La politica della non-credenza

Non può essere considerato casuale che nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo non si sia mai messo in discussione il concetto di “dio”. Da un lato i teologi cristiani avevano la pretesa di poter costituire una netta alternativa a tutte le religioni politeistiche (così succubi, peraltro, ai diktat degli Stati imperiali); dall’altro però si rendevano conto di non poter superare un limite invalicabile, il concetto appunto di “dio”, oltre il quale non è possibile alcuna religione.

In mezzo a questo atteggiamento ambiguo ve n’era un altro: quello di credere sufficiente, ai fini del riscatto sociale degli oppressi, il passaggio da un’idea religiosa a un’altra. Sotto questo aspetto è giustissimo sostenere che il cristianesimo è sorto dal fallimento dell’esperienza politica del movimento nazareno: è stato proprio quel fallimento a indurre i successori del Cristo a reintrodurre il concetto di “dio”, eliminando definitivamente qualunque obiettivo rivoluzionario. L’unica rivoluzione possibile doveva avvenire soltanto a livello sovrastrutturale, passando appunto da un’idea religiosa a un’altra.

E in parte vi si riuscì, in quanto il cristianesimo seppe introdurre alcuni concetti che il paganesimo non poteva ammettere e che, per certi versi, non era neppure in grado di pensare. Per esempio l’idea che, avendo il credente una “coscienza libera” e una propria “fede religiosa”, l’adesione alle leggi dello Stato e alle direttive degli imperatori poteva essere data solo vincolandola al rispetto di una certa libertà personale. I cristiani cioè si sentivano liberi di non credere nella presunta divinità degli imperatori e neppure nel valore di alcun culto pagano (di qui l’accusa che veniva loro mossa d’essere atei).

Essi erano disposti a farsi ammazzare pur di non tradire i loro princìpi. E lo Stato romano, confermando il proprio lato “confessionale” in campo religioso, si sentì indotto a perseguitarli per ben tre secoli, con la compiacenza dei sacerdoti e dei seguaci del paganesimo.

L’altra idea sconosciuta al politeismo, o comunque poco praticata, era l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a dio, ovvero il diritto, per chiunque, a una retribuzione ultraterrena (il premio del paradiso) in rapporto alla professione di fede manifestata sulla Terra. Non si finiva più tutti nell’Ade; l’immortalità e la beatitudine non erano più garantiti soltanto agli dèi; le classi superiori, proprio per i poteri di cui disponevano, dovevano sentirsi a rischio circa il loro destino nell’oltretomba cristianizzato; i cristiani non avrebbero fatto nulla per difendere le istituzioni dagli attacchi dei nemici esterni, quando loro stessi si sentivano considerati dei “nemici interni” dalle proprie istituzioni.

Insomma il cristianesimo, grazie naturalmente all’influenza dell’ebraismo (seppur nella forma mistica del paolinismo), presentava un aspetto di politicizzazione che il paganesimo non aveva mai avuto, se non nella forma, vagamente eversiva, del dionisismo.

Il destino poi ha voluto che, a partire dal momento in cui gli imperatori smisero di perseguitare i cristiani, le parti in qualche modo si rovesciassero. Invece di affermare uno Stato laico, indifferente a tutte le religioni, si preferì un nuovo Stato confessionale, questa volta cristiano, ostile a tutti gli altri culti. Erano gli imperatori stessi che lo esigevano: tutte le dittature hanno sempre bisogno di una religione di stato.

E a ciò i cristiani non si sono affatto opposti, o comunque la loro opposizione (tipica nelle correnti ereticali) non è risultata decisiva. Per tutto il Medioevo l’unica differenza, all’interno della cristianità europea, è stata quella tra una Chiesa di stato (slavo-bizantina) e uno Stato della chiesa (cattolico-romano).

Oggi il ruolo ottenuto dal cristianesimo nei confronti del paganesimo, lo svolge l’ateismo nei confronti del cristianesimo. Gli atei sono odiati dai credenti perché hanno abolito il concetto di “dio”, facendo indubbiamente progredire la storia del pensiero umano. Un progresso che però ci riporta alle concezioni di vita che aveva l’uomo preistorico, troppo legato al mondo naturale per potersi dare dei concetti astratti di divinità, meno che mai quando questi concetti servono per giustificare discriminazioni di casta o di classe.

Una differenza però l’abbiamo rispetto all’uomo preistorico: oggi l’ateismo è più che altro connesso a un prodigioso sviluppo tecnico-scientifico urbanizzato (nettamente anti-naturalistico), che induce a credere in una certa onnipotenza dell’essere umano, non più bisognoso della provvidenza divina. Oggi siamo così indifferenti alla religione che ci comportiamo da non-credenti anche quando non facciamo alcuna professione di ateismo. Anzi, chi la fa, ci appare come una sorta di fanatico alla rovescia. Più che verso l’ateismo, le nostre simpatie vanno verso l’agnosticismo, che è quella totale indifferenza verso le questioni religiose, che però non arriva a fare della non-credenza una bandiera politica o l’occasione per una battaglia culturale.

Ed è un errore, almeno in Italia. Qui infatti non si ha a che fare con uno Stato laico che garantisce a tutti, laici e credenti, il rispetto delle loro convinzioni, ma con uno Stato confessionale, sancito dall’art. 7 della Costituzione, che considera il cattolicesimo una religione privilegiata rispetto alle altre.

Indubbiamente oggi non siamo così sprovveduti da credere possibile un riscatto degli oppressi limitandoci a realizzare una transizione dalla religione all’ateismo. Però è fuor di dubbio che fino a quando una religione ambisce a porsi in maniera politica, la lotta della non-credenza non può che assumere una veste politicizzata. Se gli atei e gli agnostici avessero uno Stato laico, potrebbero limitarsi a considerare il cattolicesimo-romano come un semplice fenomeno storico-culturale. Invece così diventa tutto più difficile.