Autoconsumo e baratto

Supponi che noi due si voglia fare un baratto tra cose usate: tu mi dai il tuo cellulare di ultima generazione, io ti do il mio orologio automatico, che si carica a polso.

Qual è la prima cosa che pensi di fronte a questa proposta? La prima cosa è ovviamente la valutazione di mercato, cioè il valore di scambio di entrambi i prodotti. Metti in rapporto i due oggetti al valore monetario deciso dal mercato degli oggetti usati.

Viene istintivo fare una cosa del genere proprio perché siamo abituati a far coincidere il valore di un qualunque bene col suo prezzo. Noi non conosciamo il valore effettivo, intrinseco, oggettivo, di una merce finché il mercato non ci indica il suo prezzo, cioè il suo valore nominale, venale, monetario.

Peraltro noi sappiamo bene, per esperienza diretta, che i prezzi di mercato sono la cosa più irrazionale del mercato, in quanto alla loro formazione contribuiscono fattori che per noi consumatori sono imponderabili, indipendenti dal comportamento che possiamo avere facendo degli acquisti.

P.es. non è sempre vero che quanto più è alta la domanda di un bene, tanto più è alto il suo prezzo se l’offerta non è in grado di soddisfarla. Come non è sempre vero che, a fronte di una considerevole offerta, i prezzi possono calare se la domanda è scarsa. Questo perché vi sono sempre altri fattori che incidono sulla volontà dei produttori di merci e quindi sulla formazione dei prezzi, che restano spesso ignoti ai comuni consumatori. A volte quando una merce, materiale o immateriale, è quotata in borsa, basta fare delle semplici dichiarazioni che la riguardano, per avere immediatamente delle impennate o dei crolli rovinosi della sua quotazione.

Consideriamo inoltre che al giorno d’oggi i consumatori agiscono su mercati ove dominano prevalentemente i prezzi di monopolio. Per avere prezzi scontati bisogna frequentare i mercati delle piazze urbane o aspettare i saldi o cercare particolari promozioni, offerte speciali per i nuovi clienti, oppure affidarsi completamente alla vendita abusiva, truffaldina.

Questo per dire che, a parità di condizioni estrinseche, esteriori, la concorrenza incide assai poco sulla formazione dei prezzi. Anzi, è più facile che tra i monopoli si formino dei cartelli, cioè dei patti sotto banco, quando addirittura, di fronte alla concorrenza straniera, non si provvede con forme varie di protezionismo.

Per noi consumatori si tratta semplicemente di porre una differenza tra mercato legale e mercato illegale, ovvero tra mercato in cui esiste una tassazione regolare e mercato in cui questa è minore (come p.es. a San Marino o in certi paesi esteri), o addirittura nessuna tassazione, come nel cosiddetto “mercato nero” o clandestino, quello degli oggetti non originali o contraffatti o addirittura trafugati (il mercato dei ricettatori).

Ora però immagina che, per un qualsivoglia motivo, la moneta non esista affatto: sono crollate tutte le borse, è scoppiata una guerra mondiale, gli Stati hanno fatto bancarotta, oppure, più semplicemente, perché vige solo il baratto, non essendo stato ancora inventato un equivalente astratto e universale per tutte le merci, quale può essere appunto il denaro (soprattutto nella forma della banconota o della carta di credito).

Supponi dunque di non poter stimare economicamente il mio orologio sulla base del denaro: quale altro parametro valutativo sceglieresti? Nel corso della storia del genere umano i parametri sono stati tantissimi: dalle conchiglie ai semi di cacao, ecc. Per le civiltà basate sullo schiavismo l’elemento di paragone più importante era l’oro o l’argento (ma anche il rame o il bronzo, per gli oggetti di minor pregio). Oggi tra i metalli pregiati di uso domestico abbiamo anche il platino (p.es. nei gioielli).

Ma supponi che non esista neanche questa possibilità, in quanto l’oro e l’argento vengono più che altro usati per motivi estetico-ornamentali e non economici, come accadeva tra le popolazioni primitive, che apprezzavano l’oro perché duttile, malleabile, lucente e perché non invecchia mai. Se non c’è neanche questo metro di paragone, come fai a valutare il mio orologio?

Non esistendo un vero e proprio valore di scambio per le merci, non ti resta che puntare al suo valore d’uso. Sei disposto a barattare il tuo cellulare col mio orologio semplicemente perché pensi che ti serva di più. Tuttavia, se fino adesso hai fatto senza, perché pensi che ti possa servire? Devi stare attento a questa mia proposta di scambio, perché al bene che ti offro potresti farci l’abitudine e, in tal caso, perderesti la tua autonomia. E’ stato proprio in questa maniera che s’è realizzata la transizione dal baratto alla moneta.

Devi inoltre pensare a una cosa non meno importante: supposto che il mio orologio ti serva davvero, come fai a essere sicuro di fare uno scambio vantaggioso per te? Tu non puoi affatto saperlo se non conosci esattamente il tempo che è stato impiegato per produrre il mio orologio (e nel tempo ci puoi mettere dentro la fatica e l’intelligenza di reperire i materiali adatti, di assemblarli nel modo migliore, di presentarli al pubblico ecc.).

Se tu conosci esattamente tutte queste cose, allora vuol dire che, almeno in teoria, tu stesso potresti produrre il mio orologio; cosa che non fai probabilmente perché ami applicarti ad altri oggetti, le cui eccedenze vuoi scambiare con oggetti che non possiedi, tra cui appunto gli orologi automatici. Quel che è certo è che se non conosci il tempo socialmente necessario per produrre un determinato oggetto, tu rischi di rimetterci sempre negli scambi con quel medesimo oggetto.

Ora supponiamo che tu conosca l’entità effettiva del valore del mio orologio, a quali condizioni saresti disposto a compiere una transazione per te svantaggiosa sul piano economico? Ce n’è più di una. Io potrei essere tuo amico o diventarlo dopo esserci combattuti in battaglia; potrei essere un tuo parente o diventarlo in seguito a un matrimonio tra le rispettive famiglie. Potresti farmi un favore perché sai di essere, per qualche motivo, in debito con me, oppure perché speri che io possa essere più indulgente nei tuoi confronti. Insomma saresti disposto ad accettare una transazione materialmente non equa a condizione di poter ottenere dei vantaggi di tipo etico.

Sia come sia, ti rendi facilmente conto che se esistesse l’autoconsumo la transazione sarebbe più semplice e sicura, proprio perché ad entrambi sarebbe garantita l’indipendenza. Lo scambio lo faremmo solo con le rispettive eccedenze e solo per acquistare cose effettivamente utili, cioè dei beni che potremmo produrre anche noi e che non facciamo solo perché sappiamo che vicino a noi qualcun altro lo fa, non perché vi sia costretto da qualcosa, ma perché ne ha voglia, ne ha l’interesse, ne ha le competenze e perché è convinto che, facendolo, otterrà in cambio qualcosa di non meno utile e vantaggioso, per sé o per la sua famiglia o per la comunità in cui vive.

Tuttavia, perché l’autoconsumo e il baratto funzionino in modo adeguato, occorre che tra produttore e acquirente non vi sia molta differenza di stile, di comportamento, di modus vivendi e, prima di tutto, occorre che esista, in maniera generalizzata, la proprietà collettiva dei principali mezzi produttivi.

La salma di Enrico De Pedis è stata cremata e le ceneri disperse in mare. Si conclude così il vergognoso e incivile accanimento contro un morto

Il cadavere di Enrico De Pedis è stato cremato e le sue ceneri sono state disperse in mare. Questo l’epilogo voluto dalla vedova Carla De Pedis dopo più di 22 anni di sepoltura nella basilica di S. Apollinare e polemiche ricorrenti a partire già dal 1995.

Un fratello di De Pedis, Luciano, avrebbe preferito la sepoltura a fianco alla tomba della madre, ma ha prevalso la scelta della signora Carla, troppo provata da anni di accuse e polemiche di tutti i tipi.

Come  è noto, l’ultima polemica è nata sette anni fa con la ormai famosa telefonata anonima fatta a “Chi l’ha visto?” da un bugiardo, il quale assicurava che per trovare la soluzione del mistero della scomparsa di Emanuela Orlandi, sparita il 22 giugno del 1983, bastava controllare cosa ci fosse nella bara di De Pedis.

Il controllo è stato infine fatto, e non solo in quella bara: su ordine del nuovo procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, sono stati messi a soqquadro con i martelli pneumatici non solo il minuscolo vano che ospitava i resti di De Pedis, ma anche l’intera cripta sotterranea della basilica e l’annesso cimitero antico con i resti di almeno 600 persone. Continua a leggere

Il virus della borghesia

La borghesia che si è sviluppata in Europa a partire dal Trecento (in Italia a partire dal Mille, con la nascita dei Comuni, che già nel Duecento erano così forti da impedire agli imperatori tedeschi di far valere i loro diritti feudali) in che cosa viene considerata “progressiva” dagli storici? Semplicemente nel fatto ch’essa riuscì a ottenere, attraverso il commercio e l’industria, ciò che prima poteva essere ottenuto solo attraverso la terra e le armi.

Ma davvero possiamo dire che la borghesia sostituì l’uso della rendita con quello del profitto? Davvero rimpiazzò l’uso delle armi per ottenere la terra con l’uso del denaro per ottenere ricchezze e prestigio? O non è piuttosto vero ch’essa si limitò ad abbinare uno stile di vita a un altro?

Davvero la borghesia può essere considerata una classe “rivoluzionaria”? Una cosa dovrebbe essere considerata “rivoluzionaria” quando elimina o sostituisce quella precedente, non quando le si affianca, limitandosi a ridurne il peso o il volume.

Per raggiungere il suo obiettivo, la borghesia, più che altro, s’è comportata con una buona dose di opportunismo e di cinismo; ha sapientemente dissimulato le proprie intenzioni; ha fatto dell’ambiguità un vero modello di comportamento. Ha saputo approfittare di tutte le contraddizioni della nobiltà e del clero cattolico, lacerati tra un idealismo astratto e un’immoralità concreta, soltanto per produrre nuove contraddizioni, strettamente legate all’uso dei capitali.

Davvero l’umanità aveva bisogno di vivere questa esperienza per emanciparsi dalla corruzione dei sovrani feudali? E’ stato davvero un “progresso” che una classe sociale potesse arrivare a un’analoga corruzione seguendo strade diverse da quelle percorse da chi l’aveva preceduta nella scala che porta al potere economico e politico?

Stando ai classici del socialismo scientifico, Marx ed Engels, sì, il percorso della borghesia era necessario per emanciparsi dal feudalesimo; stando invece al rivoluzionario Lenin, no: si poteva benissimo passare dal feudalesimo al socialismo democratico, saltando la transizione borghese.

Sono due posizioni completamente diverse, e oggi, alla luce del crollo del socialismo autoritario, dovremmo pensare che, in definitiva, avevano ragione Marx ed Engels.

Teoricamente, in realtà, aveva ragione Lenin, ma l’evoluzione del leninismo verso lo stalinismo ha dato ragione a Marx (e indirettamente a Trotski).

Lo stalinismo infatti è stato la testimonianza, in forme diverse da quelle del capitalismo occidentale, che lo stile di vita borghese può influenzare le masse più di quanto non si creda. Lo stalinismo è stato il tentativo d’impedire alla borghesia di svilupparsi autonomamente, utilizzando, nel fare questo, alcuni strumenti che la stessa borghesia s’era data per imporsi, e cioè lo Stato, le forze armate e di polizia, i servizi segreti, la burocrazia, l’ideologia politica, la parvenza del diritto, l’istruzione di massa, la scienza e la tecnica al servizio del potere, l’informazione manipolata ecc.

Nello stalinismo è mancata soltanto la possibilità che si sviluppasse una classe sociale particolare, frutto di un uso privatistico del denaro (che è poi quello che sta permettendo oggi il socialismo cinese).

Si sviluppò invece la figura del burocrate statale deresponsabilizzato e dell’intellettuale di partito spersonalizzato, ch’erano, nella sostanza, delle figure borghesi, dipendenti da questa tipologia di classe. La tradizione collettivistica, che s’era conservata nella decadenza del feudalesimo est-europeo, aveva ostacolato lo sviluppo della borghesia “economica”, ma non era riuscita a impedire lo sviluppo di quella “politica e amministrativa”.

Tuttavia i fatti hanno dimostrato che se si sviluppa una borghesia del genere, più intellettuale che imprenditoriale, diventa poi impossibile impedire che si sviluppi anche l’altra borghesia, che nell’Europa occidentale esiste da almeno un millennio.

La storia dunque cos’ha dimostrato? Semplicemente che, una volta nato, lo stile di vita borghese è come un virus che si propaga molto velocemente; che bisognerebbe eliminarlo con decisione appena lo si intercetta; che è un virus molto pericoloso, in quanto muta continuamente le sue sembianze; che è un virus in grado di vivere in maniera latente e inerte anche dopo averlo tenacemente combattuto, e che alla prima occasione può venire allo scoperto, cogliendo del tutto impreparato chi l’aveva combattuto.

Per tenere sotto controllo questo virus, impedendogli di svilupparsi e di diffondersi, ci vogliono alcune condizioni fondamentali, che non possono essere imposte dall’alto, poiché una qualunque imposizione fa il gioco del virus.

La prima condizione è che si accetti di vivere un’esperienza collettivistica basata sull’autoconsumo e sulla democrazia diretta. Non solo cioè ci si deve limitare a consumare ciò che effettivamente si produce in maniera autonoma, evitando che si formino delle categorie di persone che, col pretesto di amministrare le eccedenze, evitano di lavorare; ma bisogna anche che ogni decisione da prendere su come ottenere dalla terra i prodotti del nostro sostentamento, sia frutto di una comune volontà, senza interferenze da parte di forze esterne al collettivo.

Posto questo, occorre che si abbia piena consapevolezza che nei confronti della natura non si può avere un atteggiamento di sfruttamento. La natura va rispettata nelle sue esigenze riproduttive, che sono le stesse che permettono agli uomini di esistere. Qualunque cognizione scientifica o uso della tecnologia non può andare oltre un certo limite, perché al di là di questo esiste solo autodistruzione.

Ed ecco puntuale il tentativo – lanciato dall'”esperto” Alessandro Meluzzi – di minare con una balla clamorosa la mia credibilità di giornalista che si occupa da dieci anni della scomparsa di Emanuela Orlandi. Tentativo imprudentemente benedetto da Pietro, fratello di Emanuela

Che la scomparsa della bella sedicenne vaticana Emanuela Orlandi sia stata trasformata da tragedia privata, della sua famiglia che l’ha persa nel 1983, a show e ormai anche a farsa macabra, è cosa nota. Specie ai lettori di questo blog. Ed è ben noto che per tenere in piedi lo show non sono stati risparmiati i numeri e le invenzioni più indecorose, alle quali purtroppo si è arresa anche la magistratura con la devastazione dell’antico cimitero sotterraneo della basilica romana di S. Apollinare. Ormai però si va avanti solo ed esclusivamente a base di frottole e diffamazioni, ed eccetto rarissime eccezioni  non c’è giornale o programma televisivo che eviti di sporcarsi nel gioco al massacro altrui. Federica Sciarelli, conduttrice di “Chi l’ha visto?”, che sulle accuse anonime e false ha fatto la sua fortuna negli ultimi 7 anni, per poter continuare ad attirare i gonzi è arrivata ormai a sostenere sia pure indirettamente che la scuola di musica frequentata dalla ragazza vaticana fosse nella basilica di S. Apollinare! Una balla demenziale, utile solo a intorbidire ancor più le acque, visto che quella scuola musicale era al quarto piano del palazzo adiacente e con la basilica non ha mai avuto nulla a che spartire. E’ un po’ come dire che Federica Sciarelli conduce Porta a Porta…. o magari Report. Per dire certe cose ci vuole molto pelo sullo stomaco, oltre a una faccia di bronzo formato kolossal. Che comunque, per quanto kolossal, ha trovato volenterosi imitatori.

Venerdì scorso sono stato infatti avvertito che nel programma televisivo Quarto Grado, aspirante concorrente Mediaset di “Chi l’ha visto?” della Rai, il famoso e spesso esilarante “esperto in psichiatria” Alessandro Meluzzi mi ha tirato in ballo addebitandomi l’esatto contrario di quanto ho in realtà scritto nel mio libro “Emanuela Orlandi – La verità”, edito nel 2008. Ospite di Quarto Grado assieme a Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, e Meluzzi c’era infatti la signora Maria Antonietta Gregori, sorella delle ragazza romana Mirella Gregori scomparsa nel maggio dell’83, per l’esattezza tre settimane prima della Orlandi volatizzatasi la sera del 22 giugno di quello stesso anno. A un certo punto il discorso è caduto sul ritrovamento di un teschio avvenuto qualche anno fa, teschio che secondo Meluzzi doveva essere di Mirella. E quando la signora Maria Antonietta gli ha chiesto da dove avesse mai preso una tale affermazione, “l’esperto in psichiatria” ha bofonchiato: “In un libro di Nicotri”. Continua a leggere