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Continua l’indecente silenzio sul contributo dei partigiani rom e sinti alla nostra Resistenza

Pubblico volentieri questa poesia scritta dal mio amico rom italiano Santino Spinelli, musicista, musicologo e direttore d’orchestra. Come ho detto più volte, il contributo degli “zingari” alla nostra guerra di liberazione dal fascismo è sempre completamente ignorato perfino in occasione del 25 aprile, cioè dellaricorrenza della Liberazione dell’Italia dal fascismo. come del resto è ignorato il genocidio che hanno subìto anche loro per mano dei nazisti. Non ne parla neppure la Giornata della Memoria, che è quindi piuttosto smemorata. Si parla sempre e solo della Shoà e da qualche anno il 25 aprile si parla anche della Brigata Ebraica, chiaramente per sostenere la politica israeliana sempre più insostenibile. Si continua però a tacere stranamante il contributo dato alla nostra Liberazione da marocchini, nepalesi e altre truppe che oggi diremmo extracomunitarie, ma che all’epoca erano coloniali. Anzi, semmai dei marocchini si cita solo ed esclusivamente qualche atto infame come lo stupro narrato nel film La ciociara.
Insomma, il razzismo, l’opportunismo e il servilismo verso i potenti, oggi rappresentati da Israele, sono sempre vivi, anche se hanno cambiato un po’ faccia dandosi un pesante trucco. 13100762_10209399800261523_8994537004301363583_n

“SÌ, È LA TERZA INTIFADA E VI SPIEGO”.

di Ramzy Baroud – 13 ottobre 2015

Quando fu pubblicato il mio libro “Searching Jenin” [In cerca di Jenin] dopo il massacro israeliano nel campo profughi di Jenin nel 2002 fui interrogato ripetutamente dai media e da molti lettori per aver usato il termine ‘massacro’ per quella che Israele presentava come una legittima battaglia contro ‘terroristi’ con base nel campo.

Le domande erano mirate a trasferire il racconto da una discussione riguardante possibili crimini di guerra a una disputa tecnica sull’applicazione del linguaggio. Per loro la prova delle violazioni israeliane dei diritti umani contava poco.

Questo genere di riduzionismo è spesso servito da preludio a qualsiasi discussione riguardante il cosiddetto conflitto arabo-israeliano: gli eventi sono presentati e definiti utilizzando terminologia polarizzante che presta scarsa attenzione a fatti e contesti e si concentra principalmente su percezioni e interpretazioni.

Dunque a queste stesse persone dovrebbe importare poco se o no giovani palestinesi come Isra’ Abed, 28 anni, abbattuto con numerosi colpi d’arma da fuoco il 9 ottobre ad Affula e Fadi Samir, 19 anni, ucciso dalla polizia israeliana qualche giorno prima erano, in realtà, palestinesi che brandivano coltelli in una condizione di autodifesa e sono stati abbattuti dalla polizia. Persino quando emergono prove video che contestano la versione ufficiale israeliana e rivelano, come nella maggior parte degli altri casi, che i giovani uccisi non rappresentavano alcuna minaccia, la versione israeliana sarà sempre accettata come un fatto da alcuni. Isra’, Fadi e tutti gli altri sono ‘terroristi’ che hanno messo a rischio la sicurezza di cittadini israeliani e, ahimè, in conseguenza hanno dovuto essere eliminati.

La stessa logica è stata usata per tutto lo scorso secolo, quando le attuali cosiddette Forze di Difesa Israeliane operavano ancora come milizie armate e bande organizzate in Palestina, prima che questa fosse ripulita etnicamente per diventare Israele. Da allora questa logica è stata applicata in ogni contesto possibile in cui Israele si è trovato, a quanto affermato, costretto a usare la forza contro ‘terroristi’, potenziali ‘terroristi’ palestinesi e arabi e la loro ‘infrastruttura terroristica’.

Non è affatto questione di che genere di armi i palestinesi usino, se mai le usano. La violenza di Israele riguarda la percezione israeliana della realtà cucita a propria misura: che Israele è un paese assediato la cui stessa esistenza è sotto costante minaccia da parte dei palestinesi, che essi resistano usando armi o siano bambini che giocano sulla spiaggia di Gaza. Non c’è mai stata una deviazione dalla norma nella storiografia del discorso ufficiale israeliano che spiega, giustifica o celebra la morte di decine di migliaia di palestinesi nel corso di anni: gli israeliani non hanno mai colpe e non è mai richiesto alcun contesto di ‘violenza’ palestinese.

Gran parte del dibattito attuale a proposito delle proteste a Gerusalemme, nella West Bank e di recente al confine di Gaza è centrata sulle priorità israeliane, non sui diritti dei palestinesi, che sono chiaramente pregiudicati. Una volta di più Israele parla di ‘disordini’ e di ‘attacchi’ partiti dai ‘territori’, come se la priorità sia garantire la sicurezza degli occupanti armati; che si tratti di soldati o di coloni estremisti.

Razionalmente ne segue che lo stato opposto ai ‘disordini’, quello della ‘pace’ e della ‘quiete’, si ha quando milioni di palestinesi accettano di essere sottomessi, umiliati, occupati, assediati e regolarmente uccisi, linciati da folle di ebrei israeliani o bruciati vivi, abbracciando il loro miserabile destino e tirando avanti come se nulla fosse.

È ottenuto così il ritorno alla ‘normalità’; ovviamente all’elevato prezzo di sangue e violenza, di cui Israele ha il monopolio, mentre le sue azioni sono raramente messe in discussione. I palestinesi possono allora assumere il ruolo di perpetua vittima e i loro padroni israeliani possono continuare a presidiare posti di controllo miliari, a rubare terreni e a costruire altri insediamenti illegali in violazione della legge internazionale.

La questione oggi non dovrebbe riguardare gli interrogativi fondamentali su se i palestinesi uccisi brandissero coltelli o no, o rappresentassero effettivamente una minaccia per la sicurezza dei soldati e di coloni armati. Dovrebbe piuttosto essere incentrata principalmente sullo stesso atto violento dell’occupazione militare e degli insediamenti illegali in terra palestinese, tanto per cominciare.

Da questa prospettiva, allora, brandire un coltello è, di fatto, un atto di autodifesa; discutere della sproporzione o meno della reazione israeliana alla ‘violenza’ palestinese è del tutto accademico.

Confinarsi a definizioni tecniche significa disumanizzare l’esperienza collettiva palestinese.

“Quanti palestinesi dovranno essere uccisi perché sia il caso di usare il termine ‘massacro’”? è stata la mia risposta a chi ha contestato il mio uso del termine. Analogamente, quando dovranno essere uccisi, quante proteste dovranno essere mobilitate e quanto ci vorrà prima che le attuali ‘agitazioni’, ‘rivolte’ o ‘scontri’ tra dimostranti palestinesi ed esercito israeliano diventino una ‘Intifada’?

E perché addirittura dovrebbe essere chiamata una ‘Terza Intifada’?

Mazin Qumsiyeh descrive ciò che sta accadendo in Palestina come la ‘Quattordicesima Intifada’. Dovrebbe saperlo, visto che è stato l’autore dell’eccezionale libro ‘Resistenza popolare in Palestina: una storia di speranza ed emancipazione’. Tuttavia io mi spingerei anche oltre e suggerirei che ci siano state molte più Intifade, se si usano definizioni che siano relative all’espressione popolare degli stessi palestinesi. Le Intifade – scuotersi di dosso – diventano tali quando comunità palestinesi si mobilitano in tutta la Palestina, unificandosi al di là di programmi settari o politici e attuano una sostenuta campagna di proteste, di disobbedienza civile e altre forme di resistenza dalla base.

Lo fanno quando hanno raggiunto un punto di rottura, il cui processo non è dichiarato mediante comunicati stampa o conferenze televisive, ma è tacito e tuttavia duraturo.

Alcuni, pur benintenzionati, sostengono che i palestinesi non sono ancora pronti per una terza Intifada, come se le rivolte palestinesi fossero un processo calcolato, messo in atto dopo molte deliberazioni e trattative strategiche. Nulla può essere più lontano dal vero.

Un esempio è l’Intifada del 1936 contro il colonialismo britannico e sionista in Palestina. Era stata inizialmente organizzata da partiti arabi palestinesi, che erano prevalentemente autorizzati dallo stesso governo del Mandato Britannico. Ma quando i fellahin, i contadini poveri e in gran parte non istruiti, cominciarono ad avvertire che la loro dirigenza era cooptata – come accade oggi – agirono fuori dai confini della politica, lanciando e sostenendo una ribellione che durò tre anni.

I fellahin allora, come è sempre stato, fecero le spese della violenza britannica e sionista, cadendo a frotte. Quelli abbastanza sfortunati da essere catturati furono torturati e giustiziati: Farhan al-Sadi, Izz al-Din al-Qassam, Mohammed Jamioom, Fuad Hijazi sono tra i molti leader di quella generazione.

Tali scenari si sono costantemente replicati da allora e con ciascuna Intifada il prezzo pagato in sangue pare aumentare regolarmente. Tuttavia altre Intifade sono inevitabili, che durino una settimana, tre o sette anni, poiché le ingiustizie collettive subite dai palestinesi restano il comun denominatore tra generazioni successive di fellahin e dei loro discendenti di profughi.

Quella che sta avvenendo oggi è un’Intifada, ma è superfluo attribuirle un numero, poiché la mobilitazione popolare non segue sempre la logica netta richiesta da alcuni di noi. La maggior parte di quelli che guidano l’attuale Intifada erano o bambini oppure non erano nemmeno nati quando l’Intifada al-Aqsa iniziò nel 2000; certamente non vivevano quando l’Intifada dei Sassi esplose nel 1987. In realtà molti potrebbero ignorare i dettagli dell’Intifada originale del 1936.

Questa generazione è cresciuta oppressa, confinata e soggiogata, in totale conflitto con il fuorviante lessico del “processo di pace” che ha prolungato uno strano paradosso tra fantasia e realtà. Manifestano perché vivono un’umiliazione quotidiana e devono sopportare l’incessante violenza dell’occupazione.

Inoltre avvertono una totale sensazione di tradimento da parte della loro dirigenza, che è corrotta e cooptata. Perciò si ribellano e tentano di mobilitare e sostenere la loro ribellione più a lungo che possono, perché non hanno altro orizzonte di speranza che la loro azione.

Non lasciamoci impantanare dai dettagli, da definizioni e cifre autoimposte. Questa è un’Intifada palestinese anche se finisce oggi. Ciò che davvero importa è come rispondiamo alle implorazioni di questa generazione oppressa; continueremo ad assegnare maggiore importanza alla sicurezza dell’occupante armato che non ai diritti di una nazione oppressa?

Ramzy Baroud è un giornalista internazionale indipendente, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo libro più recente è ‘My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story’[Mio padre era un combattente della libertà: la storia non narrata di Gaza].

Da Z Net Italy- Lo spirito della Resistenza e’ Vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/of-course-it-is-an-intifada-this-is-what-you-must-know/

Originale: Ma’an News Agency

Traduzione di Giuseppe Volpe

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