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I buchi neri dell’Italia

Siamo sempre più convinti che se il socialismo burocratico ha avuto al proprio interno le forze sufficienti per ripensarsi globalmente, per rimettersi completamente in discussione, il capitalismo invece è ancora ben lontano da questa prospettiva; anzi, piuttosto che ripensarsi, è incline a scatenare guerre di conquista, crociate contro nemici esterni (gli ultimi sono i terroristi islamici, come se l’aggettivo “islamico” fosse ormai sinonimo di “terrorista”), ovviamente propagandando l’esigenza di esportare in tutto il mondo la cosiddetta “democrazia occidentale”, come al tempo dei romani si esportava il corpus del diritto.

La propaganda borghese è riuscita a farci odiare non solo le aberrazioni del socialismo (com’era giusto che fosse), ma anche qualunque idea di socialismo, persino quelle più umanistiche e democratiche, al punto che oggi non riusciamo a intravedere altra soluzione alle classiche contraddizioni del capitale (lo sfruttamento dell’uomo e della natura in nome del profitto) che non sia la mera rassegnazione, quella che poi si dirama in tanti rivoli destinati solo a peggiorare la situazione, come la frode, la corruzione, l’immoralità, gli eccessi dell’individualismo… Si pensa di poter sopravvivere generalizzando i metodi che un tempo appartenevano solo a una certa categoria di persone.

Da questo punto di vista si può dire che l’Italia sia un paese privo di un’identità precisa. Ci trasciniamo da troppo tempo problematiche irrisolte, come il rapporto neocoloniale tra nord e sud all’interno del nostro stesso paese, esito di una rivoluzione tradita, i cui obiettivi: unificazione nazionale, mercato unico, Stato centralista, hanno portato beneficio solo alle classi proprietarie, non certo a quella agricola o a quella operaia.

Se l’Europa di oggi, che è giovane rispetto alle nazioni che continuano ad opporle i privilegi acquisiti in secoli di dura lotta per l’egemonia, è destinata a ripercorrere, su scala più grande, il medesimo cammino delle nazioni, la prospettiva diventa inevitabilmente quella di vedere acuirsi le contraddizioni a livelli sempre più elevati e quindi quella di veder spostarsi verso un futuro molto incerto il compito delle loro soluzioni.

In Italia i nodi rimasti irrisolti sono ancora molti e, non essendo mai stata spezzata la linea di continuità tra liberalismo – fascismo – democrazia cristiana – polo delle libertà, si è di fatto impedito di far luce sui tanti misteri che circondano le azioni delittuose degli apparati dello Stato, partendo anzitutto dai suoi servizi segreti.

La stessa presenza anomala di uno Stato nello Stato, quello del Vaticano, sancita dalla Costituzione e ribadita dall’ultima revisione concordataria, ci tiene costantemente legati ai retaggi del fascismo.

Continua a prevalere nettamente nel nostro paese l’idea che sia meglio uno Stato centralista di uno federalista; parole come decentramento, autonomia regionale, autogoverno degli enti locali territoriali o vengono usate in maniera retorica, per dimostrare che sotto il capitalismo si può essere più democratici e più efficienti, o addirittura si temono, poiché si preferisce continuare a dirigere la cosa pubblica dall’alto e ad “assistere” chi sta in basso, oppure vengono usate come uno strumento per permettere al capitale d’essere più aggressivo e dispotico. Nessuno associa federalismo a socialismo.

Gli storici italiani non sono mai stati capaci di produrre un senso o una mentalità comune sull’interpretazione da dare all’Italia repubblicana. La sudditanza ai valori occidentali dell’americanismo (consumismo ad oltranza, anticomunismo viscerale ecc.) ha impedito di delineare una visione critica del dopoguerra.

Noi oggi non siamo neppure capaci di fare dei discorsi ecologisti o ambientalisti correlati a quelli economici per una transizione verso il socialismo democratico. Pretendere di migliorare i rapporti uomo-natura in un contesto in cui i rapporti interumani sono caratterizzati dallo sfruttamento più vergognoso, è semplicemente utopistico.

Con la svolta della perestrojka gorbacioviana si era per un momento creduto possibile realizzare il socialismo dal volto umano sulle rovine di quello statale, ma oggi la disillusione è grande. Abituati per 70 anni a obbedire, i popoli est-europei hanno atteso dall’alto, ancora una volta, la realizzazione della nuova sociètà, e invece è arrivato lo smantellamento di qualunque idea di socialismo, a tutto vantaggio del sistema economico oggi prevalente nel mondo.

Sicuramente è aumentata la secolarizzazione e la laicizzazione nella società civile e anche nelle istituzioni, ma laicizzazione di per sé non vuol dire umanizzazione. Se la laicizzazione s’identifica col materialismo volgare della società borghese, basata su profitto e consumismo, è facile ch’essa degeneri in disumanizzazione, e non a caso è su queste incoerenze che la religione trova linfa vitale per tornare alla ribalta.

L’esplosione di Internet degli anni Novanta, che ha fatto seguito a quella informatica degli anni Ottanta, ha catapultato nel protagonismo anarchico, spontaneistico, moltissime persone non legate a partiti, sindacati, movimenti della vita reale, e ha aiutato queste stesse realtà ad ampliare i consensi e le iniziative.

Ma Internet è una realtà relativamente fragile, che sta peraltro diventando sempre più costosa, la cui evoluta tecnologia può essere bersagliata da attacchi virulenti di molestatori che possono inibire o scoraggiare l’uso costante o progressivo della rete, anche perché, per potersi difendere dai loro attacchi, occorrono non poche competenze, che l’utente finale, spesso unico vero difensore di se stesso, non sempre è in grado di avere.

Sicuramente oggi si può affermare che il sociale sia, nella sensibilità delle gente, considerato più importante del politico; i movimenti, l’associazionismo, il no profit vengono considerati più coinvolgenti dei partiti e persino dei sindacati. Ma nonostante questo il loro peso istituzionale è alquanto risicato. Essi non hanno alcuna rappresentanza parlamentare che non sia mediata dagli stessi partiti, i quali, inevitabilmente, tendono a strumentalizzare ogni cosa per esigenze di puro potere. E questo significa che l’associazionismo deve materialmente contare solo sulle proprie forze.

La caduta delle ideologie può aver indotto una certa disillusione riguardo all’impegno politico. Oggi abbiamo una generazione molto informatizzata o tecnologizzata, ma praticamente analfabeta sul piano politico e con scarse cognizioni culturali. Tuttavia è un bene che oggi il concetto di “alternativa al sistema”, quando viene propagandato, si caratterizzi anche sul piano etico e non solo su quello politico. Non basta la piattaforma programmatica per dimostrare la propria diversità, occorre anche mostrare, da subito, che si è capaci di “umanità”, cioè di mettere in pratica i “valori umani” (quei valori p.es. che nessun partito politico seppe dimostrare in occasione del delitto Moro).

L’Italia non ha mai fatto i conti col suo passato. Siamo ancora troppo pieni di buchi neri. Non vogliamo affrontare i tradimenti degli ideali borghesi di democrazia e di libertà d’iniziativa per tutti semplicemente perché ciò c’indurrebbe a riprendere temi scomodi, quali appunto il socialismo, la cooperazione, il decentramento ecc. Il capitalismo non può sopportare le alternative che lo negano. E così oggi l’Italia si trova ad affrontare non un dibattito approfondito su quale tipologia di socialismo occorra adottare, ma una vexata quaestio circa la presunta superiorità del capitalismo su ogni altro sistema produttivo.

Discutiamo ancora di cose che Marx considerava superate 150 anni fa. Il capitalismo non ha futuro e non è il crollo del comunismo da caserma che può mettere in discussione questa realtà, già abbondantemente dimostrata dai classici del marxismo. Se partissimo dall’esigenza di trovare un’alternativa praticabile, smetteremmo di dire che non abbiamo un’identità nazionale, che gli storici peraltro, succubi come sono dell’anticomunismo imperante, non sono mai stati capaci di promuovere.

Noi ci sentiamo troppo debitori nei confronti degli Usa, non riusciamo a scrollarci di dosso miti come l’aiuto bellico contro i nazisti (risoltosi in un’occupazione dell’Italia per mezzo delle basi Nato), il generoso piano Marshall (che ci legò le mani economiche a quella che era diventata la potenza più forte del mondo), la superiorità tecnologica degli Stati Uniti (utilizzata prevalentemente per fini bellici) ecc. Tutti miti che andrebbero storicamente smontati.

Excursus politico (II)

2. Oltre la civiltà

Gli uomini devono poter dimostrare di essere se stessi a prescindere dai mezzi che usano. Cioè se i mezzi inducono gli uomini ad avere tra loro rapporti innaturali, in cui l’interesse privato prevale su quello collettivo, allora ci si dovrebbe chiedere se quegli stessi mezzi non siano da modificare o da sostituire con altri più adeguati all’esigenza di identità umana. Nessuno però può pretendere di soddisfare questa esigenza a danno di altri.

La moderna civiltà occidentale ha fatto della rivoluzione tecnico-scientifica la modalità principale dei rapporti interumani e dei rapporti tra uomini e natura. E ha usato questa rivoluzione per affermare su ogni cosa il primato del profitto capitalistico, della rendita finanziaria.

Da un lato quindi si è frapposto il macchinismo tra gli esseri umani e tra questi e la natura; dall’altro si è fatto del capitale l’unica vera ragione di vita. Macchinismo e capitale hanno marciato di pari passo, condizionandosi a vicenda, con la differenza che mentre uno si pone come fine, l’altro si pone come mezzo.

La civiltà basata su questo mezzo e su questo fine, di umano ha ben poco, anche se per potersi imporre in tutta la sua innaturalezza, essa ha avuto bisogno di dimostrare ch’era migliore di quella precedente. In tal senso tutte le civiltà sono frutto di progressivi inganni o di promesse non mantenute.

È come se il genere umano dovesse sperimentare tutte le forme di illusione sulla propria identità, prima di tornare a vivere quell’unica forma di esistenza in cui era se stesso, in un rapporto naturale con l’ambiente.

È sintomatico, in tal senso, che quanto più aumenta la decadenza di una civiltà, tanto più aumentano le “favole” con cui si cerca di tenerla in piedi. Il declino irreversibile, percepito come inevitabile, porta il sistema a dare di se stesso una rappresentazione mitologica, priva di riscontri reali.

La dicotomia tra istituzioni e società è netta e compito delle prime è appunto quello di imporre alle seconde le ideologie più subdole, più raffinate, al fine di celare i contrasti insanabili.

Le civiltà non vogliono morire di morte naturale, proprio perché la loro esistenza è stata, sin dall’inizio, basata sull’inganno e sulla violenza. Le civiltà hanno orrore della verità e sarebbero disposte a qualunque cosa pur di vederla negata. Ecco perché quand’esse sono in decadenza, le “favole” aumentano all’aumentare della consapevolezza della fine. Col concetto di “favola” occorre intendere qualunque cosa che svii l’attenzione delle masse dai veri motivi che stanno portando al crollo finale.

La storia ha conosciuto delle civiltà che si sono rassegnate al loro declino e, quando si sono scontrate con civiltà molto più forti di loro, non hanno opposto una resistenza convinta alle loro proprie contraddizioni. Hanno rinunciato a lottare contro il nemico esterno perché in realtà avevano rinunciato a lottare contro le contraddizioni interne, e la sconfitta è stata considerata come una sorta di “meritato castigo”. Questo atteggiamento è molto evidente p. es. nelle civiltà precolombiane, ma si tratta di poche eccezioni.

Nel mondo egizio le “favole” del potere altro non erano che il misticismo, il culto dell’oltretomba, l’edificazione monumentale dei santuari funebri, la magia, la divinazione, l’astrologia… Tutte cose che il mondo romano ha ereditato, trasformandole in senso materialistico, e aggiungendovi altri aspetti che la cultura egizia non conosceva: il culto del diritto, dello sport, dei festini, la lotta mortale tra i gladiatori, gli svaghi alle terme, sino alle feroci persecuzioni contro i cristiani, durate ben tre secoli.

Le civiltà in decadenza, cieche di fronte ai loro problemi di fondo, hanno bisogno di “favole” e quando queste non bastano, hanno bisogno di vittime sacrificali, una sorta di capro espiatorio che serve a celare il vero volto del potere e soprattutto della sua progressiva decadenza. In questi frangenti di desolazione, occorre pensare che la storia può essere a una svolta significativa e che occorre costruire da subito una transizione verso il diverso.

Ecco perché non c’è nulla che ci possa interessare del passato se non ciò che ci può servire a risolvere i problemi del presente, poiché è comunque nel presente che dobbiamo cercare la soluzione ai nostri problemi: il passato ci può servire come fonte d’ispirazione. Ormai il legame che ci univa alle generazioni passate è stato rotto per sempre dalla civiltà contemporanea, salvo sparute eccezioni che cercano di sopravvivere come possono.

Si potrà dunque parlare di “evoluzione” solo quando usciremo da questa fase involutiva che ci attanaglia da circa seimila anni. Questo significa che dobbiamo metterci a studiare lo stile di vita delle ultime popolazioni primitive rimaste sul nostro pianeta, perché esse sono le sole che ci possono indicare la strada (pacifica) per lo sviluppo futuro dell’umanità. Dobbiamo studiarle non come un reperto archeologico o socioantropologico, ma proprio come uno stile di vita in grado di assicurare una sopravvivenza al genere umano. Questo significa che dobbiamo recuperare le tradizioni tribali delle più antiche popolazioni africane, sudamericane e asiatiche.

Le cosiddette “civiltà” non sono ancora riuscite a dimostrare che il loro stile di vita è compatibile con le esigenze riproduttive della natura e con la necessità di una coesistenza pacifica tra i popoli. Noi dobbiamo tutelare tutto ciò che è anteriore a qualunque forma di civiltà.

È da almeno seimila anni che la storia è diventata un gigantesco mattatoio per la maggior parte della popolazione mondiale. Chi non è vittima, chi ha il privilegio di una morte non violenta, è perché svolge il ruolo del carnefice di turno, ne sia o no consapevole. La storia è storia di queste infinite violenze dell’essere umano su altri esseri umani.

Ecco perché dobbiamo “uscire dalla storia”, dobbiamo recuperare quella parte di storia in cui la violenza non esisteva, e questa parte non può essere che la preistoria, cioè l’infanzia dell’umanità. Si deve lottare per ripristinare le condizioni di vita preistoriche. Sarà un processo lunghissimo, poiché oggi tutto il pianeta soffre della violenza dell’uomo, ma è l’unico modo per poter sopravvivere.

Dovremmo anzitutto chiederci su quali aspetti della storia, che poi sono gli stessi della politica, dovremmo concentrare i nostri studi e le nostre attività, allo scopo di porre le condizioni di una transizione alla “post-storia”.

  1. I mezzi di produzione che ci assicurano il sostentamento, la riproduzione biologica, non possono essere di proprietà privata, ma devono essere socializzati e sottoposti a controllo pubblico, collettivo.
  2. La gestione politica del bene comune deve sottostare alle regole della democrazia diretta, quella per cui il popolo si autogoverna. Qualunque forma di rappresentanza delegata deve basarsi sul principio della revocabilità immediata in caso di inadempienza.
  3. Nel rapporto con l’ambiente deve valere il principio secondo cui l’uomo è parte della natura, sicché non saranno ammesse forme di sviluppo tecnico-scientifico incompatibili con le esigenze riproduttive della natura. Una generazione non può far pagare a quella successiva i costi del proprio benessere.
  4. L’uguaglianza dei diritti va abolita, perché chi ha più bisogno deve avere più diritti.
  5. I mezzi di comunicazione devono appartenere al popolo, cioè a chi ha qualcosa da comunicare e non tanto a chi ha i mezzi per farlo.
  6. La conoscenza deve servire, da subito, ad assicurare le condizioni di vita abituali ed eventualmente a migliorarle, nel rispetto degli standard consolidati e comunque a condizione che tutti possano equamente beneficiarne.
  7. Va abolito qualunque confine di tipo territoriale.
  8. Vanno valorizzate le abilità e le specificità locali.

Excursus politico (I)

Queste due brevi riflessioni: “A cosa serve la storia?” e “Oltre la civiltà” hanno lo scopo di mettere in discussione uno dei pilastri fondamentali dell’istituzione scolastica in generale, quello secondo cui un docente, in classe, non può fare politica. In tal senso la loro lettura, ai fini della comprensione di una metodologia della ricerca storica, in riferimento a una ridefinizione del concetto di “competenze storiche” in ambito scolastico, resta del tutto facoltativa.

Si badi però: qui non si vuole affatto desacralizzare il principio secondo cui un docente non può in alcun modo utilizzare la propria classe per fare propaganda di questo o quel partito, e nemmeno di questa o quella corrente di pensiero o ideologia politica, benché l’insegnante sia tenuto a rispettare scrupolosamente il dettato costituzionale, facendo quindi, in qualche modo, “politica”.

Tuttavia, poiché noi non siamo degli automi privi di anima e poiché ci viene chiesto d’essere fautori della democrazia e del pluralismo, si vuole qui tentare di delineare un modello di impegno politico in ambito scolastico, che sia coerente col modello culturale proposto nello studio della storia come disciplina.

Nella nostra esposizione abbiamo più volte detto che ha ben poco senso parlare del passato senza alcun riferimento al presente. Ebbene, in che modo un insegnante di storia può parlare del proprio presente, lasciando i propri allievi liberi di credere nelle sue parole? In che modo un docente può fare politica in classe senza rischiare d’essere accusato di plagiare le menti?

La Raccomandazione n. 1283, del 1996, dell’assemblea parlamentare europea, relativa all’apprendimento della storia nel nostro continente, afferma testualmente: “La storia ha anche un ruolo politico nell’Europa odierna. Senza di essa l’individuo è più vulnerabile, soggetto alla manipolazione politica o altro. Quasi tutti i sistemi politici hanno utilizzato la storia per servire i propri interessi e hanno imposto la loro versione dei fatti storici, come anche la definizione di buoni e cattivi nella storia. È importante che la storia proceda di pari passo col presente”.

1. A cosa serve la storia?

La storia non serve a niente se non ci indica un sistema di vita per il presente. È pura erudizione e, come tale, va bene per i cattedratici, non per la gente comune, che ha bisogno di proposte concrete, che non sono un di meno rispetto alle speculazioni teoriche, ma semmai un di più, proprio perché hanno l’onere della verifica pratica, e non restano astratte dall’inizio alla fine, come appunto le teorie.

Si badi tuttavia: la concretezza di per sé non rende più importante la storia contemporanea rispetto a tutte le altre storie. Non è detto infatti che nella storia contemporanea si abbiano più probabilità di trovare un sistema di vita a misura d’uomo e conforme a leggi di natura.

Anzi guardando le cose dappresso, parrebbe proprio il contrario, e cioè che il mondo contemporaneo, dominato dal capitalismo americano, nipponico ed euroccidentale (cui oggi si sta aggiungendo quello cinese, indiano e del sud-est asiatico), sia lontanissimo dall’aiutarci a trovare un’adeguata soluzione ai nostri problemi di sopravvivenza.

Sotto questo aspetto tutta la storia può essere utile, anche quella degli uomini primitivi, anzi questa forse più di ogni altra. Noi non possiamo recuperare nulla di tutto quanto s’è formato e sviluppato prima della nascita delle cosiddette “civiltà”, utilizzando gli stessi strumenti che l’odierna civiltà ci offre. Per poterlo fare noi dobbiamo uscire non solo dal “concetto” di civiltà, ma anche dalla sua stessa modalità di vita, dalla sua “prassi”.

Uscire dalla “prassi” della civiltà implica già un rifiuto della separazione consolidata tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Non si può uscire dalla civiltà in maniera “intellettuale”, limitandosi a criticarla. Se ne può uscire solo ponendo delle alternative concrete, praticabili, al suo modo di essere. Queste alternative devono essere razionali, conformi a leggi di natura, universalmente valide, cioè alla portata di tutti.

La prima regola fondamentale per uscire dalla civiltà è quella di ridurre al minimo la dipendenza da fattori artificiali che condizionano la nostra riproducibilità. L’uomo e la donna sono esseri di natura: la loro esistenza dovrebbe essere unicamente legata ai processi di sviluppo della natura. Se la natura viene ostacolata nei suoi processi riproduttivi da quanto di artificiale gli uomini pongono fra loro e la stessa natura, non si supererà mai il concetto e la prassi di civiltà.

Lo sviluppo della tecnologia, in tal senso, deve essere compatibile coi processi riproduttivi della natura. Purtroppo oggi l’influenza del concetto di civiltà sull’intero pianeta è così grande che pare impossibile ritagliarsi uno spazio in cui poter sperimentare in maniera autonoma un’alternativa sociale e naturale.

Tutte le civiltà della storia hanno posto le proprie fondamenta su aspetti antisociali e innaturali, la cui essenza artificiale risulta assolutamente preponderante nel sistema di vita, nelle relazioni sociali e nei rapporti tra uomo e natura. Non dobbiamo infatti pensare che il concetto di “macchinismo” sia applicabile solo alla rivoluzione industriale del sistema capitalistico. “Macchinismo” in senso traslato o figurato è un concetto che si applica là dove esiste un rapporto di sfruttamento unilaterale dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.

Persino là dove s’impone il semplice concetto di “forza fisica” (come p.es. nei rapporti tra uomo e donna), lì si può costatare la presenza di qualcosa di artificiale, di non naturale.

È vero, le prime civiltà non hanno conosciuto l’industrializzazione, come la conosciamo oggi, però hanno sperimentato molte rivoluzioni nell’uso dei metalli e nell’uso della pietra per costruzioni imponenti, attraverso le quali far valere un rapporto di subordinazione tra gli uomini e tra questi e la natura.

Gli effetti devastanti di queste civiltà sono visibili nelle progressive desertificazioni del pianeta. Quanto più si sviluppano le civiltà, tanto più viene devastata la natura e quindi tanto più le stesse civiltà si autodistruggono, poiché il rapporto con la natura è imprescindibile all’essere umano.

Come difendersi dalle civiltà che, vivendo rapporti antagonistici al proprio interno, inevitabilmente sono costrette a scaricare il peso delle loro contraddizioni all’esterno, saccheggiando risorse umane e naturali ovunque esse siano? Qui è evidente che non basta pensare di potersi ritagliare uno spazio vitale in cui esercitare le proprie esperienze alternative. Occorre anche elaborare dei meccanismi concreti di autodifesa, che impediscano alle civiltà di prevaricare impunemente.

Il vero peccato originale dell’umanità è stata la pretesa di poter decidere il proprio destino indipendentemente dalle esigenze e dalle leggi della natura. Forse è per questo motivo che tutti i tentativi a favore dei principi di umanità, che nella storia sono stati compiuti, una volta affermati sono stati negati subito dopo. È come se la storia si fosse incaricata di dimostrare che dopo la fine del comunismo primitivo non è più possibile un’altra esperienza di libertà.

Ripensamenti semantici

Inutile dire che un qualunque lavoro di ricerca storica implica un preliminare lavoro di ricomprensione semantica delle parole che usiamo. Bisogna chiarirsi sul significato di ciò che diciamo, anche se spesso ciò avviene soltanto alla fine di un determinato percorso didattico-culturale. Anche qui possiamo proporre sette piccoli esempi.

  1. Rivoluzione culturale. Si dice che la nascita delle civiltà abbia comportato una “rivoluzione culturale”. Tuttavia, se intendiamo il concetto di “cultura” nella sua accezione più generica, quale espressione di un’esperienza di popolo, si dovrebbe parlare, per quanto riguarda le civiltà basate sulle differenze di classe, di “involuzione culturale”.
    Oggi sarebbe più opportuno affermare che le popolazioni più “civili” sono in realtà quelle che hanno conservato un rapporto equilibrato con la natura; quelle che hanno conservato un rapporto democratico ed egualitario al loro interno e con le popolazioni limitrofe; quelle, in sostanza, che hanno rifiutato di compiere una rottura storica con se stesse non per insufficienza di mezzi o di ingegno, ma proprio per una volontà democratica di restare fedeli al proprio passato.
  2. Progresso storico. Si dice che lo sviluppo delle civiltà sia stato una forma di “progresso storico”. In realtà il nostro concetto di “progresso” risulta fortemente influenzato da un determinato stile di vista che si basa prevalentemente su indici quantitativi di produzione e di consumo di beni materiali. Si pensa che gli indici di qualità della vita debbano discendere, come conseguenza automatica, da quelli quantitativi, dei quali il più importante è il prodotto interno lordo.
    È sbagliato considerare “primitive” quelle popolazioni che non hanno conosciuto alti livelli di tecnologia, forti divisioni del lavoro e via dicendo.
    Peraltro è ampiamente documentato che in occasioni di cataclismi naturali o di disintegrazioni politico-economiche (ad Harappa in India, nel 1700 a.C., scomparvero persino le forme della scrittura), sono non i sistemi organizzati delle civiltà antagonistiche a riprendersi più in fretta, ma proprio le comunità piccole, relativamente autosufficienti.
  3. Interpretazione storica. Noi interpretiamo il passato sulla base del presente e si dice che questa operazione sia inevitabile. Tuttavia, un’interpretazione adeguata della qualità di vita delle civiltà pre-schiavistiche è per noi oggi praticamente impossibile, in quanto i modelli di confronto sono stati quasi ovunque distrutti dalla nostra civiltà planetaria. È in tal senso sintomatico che una civiltà “superiore” come la nostra non riesca a tollerare alcun altro modello di civiltà che pretenda una propria autonomia di sviluppo.
  4. Civiltà e Barbarie. Per gli storici occidentali se una civiltà viene distrutta da una seconda civiltà che non riesce a conservare e sviluppare ulteriormente le migliori conquiste della precedente, la seconda viene considerata inevitabilmente come “barbara” (p.es. tutta la transizione dall’impero romano ai regni barbarici viene interpretata in questo senso). Cioè il criterio per definire “civile” una “civiltà” non è tanto il tasso di umanità ch’essa è riuscita a esprimere, quanto il livello tecnologico, scientifico, di organizzazione statale, di sviluppo commerciale, di divisione del lavoro ecc. che è riuscita a realizzare.
  5. Civiltà e schiavismo. Lo sfruttamento del lavoro altrui, la situazione schiavile o servile della maggioranza della popolazione di una civiltà antagonistica non possono essere considerati come elementi sociali marginali, secondari, paralleli a tutto il resto, come se fossero soltanto un limite di quei tempi, oggi impensabile. Cioè non è possibile soprassedere a queste forme di mancanza di libertà in nome di un’idea di progresso tecnologico o di resa produttiva o di altri indici quantitativi (p.es. l’estensione di un territorio o dei traffici commerciali), che di per sé non aiutano minimamente a capire il livello di qualità della vita in generale di una determinata regione o località.
    È illusorio pensare che le grandezze monumentali di una civiltà siano un indice sicuro del benessere sociale delle popolazioni che le hanno edificate. Ancora oggi ci meravigliamo che in virtù di utensili molto primitivi, almeno rispetto ai nostri, le antiche civiltà abbiano potuto costruire dei monumenti che non stentiamo a paragonare ai nostri grattacieli. E non ci rendiamo conto che al centro del lavoro non vi erano solo gli ingegneri e gli architetti, ma anche gli artigiani, gli operai, gli stessi agricoltori, che sicuramente vivevano in condizioni di grande precarietà.
  6. La necessità storica. Il marxismo, ragionando con la categoria hegeliana della “necessità storica” si è trovato ad essere molto limitato nell’interpretazione della transizione dal comunismo primitivo alle civiltà antagonistiche. Infatti, se il passaggio era “necessario”, a prescindere dai prezzi che si sono storicamente pagati, il discorso è già chiuso, e quando si dice che il futuro socialismo democratico sarà un ritorno al comunismo primitivo in altre forme – quelle della rivoluzione industriale – si dice una cosa su cui sarebbe bene avere molti dubbi. Come d’altronde bisognerebbe avere molti dubbi sulla inevitabilità del passaggio dal capitalismo al socialismo.
    In nome della categoria della “necessità storica” noi rischiamo: 1. di non avere alcun passaggio, in quanto le distruzioni causate dal capitalismo non ce ne daranno il tempo; 2. di non avere il passaggio desiderato, poiché il socialismo rischierà di ereditare anche gli aspetti negativi del capitalismo, proprio come fino a ieri è stato fatto nelle esperienze del cosiddetto “socialismo reale” e come oggi si sta facendo in Cina.
  7. L’idea di surplus. In virtù della categoria della “necessità storica” il marxismo s’era preoccupato di cercare delle alternative, più che sulle forme di realizzo dell’eccedenza produttiva (la cosiddetta sovrapproduzione che permette lo sviluppo di una civiltà), sulle forme di redistribuzione sociale di questa eccedenza, al fine di evitare che la sovrapproduzione si ritorcesse contro gli interessi della collettività. A questa corrente di pensiero, che era anche una storiografia, interessava non tanto negare la necessità di proseguire lo sviluppo industriale e tecnologico, quanto di assicurare la giustizia sociale.
    Questa impostazione del problema oggi non regge più, proprio perché va messa in discussione l’idea stessa di surplus. Indicativamente si può dire ch’esso non dovrebbe mai appartenere a una singola famiglia, o classe, o tribù o clan ma a tutta la collettività, e le quantità di questo surplus, nonché la sua distribuzione, secondo esigenze obiettive e conformi a quelle riproduttive della natura, andrebbero decise in maniera democratica dalla stessa collettività che ne fruisce. Questo implica un’importanza decrescente degli organi statali.

Le leggi della storia

Le leggi che gli uomini hanno creduto di poter individuare nei processi storici sono così tante che solo per esse ci vorrebbe una trattazione a parte. Basti pensare a quanti dibattiti suscitò quella marxista relativa all’adeguamento dei rapporti produttivi alle forze produttive, o a quella hegeliana relativa all’ironia della storia, che poi riprendeva, in chiave laica, quella cristiana sul ruolo storico della provvidenza divina. Qui si può soltanto accennarne qualcuna, nella consapevolezza dell’assoluta provvisorietà dell’argomentazione.

1. Sociale, culturale e politico

Una qualunque storia degli avvenimenti di una determinata popolazione deve suddividersi in tre campi d’indagine: sociale, culturale e politico.

Il campo sociale include tutto quanto riguarda la vita collettiva che non riflette su se stessa o non avverte il bisogno di farlo, in quanto agisce spontaneamente, in maniera naturale, seguendo le tradizioni e i valori consueti, dominanti. In questo campo va inclusa l’economia, l’ecologia ecc.

Il campo culturale invece è la riflessione che si fa sul sociale (specie quando questo tende a modificarsi, a evolversi): una riflessione che per molti secoli è stata di tipo religioso. È il luogo del ripensamento degli stili di vita, del significato dei valori, del confronto delle idee, ecc.

Il campo politico è quello delle decisioni collettive. Generalmente la politica è il luogo delle discussioni che devono approdare a una decisione comune, vincolante per tutti, che generalmente viene presa dopo che sui mutamenti sociali gli intellettuali hanno riflettuto criticamente. Nelle civiltà antagonistiche la politica necessariamente riflette la natura dei conflitti di ceto o di classe, per i quali si cerca una qualche mediazione.

Questi tre campi non possono mai essere tenuti disgiunti dallo storico, poiché l’uno presuppone l’altro ed essi si influenzano reciprocamente.

Quando ci si basa solo sul sociale si finisce col vivere la vita in maniera istintiva, ripetitiva, vicina al mondo degli animali. Qui la storia è cieca.

Quando si fa troppa cultura si rischia di cadere nell’astrazione, di confondere i desideri con la realtà, di vendere fumo. Qui la storia diventa illusoria.

Quando si vive solo di politica si ragiona in termini esclusivamente di potere, di schieramento, di rapporti di forza e si finisce col realizzare forme inumane d’esistenza. Qui la storia diventa violenta.

2. Dolore e sofferenza nella storia

In una considerazione storica non ha alcun senso affermare che il dolore e la sofferenza siano una cosa “inevitabile” per determinate categorie sociali o addirittura per intere popolazioni. Uno storico non può credere che un qualche destino assegni, per un periodo di tempo che non si può sapere in anticipo, il compito di “soffrire” ad alcune popolazioni o classi sociali, per il “bene” del genere umano, globalmente considerato. Questo significa fare del cinismo.

Dolore e sofferenza sono un “obbligo” fintantoché vengono subìti passivamente, cioè fino a quando non ci si sa riscattare da un’oppressione che avvilisce. Nella storia bisogna saper cercare il filo che unisce le varie forme dell’autoemancipazione umana dalla sofferenza ingiusta.

La storia delle civiltà umane non è altro, in realtà, che la storia delle diverse forme di “inciviltà” e della lotta contro queste forme. È una storia in cui l’incapacità di superare la forma dell’antagonismo individualistico ha fatto sì che questo si manifestasse in forme sempre più perfette ed esasperate. Una “parziale” resistenza all’individualismo permette soltanto che quest’ultimo si rafforzi ulteriormente, assumendo nuove forme.

Si potrebbe anzi dire che le contraddizioni dei sistemi basati sull’antagonismo sociale tendono progressivamente ad acuirsi, al punto che se non s’interviene in tempo, affrontandole secondo i criteri della democrazia, inevitabilmente la risposta individualistica a quelle contraddizioni proporrà soluzioni ancora più negative: le istituzioni economiche diverranno sempre più fraudolente e quelle politiche sempre più autoritarie. La corruzione si farà “sistema”.

Ciò di cui si è sicuri è che all’individualismo gli uomini non riescono a rassegnarsi, in quanto la loro natura è votata alla socializzazione. Ma non si può essere sicuri che in questa lotta trionferà il collettivismo libero, poiché l’esito della vittoria dipende dalla volontà degli uomini, dal livello di consapevolezza che hanno, dalla libertà di cui vogliono disporre.

Di certo l’esito finale della lotta potrà essere davvero vincente soltanto se costituirà un ritorno alla condizione umana pre-individualistica, un ritorno caratterizzato dalla consapevolezza dei limiti strutturali dell’antagonismo sociale.

3. L’umanità dell’uomo

È difficile pensare che nel passato sia esistito qualcosa la cui dimenticanza oggi ci impedisce di diventare veramente umani. L’umanità dell’uomo è intrinseca all’uomo stesso: la perdita della memoria che ne possiamo avere non implica automaticamente quella del suo desiderio. Il desiderio possiede una memoria inconscia, che la memoria non conosce.

L’unica difficoltà sta nel recupero di questa memoria: quanto meno forte è stata la dimenticanza, tanto meno forte dovrebbe essere il desiderio di recuperare la memoria. E viceversa: quanto più forte la dimenticanza, tanto più forte deve essere il desiderio.

Tuttavia, questi processi non sono mai automatici, poiché insieme alla memoria e al desiderio vi è anche l’interesse di chi vuol conservare la dimenticanza e alimentare falsi desideri. L’opposizione alla memoria e al desiderio fa parte del gioco della libertà, per quanto la vera libertà non stia nella possibilità di scelta – come generalmente si crede – ma nell’esperienza del valore umano. La libertà di scelta non è in realtà che libero arbitrio, cioè la premessa non la sostanza della libertà.

In occidente la libertà è così poco vissuta – come esperienza del valore (il bene) – che si è stati costretti a farla coincidere, stricto sensu, con la facoltà del libero arbitrio. L’uomo occidentale si sente libero soltanto quando sceglie, cioè solo nel momento in cui crede di poter fare una scelta tra un’opzione e l’altra (cosa p.es. che si verifica quando si va a votare), ma poi l’esperienza di libertà che si è indotti a vivere, di “umano”, di “civile”, di “democratico” spesso ha assai ben poco.

4. Cinque tappe storiche

Tutte le popolazioni esistite nella storia, che per secoli hanno vissuto determinate condizioni socio-culturali, vanno considerate come appartenenti al genere umano.

Ovviamente non nel senso che una popolazione rappresenta i “piedi” del genere umano e un’altra il “cervello” o il “cuore”. Questo sarebbe fare del razzismo. Piuttosto nel senso che ogni popolazione rappresenta un momento particolare del genere umano, ed anche, di conseguenza, un aspetto particolare in cui esso è stato e viene ancora oggi rappresentato. Il “momento” si riferisce al tempo storico, l’“aspetto” si riferisce alla modalità con cui una popolazione ha vissuto nel proprio “spazio” quel particolare momento.

Bisogna infatti che lo storico sappia cogliere, nell’evoluzione storica del genere umano, le varie tappe del suo sviluppo (i diversi momenti storici), chiaramente distinguibili le une dalle altre. Le famose cinque tappe storiche, proposte dal socialismo scientifico, che oggi si accettano solo fino a un certo punto: comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, socialismo, non sono state vissute contemporaneamente da tutte le popolazioni umane: alcune addirittura sono passate da una all’altra tappa, saltando quella di mezzo.

Esiste nella storia una discontinuità (dovuta alla facoltà della libertà umana) da cui non si può prescindere. Se una popolazione è limitata nel suo sviluppo democratico, ciò non può esserle imputato più di quanto non possa esserlo a tutte le altre popolazioni, che non hanno saputo realizzare lo sviluppo uniforme, continuo, del genere umano verso la democrazia. I torti non stanno mai da una sola parte.

Occorre anche che lo storico sappia distinguere i vari aspetti socio-culturali che hanno caratterizzato l’organizzazione delle diverse popolazioni. Sulla base di questi aspetti è possibile verificare se la tappa evolutiva è stata vissuta in modo adeguato, conforme alle leggi dell’evoluzione storica del genere umano. Se cioè la popolazione ha saputo lottare efficacemente contro le contraddizioni della sua epoca, acquisendo una consapevolezza matura dei rapporti umani e democratici, conformi alle esigenze della natura.

A proposito delle cinque tappe storiche di cui più sopra di parlava, bisogna dire che nel nostro paese, specie in ambito scolastico, chiunque faccia storiografia si vergogna di attribuire la propria metodologia ai classici del marxismo, che pur hanno inventato la storia socio-economica e che sarebbero impensabili senza riferimenti espliciti a tutta la cultura borghese europea.

È raro infatti vedere un quadro comparativo in cui vengono messe a confronto le cinque formazioni sociali individuate dal socialismo scientifico: si teme che questa sinossi, pur agevolando un approccio olistico alla storia mondiale, si caratterizzi in maniera ideologica, spostando marcatamente il baricentro della storiografia verso “sinistra”, o comunque contaminando con opzioni di tipo politico un discorso che invece deve restare rigorosamente culturale.

Sicché si preferisce utilizzare solo astrattamente alcuni elementi interpretativi dei fenomeni storici, evitando di metterli in relazione alla necessità di considerare categorie come “occidente”, “capitalismo”, “democrazia borghese”, “Stato nazionale” ecc., destinate ad essere superate dalla storia.

In tal modo però, invece di integrare la concezione materialistica della storia con l’apporto di nuovi elementi umanistici, arricchendola nella sua valenza interpretativa, cioè invece di mettere in risalto non solo il momento economico della “necessità storica” ma anche quello culturale della “libertà umana”, si finisce con l’abbandonare quella concezione a se stessa, limitandosi a offrire un approccio metodologico troppo asettico e privo di prospettive.

P.es. quello che del marxismo andava sicuramente superato non era tanto l’analisi di come le cose sono oggettivamente andate dal feudalesimo al capitalismo, quanto piuttosto la mancanza di un’ipotesi argomentativa, quella di prevedere come le cose sarebbero potute andare senza considerare il capitalismo l’unica alternativa possibile al feudalesimo.

Spiace veder gli storici aver paura di essere troppo “storici”, anche perché, quando preferiscono riservarsi un certo margine di superficialità, se non di ambiguità, al fine di soddisfare i pregiudizi della cultura dominante e sentirsi così più liberi (illusoriamente) di procedere nelle loro ricerche, spesso rischiano, proprio a causa di questa pigrizia intellettuale, di trasformare le loro ricerche in semplici varianti di tesi ampiamente consolidate.

5. Istituzioni e masse

Una delle leggi fondamentali della storia è la seguente: quanto più le istituzioni pretendono di condizionare con la forza poliziesca o militare le masse, tanto meno vi riescono. Cioè i momenti più favorevoli alla coazione sono quelli in cui si usa il condizionamento con strumenti non esplicitamente basati sulla forza “fisica”.

Perché la repubblica romana durò più dell’impero? Perché la chiesa romana ebbe più consensi popolari nell’alto Medioevo che non nel basso? Il motivo è molto semplice: il principio della “forza” era stemperato da istanze democraticistiche (il senato a Roma, le comunità di villaggio nel Medioevo).

In altre parole, il potere che vuole diventare dispotico, in un primo momento, usa la finzione della partecipazione popolare (o comunque deve in qualche modo tener conto di questa realtà). Successivamente, quanto più aumenta l’autoritarismo (potere politico + privilegi economici), tanto meno le istituzioni si sentono indotte a ricorrere alla mistificazione del consenso popolare. Proprio questa convinzione le induce a credere di poter usare la violenza in maniera esplicita e diretta. Ma le masse non amano essere angariate senza neppur avere l’illusione di non esserlo sino in fondo. Di qui la resistenza popolare.

All’arbitrio e alla corruzione presente a livello istituzionale le masse rispondono generalmente in tre modi: con la rivoluzione politica, che impone, soprattutto nella fase iniziale, una svolta positiva nei valori e negli stili di vita (rivoluzione francese, russa ecc.); con la criminalità organizzata, che sfrutta il malcontento per la corruzione istituzionale per affermarne una di tipo territoriale, gestita da poche persone senza scrupoli (mafie di ogni genere); con una reazione di protesta alla corruzione delle autorità, apparentemente in nome di una maggiore democraticità dei rapporti umani, di fatto invece per allargare questa forma di corruzione a livello di tutta la società (l’esempio classico è quello della riforma protestante, dove alla corruzione politica del papato si rispose con quella economica dell’affarismo borghese).

Naturalmente tra i due modi di fare politica, quello delle istituzioni e quello delle masse, lo storico deve privilegiare quello di coloro che hanno cercato di promuovere rapporti sociali democratici e non può accordare troppo spazio, come invece purtroppo fa, alla storia dei poteri dominanti.

6. Le occasioni perdute

Quando, di fronte ai soprusi istituzionali, le masse tentano una forma di opposizione che non sanno gestire sino in fondo, si parla di “occasioni perdute”.

Spesso, in questa debolezza organizzativa e decisionale, le maggiori responsabilità ricadono non tanto sulle masse, che si muovono il più delle volte in modo spontaneo, bensì sui loro dirigenti, che rappresentano invece l’avanguardia più consapevole.

Ebbene, qui la storia parla chiaro: quando le occasioni si ripresentano, vengono sempre meno sfruttate, proprio perché, nel frattempo, il potere istituzionale ha saputo prendere le contromisure. Ogni occasione perduta comporta che all’occasione successiva l’opposizione popolare dovrà pagare un prezzo molto più alto per riuscire ad avere la meglio.

I tempi della storia tra memoria e desiderio

Il modo che hanno gli storici di considerare il passato come qualcosa di tanto più “remoto” quanto più è “lontano” e quindi come qualcosa di concluso in sé, in maniera oggettiva e irripetibile, è un modo di presentare e interpretare le cose che riflette il nostro tempo, proiettato verso il futuro (anche se oggi, in verità, le insicurezze riducono di molto gli entusiasmi), ma non si può dire sia un modo naturale di concepire l’esistenza e il fluire del tempo. Basterebbe leggersi i testi di Rigoberta Menchù per convincersene.

Negli stessi vangeli le genealogie vennero scritte proprio per far capire, anche a costo d’inventarsi ascendenze mai esistite, che sarebbe stato molto onorevole per un messia avere come avi Davide e Salomone, pur essendo essi vissuti mille anni prima. Non sono stati forse gli ebrei che un giorno risposero al Cristo: “Non siamo schiavi di nessuno, abbiamo Abramo per padre”(Gv 8,33)? Per dimostrare la purezza delle loro origini chiamavano in causa un personaggio esistito 1800 anni prima, le cui vicende erano più che altro avvolte nel mito. Ma se andiamo tra gli indiani nordamericani o tra i cinesi confuciani, giusto per fare altri esempi, la preoccupazione di tutelare un’origine ancestrale era ed è la medesima, al punto che si avvertivano più vicini i defunti più lontani, proprio perché venivano considerati più autentici, più genuini, più prossimi alla verità delle cose.

Non solo, ma resta anche del tutto astratta, nozionistica, per non dire ideologicamente viziata, l’impostazione dei manuali di storia che, volendoci far capire che il nostro presente è la summa summarum del concetto di “civiltà”, illustrano una linea del tempo in cui il passato viene visto in uno specchio deformante.

In questo gli storici sono perfettamente in linea con quanto si è iniziato a fare a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento (in Italia dal Mille, salvo il ripensamento in extremis, ma tardivo, della Controriforma): quello di imporsi con forza negando valore alle tradizioni, alla memoria storica. Si è puntato tutto sul dubbio cartesiano, sulla ragione illuministica, sull’istanza di rinnovamento borghese, sulla fine degli usi e costumi del mondo contadino (in nome di una critica, peraltro giustificata, dell’autoritarismo ecclesiastico e dello strapotere nobiliare), sull’affermazione dell’idea di progresso indefinito, di sviluppo tecnologico ed economico inarrestabile… Il passato è diventato morto semplicemente perché è stato ucciso, buttando dalla finestra l’acqua sporca col bambino dentro.

Così oggi non abbiamo più memoria di quel che eravamo, camminiamo nelle nostre città superaffollate come epigoni dello smemorato di Collegno. Il passato per la prima volta, con la civiltà borghese, è diventato “remoto” e ha smesso di scorrere nelle vene del presente. Non ce lo portiamo più con noi, nel nostro bagaglio di esperienze e conoscenze acquisite, se non, al massimo, come nostalgia di un mondo irrimediabilmente perduto.

Abbiamo finito con lo stravolgere anche le caratteristiche del nostro desiderio, che sono diventate molto più individualistiche, settarie. Noi viviamo per realizzare un semplice desiderio di soddisfazione personale. Non c’è più coincidenza tra desiderio personale e desiderio collettivo, proprio perché non c’è più da salvaguardare una memoria comune.

Nel nostro cervello la memoria è scomparsa, forse si conserva in qualche angolo recondito dell’inconscio: quella che abbiamo è a breve termine, e il desiderio che le è correlato l’abbiamo ridotto alla mera necessità di sopravvivere in una società ove dominano i rapporti di forza, lo scontro tra egoismi particolari.

Ecco perché per noi è diventato impossibile tentare di comprendere qualcosa del passato dall’alto del nostro presente. Per poter essere minimamente capito, il passato andrebbe studiato come se fosse un presente, cioè andrebbe in un certo senso rivissuto, e non tanto nelle forme esteriori della vita prosaica, quanto proprio nella sostanza delle contraddizioni di fondo, che sono poi quelle che hanno portato gli uomini a compiere determinate scelte.

Occorre capire la centralità dei problemi, il modo come l’uomo si è posto di fronte ad essi, le scelte operate per risolverli e i nuovi problemi che queste scelte hanno generato, nella consapevolezza che l’evoluzione dell’uomo non procede in linea retta, ma a sbalzi, a zigzag, facendo spesso un passo avanti e due indietro.

Indicativamente si potrebbe dire che la storia è lo svolgimento di formazioni sociali differenti, in relazione a scelte che si sono dovute compiere tra due grandi esigenze più o meno contrapposte: quelle che trovano le loro ragioni nell’individualismo e nel collettivismo.

Queste due esigenze s’intrecciano continuamente in ogni formazione sociale, nel senso che non esiste una formazione sociale del tutto individualistica o del tutto collettivistica. Se ciò si verifica, allora la crisi della società è giunta ad una fase molto acuta e la sua trasformazione drammatica diventa inevitabile.

La storia, dopo quella lunga esperienza di equilibrio tra singolo e collettivo, è diventata l’altalenarsi continuo di una propensione concessa a questa o quella forma di esperienza sociale. Là dove prevale l’individuo, il collettivo è sacrificato e, in genere, viene visto come un impedimento allo sviluppo della personalità, alla creatività del singolo. Viceversa, là dove prevale il collettivo, spesso il singolo non è che un numero, un’astrazione, come nei regimi amministrati di tipo statalista.

Questo per dire che l’accettazione degli eventi storici secondo un criterio di ineluttabilità, come spesso si constata nei manuali scolastici, non fa progredire di un passo la comprensione dei meccanismi dinamici della libertà umana. Si usa la categoria della necessità come se la libertà fosse un peso gravoso da sopportare e non la fondamentale risorsa che distingue la consapevolezza dall’istinto.

Avere “senso storico” significa sostanzialmente saper esaminare le diverse opzioni culturali presenti nel momento in cui sono state prese determinate decisioni. Se la tendenza è quella di giustificare il proprio presente (e non quella di relativizzarlo o di contestualizzarlo), si finirà necessariamente col valorizzare del passato solo quelle scelte (strategiche) che hanno contribuito a generare questo stesso presente.

Conseguenza di tale visione deterministica è che, in definitiva, si considera di qualità inferiore (p.es. di matrice utopistica) tutto ciò che è risultato perdente, come fosse inesorabilmente destinato a uscire sconfitto dalla storia. La storia diventa così una sequenza sconclusionata di eventi i cui protagonisti si sono affermati solo perché erano più forti di altri; e non appare invece come una rappresentazione drammatica delle molteplici possibilità che gli uomini hanno di non essere quel che dovrebbero essere.

Ovviamente è impossibile per uno storico cercare le alternative nel passato quando come cittadino egli non vuole o non riesce a cercarle neppure nel suo presente. Eppure, compito fondamentale della scuola è quello di essere un servizio per l’oggi, per aiutarci a comprenderlo e a migliorarlo. Il passato andrebbe studiato solo nella misura in cui le esigenze lo richiedono. L’unica storia possibile (come disciplina) dovrebbe quindi essere quella che fa comprendere l’attualità e, a tal fine, sarebbe compito dell’insegnante andare a cercare nel passato conferme, smentite, varianti sul tema, da discutere in classe.

Un cittadino vive veramente il suo tempo quando considera il presente assolutamente prioritario rispetto al passato e al futuro. La memoria del passato e il desiderio del futuro non sono nulla senza l’esperienza del presente, che detta le regole interpretative del passato e che pone le condizioni dello sviluppo del futuro. Che questo avvenga in maniera giusta o sbagliata sarà la storia a deciderlo.

Gli uomini devono limitarsi ad assumere delle responsabilità soltanto in relazione al loro presente. E queste responsabilità, rivalutando il periodo preistorico, non possono andare che in queste direzioni:

  1. ripristino della proprietà sociale dei mezzi produttivi, facendo bene distinzione tra i concetti di proprietà privata, sociale e personale (con l’esclusione della proprietà privata bisogna escludere anche quella statale, in quanto il concetto di “pubblico” deve coincidere soltanto con quello di “sociale”);
  2. fine del dominio dell’uomo sulla natura, quindi revisione totale dei principi scientifici e tecnologici della cultura occidentale (occorre partire dal presupposto che l’uomo ha più bisogno della natura di quanto la natura abbia bisogno dell’uomo, quindi qualunque sviluppo tecnico-scientifico dev’essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura);
  3. fine del dominio del più forte sul più debole (diritto funzionale al bisogno e non tanto astratta uguaglianza di fronte alla legge);
  4. ricomposizione del diviso: città e campagna, lavoro intellettuale e lavoro manuale, teoria e prassi (et-et non aut-aut);
  5. affermazione della democrazia diretta, localmente circoscritta, quindi fine della democrazia delegata e superamento di concetti come Stato, nazione, parlamento, leggi, istituzioni…;
  6. superamento della divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), in quanto è il popolo che decide, esegue e giudica;
  7. il popolo deve difendere se stesso, quindi no alla delega del potere militare.

La questione delle fonti storiche

Un qualunque lavoro didattico sulle fonti storiche è indispensabile, di qualunque natura esse siano. Tuttavia bisognerebbe partire dal presupposto che non esiste e non può esistere alcuna fonte storica la cui interpretazione sia incontrovertibile. Se tale fonte esiste non è storica, cioè non è un prodotto dell’azione umana. Anche quando, all’interno di una classe scolastica, succedono incidenti di percorso, dovuti a malintesi o a forme di insofferenza o di esasperazione, il docente ha il compito di sentire le “varie campane”, cercando di separare il grano dal loglio, ma sempre nella consapevolezza, e deve anche farlo capire ai ragazzi, che nessuno di loro, da solo, può aver la pretesa di raccontare una verità assoluta dei fatti.

Questo modo di agire porta a conseguenze ben precise quando si studia la storia:
1. il ricorso alle fonti e quindi la loro espressa citazione, nella ricerca della verità dei fatti, è sì una necessità ma relativa;
2. le fonti scritte non sono di per sé più oggettive di quelle non scritte;
3. in genere la verità non coincide mai con l’evidenza;
4. l’interpretazione delle fonti può essere anche più importante delle fonti stesse ai fini della ricerca scientifica;
5. nessuna fonte è muta, nessuna parla chiaramente;
6. nessuna fonte è sicura, nessuna è irrilevante;
7. le fonti false o falsificate non sono meno importanti delle altre fonti;
8. l’interpretazione delle fonti è sempre parziale e viziata dal limite soggettivo dell’interprete, il quale a sua volta è condizionato dal periodo storico in cui egli è vissuto;
9. non esiste un criterio oggettivo per stabilire quale interpretazione delle fonti sia più attendibile o più vicina alla verità oggettiva dei fatti, la quale pur esiste, anche se non siamo in grado di stabilirne tutte le proprietà;
10. credere in questa o quella interpretazione delle fonti è cosa soggettiva, connessa a convincimenti personali, che maturano nella coscienza e nell’esperienza dei ricercatori indipendentemente dalle fonti stesse e persino dalle interpretazioni che se ne possono dare;
11. l’accettazione di una determinata interpretazione (di un punto di vista) il più delle volte nasce, anche inconsapevolmente, da un interesse già maturato nella coscienza del ricercatore, nel senso che quest’ultimo finisce col ritenere attendibili cose in cui già crede, sicché le interpretazioni non fanno che dare una certa consapevolezza teorica, concettuale, a un qualche sentire interiore, a una percezione che matura sulla base di determinate esperienze;
12. questo modo di procedere, nell’analisi delle fonti storiche, rientra nella dialettica (o dinamica naturale) del comportamento umano in campo gnoseologico;
13. le vere falsificazioni emergono quando si vogliono negare le alternative, i modi diversi di intendere la realtà;
14. si può vivere nella falsificazione senza avvertirla come tale, senza avvertirla in tutto il suo spessore o in tutta la sua evidenza. Il problema infatti non sta in questo, ma nel rifiuto di accettare forme diverse di esperienze delle cose, della realtà. È l’attaccamento ostinato, pervicace, a determinate idee, opinioni, a sua volta connesse a determinati interessi, che porta ad atteggiamenti innaturali, inumani… Se tutti sono nell’errore, nessuno lo è, soggettivamente. Tutti però lo diventano quando si vuole rifiutare una qualunque alternativa allo status quo.
15. La miglior fonte per l’uomo è la storia in generale, che va vissuta sino in fondo nel proprio presente.
Una conoscenza oggettiva dei fatti storici è sempre una conoscenza parziale. Quanto più pretendiamo d’essere oggettivi, tanto più diventiamo astratti. Non a caso la conoscenza più oggettiva è quella matematica, che è poverissima di contenuto umanistico. Se la matematica non avesse trovato un’applicazione nell’informatica, sarebbe rimasta una scienza per pochi eletti, anche se chi insegna materie letterarie se la ritrova, in un certo senso, nell’impostazione della grammatica, in parecchie cose della geografia e persino nel genere letterario del giallo (sic!).

Per come noi oggi conosciamo la storia, cioè per come ci viene trasmessa dai libri di testo, dobbiamo dire ch’essa è solo la storia dei potentati economici e politici, è storia scritta, scritta da intellettuali che, nelle civiltà antagonistiche, hanno sempre fatto generalmente gli interessi di una ristretta minoranza.

Nei confronti di queste versioni ufficiali dei fatti, che ci hanno voluto tramandare facendoci credere che fosse “la verità nient’altro che la verità”, noi abbiamo il dovere di esercitare la funzione del dubbio.

In particolare la storia basata sulla scrittura è la più ambigua di tutte, la meno affidabile. È di gran lunga migliore la “non-storia”, quella tramandataci oralmente, attraverso le mille generazioni, collaudata nel tempo, patrimonio storico della cultura contadina, che è stata completamente distrutta dalla scienza basata sull’esperimento da laboratorio.

Per millenni si è andati avanti senza sapere che il sole sta fermo, che la terra è tonda e che l’universo è in espansione… Siamo proprio sicuri che le nostre conoscenze astronomiche, per l’uso quotidiano che ne facciamo, siano di molto superiori a quelle egizie, maya, celtiche o druidiche? Com’è possibile non guardare con sospetto il fatto che la borghesia, nel mentre diceva la “verità” di queste scoperte, ne approfittava anche per imporre il proprio stile di vita, il proprio modo di produrre? Ci sentiamo davvero più sicuri oggi, con tutta la nostra scienza? Quando la Germania scatenò le due guerre mondiali era forse un paese di trogloditi? E lo erano forse le altre nazioni europee che non seppero e addirittura non vollero impedirlo?

Questo per dire che un manuale scolastico di storia non può limitarsi ad essere un semplice “bignami” di testi di livello universitario, cui si aggiungono esercizi di verifica, apparati iconografici, mappature, glossari, linee del tempo ecc. per agevolare il più possibile l’apprendimento dei contenuti storiografici. Un manuale di storia dovrebbe soprattutto essere impostato sul piano della metodologia, favorendo al massimo la ricerca (in greco zetesis), che non vuol dire anzitutto ridurre la quantità delle nozioni, ma farle emergere da un bisogno reale di conoscenza, in cui ci si sente coinvolti attivamente.

Faccio ora un esempio tratto dal testo di Alba Rosa Leone, Dal villaggio alla rete: cap. di Napoleone. Al par. 3 spiega che ad un certo punto, dopo l’istituzione delle cosiddette “repubbliche sorelle” volute dall’imperatore, “nel sud in particolare migliaia di contadini e intere bande di briganti formarono, sotto la guida del card. Ruffo, l’esercito della Santa Fede che marciò contro la repubblica partenopea… riportando i Borboni sul trono”.

Poi, dopo aver riempito il paragrafo di nomi, lo conclude dicendo: “Analoghi movimenti sanfedisti insanguinarono il Lazio, la Toscana e il Piemonte, dimostrando l’incapacità dei nuovi governi di coinvolgere nei programmi di rinnovamento le masse rurali, povere e analfabete”. Punto!

Cosa capisce un alunno di scuola media? Come si poteva evitare il nozionismo? Semplicemente partendo dalla vita dei ragazzi, ponendo alcune domande su taluni comportamenti. In questo caso chiedendo loro: come ci si deve comportare quando, rispetto a tutti gli altri, si sa o si pensa di aver ragione? Se dopo aver detto le proprie ragioni, gli altri continuano ancora a non credervi, come ci si deve regolare? Quando si pensa di aver ragione è giusto usare la forza per dimostrarlo? Ci sono altri strumenti a disposizione?

Domande di questo genere se ne possono fare a centinaia. Sempre più precise, circostanziate, contestualizzate nello spazio e nel tempo, sempre più riferibili a situazioni in cui sono coinvolti gli adulti, i genitori, gli insegnanti, i protagonisti della storia.

A questo punto viene quasi da dire che sarebbe sufficiente avere un libro di storia composto unicamente di fonti, con domande interpretative da parte del curatore e al massimo uno specimen apposito per il docente, contenente le risposte effettivamente date a quelle domande, nonché quelle che si sarebbero potute dare se le cose fossero andate diversamente (storiografia del “se”). In questa maniera si lascerebbe campo aperto alla ricerca personale e di gruppo, nonché alla discussione in classe.

Un altro modo di fare ricerca storica (che in molte scuole ha preso piede) è quello di adottare un monumento locale, lavorandoci sopra a 360 gradi: cosa rappresenta per la cittadinanza locale? perché lo si è voluto? come preservarlo tecnicamente? come tramandarne la memoria? ecc. Esistono anche varie attività didattiche organizzate da associazioni culturali, relative p.es. a come si faceva il pane una volta o un codice miniato, ecc. Molto interessanti sono anche le rappresentazioni teatrali, cinematografiche, televisive e persino di animazione su taluni eventi storici. È difficile incontrare uno studente che non associ il cartoon di Lady Oscar alla rivoluzione francese.

L’importante insomma è rivedere criticamente i presupposti di fondo su cui si basano quasi tutti i manuali scolastici di storica, e cioè:
1. che l’Europa occidentale ha espresso la civiltà più significativa della storia;
2. che questa civiltà è diventata significativa a partire soprattutto dalla rivoluzione borghese, scientifica e industriale;
3. che lo era già al tempo del mondo greco-romano, “rovinato” dalle invasioni cosiddette “barbariche”;
4. che la religione migliore del mondo è quella cristiana, specie quella di confessione cattolico-romana, benché sia stata quella luterana e soprattutto calvinista a fare da supporto esplicito alle idee della borghesia.

È impressionante vedere con quanta sicurezza molti insegnanti, autori di manuali scolastici, ritengono che la storia sia una “scienza”. Basterebbe solo un esempio clamoroso per smentirli, ma se potrebbero fare molti: perché non parlano mai di quei sette secoli di “crociate baltiche” organizzate dall’Europa cristiana d’occidente?

Dunque di che scientificità stiamo parlando? Forse sarebbe meglio dire che in definitiva non esiste la storia, esiste solo la sua interpretazione, che è quella voluta dai poteri dominanti, dai quali però dobbiamo continuamente difenderci, ipotizzando una diversa interpretazione dei fatti. Qui il conflitto è tra un’esegesi e l’altra, tra un’ermeneutica e l’altra… Non esiste un solo concetto che non possa essere oggetto di interpretazioni opposte. Questo è l’unico dogma che bisognerebbe essere disposti ad ammettere.

Lo studio delle civiltà (IV)

Barbaro e civile

Quando trattano la storia dell’impero romano, pagano o cristiano che sia, gli storici sono abituati a considerare le popolazioni cosiddette “barbariche” nemiche non solo di questa specifica civiltà, ma anche della civiltà qua talis. Non vedono mai le distruzioni e le devastazioni operate dai “barbari” come una forma di negazione delle contraddizioni antagonistiche della civiltà romana e quindi come un tentativo di ricostruzione della “civiltà” su basi nuove.

Noi sappiamo che le civiltà individualistiche (che potremmo definire anche come quelle dello “sfruttamento”) hanno fatto a pezzi quelle collettivistiche: quest’ultime oggi sopravvivono a stento in posti remoti della terra e, per definizione, non fanno la “storia”.

Noi ovviamente non possiamo sostenere che le popolazioni cosiddette “barbariche”, che distrussero il mondo romano, fossero caratterizzate da un collettivismo analogo a quello del comunismo primitivo. Però possiamo dire che vivevano una forma di collettivismo sufficiente a far fronte all’ondata individualistica della civiltà romana. Se questa forma pre-schiavistica non avesse avuto sufficiente forza, l’impero romano non sarebbe crollato o per lo meno non l’avrebbe fatto in maniera così rovinosa.

Probabilmente proprio il continuo contatto con l’individualismo dei romani aveva permesso ai “barbari” di porsi nei loro confronti in maniera non ingenua, li aveva cioè indotti a trovare delle strategie utili alla propria difesa. Cosa che non è avvenuta da parte degli africani nei confronti delle potenze occidentali o da parte degli indiani d’America nei confronti degli europei.

Solo che questo continuo contatto non solo ha permesso ai “barbari” di comprendere le astuzie dei romani, ma ha anche prodotto un condizionamento negativo: infatti, una volta penetrati nell’impero, i cosiddetti “barbari” si sono sostituiti all’individualismo romano, limitandosi a mitigarne le asprezze (vedi p.es. il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in cui però la proprietà feudale resta una forma di individualismo, essendo contrapposta a quella comune di villaggio).

Gli storici sono abituati a vedere la “civiltà” come un qualcosa che si basa su elementi prevalentemente formali: p.es. il valore delle opere artistiche e architettoniche, le espressioni linguistiche e comunicative, i livelli economici e commerciali raggiunti ecc. Tutti questi aspetti, che pur sono “strutturali” ad ogni civiltà, vengono visti in maniera esteriore o convenzionale, in quanto non ci si preoccupa di verificare il tasso di “umanità” in essi contenuto.

Nell’esame storico di una civiltà gli storici dei nostri manuali non riescono neppure a capire che non si possono giustificare i rapporti antagonistici tra le classi, facendo leva sul fatto che anche tra le fila delle classi dirigenti vi possono essere soggetti che provano sentimenti umani o che sono capaci di gesti di umanità, ecc. Così facendo si fa un torto a milioni di persone che vivono in condizioni servili, da cui non possono sperare di uscire confidando nei buoni sentimenti di chi rappresenta l’oppressione.

Noi dobbiamo rinunciare alla pretesa di sentirci assolutamente superiori a qualunque altro tipo di civiltà, di ieri di oggi e di sempre. Non abbiamo il diritto di porre una seria ipoteca per il futuro, solo perché non sappiamo immaginare soluzioni alternative allo status quo.

È pedagogicamente un’indecenza non riuscire a trovare uno storico che accetti almeno come ipotesi l’idea di considerare più “civili” proprio quelle esperienze tribali prive di tecnologia avanzata, di urbanizzazione sviluppata, di mercati e imprese produttive ecc. Nei manuali che usiamo un’esperienza “tribale” non appare tanto più “civile” quanto più “umana”, ma solo quanto più è vicina al nostro modello di sviluppo. Infatti quanto più se ne allontana, tanto più diventa, ipso facto, “primitiva”. E per noi occidentali il concetto di “primitivo” non vuol soltanto dire “rozzo e incolto” in senso intellettuale, ma anche in senso morale: il primitivo è un essere con poca intelligenza e con scarsa profondità di sentimenti, quindi non molto diverso da una scimmia. Tale rappresentazione dei fatti è semplicemente ridicola.

Se mettessimo a confronto i livelli di istintività con cui si reagisce a determinate forme di condizionamento sociale e culturale, ci accorgeremmo che noi “individualisti” siamo molto più vicini al mondo animale di quanto non lo siano stati gli uomini primitivi, che ragionavano mettendo l’interesse del collettivo sempre al primo posto. Una reazione istintiva di fronte alle difficoltà è tipica di chi è abituato a vivere la vita sotto stress, in stato di continua tensione, ai limiti del panico, sentendo tutto il peso delle responsabilità sopra le proprie spalle, senza possibilità di avere significativi aiuti esterni.

Questo per dire che il crollo di una civiltà non andrebbe di per sé giudicato negativamente, poiché bisogna sempre vedere se da questo crollo è sorta (o può sorgere) una civiltà superiore, e se questa superiorità s’è manifestata solo sul piano meramente formale della tecnologia, della scienza, dell’arte, dell’economia, dell’organizzazione politica ecc., o non anche invece sul piano dell’esperienza dei valori umani, sociali, collettivi.

P.es. nel passaggio dal mondo romano al feudalesimo sicuramente vi è stata un’evoluzione positiva nel tasso di umanità degli individui, in quanto si riuscì a sostituire lo schiavismo col servaggio. Tuttavia questa forma specifica di evoluzione non può essere analogamente riscontrata nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo, in quanto esigenze collettive rurali sono state qui distrutte da esigenze individualistiche urbane.

Negli ultimi settant’anni si è creduto possibile che l’individualismo urbano del capitalismo potesse essere sostituito con il collettivismo urbano del socialismo amministrato dall’alto, ma il fallimento di questo risultato è stato totale. Ciò a testimonianza dell’impossibilità di creare una civiltà autenticamente “umana” limitandosi a cambiarne alcune forme. Non si può costruire un socialismo umanistico limitandosi semplicemente a socializzare la proprietà e la gestione dei mezzi produttivi.

Altri aspetti, generalmente dati per scontati, vanno riconsiderati: p.es. il primato della città sulla campagna, dell’industria sull’agricoltura, del lavoro intellettuale su quello manuale, della cultura sulla natura, dell’uomo sulla donna, della scienza sulla coscienza ecc.

Lo studio delle civiltà (III)

Civiltà e inciviltà

È singolare che ogniqualvolta i manuali di storia cominciano a trattare l’argomento delle “civiltà” partano da quelle “mediterranee”, come se l’intero pianeta ruotasse attorno a questo mare. Ma è ancora più singolare che quando trattano delle società pre-schiavistiche, anteriori quindi alle suddette “civiltà”, usino sempre il termine dispregiativo di “primitive” per definirle. Il concetto di “primitivo” non viene inteso tanto nel senso di “primordiale” quanto piuttosto nel senso di “rozzo”, “barbaro”, “incivile”… Non indica un tempo storico ma una condizione dell’esistere.

Per come lo usiamo noi occidentali, esso non è mai neutro o tecnico, ma esprime un concetto di valore vero e proprio, che a sua volta rappresenta un inequivocabile stato di fatto: in tal senso non è molto diverso da quello di “feudale” o “medievale”. “Primitivo” non è anzitutto “colui che viene prima”, quanto piuttosto “colui che non è civile”, e per “civile” noi occidentali, normalmente, intendiamo le civiltà che conoscevano la scrittura, il progresso tecnico-scientifico, un’organizzazione politica di tipo monarchico o repubblicano, fondata sulla separazione delle classi, un apparato amministrativo e militare molto sviluppato, una netta divisione dei lavori e delle proprietà… in una parola tutte quelle che conoscevano e praticavano lo schiavismo. “Civile” per noi è Ulisse, che mente, ruba e uccide; “primitivo” invece è Polifemo, che pascola tranquillamente le proprie capre.

I manuali di storia non hanno neppure il termine di “civiltà primitive”, proprio perché lo considerano un controsenso. Una popolazione pre-schiavistica non ha dato origine ad alcuna “civiltà”, proprio perché non ne aveva gli strumenti, le possibilità. Non a caso tutte le popolazioni nomadi vengono definite “tribù primitive”, mentre le popolazioni sedentarie vengono messe a capo della nascita delle “civiltà”. Quando i nomadi sconfiggono i sedentari, allora gli storici dicono che si ha un regresso nello sviluppo sociale, politico, culturale ecc.

Da questo punto di vista sarebbe meglio usare il termine “primitivo” come sinonimo di “rozzo”, “incivile” ecc., in riferimento a qualunque atteggiamento, di ogni epoca e latitudine, che risulti nocivo o agli interessi delle masse popolari o alla natura nel suo complesso. Per il nostro modo di saccheggiare le risorse naturali o di sfruttare il lavoro altrui noi occidentali siamo molto più “primitivi” degli uomini vissuti milioni di anni fa.

Al posto di “primitivo” o di “selvaggio”, per indicare le popolazioni più antiche, noi dovremmo usare termini come “originario”, “primordiale” o “ancestrale”. Sono “prime” non “primitive” quelle popolazioni esistite prima di noi, agli albori della nascita dell’uomo in generale e non tanto delle civiltà in particolare. Per indicare una popolazione noi non dovremmo usare dei termini che di per sé esprimono già dei giudizi valutativi.

Le popolazioni potrebbero anche essere suddivise in “stanziali” (o “sedentarie”) e “nomadi” (o “itineranti”), in “agricole” e “allevatrici”, senza che per questo ci si debba sentire in diritto di esprimere giudizi di valore su questa o quella forma di conduzione sociale della vita. I confronti sono sempre relativi.

Una popolazione che usa la scrittura non può essere considerata, solo per questo, più “civile” di quella che si basava sulla trasmissione orale delle conoscenze. Quando i legami tribali sono molto forti, la tradizione orale è più che sufficiente. Per milioni di anni gli uomini non hanno conosciuto la scrittura, ma non per questo la storia si è fermata.

La trasmissione orale delle conoscenze e delle esperienze offriva un certo senso della storia, utile alla conservazione e riproduzione del genere umano e dei suoi valori, secondo leggi di natura, anche se questa trasmissione era infarcita di elementi mitologici, favolistici, che costituivano la cornice fantasiosa di un quadro sostanzialmente realistico.

Non ha senso definire “barbare” le popolazioni che non si riconoscevano nella civiltà greco-romana: lo schiavismo è nato nella polys e non tra i barbari, che anche quando l’hanno praticato, non sono mai arrivati ad adottarlo come “sistema di vita”. Diamo dunque un nome alle popolazioni sulla base della loro provenienza geografica o sulla base delle caratteristiche linguistiche o religiose, ma non usiamo una terminologia comparativa che a priori considera più avanzato solo quanto tradizionalmente ci appartiene: oggi peraltro non sappiamo neppure quanto sia tipicamente “nostro” e quanto no.

Ogni popolazione può avere aspetti di grandezza e di miseria, quindi forme di civiltà e di primitivismo. Le forme di civiltà sono il tentativo di superare il proprio primitivismo. E in questi tentativi si compiono passi avanti ma anche passi indietro, poiché questo andirivieni fa parte della natura umana. Non esiste un vero progresso all’infinito, ma solo il fatto che si compiono scelte diverse, che impongono diverse consapevolezze, diverse forme di responsabilità. Non dimentichiamo che i peggiori crimini contro l’umanità noi li abbiamo compiuti nel XX secolo.

Lo studio delle civiltà (II)

Coscienza e materia come pilastri della storia

Di regola i manuali di storia valutano il livello di civiltà di una determinata formazione sociale dal tasso di tecnologia applicato alle sue opere di edificazione. È molto difficile trovare uno storico che accetti l’idea che una civiltà avanzatissima sul piano tecnologico possa essere particolarmente arretrata sul piano dello sviluppo etico.

Eppure da tempo sappiamo che coscienza e materia sono due concetti che, pur dovendo coesistere, dispongono di una relativa e reciproca autonomia. Ci siamo serviti di questa verità lapalissiana anche per dimostrare che il marxismo, privilegiando la struttura economica, era finito in un cul-de-sac. Anzi, oggi dovremmo sostenere, guardando i fatti del nostro tempo, che un forte sviluppo della tecnologia raramente comporta un elevato sviluppo della coscienza.

L’essere umano, per restare “umano”, ha un bisogno relativo di tecnologia e un bisogno assoluto di coscienza. Sicché là dove le civiltà hanno puntato maggiormente l’attenzione sulla tecnologia, lì bisogna porre il dubbio riguardo al loro livello di autoconsapevolezza.

Le civiltà dotate di un certo livello di sviluppo tecnologico sembra – agli occhi degli storici – che abbiano lasciato all’umanità grandi conquiste storiche semplicemente perché la civiltà odierna (quella occidentale) punta allo stesso modo di quelle tutti i propri sforzi allo sviluppo della tecnologia. Leggiamo il passato così come noi leggiamo noi stessi e come vorremmo che il passato e il futuro leggessero noi.

In realtà queste civiltà tecnologiche (di ieri e di oggi) il più delle volte hanno assai poco da trasmettere alla coscienza degli uomini; sono civiltà malate di individualismo e socialmente pericolose, proprio perché a motivo della loro forza materiale, che è impiegata soprattutto per scopi militari, esse minacciano l’esistenza di altre civiltà e anche quella della natura.

Sarebbe interessante far capire ai ragazzi un possibile nesso tra “bullismo” e “civiltà”. Come comportarsi quando qualcuno vuole emergere sugli altri utilizzando modi illeciti? La storia sarebbe forse potuta andare diversamente se si fosse impedito a queste forme di “bullismo storico” di nuocere al di fuori dei propri confini geografici, ovvero di cercare oltre questi confini una soluzione alle proprie interne contraddizioni.

È infatti sintomatico che nonostante la loro vantata tecnologia, queste civiltà, basate sull’antagonismo sociale, riescono a sopravvivere solo a condizione di poter depredare le civiltà meno evolute sul piano tecnologico, saccheggiando altresì ogni risorsa naturale disponibile.

L’uomo è un ente di natura e sono anzitutto le leggi di natura che vanno rispettate. Queste leggi non prevedono un impiego massiccio della tecnologia, ma anzitutto il rispetto della coscienza e della libertà degli esseri umani.

Si dovrebbe considerare il fatto, nell’analisi storica delle civiltà, che quando la maggioranza della popolazione di una civiltà arriva ad accettare, o per convinzione o per rassegnazione, la modalità immorale o antidemocratica di gestione del potere politico, il destino della civiltà è praticamente segnato. Cioè non vi sono più possibilità di vero sviluppo.

La popolazione che vive in periferia tenderà a chiedere aiuto alle popolazioni limitrofe (come facevano i romani più indigenti nei confronti dei barbari), e saranno loro che porranno le basi (morali e di un diverso uso della tecnologia) del futuro sviluppo, e i criteri di questo sviluppo saranno sicuramente diversi da quelli precedenti.

Civiltà immorali e antidemocratiche tendono a distruggere i popoli confinanti, per spogliarli dei loro beni, ma tendono anche a creare delle contraddizioni sempre più acute al loro interno. La gestione del potere diventa molto difficoltosa, poiché tende a dominare l’egoismo delle classi e degli individui. Si perde la consapevolezza del bene comune.

Queste civiltà, anche se apparentemente sembrano molto forti, in realtà finiscono coll’autodistruggersi, poiché scatenano conflitti irriducibili non solo al loro esterno ma anche al loro interno. Sono civiltà che, se incontrano una qualche forma di resistenza, inevitabilmente si indeboliscono, proprio perché tutta la loro forza materiale, tecnologica, non è supportata da alcuna risorsa morale; senza peraltro considerare che il loro stesso sviluppo tecnologico può innescare dei meccanismi automatici che ad un certo punto sfuggono al controllo razionale degli uomini (oggi, in tal senso, è facile pensare a situazioni ove è presente il nucleare bellico, ma gli storici farebbero bene a mettere in relazione anche la desertificazione con la deforestazione praticata su vasta scala al tempo dello schiavismo).

È davvero così grave permettere che uno storico faccia politica quando sostiene che, poiché l’uomo è un ente di natura, se la sua tecnologia distrugge l’ambiente, sarà minacciata la sua stessa sopravvivenza come specie? La tecnologia non dovrebbe forse essere composta di materiali facilmente riciclabili dalla natura stessa? Non bisogna forse trovare un criterio umano di usabilità della tecnologia?

La tecnologia deve permettere uno sviluppo sostenibile, cioè equilibrato, delle società democratiche e una riproduzione garantita dei processi naturali. Non può essere usata la tecnologia per sfruttare il lavoro altrui, per saccheggiare risorse naturali, specie se queste non sono rinnovabili. Il criterio di usabilità della tecnologia deve essere, allo stesso tempo, quello dell’utilità sociale e quello della tutela ambientale. Questi due aspetti devono coesistere uno a fianco dell’altro.