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Quale futuro?

Secondo i classici del marxismo lo Stato va considerato come uno strumento provvisorio per vincere la resistenza di chi vuol continuare a vivere sfruttando il lavoro altrui, e che, per poterlo fare, è disposto a chiedere aiuto a forze esterne.
Secondo me però, una volta compiuta la rivoluzione o vinta la guerra civile, bisogna pensare subito a quali basi concrete porre in essere per smantellare lo Stato in maniera progressiva. Anzi, sul piano teorico bisogna pensarci prima, per non trovarsi impreparati dopo.
La nuova società civile dovrà assumersi la responsabilità di eliminare, in quanto pericoloso, il fardello che impedisce una vera liberazione sociale, un’autentica emancipazione delle masse popolari. Qualunque istituzione statale, fosse anche la più innocua o, in apparenza, la più utile, rappresenta una forma di espropriazione della libertà personale.
Le cose non funzionano delegandone la gestione a persone specifiche, ma assumendole in proprio, in tutte le loro sfaccettature. Cioè la responsabilità personale non può essere delegata, se non in maniera molto limitata, soprattutto nelle funzioni e nel tempo. Neanche la rivoluzione può essere delegata a un partito destinato a occupare le leve dello Stato.
Il centralismo va smantellato. “Centralismo democratico” diventa molto presto una contraddizione in termini. La società civile deve essere in grado di autogovernarsi e di autodifendersi. Lo Stato può servire solo nella fase iniziale, che inevitabilmente sarà quella più cruenta. Ma una volta che il nemico, interno o esterno, avrà capito con chi ha a che fare, bisognerà porre le condizioni favorevoli all’autogestione della società, che inevitabilmente dovrà basarsi sulla democrazia diretta.
Il perno attorno a cui deve ruotare l’edificazione del socialismo democratico è la comunità locale, padrona non solo di tutti i principali mezzi produttivi, ma anche della facoltà di gestirli in autonomia, senza dover sottostare a direttive che provengono dall’alto. Le infinite comunità locali devono essere lasciate libere di interagire tra loro, come meglio credono. Non può esistere un ente o un’istituzione che dall’esterno stabilisce i loro rapporti, regolamenta le loro leggi o dirime le loro controversie. Se queste controversie ci sono, gli stessi interessati devono pensare a come risolverle.

Il primo anno di vita del governo dei tecnici, cioè della famosa “società civile”.

E dunque venerdì prossimo, 16 novembre, il governo Monti compie un anno. L’entusiasmo con il quale venne accolto alla nascita si è spento. Al punto che nessuno vuole resti in carica dopo le prossime elezioni, che si terranno forse il 7 aprile dell’anno prossimo. A Mario Monti ogni tanto scappa detto “Se necessario sono disposto a restare”, ma nessuno raccoglie: un modo silenzioso per dire che necessario proprio no, non lo è più. Anche il presidente della Repubblica, quel Giorgio Napolitano che lo ha voluto insediare forzando un po’ la mano all’ortodossia istituzionale, non si spende più molto per lui. Ormai il premier docente di economia pare un meccanico che riparata l’auto in panne viene ringraziato dai padroni del veicolo in modo che sia ben chiaro che deve mollare il volante, e senza neppure dargli il tempo di rodare le riparazioni.

Monti ha detto – a Bruno Vespa – di “aver sottoposto il Paese a dosi di riforme mai viste in passato”. Sì, ma sono servite a risolvere i problemi per i quali era stato chiamato e di fatto imposto? Ha saputo riparare l’auto in modo che non vada rapidamente in panne di nuovo? Ai posteri – e agli elettori – l’ardua sentenza. Per ora, dopo un anno di vita, il governo dei tecnici somiglia molto a un insieme di volenterosi dilettanti più o meno allo sbaraglio. L’uscita dal guado, dalla crisi economica e finanziaria, dalla voragine del debito pubblico, dalla troppa disoccupazione non solo giovanile e dal pericolo di bancarotta nazionale, viene sempre data al condizionale: speranza certa, ma non ancora realizzata, traguardo possibile, quasi certo ma non certo, a portata di mano ma non ancora acchiappato con le mani. Verbi al condizionale o al futuro, con le stesse parole dei primi giorni di governo Monti. Intanto come al solito sono bastonati abbastanza cinicamente i meno fortunati e molto poco colpiti i privilegiati e gli arricchiti. Continua a leggere