I tempi della storia tra memoria e desiderio

Il modo che hanno gli storici di considerare il passato come qualcosa di tanto più “remoto” quanto più è “lontano” e quindi come qualcosa di concluso in sé, in maniera oggettiva e irripetibile, è un modo di presentare e interpretare le cose che riflette il nostro tempo, proiettato verso il futuro (anche se oggi, in verità, le insicurezze riducono di molto gli entusiasmi), ma non si può dire sia un modo naturale di concepire l’esistenza e il fluire del tempo. Basterebbe leggersi i testi di Rigoberta Menchù per convincersene.

Negli stessi vangeli le genealogie vennero scritte proprio per far capire, anche a costo d’inventarsi ascendenze mai esistite, che sarebbe stato molto onorevole per un messia avere come avi Davide e Salomone, pur essendo essi vissuti mille anni prima. Non sono stati forse gli ebrei che un giorno risposero al Cristo: “Non siamo schiavi di nessuno, abbiamo Abramo per padre”(Gv 8,33)? Per dimostrare la purezza delle loro origini chiamavano in causa un personaggio esistito 1800 anni prima, le cui vicende erano più che altro avvolte nel mito. Ma se andiamo tra gli indiani nordamericani o tra i cinesi confuciani, giusto per fare altri esempi, la preoccupazione di tutelare un’origine ancestrale era ed è la medesima, al punto che si avvertivano più vicini i defunti più lontani, proprio perché venivano considerati più autentici, più genuini, più prossimi alla verità delle cose.

Non solo, ma resta anche del tutto astratta, nozionistica, per non dire ideologicamente viziata, l’impostazione dei manuali di storia che, volendoci far capire che il nostro presente è la summa summarum del concetto di “civiltà”, illustrano una linea del tempo in cui il passato viene visto in uno specchio deformante.

In questo gli storici sono perfettamente in linea con quanto si è iniziato a fare a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento (in Italia dal Mille, salvo il ripensamento in extremis, ma tardivo, della Controriforma): quello di imporsi con forza negando valore alle tradizioni, alla memoria storica. Si è puntato tutto sul dubbio cartesiano, sulla ragione illuministica, sull’istanza di rinnovamento borghese, sulla fine degli usi e costumi del mondo contadino (in nome di una critica, peraltro giustificata, dell’autoritarismo ecclesiastico e dello strapotere nobiliare), sull’affermazione dell’idea di progresso indefinito, di sviluppo tecnologico ed economico inarrestabile… Il passato è diventato morto semplicemente perché è stato ucciso, buttando dalla finestra l’acqua sporca col bambino dentro.

Così oggi non abbiamo più memoria di quel che eravamo, camminiamo nelle nostre città superaffollate come epigoni dello smemorato di Collegno. Il passato per la prima volta, con la civiltà borghese, è diventato “remoto” e ha smesso di scorrere nelle vene del presente. Non ce lo portiamo più con noi, nel nostro bagaglio di esperienze e conoscenze acquisite, se non, al massimo, come nostalgia di un mondo irrimediabilmente perduto.

Abbiamo finito con lo stravolgere anche le caratteristiche del nostro desiderio, che sono diventate molto più individualistiche, settarie. Noi viviamo per realizzare un semplice desiderio di soddisfazione personale. Non c’è più coincidenza tra desiderio personale e desiderio collettivo, proprio perché non c’è più da salvaguardare una memoria comune.

Nel nostro cervello la memoria è scomparsa, forse si conserva in qualche angolo recondito dell’inconscio: quella che abbiamo è a breve termine, e il desiderio che le è correlato l’abbiamo ridotto alla mera necessità di sopravvivere in una società ove dominano i rapporti di forza, lo scontro tra egoismi particolari.

Ecco perché per noi è diventato impossibile tentare di comprendere qualcosa del passato dall’alto del nostro presente. Per poter essere minimamente capito, il passato andrebbe studiato come se fosse un presente, cioè andrebbe in un certo senso rivissuto, e non tanto nelle forme esteriori della vita prosaica, quanto proprio nella sostanza delle contraddizioni di fondo, che sono poi quelle che hanno portato gli uomini a compiere determinate scelte.

Occorre capire la centralità dei problemi, il modo come l’uomo si è posto di fronte ad essi, le scelte operate per risolverli e i nuovi problemi che queste scelte hanno generato, nella consapevolezza che l’evoluzione dell’uomo non procede in linea retta, ma a sbalzi, a zigzag, facendo spesso un passo avanti e due indietro.

Indicativamente si potrebbe dire che la storia è lo svolgimento di formazioni sociali differenti, in relazione a scelte che si sono dovute compiere tra due grandi esigenze più o meno contrapposte: quelle che trovano le loro ragioni nell’individualismo e nel collettivismo.

Queste due esigenze s’intrecciano continuamente in ogni formazione sociale, nel senso che non esiste una formazione sociale del tutto individualistica o del tutto collettivistica. Se ciò si verifica, allora la crisi della società è giunta ad una fase molto acuta e la sua trasformazione drammatica diventa inevitabile.

La storia, dopo quella lunga esperienza di equilibrio tra singolo e collettivo, è diventata l’altalenarsi continuo di una propensione concessa a questa o quella forma di esperienza sociale. Là dove prevale l’individuo, il collettivo è sacrificato e, in genere, viene visto come un impedimento allo sviluppo della personalità, alla creatività del singolo. Viceversa, là dove prevale il collettivo, spesso il singolo non è che un numero, un’astrazione, come nei regimi amministrati di tipo statalista.

Questo per dire che l’accettazione degli eventi storici secondo un criterio di ineluttabilità, come spesso si constata nei manuali scolastici, non fa progredire di un passo la comprensione dei meccanismi dinamici della libertà umana. Si usa la categoria della necessità come se la libertà fosse un peso gravoso da sopportare e non la fondamentale risorsa che distingue la consapevolezza dall’istinto.

Avere “senso storico” significa sostanzialmente saper esaminare le diverse opzioni culturali presenti nel momento in cui sono state prese determinate decisioni. Se la tendenza è quella di giustificare il proprio presente (e non quella di relativizzarlo o di contestualizzarlo), si finirà necessariamente col valorizzare del passato solo quelle scelte (strategiche) che hanno contribuito a generare questo stesso presente.

Conseguenza di tale visione deterministica è che, in definitiva, si considera di qualità inferiore (p.es. di matrice utopistica) tutto ciò che è risultato perdente, come fosse inesorabilmente destinato a uscire sconfitto dalla storia. La storia diventa così una sequenza sconclusionata di eventi i cui protagonisti si sono affermati solo perché erano più forti di altri; e non appare invece come una rappresentazione drammatica delle molteplici possibilità che gli uomini hanno di non essere quel che dovrebbero essere.

Ovviamente è impossibile per uno storico cercare le alternative nel passato quando come cittadino egli non vuole o non riesce a cercarle neppure nel suo presente. Eppure, compito fondamentale della scuola è quello di essere un servizio per l’oggi, per aiutarci a comprenderlo e a migliorarlo. Il passato andrebbe studiato solo nella misura in cui le esigenze lo richiedono. L’unica storia possibile (come disciplina) dovrebbe quindi essere quella che fa comprendere l’attualità e, a tal fine, sarebbe compito dell’insegnante andare a cercare nel passato conferme, smentite, varianti sul tema, da discutere in classe.

Un cittadino vive veramente il suo tempo quando considera il presente assolutamente prioritario rispetto al passato e al futuro. La memoria del passato e il desiderio del futuro non sono nulla senza l’esperienza del presente, che detta le regole interpretative del passato e che pone le condizioni dello sviluppo del futuro. Che questo avvenga in maniera giusta o sbagliata sarà la storia a deciderlo.

Gli uomini devono limitarsi ad assumere delle responsabilità soltanto in relazione al loro presente. E queste responsabilità, rivalutando il periodo preistorico, non possono andare che in queste direzioni:

  1. ripristino della proprietà sociale dei mezzi produttivi, facendo bene distinzione tra i concetti di proprietà privata, sociale e personale (con l’esclusione della proprietà privata bisogna escludere anche quella statale, in quanto il concetto di “pubblico” deve coincidere soltanto con quello di “sociale”);
  2. fine del dominio dell’uomo sulla natura, quindi revisione totale dei principi scientifici e tecnologici della cultura occidentale (occorre partire dal presupposto che l’uomo ha più bisogno della natura di quanto la natura abbia bisogno dell’uomo, quindi qualunque sviluppo tecnico-scientifico dev’essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura);
  3. fine del dominio del più forte sul più debole (diritto funzionale al bisogno e non tanto astratta uguaglianza di fronte alla legge);
  4. ricomposizione del diviso: città e campagna, lavoro intellettuale e lavoro manuale, teoria e prassi (et-et non aut-aut);
  5. affermazione della democrazia diretta, localmente circoscritta, quindi fine della democrazia delegata e superamento di concetti come Stato, nazione, parlamento, leggi, istituzioni…;
  6. superamento della divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), in quanto è il popolo che decide, esegue e giudica;
  7. il popolo deve difendere se stesso, quindi no alla delega del potere militare.