedailybeast.com/articles/2015/08/31/petraeus-use-al-qaeda-fighters-to-beat-isis.html

http://www.thedailybeast.com/articles/2015/08/31/petraeus-use-al-qaeda-fighters-to-beat-isis.html
http://theantimedia.org/john-mccain-admits-hes-intimate-with-isis/
http://www.pinonicotri.it/2015/01/larabia-saudita-finazia-il-terrorismo-compreso-l11-settembre-delle-twin-towers-di-new-york/

A conti fatti, non si può non essere d’accordo con quanto scritto da Famiglia Cristiana ( http://m.famigliacristiana.it/articolo/francia-almeno-smettiamola-con-le-chiacchiere.htm ):

“FRANCIA: ALMENO SMETTIAMOLA CON LE CHIACCHIERE
Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l’Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell’aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali.
15/11/2015
di Fulvio Scaglione
E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’ unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’ impronta presa da un dito, l’ unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’ esplosione della cintura da kamikaze che indossava.
Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente.
Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’ Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’ è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’ Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’ Europa.
Quando l’ Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’ hanno richiamato all’ ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq, mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità.
Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’ alleanza militare che rappresenta l’ Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha assistito senza fiatare alle complicità con l’ Isis della Turchia di Erdogan, ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni.
Nel frattempo l’ Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che quelli di Parigi sono attacchi “conto l’ umanità”) è importato poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’ è importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia.
Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale tra l’ Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente di un po’ di armi? No, al contrario l’ abbiamo riempito, con l’ Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’ importazione di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’ Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia.
Solo l’ altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’ umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’ Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza.
Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’ Isis, sappiamo benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’ Isis? E’ la nostra priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più”.

La democrazia comunale nel Medioevo

In epoca feudale non tutte le città erano dei Comuni. Per esserlo ci voleva uno Statuto, cioè una volontà politica associativa. Nel Medioevo le città sono sempre esistite, anche se la loro importanza era inferiore a quella delle campagne, ove dominava la figura del nobile proprietario terriero, che sfruttava i suoi tanti servi della gleba.

In un sistema sociale basato prevalentemente su autoconsumo e baratto, la terra aveva molto più valore della moneta, e quindi la città si trovava ad essere subordinata alle esigenze della campagna.

Generalmente nelle città si trovava la sede episcopale, che svolgeva funzioni amministrative, connesse alla gestione dei sacramenti, e culturali, per l’istruzione del clero e della nobiltà e di chiunque potesse permettersi di pagarla.

Per tutto l’alto Medioevo, cioè fino al Mille, le città, con esclusione di quelle marinare, non ebbero neanche lontanamente un ruolo paragonabile a quello che avevano avuto in epoca greco-romana. Questo perché le popolazioni germaniche e slave provenienti da oriente e penetrate nell’impero romano, non erano urbanizzate. Sicché quando, intorno al Mille, iniziarono a formarsi i primi Comuni, si ebbe la trasformazione delle città da qualcosa di meramente amministrativo, gestito dai vescovi, a qualcosa di specificatamente politico, gestito da una nuova classe sociale: la borghesia, che comprendeva i mercanti, gli artigiani e i liberi professionisti.

Da dove provenivano queste categorie sociali, visto che per tutto l’alto Medioevo dominava la figura del contadino, che insieme era artigiano (anche con l’aiuto delle donne, che filavano e tessevano) e commerciante delle proprie eccedenze alimentari, che sul mercato barattava con le eccedenze altrui? La stessa cultura era patrimonio quasi esclusivo del clero, soprattutto di quello regolare, che non la usava per giustificare pratiche di tipo commerciale. Generalmente i contadini erano analfabeti, in quanto si accontentavano della trasmissione orale di conoscenze ancestrali.

Le nuove categorie sociali si formarono in virtù dei contatti che le città marinare tenevano con l’area bizantina, la quale, a sua volta, faceva da ponte tra il mondo asiatico e quello europeo. Poi, quando l’espansione araba, una volta arrivata in Spagna, smise di essere aggressiva, forti divennero i contatti commerciali anche con questa civiltà, almeno fino al periodo delle crociate, quando s’interruppero per colpa degli ottomani e degli europei.

Bisanzio non aveva subìto le devastanti invasioni barbariche, poiché aveva saputo farvi fronte in maniera intelligente. Roma invece, che mal aveva digerito il trasferimento costantiniano della capitale dell’impero sul Bosforo, non ebbe mai la stessa lungimiranza e rinunciò a coordinare le proprie forze con quelle dei cristiani d’oriente.

I commerci col Levante erano proseguiti, senza soluzione di continuità, sin dall’epoca romana, estendendosi anche al mondo slavo. Di questi commerci si favoleggiava enormemente in Europa occidentale, e città come Amalfi, Pisa, Genova, Venezia, ma anche Bari, Brindisi, Palermo e altre ancora sapevano molto bene che l’impero bizantino era economicamente florido. Di tutte queste città Venezia fruiva di un ruolo privilegiato, di cui approfitterà notevolmente in occasione della quarta crociata (1204), tradendo la fiducia del basileus.

Furono gli scambi col mondo bizantino e quindi la possibilità di ottenere oggetti preziosi, introvabili in occidente, di ottima fattura, inizialmente alla portata di pochi privilegiati, che favorì la nascita dei ceti mercantili. Gli artigiani non erano altro che ex-contadini particolarmente abili nel fare qualcosa che poteva essere venduto sul mercato (p.es. sapevano usare bene il tornio o il fuoco). Lo stesso lavoro tessile svolto dalle donne per le esigenze domestiche, poteva essere valorizzato da qualche mercante, che, dopo aver offerto la materia prima, andava a vendere il prodotto finito in un mercato locale, che poi diventerà sempre più europeo.

Quanto ai liberi professionisti (avvocati, notai, medici, architetti, artisti, insegnanti, cambiavalute, banchieri o finanzieri ecc.), è evidente che la loro provenienza implicava una buona dose di cultura (che p.es. non mancava mai agli ebrei). Invece di diventare teologi o chierici o militari mercenari, i nobili di rango inferiore (quelli esclusi dall’asse ereditario, in quanto cadetti) potevano anche scegliere funzioni amministrative o di rappresentanza, di cui la borghesia aveva sempre più bisogno per svolgere i propri affari o per tenere in piedi le sorti degli stessi Comuni.

Tutte queste nuove figure sociali assumono, col tempo, una particolare veste politica, basata su una variegata attività produttiva, commerciale e amministrativa, con cui si riuscirà a trasformare la decadente città alto-medievale in un fiorente Comune di epoca basso-medievale. Infatti quando si parla di “democrazia” in epoca feudale, ci si deve necessariamente riferire a una nuova tipologia di città: i Comuni.

Si può parlare di “Comuni” in riferimento all’area bizantina? No, si può parlare soltanto di città. I Comuni sono il prodotto spontaneo di una serie di figure sociali che si sentono libere proprio in quanto hanno giurato fedeltà a uno Statuto che loro stesse si sono date. Una cosa del genere non l’avrebbero permessa né le autorità bizantine, né quelle islamiche o slave e neppure quelle cinesi o indiane. Infatti il potere politico-istituzionale poteva sì permettere l’attività commerciale (che comunque teneva sempre sotto controllo), ma non poteva permettere che sulla base di un’attività del genere si potesse formare un potere politico autonomo, potenzialmente concorrente. Ecco perché quando si parla di “Comuni” si deve intendere qualcosa di specificatamente italiano.

Questi Comuni si sentivano in rivalità coi poteri feudali della grande aristocrazia terriera e cercavano di realizzare dei rapporti reciprocamente vantaggiosi con la diocesi vescovile e il papato, anche in funzione anti-imperiale. Inizialmente la borghesia non è nemica della chiesa, ma anzi cerca di essere la sua principale alleata, scalzando il ruolo dell’aristocrazia terriera.

Quando avverrà la lotta per le investiture ecclesiastiche, la borghesia starà sempre dalla parte del papato, proprio perché sapeva bene che gli imperatori volevano sfruttare fiscalmente le città e tenere sotto controllo tutti i loro commerci. I due grandi imperatori svevi: Federico Barbarossa e suo nipote, Federico II, furono sostanzialmente sconfitti dai Comuni.

Solo quando la borghesia avrà acquisito un certo potere economico, ridimensionando di molto quello della nobiltà, essa comincerà a rivendicare un proprio potere politico, separato da quello della chiesa e anzi, per molti versi, ostile a quest’ultimo.

A questo punto però la domanda cui bisogna cercare di dare una risposta è la seguente: com’è stato possibile un tale sviluppo della borghesia comunale? E perché esso è avvenuto anzitutto in Italia? Perché uno sviluppo del genere non si è verificato nell’area bizantina, dove i commerci sono sempre stati molto fiorenti, almeno sino all’occupazione turca? La risposta è molto semplice: in Italia la corruzione della chiesa, nei suoi livelli gerarchici (soprattutto pontifici), era molto forte, a motivo del fatto ch’essa voleva porsi come chiesa politica, in competizione col potere imperiale bizantino, al punto da desiderare due cose che suscitarono non poco scandalo tra i cristiani orientali: la prima fu quella di attribuire il titolo di “imperatore” a Carlo Magno, quando a Bisanzio ne esisteva già uno; la seconda fu quella di rompere l’unità del mondo cristiano, separandosi nettamente dalla chiesa ortodossa nel 1054, dopo secoli di controversie dogmatiche risoltesi negativamente. Nel primo caso ebbe bisogno dell’alleanza nobiliare, nel secondo di quella borghese, tant’è che le crociate scoppiarono subito dopo l’affermazione della teocrazia pontificia. L’alleanza con la grande borghesia fu decisiva per affermare la propria ideologia teocratica assolutistica.

Ora, quando a livello politico-istituzionale s’impone una corruzione così marcata, diventa poi molto difficile, da parte delle istituzioni, impedire un’autonoma gestione dell’economia, in cui il criterio del profitto privato risulta essere la regola dell’agire comune. Con questo non si vuol dire che l’impero bizantino e tutte le altre compagini governative del periodo medievale fossero esenti da corruzione. Si vuol semplicemente dire che solo in Europa occidentale si era formata una chiesa che voleva svolgere un ruolo direttamente politico, considerando lo Stato (impersonato dagli imperatori) un proprio braccio secolare.

Questa incapacità di distinguere gli aspetti laici da quelli ecclesiastici, l’uso della ragione da quello della fede, l’etica dalla religione è stata la causa principale del sorgere della borghesia, la quale ha potuto svolgere i propri traffici individualistici proprio perché sapeva bene che la chiesa, nel proprio assoluto integralismo, era sommamente corrotta e quindi non titolata a “giudicare” una pratica che lo era altrettanto sul piano sociale. Una volta acquisito il necessario potere economico, la stessa borghesia ha poi potuto esigere che sul piano politico si tornasse a fare differenza tra sacro e profano, relegando il sacro in un ambito sempre più privato o comunque trasformandolo in una pratica sempre meno significativa. Di qui la trasformazione della chiesa da cattolica a protestante.

La borghesia non è nata direttamente dalla chiesa romana, ma è stata un suo involontario prodotto derivato, che, ad un certo punto, le è sfuggito di mano, sicché la stessa chiesa si è sentita indotta a darsi una veste meno esigente sul piano politico e ideologico, più conciliante con l’attività affaristica, anche perché il tentativo di frenare questo processo con la strategia della Controriforma si rivelerà del tutto fallimentare nell’Europa del Nord.

Solo quando nascerà il proletariato industriale, principale nemico della borghesia imprenditoriale, quest’ultima avvertirà il bisogno di ritrovare anche nella chiesa romana l’alleata di un tempo; e il papato, con lo strumento del Concordato e soprattutto con la svolta del Concilio Vaticano II, accetterà il nuovo “patto d’acciaio”, anche per far fronte alla dilagante indifferenza verso le questioni religiose.

La democrazia greco-classica e contemporanea

Si può parlare di “democrazia diretta” nella polis ateniese dei secoli V e IV a.C.? Diciamo che un primo tentativo di scardinare gli antichi privilegi gentilizi, tipicamente aristocratici, fu compiuto alla fine del VI sec., quando Clistene creò dieci nuove tribù territoriali, aventi valenza anche militare, al posto delle vecchie quattro tribù gentilizie.

demi, che andarono a sovrapporsi alle trittie, erano piccole autonome comunità di villaggio, coi loro magistrati (politici e funzionari). Ora, con Clistene, diventavano un sistema di autogoverno che coinvolgeva circa 30.000 persone (cioè i cittadini maschi adulti e liberi, di legittima ascendenza ateniese, in quanto nati da genitori ateniesi legittimamente sposati, con esclusione quindi delle donne, degli schiavi e degli stranieri).

La base della democrazia era costituita, per ogni demo, dall’Assemblea popolare (ekklesìa), esclusiva fonte politica e normativa delle decisioni popolari. Essa si riuniva 40 volte l’anno, con una frequenza media di 6.000 persone. Vi intervenivano i leader del popolo (demagoghi e retori), i quali non rappresentavano gli interessi di determinati partiti politici, organizzati come oggi, ma semplicemente si facevano portavoce di istanze popolari.

Oltre all’ekklesìa vi era la bulê (il Consiglio dei Cinquecento: 50 per ognuna delle 10 tribù territoriali). I buleuti si occupavano degli affari correnti, assicurando la continuità del governo. Nessuna decisione dell’Assemblea poteva essere ratificata senza il parere preventivo del Consiglio. D’altra parte ogni discussione preliminare in Consiglio andava autorizzata dall’Assemblea. Quando il Consiglio aveva esaurito il dibattito interno, presentava all’Assemblea una proposta organica su cui bisogna prendere una decisione. Sotto questo aspetto si può sostenere che nella democrazia ateniese non è mai esistita una reale separazione dei poteri.

Vi era anche il corpo giudiziario dei cittadini, cioè 6.000 giudici del tribunale popolare e circa 700 funzionari pubblici di età non inferiore ai 30 anni. Fatto singolare di questo organo è che non si conosceva in anticipo la causa che si doveva giudicare.

Tutte le cariche venivano assegnate per sorteggio ed esercitate per un solo anno, a rotazione e ogni carica per non più di due volte nella vita. L’esercizio delle cariche richiedeva molto tempo e tendeva a escludere quanti non avevano sufficienti risorse, almeno finché non si deciderà, nel IV secolo, con Pericle, un livello adeguato di remunerazione, in grado di coprire le spese sostenute o i mancati introiti.

Si trattava di una democrazia esclusivamente politico-amministrativa e giudiziaria, che riguardava una minoranza di persone, non implicando l’estensione universale dei diritti umani e civili. Inoltre non andava a coinvolgere gli aspetti materiali e produttivi della popolazione, per una più equa redistribuzione delle ricchezze. Anzi, per il pagamento dei pubblici uffici Atene si avvaleva, in gran parte, delle risorse degli alleati (soprattutto dopo la battaglia di Salamina).

Il fatto stesso che obbligasse a una rotazione così frequente delle cariche, dimostra l’inesistenza di una vera e propria democrazia economica: non ci si fidava gli uni degli altri. Lo stesso diritto alla cittadinanza non era il conseguimento di un diritto naturale, in ambito politico, ma il godimento di un privilegio, che permetteva di esercitare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Insomma permanevano distinzioni di censo e di rango: cosa peraltro che non riguardava la sola Atene, ma tutte le poleis della Grecia.

Una differenza semmai stava tra la democrazia ateniese, dove la votazione abituale era per alzata di mano (e in taluni casi per voto segreto), e l’oligarchia spartana, dove la votazione era soltanto per acclamazione. Inoltre a Sparta non vi era un’uguale opportunità di parola nelle assemblee pubbliche. E’ evidente infatti che là dove esiste uguale diritto di parola e uguaglianza davanti alla legge, il cittadino si sente indotto a riflettere di più tra le diverse opzioni politiche che gli vengono proposte. Ad Atene gli stessi oratori dovevano sottostare a controlli preliminari e al rispetto di un rigoroso iter procedurale e di un certo codice deontologico. Non era certo facile presentare proposte illegali, anche se sarà proprio una democrazia del genere a decidere la morte di Socrate (cosa che avvenne anche perché Socrate si permise di giudicare i cittadini nella loro totalità, riuniti appunto in Assemblea).

Di singolare, in questo esperimento democratico, è che non vi fu alcuna teoria politica, almeno non nel senso in cui l’intendiamo oggi. Se ne trova assai di più nei testi di Platone e anche in quelli di Aristotele, quando però la democrazia politica era già in forte declino, finché scomparve del tutto sotto la dominazione macedone. (1) Per avere una teoria politica moderna, riguardante la democrazia diretta, si dovrà aspettare l’opera di Rousseau.

Ciononostante in quella fase storica il popolo ateniese di sentiva “sovrano” (kyrios). Gli bastava l’equa distribuzione dei diritti e delle cariche (un uomo un voto). Naturalmente pretendevano, da parte degli eletti, una rendicontazione generale, a fine mandato (soprattutto di tipo fiscale). Nel caso in cui vi fossero state denunce da parte dei cittadini, il magistrato poteva anche essere sottoposto a un processo davanti al tribunale popolare.

Quel che a noi oggi pare poco logico era la decisione di usare il sorteggio per svolgere cariche di una certa importanza. Evidentemente gli ateniesi erano convinti di avere tutti un merito equivalente. Solo gli ufficiali militari (strateghi) venivano eletti mediante il voto: la loro era l’unica carica che poteva assicurare una certa continuità, benché fosse di durata annuale. A dir il vero il popolo, quand’erano in corso dei conflitti armati, chiedeva una competenza specifica non solo in campo militare, ma anche in quello economico-finanziario.

Oggi invece tendiamo a considerare il sorteggio una pratica inerente alla sfera dei doveri più che a quella dei diritti. Nel mondo militare del passato i plotoni di esecuzione venivano sorteggiati, se non ci si offriva spontaneamente; in guerra si può essere sorteggiati quando si devono compiere delle operazioni che comportano un elevato rischio personale; si può ricorrere al sorteggio anche quando le persone che si offrono spontaneamente per compiere un’impresa rischiosa, sono superiori al necessario; ma si potrebbero fare molti altri esempi.

In genere, quando nessuno si offre spontaneamente per fare una determinata cosa, si procede al sorteggio, cui si può anche far seguire la periodica rotazione degli obblighi tra tutti gli appartenenti a un collettivo. Sorteggio, nella fase iniziale, e rotazione, in quella successiva, riguardano sempre la sfera degli obblighi o dei doveri. Chi può essere, di diritto, esentato da questa procedura è chi dalla comunità viene riconosciuto di un grado superiore rispetto a tutti gli altri, nel senso che si riconosce un merito o una capacità particolare. E’ anche vero però che se, in caso di necessità, questa persona si rifiutasse di accettare un dovere cui ogni altra persona si sente obbligata, facilmente verrebbe considerata poco meritevole d’essere riconfermata nel suo incarico.

Oggi quindi se, da un lato, ci pare assurdo affidare al caso la gestione di importanti compiti politici o amministrativi; dall’altro tendiamo a confermare l’idea della rotazione delle cariche, proprio per impedire gli abusi di potere.

Naturalmente nelle democrazie moderne, tutte meramente rappresentative, il riconoscimento del merito e la rotazione delle cariche hanno un valore molto relativo. Questo perché, per quanto riguarda il merito, è abbastanza consueto che venga riconosciuto, se lo si deve esercitare in ambiti amministrativi, con procedure piuttosto formali e meramente burocratiche, come p.es. i pubblici concorsi, dove il controllo effettivo delle capacità è sempre piuttosto teorico, basato su conoscenze nozionistiche. Quando poi si ottiene l’incarico, i controlli sull’effettiva capacità gestionale sono sempre piuttosto scarsi: in genere avvengono in seguito a denunce o segnalazioni da parte di alcuni cittadini, tra quelli che fruiscono dei servizi inerenti a quell’incarico. Tuttavia il diretto interessato raramente viene rimosso o licenziato: più facilmente verrà trasferito altrove, quando non sarà sufficiente limitarsi a redarguirlo o a sanzionarlo.

La democrazia rappresentativa di uno Stato nazionale può sempre avvalersi della vasta estensione geografica del proprio territorio, unitamente all’assenza di una vera e propria democrazia diretta (2), per celare i propri errori di valutazione, le proprie incapacità nella selezione del personale e nel controllo del suo operato.

Viceversa, per quanto riguarda l’attribuzione del merito in campo politico, i controlli devono per forza essere più stringenti, poiché ne va di mezzo il destino non dello Stato (o di una sua porzione), ma dell’intero partito politico, che garantisce un certo potere, che è piuttosto ristretto, riservato a pochi.

Nell’ambito dello Stato si possono acquisire poteri sul piano amministrativo, giudiziario e militare, ma tutti questi settori sotto sottomessi, almeno in via di principio, a quello politico, che è l’ambito di potere per eccellenza e che, non a caso, permette di fare carriera anche in altri ambiti, una volta che, per un motivo o per un altro, da esso si è usciti.

In ambito politico i meriti personali non vengono riconosciuti dagli elettori dei partiti e neppure da tutti i loro iscritti, ma soltanto dai loro dirigenti più influenti. Nei partiti si fa carriera solo per cooptazione, cioè solo se si viene scelti da un gruppo ristretto di persone, che devono fidarsi reciprocamente o dove comunque la minoranza deve sottostare alla volontà della maggioranza. Una volta eletto “dirigente” del partito (o di un suo qualche settore), si rimane in carica fino a quando le condizioni per cui si è stati scelti restano immutate. E’ praticamente impossibile che una scelta compiuta dai dirigenti di un partito possa essere contraddetta dalla volontà dei suoi aderenti, che costituiscono la base degli elettori, siano essi tesserati o no. Dovrebbero esserci motivazioni piuttosto gravi.

Il leader di un partito può pretendere la revoca di alcune nomine, che si sono rivelate sbagliate, ma perché prenda decisioni del genere, devono esserci forti contestazioni da parte di qualcuno, che è tenuto a documentarle o a motivarle con dovizia di particolari. A nessun leader piace far vedere d’aver compiuto scelte sbagliate. Di regola i partiti politici non amano né i sorteggi, né le rotazioni delle cariche, ma la stabilità, la continuità nell’esercizio del potere. E’ questo il motivo per cui rimangono del tutto impreparati, addirittura sconcertati, quando vengono sconfitti dai partiti avversari, soprattutto se lo sono platealmente nelle competizioni elettorali o nelle rivoluzioni o nei colpi di stato. Essi infatti sono convinti di poter vivere di rendita politica.

La democrazia rappresentativa degli Stati moderni è in realtà una forma di dittatura di pochi privilegiati, il cui tasso di moralità è spesso di levatura piuttosto modesta, in quanto, per conservare il potere acquisito, si deve essere disposti ad accettare molti compromessi, anche piuttosto vergognosi.

D’altra parte anche nella democrazia greca fu impossibile evitare che si formassero dei politici di professione o delle élite di potere, che andavano a convergere verso le élite di censo, di lignaggio e di superiore educazione e istruzione.

Note

(1) Platone, Aristotele e anche Senofonte ritenevano la democrazia ateniese una forma di anarchia, in cui i demagoghi manipolavano i partecipanti alle assemblee, i quali non riuscivano a difendersi proprio perché non avevano sufficiente preparazione per poter prendere decisioni oculate. La politica, come qualunque altra arte, richiedeva una certa dose di specializzazione, per cui non poteva essere posseduta da molti. Per Aristotele il popolo, al massimo, poteva eleggere i magistrati e chiamarli a rendicontazione, ma non doveva tenere i pubblici uffici. Viceversa, Protagora era convinto che il popolo poteva essere educato a praticare l’arte di governare tramite l’insegnamento dei sofisti e la pratica quotidiana della politica. Vi furono dei sofisti (come Callicle, Antifonte e Alcidamante) che sostenevano addirittura l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini, inclusi gli schiavi.

(2) Anche i Consigli comunali, pur essendo pubblici, rientrano nella mera democrazia rappresentativa. Per avere una democrazia diretta bisognerebbe dare tutti i poteri ai Consigli di quartiere, che invece oggi sono strumenti del tutto pletorici.

LE AUTORITA’ MONETARIE DEGLI USA E DELL’EUROPA CORRONO IN DIREZIONI OPPOSTE: SPERIAMO DI NON ROMPERCI LE OSSA…

Fed e Bce corrono in direzioni opposte

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Prepariamoci a salire ancora sull’ottovolante finanziario e speculativo! Non vogliamo essere troppo pessimisti ma pensiamo che ciò possa accadere. Infatti la Federal Reserve americana ha appena annunciato che considera la possibilità di aumentare il tasso di interesse a dicembre. La Bce di Mario Draghi ha invece rilanciato in grande la politica del Quantitative easing: ha ribadito che “ intende acquistare titoli pubblici e privati fino a settembre 2016 e oltre, se necessario”. In ogni caso fino a che il tasso di inflazione annuo non si assesti intorno al 2%.

Draghi ha aggiunto che, “alla luce dei nuovi rischi emersi in relazione ai recenti sviluppi nei mercati globali e in quelli finanziari e delle commodity”, si è pronti ad aggiustare la dimensione, la composizione e la durata del programma del Qe.

Altro che “coordinamento stellare” tra le due massime banche centrali del pianeta! Esse si stanno movendo in direzioni diametralmente opposte, con il rischio di scontrarsi quando il circuito inevitabilmente li metterà di fronte. Una vuole iniziare una politica monetaria restrittiva mentre l’altra vuole proseguire con l’espansione della liquidità.

Troppo spesso e troppo astrattamente si parla di globalizzazione finanziaria, ma quando la Fed decide le sue più importanti politiche monetarie lo fa nel suo interesse nazionale e del sistema del dollaro. La Bce ha imparato ad imitarla. Non si considera affatto se ciò possa avere un effetto destabilizzante nell’intero sistema economico-finanziario globale, in particolare nelle economie emergenti. Ciò è già accaduto. Prima o poi il conto si presenterà anche in casa americana ed europea.

Finora la grande disponibilità di liquidità in dollari a basso costo ha generato il cosiddetto “carry trade”, cioè il prendere a man bassa prestiti in dollari per poi usarli, anche per speculazioni, ovunque nel mondo.

Escludendo il settore bancario, a marzo 2015 il debito in dollari fuori dagli Stati Uniti, soprattutto quello delle imprese, ha raggiunto i 9,6 trilioni di dollari, di cui un terzo nei Paesi emergenti. Dal 2009 vi è stato un aumento del 50%.

Il debito delle economie emergenti in valuta estera è quindi aumentato di molto. Tanta liquidità globale ha generato la crescita dei bond e di altri titoli di debito tanto da creare instabilità.

Negli ultimi mesi, a seguito delle svalutazioni delle monete locali, molti Paesi hanno risposto attingendo alle proprie riserve e vendendo le obbligazioni di stato denominate in dollari. La Banca dei Regolamenti Internazionali stima che il loro ammontare potrebbe superare quello dei titoli acquistati dalla Bce. Ciò ovviamente può determinare una competizione sul mercato globale delle obbligazioni in dollari e in euro con effetti non secondari anche sui cambi, neutralizzando l’ipotizzato effetto positivo del Qe europeo.

Ciò dato non sorprende che anche l’Economist sottolinei che l’”offshore dollar system” si sia allargato senza freni. Esso ricorda che immediatamente dopo la crisi del 2008 la Fed intervenne con 1.000 miliardi di dollari a sostegno di banche private e di banche centrali estere. Oggi in caso di una nuova crisi finanziaria l’intervento richiesto alla Fed potrebbe essere di dimensioni molto maggiori rispetto al passato. Si calcola che entro il 2020 la quantità di dollari fuori dai confini degli Usa potrebbe superare tutti gli attivi dell’intero settore bancario americano.

Anche la rivista Forbes scrive che se una grossa banca, come la Goldman Sachs o la Morgan Stanley, dovesse affrontare una crisi simile a quella della Glencore, la multinazionale delle materie prime i cui titoli sono crollati dell’85% dal loro debutto in borsa del 2011, ci sarebbero sufficienti ragioni per temere una Lehman Brothers 2.0. Questo perché le “too big to fail” hanno operazioni in derivati otc che, come noto, variano tra i 600 e i 700 trilioni di dollari. Quello di Forbes non è un avviso velato in quanto le banche menzionate sono grandemente coinvolte nei derivati speculativi sulle commodity.

La mancanza di regole e la mancanza di un effettivo raccordo tra i maggiori attori internazionali dell’economia e della politica mantengono il mondo sotto la minaccia di nuove crisi e di nuove instabilità, non meno preoccupanti di quelle determinate dagli attuali conflitti regionali.

Di ciò purtroppo si parla poco ignorando che spesso alla radice delle varie tensioni territoriali e dei fenomeni migratori vi sono anche regioni economiche e culturali.

*già sottosegretario all’Economia ** economista