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Perché dopo due anni di allentamento quantitativo (QE) di straordinaria grandezza la liquidità degli stessi QE è scomparsa

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Mentre la Fed continua a innalzare il tasso d’interesse, molti economisti sollevano forti dubbi sulla sua capacità di normalizzare la politica monetaria e di influenzare positivamente i processi economici. Ciò vale per le altre banche centrali.

Dopo due anni di allentamento quantitativo (QE) di straordinaria grandezza, le banche centrali stanno restringendo i propri bilanci. Esse avevano acquistato asset back security (abs) e titoli di Stato in possesso delle banche private, emettendo riserve liquide in cambio. La liquidità creata, però, è svanita nel giro di pochi mesi.

Perché il rapido rientro dal QE ha prodotto questo risultato? La risposta è semplice: il sistema finanziario è diventato dipendente dalla liquidità facile.

Quando la banca centrale espande il proprio bilancio, il settore bancario, che deve detenere le riserve emesse dalla banca centrale per gli acquisti di asset, in genere le finanzia con depositi a vista, cioè più esigibili.

Le riserve offerte dalle banche centrali si ritengono le più sicure ma offrono rendimenti bassi. Perciò, sulla base della liquidità acquisita, le banche hanno creato altri flussi di entrate offrendo maggiori crediti. Ciò assume generalmente la forma di limiti più elevati per le carte di credito per le famiglie e linee di credito più ampie alle imprese, ai fondi d’investimento e alle società non finanziarie.

La maggiore detenzione di riserve offre alle banche la sicurezza di poter rispondere prontamente a eventuali richieste di prelievo. Le banche, però, hanno anche aumentato le operazioni più lucrative nei rapporti broker-dealer, cioè quelle che promettono di aiutare gli operatori-speculatori offrendo della liquidità per soddisfare eventuali richieste di margine, i margin call, quando si devono dare garanzie aggiuntive in contanti per coprire delle perdite sopravvenute.

Gli speculatori non sono solo gli hedge fund, ma anche i fondi pensione che, per compensare i bassi rendimenti delle obbligazioni pubbliche, hanno aumentato il profilo di rischio delle loro attività, assumendo una maggiore leva finanziaria e sottoscrivendo dei derivati per una copertura del rischio sugli interessi. L’aumento dei tassi ha generato richieste di margini sulle posizioni in derivati.

In parole semplici, la liquidità ottenuta dalla Fed è stata “impegnata” in operazioni finanziarie a più alto rischio. Di conseguenza, le banche sono molto più esposte a qualsiasi incidente nel sistema finanziario, non avendo capacità di “tappare” eventuali buchi rilevanti. Lo stress di liquidità deriva dalla relazione asimmetrica tra lo stock di crediti concessi e quello delle  riserve di liquidità. Anche il comportamento delle banche è asimmetrico rispetto a quello della Fed, più precisamente perché non riducono i crediti concessi quando la quantità delle riserve si riduce.

Questo è avvenuto recentemente in Gran Bretagna, quando il “mini budget” proposto dall’ex premier Liz Truss ha fatto emergere lo spettro dell’insostenibilità del debito sovrano, provocando un immediato aumento dei tassi di interesse delle obbligazioni statali di lungo termine. Riconoscendo l’importanza sistemica del mercato dei titoli di Stato, la Banca d’Inghilterra è subito intervenuta sospendendo il programma di vendita di parte dei titoli in suo possesso, annunciando allo stesso tempo di voler riprendere ad acquistare i bond di Stato come nei passati mesi di QE.

Il malfunzionamento del mercato dei titoli di Stato in un’economia sviluppata è un segnale di una potenziale instabilità finanziaria.

Uno studio presentato da un gruppo di economisti americani all’incontro di Jackson Hole, rileva che, nel caso degli Stati Uniti, il rientro dal QE ha reso le condizioni molto difficili. E’ provato che, quando la Fed vuole riprendere le riserve emesse, il settore finanziario non riduce rapidamente i crediti concessi sulla base della liquidità generata. Questo rende il sistema vulnerabile agli shock o semplicemente a un qualche incidente. Era già successo a settembre 2019 e la Fed aveva ripreso le sue iniezioni di liquidità.

In altre parole, maggiori sono le dimensioni e la durata del QE, maggiore è la liquidità cui i mercati finanziari si abituano. Di conseguenza, per le banche centrali sarà più difficile normalizzare i propri bilanci. Gli shock finanziari non rispettano i tempi delle banche centrali e potrebbero costringerle a nuovi interventi di sostegno.

I responsabili delle politiche monetarie si trovano quindi in una posizione molto difficile: aumentare i tassi per ridurre l’inflazione e contemporaneamente fornire liquidità per stabilizzare i mercati dei titoli di Stato. E’ un processo infernale dal quale non si può uscire con gli strumenti tradizionali.

*già sottosegretario all’Economia
**economista

1) Le banche sono sempre senza regole 2) Coinvolgere i capitali privati nella ricostruzione post terremoto 3) Russia e Giappone lavorano assieme: e l’Europa? 4) Le chiacchiere della FED 5) Il sistema bancario è sempre in bilico

Banche: multe miliardarie ma mancano le regole
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La recente richiesta del Dipartimento di Giustizia americano alla Deutsche Bank di pagare una multa di 14 miliardi di dollari per chiudere il contenzioso negli Usa sulla ‘frode’ dei mutui subprime, e dei relativi derivati finanziari, ha una rilevanza che va ben oltre la cifra stessa.
Nel frattempo, sempre sulla stessa questione, quasi tutte le banche internazionali too big to fail sono state chiamate a pagare altrettante multe miliardarie: nel 2013 la JP Morgan per 13 miliardi di dollari, nel 2014 la Citi Bank per 7 miliardi e la Bank of America per circa 17 miliardi, e poi la Goldman Sachs per 5,1 miliardi, la Morgan Stanley per 3,2 miliardi…
Sono cifre importanti che pongono una serie di domande pressanti e inquietanti. Quanto hanno incassato le banche negli anni della ‘bonanza’, se sono disposte a pagare decine di miliardi? Si può presumere che abbiano incassato centinaia di miliardi, ingigantendo a dismisura i loro bilanci tanto da superare persino quelli di molti Stati. Non solo dei più piccoli o meno industrializzati.
Inoltre, il danno prodotto all’intero sistema economico e finanziario globale è stato devastante. Si stanno ancora pagando gli effetti della recessione che ne è derivata. E’ ormai convinzione diffusa che sia stata proprio la grande speculazione sui mutui sub prime e sui derivati connessi a scatenare la più grande crisi finanziaria della storia.
Con spregiudicatezza e arroganza le grandi banche hanno giocato forte ai ‘casinò della speculazione’ usando ‘fiches’ non di loro proprietà, ma quelle dei risparmiatori, delle imprese e persino dei governi. E dopo il disastro hanno chiesto di essere salvate dalla bancarotta con i soldi pubblici!
Quanto ci sono costate la speculazione e la crisi? E’ molto complicato cercare di quantificarne i danni e le perdite che hanno prodotto alle economie e alle popolazioni di tutti i Paesi colpiti. Sono sicuramente immensi, tanto quanto le responsabilità dei principali attori.
Se si tratta di frodi conclamate, come è possibile che, con il semplice pagamento di una multa, i responsabili vengano sollevati da qualsiasi condanna civile e penale? Perché non vi è mai una responsabilità anche personale dei manager implicati? D’altra parte le multe sono di fatto pagate dai correntisti e dai clienti delle banche in questione.
Tutto ciò fa sì che i cittadini perdano ulteriormente fiducia nella giustizia percependo, come nelle società prima delle repubbliche sovrane, l’esistenza di due o più mondi: uno per i semplici mortali sottoposti e spesso tartassati da una miriade di leggi e l’atro, quello degli ‘dei dell’Olimpo’, dove si fanno regole e leggi su misura.
La questione più importante ovviamente riguarda la riforma del sistema bancario. La propensione ad un rischio incontrollato e illimitato è stata la molla della degenerazione dell’intero sistema. Le domande fondamentali, quindi, non riguardano solo il passato, ma soprattutto il presente e il futuro. Sono stati solo comportamenti sbagliati? Sono state introdotte nuove regole più virtuose? Sono stati messi a punto controlli opportuni? Purtroppo non ci sembra che si possano dare risposte incoraggianti a tali semplici domande.
Anche l’Unione bancaria europea non sembra andare a fondo nella questione. Garantire maggiori capitali e riserve per far fronte ad eventuali nuove crisi è giusto, ma non affronta la questione alla radice.
Fintanto che non si decide di introdurre una netta separazione bancaria, come quella della Glass-Steagall Act negli Usa dopo la crisi del ’29, che distingua le banche commerciali da quelle di investimento, proibendo alle prime di operare sui mercati speculativi, e fino a quando non si stabiliscono limiti ferrei ai derivati finanziari, le grandi banche too big to fail, purtroppo, si sentiranno autorizzate ad operare come sempre, business as usual.
Tutto ciò non depone bene anche per le grandi manovre bancarie che riguardano il nostro Paese, non solo il Monte Paschi di Siena ma anche la Banca Popolare di Vicenza, la Veneto Banca, la Banca Etruria, ecc.
In Italia purtroppo non si fa mai tesoro delle esperienze del passato. Si ha memoria corta. Eppure solo qualche decennio fa si verificarono i dissesti del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli. E agli inizi del 2000 vi furono le vicende della Parmalat, dei bond argentini, della Banca 121. Nonostante il puntuale documento finale della Commissione di Indagine parlamentare, nessuno ne ha tenuto conto: né la Banca d’Italia, né la Consob, né i governi.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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Come coinvolgere anche capitali privati nella ricostruzione e messa in sicurezza del territorio
Bond per la messa in sicurezza del territorio
Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Le devastazioni e la perdita di tante vite umane, a causa dei disastri che ripetutamente colpiscono il territorio del nostro Paese, naturalmente provocano emozioni forti, suscitano diffusa solidarietà e spingono gli stessi governanti ad assumere impegni. Ciò è quanto è accaduto anche a seguito del recente terremoto.
In verità la messa in sicurezza anti sismica è un problema antico che riguarda la gran parte del territorio italiano. La semplice ricostruzione delle aree colpite e la ristrutturazione anti sismica in tutto il territorio nazionale interesserebbero non meno di 12 milioni di unità abitative con investimenti prevedibili di circa 100 miliardi di euro.
Se si aggiungesse anche l’improcrastinabile intervento di stabilità idrogeologica dell’intero Paese, allo scopo di evitare le continue e devastanti alluvioni, frane e altri deterioramenti del territorio, bisognerebbe aggiungere almeno altri 40-50 miliardi di investimenti.
Indubbiamente si tratta di cifre molto importanti. Soprattutto se si considerano anche i costi delle perdite di vite umane e delle distruzioni di proprietà e di ricchezze provocate dai vari cataclismi.
Secondo l’ufficio studi della Camera dei Deputati in 48 anni sarebbero stati spesi circa 121 miliardi di euro per ricostruire ciò che i terremoti hanno distrutto!
Ovviamente il ruolo dello Stato, anche in questi casi, è insostituibile. Non c’è libero mercato che tenga. E’ compito dello Stato garantire la sicurezza ai propri cittadini. Perciò è sacrosanto, come fa il nostro presidente del Consiglio dei ministri, chiedere che gli investimenti per la ricostruzione e per la messa in sicurezza del territorio siano posti fuori dai ristretti parametri del Trattato di Maastricht.
La dimensione degli investimenti richiesti non potrebbe essere soddisfatta da una semplice flessibilità di bilancio!
Lo Stato, secondo noi, potrebbe emettere specifiche “obbligazioni per la ricostruzione” al fine di creare liquidità da destinare esclusivamente alla realizzazione del programma di investimenti. Potrebbe essere la Cassa Deposti e Prestiti a farsene carico, al fine di non farli rientrare nell’alveo del debito pubblico. Del resto la stessa Germania usa in tale senso la sua Kreditanstalt fuer Wiederaufbau, la gigantesca banca di sviluppo tedesca che, con attivi per oltre 500 miliardi di euro, è da sempre considerata fuori dal bilancio statale. La KFW è stata il motore della ricostruzione e dello sviluppo dell’economia tedesca.
Tale scelta non potrebbe che essere condivisa perché, come noto, il debito sarebbe strettamente legato a politiche di sviluppo che creano non solo unità abitative sicure ma anche produzione, occupazione, aumento della produttività e maggiori introiti fiscali. Così lo stesso debito iniziale verrebbe in parte ripagato e creerebbe allo stesso tempo nuova ricchezza.
Ai sottoscrittori delle obbligazioni si potrebbe estendere la garanzia dello Stato fino al valore di 100.00 euro, così come avviene per i conti correnti bancari. Sarebbe una forma di forte incentivazione.
Importante che detti titoli siano di lungo termine, almeno 10 anni, con capitale nominale garantito, ad un tasso di interesse basso ma comunque superiore al tasso zero di oggi.
Un secondo strumento per sostenere i menzionati investimenti potrebbe essere simile a certi contratti di assicurazione sulle vita. Il risparmiatore verserebbe un capitale, ad un tasso di interesse stabilito, mantenendolo bloccato per un certo numero di anni. Alla scadenza avrebbe diritto alla restituzione del capitale investito più gli interessi maturati, oppure ad una rendita commisurata. In questo caso non si avrebbe alcuna emissione di obbligazioni ma si tratterebbe di “assicurazioni sulla stabilità del territorio”. Anche questo strumento potrebbe essere gestito dalla stessa CDP.
Per incentivare tali “polizze assicurative”, lo Stato potrebbe anche qui offrire una garanzia fino a 100.000 euro e altri eventuali incentivi.
Purtroppo i governi preferiscono creare un debito anonimo, e non mirato a settori specifici di intervento, perché in questo modo possono gestirlo come meglio credono, anche per coprire altri buchi di bilancio. Ma il disegno che dovrebbe stare alla base delle messa in sicurezza dell’intero territorio rappresenta una grande sfida ma anche l’opportunità di indirizzare e programmare l’economia in un modo differente dal passato, compatibile con la difesa della natura e dell’ambiente.
Naturalmente i controlli di qualità, di trasparenza e di rispetto delle regole sono fondamentali per la riuscita del progetto. Così come è indispensabile il coinvolgimento delle popolazioni interessate.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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A Vladivostok Russia e Giappone lavorano insieme. E l’Europa?
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Non deve sorprendere se la dichiarazione finale del recente summit del G20 tenutosi a Hangzhou in Cina è la solita retorica piena di belle parole e buone intenzioni. Come al solito sono gli Usa, anche con il sostegno non sempre entusiasta dell’Ue e dei Paesi europei, a dettarne il contenuto.
Ciò stride non poco con gli interventi propositivi e concreti di alcuni altri attori, non ultimi la Cina, la Russia e il Giappone.
Il presidente cinese Xi Jinping, alle mere enunciazioni, ha contrapposto i grandi progetti in corso di realizzazione, i corridoi di sviluppo infrastrutturale della Silk Road Economic Belt, che collegheranno l’Oceano Pacifico a quello Atlantico e all’Europa, e quelli della 21st Century Maritime Silk Road,la strada marittima che collegherà la Cina all’India e oltre. E’ importante rilevare che in merito l’Asian Infrastructure Investment Bank è già molto attiva con le sue grandi linee di credito.
Nelle sue parole Xi ha legato la realizzazione di questi grandi progetti e la costruzione di numerose zone di libero scambio sul territorio cinese con l’intenzione di rendere il renminbi una forte moneta internazionale nel quadro di un necessario miglioramento della governance economica globale .
Presentando il programma “Blueprint on Innovative Growth” ha delineato con chiarezza i settori prioritari del nuovo sviluppo globale, tra cui “l’innovazione, una nuova rivoluzione scientifica e tecnologica, la trasformazione industriale, l’economia digitale e l’interconnessione delle reti infrastrutturali”.
Per chiarire lo stato reale dell’economia produttiva cinese egli ha ricordato che, nel primo semestre dell’anno, essa è cresciuta del 6,7%.
La pochezza e la scarsa portata del summit balzano con nettezza se si considerano i risultati del Forum Economico di Vladivostok tenutosi il giorno prima tra il presidente Putin, il primo ministro giapponese Shinzo Abe, il presidente della Corea del Sud, la signora Park Geun-hye e l’ex pm australiano Kevin Rudd.
Putin ha presentato il suo programma più ambizioso, quello di trasformare il Far East nel centro dello sviluppo sociale ed economico della Russia. Tra i progetti illustrati ci sono la realizzazione congiunta di un “super ring” di infrastrutture energetiche che metterà in relazione Russia, Cina, Corea e Giappone, la costruzione di infrastrutture di trasporto trans-euroasiatiche e regionali, quali i corridoi Primorye 1 e 2 che collegheranno le regioni cinesi del nord e i porti russi, nonché la costruzione della sezione russa della nuova Via della Seta che dovrebbe collegare la Cina all’Europa. Putin ha lanciato ai suoi interlocutori l’idea di realizzare un polo internazionale per le scienze, l’istruzione e le tecnologie sull’isola di Russky di fronte al porto di Vladivostok dove si prevede anche una grande zona di libero scambio.
Sono progetti concreti di indubbia rilevanza che sollecitano ulteriori coinvolgimenti, anche europei, per accelerare la ripresa della crescita globale.
Per simili grandi lavori la Russia ha già creato un Far East Development Fund che concederà prestiti al tasso di interesse del 5%, meno della metà del tasso di sconto della Banca centrale russa. Certamente è importante l’accordo siglato con la grande Japan Bank for International Cooperation per finanziare i progetti relativi al porto di Vladivostok che vedono la partecipazione di imprese giapponesi.
Tra le altre iniziative concrete c’è il fondo di sviluppo russo-cinese per investimenti nel settore agroalimentare.
L’importanza delle joint venture russo-coreane, in particolare quelle negli investimenti di Vladivostok, è stata sottolineata dalla presidente coreana, signora Park, anche in vista dell’apertura del passaggio artico della Northen Sea Route. Ha ricordato inoltre che la politica di isolamento è fondamentalmente sbagliata. Lo dimostrano le esperienze del passato come quella della Grande Depressione quando l’aumento dei dazi da parte di molti Paesi provocò una riduzione del 40% del commercio in 4 anni.
Dal resoconto del Forum emerge tuttavia che l’intervento politico più pregante sembra quello pronunciato da Shinzo Abe che ha detto: “Trasformiamo Vladivostok nella porta che unisce l’Eurasia con il Pacifico”. In verità i rapporti e le joint venture tra i due Paesi si sono fortemente consolidati tanto che il governo giapponese ha creato uno specifico Ministero per la cooperazione economica russo- giapponese.
Al Forum di Vladivostok l’Unione europea e i Paesi europei erano totalmente assenti, evidenziando ancora una volta, come sottolineato anche da Romano Prodi, “il momento più basso del cammino dell’Europa verso il processo di armonizzazione tra gli Stati”.
Il Giappone invece sta dando una grande lezione di politica, non solo economica. Certo, sotto la pressione americana aderì alle sanzioni contro la Russia, ma ora Tokyo si muove in modo del tutto indipendente.
Il continente euroasiatico è per metà europeo, come evidenzia il nome. E’ lecito chiedere quando l’Europa si emanciperà e assumerà il ruolo che dovrebbe naturalmente avere rispetto ai nuovi scenari economici e geopolitici che si stanno profilando?
*già sottosegretario all’Economia ** economista

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La Fed continua con le politiche monetariste del Qe
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’oracolo di Jackson Hole ha parlato per bocca del governatore della Federal Reserve, la signora Janet Yellen. Ma come sempre, dai tempi di Delfi in poi, non è stato molto chiaro. Sì, forse, ma anche no, sulla possibilità di un piccolo ritocco, un rialzo del tasso di sconto da parte della banca centrale americana.
Organizzato come ogni anno alla fine di agosto dalla Fed di Kansas City, il convegno di banchieri ed esperti internazionali era spasmodicamente atteso da tutti gli operatori finanziari del mondo. Conoscere le future intenzioni monetarie americane, come noto, è da sempre un fatto cruciale per i mercati per poi prendere le decisioni sulle grandi operazioni finanziare. Naturalmente anche quelle speculative.
Nella sua analisi, Janet Yellen ha riconosciuto che la persistente debolezza nella ripresa degli investimenti, la bassa produttività e la troppo alta propensione al risparmio frenano l’economia, nonostante l’aumento dell’occupazione registrato anche negli ultimi tre mesi negli Usa.
I differenti e molteplici indicatori economici non permettono, quindi, di affermare con chiarezza se ci sia l’intenzione di aumentare il tasso di interesse, come in precedenza ventilato anche nei documenti ufficiali del Federal Open Market Committee della Fed.
La lettura delle proiezioni e degli scenari elaborati dalla stessa banca centrale indicherebbe un 70% di probabilità che esso possa variare tra lo 0 ed il 4,5% entro la fine del 2018! E’ una vaghissima stima che non giustifica affatto l’aver scomodato centinaia di importanti esperti. La ragione di tale vaghezza sarebbe ovviamente da ricercare nell’andamento dell’economia che spesso è colpita da rivolgimenti imprevedibili. Perciò “quando avvengono forti choc e l’andamento economico cambia, la politica monetaria deve adeguarsi”, ha affermato la Yellen.
Si spera che non sia questo il suo vero oracolo.
Leggendo con più attenzione il suo discorso vi è comunque un messaggio molto chiaro: continuare senza limiti di tempo la politica monetaria accomodante del Quantitative easing.
In merito si consideri che, secondo una ricerca della Bank of America, il totale delle politiche di Qe condotte dalle banche centrali a livello mondiale ammonterebbe a 25 trilioni di dollari.
Sul piano concreto la Fed ha anzitutto deciso di mantenere i titoli, compresi quelli più complessi e quindi potenzialmente pericolosi come gli abs, che ha acquistato negli anni passati, liberando così le banche dai loro titoli rischiosi e fornendo maggiore liquidità all’intero sistema bancario.
In questo contesto la Yellen riconosce che il bilancio della Fed è passato da meno di un trilione a circa 5 trilioni di dollari e ritiene pertanto che una sua riduzione potrebbe avere delle conseguenze imprevedibili sull’economia.
E’ evidente che per il governatore americano la politica di acquisto di titoli e di “guidance” resterà una componente essenziale della strategia complessiva della Fed. Per “guidance” si intende anche l’annuncio che il tasso di interesse potrebbe restare vicino allo zero per un lungo periodo di tempo. Più che di economia monetaria trattasi di una politica della comunicazione!
Ma l’annuncio più importante è quello di voler prendere in considerazione l’utilizzo anche di nuovi strumenti d intervento monetario, tra cui quello di allargare il raggio di acquisto di titoli e di altri asset finanziari. Ciò inevitabilmente potrebbe voler dire l’acquisto di titoli e derivati ancora a più alto rischio. Si considererà anche la possibilità di alzare il target del tasso di inflazione dal 2 al 3%, allungando così i tempi di applicazione del Qe. Allo stato non ci sembra una prospettiva rosea.
Tuttavia la Yellen deve ammettere che una prolungata politica del tasso di interesse zero potrebbe incoraggiare le banche e gli altri operatori finanziari a intraprendere operazioni eccessivamente rischiose.
Si calcola che il Qe ha determinato che titoli per circa 11 trilioni di dollari oggi siano a tasso zero o negativo. Trattasi di circa il 20% del debito sovrano mondiale! Un terzo di tutti i titoli di debito pubblico globale emessi nel 2016 sono stati ad un tasso negativo.
E’ chiaro che la continuazione delle politiche monetarie accomodanti riflettono “la paura che siamo di fronte ad un prolungato periodo di stagnazione economica secolare”, come ha ammesso persino Stanley Fisher, il vice presidente della Fed.
E’ evidente, quindi, che il tasso di interesse zero non sempre si rivela efficace nel sostegno alla ripresa e alla crescita.
Per questa ragione, senza iattanza, da sempre noi ribadiamo la necessità che i governi non lascino alla politica monetaria e alle banche centrali il compito di rimettere in moto l’economia, ma se ne assumano essi la piena responsabilità decisionale. Servono politiche di investimento di partenariato pubblico privato nei campi delle infrastrutture, delle nuove tecnologie. In Italia anche nel campo della messa in sicurezza del territorio sempre più minacciato da inondazioni, frane, dissesti idrogeologici e terremoti, come dimostrano i drammatici recenti disastri di Amatrice e della vasta area laziale-marchigiana-umbra.
*già sottosegretario all’Economia **economista

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Continue difficoltà del sistema bancario internazionale, nonostante la pausa estiva.
Il sistema bancario sempre in bilico
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Dopo le grandi agitazioni nel mondo bancario internazionale provocate dagli stress test, le vacanze estive sembra abbiano creato un’ovattata atmosfera di apparente tranquillità. Ma, osservando con più attenzione i processi finanziari in corso, l’emergenza resta sempre dietro l’angolo.
Non solo per quanto riguarda il futuro della MPS, della Veneto Banca e di altre banche in Italia.
Negli Usa, per esempio, la componente repubblicana del Comitato per i Servizi Finanziari della Camera dei Deputati ha recentemente presentato un dossier sul coinvolgimento della grande banca inglese, la Hong Kong Shanghai Bank Corporation (HSBC), nel riciclaggio dei soldi provenienti dal traffico di droga operato dal cartello messicano di Sinaloa e da quello colombiano del Norte del Valle.
Sono stati documentati ben 881 milioni di dollari “lavati” dai narcotrafficanti nel sistema bancario americano. Quella emersa e documentata dalle indagini in realtà è solo una piccola parte dell’enorme business che si è sviluppato, in modo incontrastato, per anni.
Durante le indagini, iniziate nel 2013, la HSBC aveva ammesso il crimine e accettato di pagare una multa di circa 2 miliardi di dollari.
Il rapporto accusa in particolare il Dipartimento di Giustizia americano di avere bloccato il processo contro la banca, anche su pressione della Financial Services Authority, l’equivalente inglese della Consob, in quanto “ esso avrebbe potuto avere serie conseguenze per il sistema finanziario”.
E’ un’accusa molto forte che la dice lunga sull’opacità di certe operazioni fatte da importanti attori del sistema bancario americano e inglese. Soprattutto sulla capacità delle ‘too big to fail’ di influenzare le decisioni delle istituzioni finanziarie di controllo e addirittura di quelle dei governi. L’opacità naturalmente si estende anche a molte altre operazioni finanziarie e ai bilanci delle banche che spesso non riflettono il loro vero stato di salute. Nonostante gli stress test.
Anche in Europa sono in corso alcune complesse operazioni bancarie, in particolare in Germania. All’inizio di agosto l’indice borsistico europeo Stoxx Europe 50 ha rimosso dal suo listino la Deutsche Bank e il Credit Suisse per evitare che il livello dell’indice fosse influenzato negativamente dalle continue perdite di valore delle azioni delle suddette banche.
Attraverso le pagine del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, Martin Hellwig, un importante economista dell’istituto tedesco di ricerca Max Planck, ha addirittura ventilato l’ipotesi della necessità di una nazionalizzazione della Deutsche Bank che si troverebbe in “una crisi peggiore di quella del 2008”. Il bail in, con la partecipazione di azionisti e obbligazionisti nella copertura delle perdite della banca, non sarebbe sufficiente a salvarla.
Da parte sua il Fmi ha recentemente dichiarato che la DB “presenta grandi rischi ” per l’intero sistema bancario. Infatti essa sarebbe grandemente indebitata e pericolosamente sotto capitalizzata.
La DB è anche in continuo conflitto con l’agenzia americana Commodity Futures Trading Commission (CFTC), che controlla il mercato dei derivati, in quanto non esporrebbe in modo chiaro la vera situazione delle sue operazioni in derivati finanziari otc, “compromettendo la capacità di valutare i potenziali rischi sistemici del mercato dei derivati”.
Da ultimo anche la Banca del Regolamenti Internazionali e l’International Organization of Securities Commissions (IOSCO), che coordina gli enti di vigilanza dei mercati finanziari a livello mondiale, affermano che persino le Central Counterparty Clearing (CCP), cioè le “casse di compensazione” che dovrebbero garantire le parti coinvolte nei contratti in derivati, non sarebbero in grado di far fronte ai loro compiti per mancanza di fondi.
Al riguardo non è un caso che la stabilità delle casse di compensazioni e i rischi derivanti dalla speculazione finanziaria siano stati posti, su iniziativa della Cina e dell’India, nell’agenda del G20 che si terrà nella città cinese di Hangzhou all’inizio di settembre.
Ciò dovrebbe essere di monito anche in Europa per far sì che il sistema bancario e i derivati non siano lasciati in balia del “fai da te“ del mercato. Senza ulteriori indugi essi dovrebbero essere sottoposti ad una stringente e profonda revisione da parte dei governi che dovrebbero ovviamente mirarli più al credito produttivo che agli interessi della speculazione

LE AUTORITA’ MONETARIE DEGLI USA E DELL’EUROPA CORRONO IN DIREZIONI OPPOSTE: SPERIAMO DI NON ROMPERCI LE OSSA…

Fed e Bce corrono in direzioni opposte

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Prepariamoci a salire ancora sull’ottovolante finanziario e speculativo! Non vogliamo essere troppo pessimisti ma pensiamo che ciò possa accadere. Infatti la Federal Reserve americana ha appena annunciato che considera la possibilità di aumentare il tasso di interesse a dicembre. La Bce di Mario Draghi ha invece rilanciato in grande la politica del Quantitative easing: ha ribadito che “ intende acquistare titoli pubblici e privati fino a settembre 2016 e oltre, se necessario”. In ogni caso fino a che il tasso di inflazione annuo non si assesti intorno al 2%.

Draghi ha aggiunto che, “alla luce dei nuovi rischi emersi in relazione ai recenti sviluppi nei mercati globali e in quelli finanziari e delle commodity”, si è pronti ad aggiustare la dimensione, la composizione e la durata del programma del Qe.

Altro che “coordinamento stellare” tra le due massime banche centrali del pianeta! Esse si stanno movendo in direzioni diametralmente opposte, con il rischio di scontrarsi quando il circuito inevitabilmente li metterà di fronte. Una vuole iniziare una politica monetaria restrittiva mentre l’altra vuole proseguire con l’espansione della liquidità.

Troppo spesso e troppo astrattamente si parla di globalizzazione finanziaria, ma quando la Fed decide le sue più importanti politiche monetarie lo fa nel suo interesse nazionale e del sistema del dollaro. La Bce ha imparato ad imitarla. Non si considera affatto se ciò possa avere un effetto destabilizzante nell’intero sistema economico-finanziario globale, in particolare nelle economie emergenti. Ciò è già accaduto. Prima o poi il conto si presenterà anche in casa americana ed europea.

Finora la grande disponibilità di liquidità in dollari a basso costo ha generato il cosiddetto “carry trade”, cioè il prendere a man bassa prestiti in dollari per poi usarli, anche per speculazioni, ovunque nel mondo.

Escludendo il settore bancario, a marzo 2015 il debito in dollari fuori dagli Stati Uniti, soprattutto quello delle imprese, ha raggiunto i 9,6 trilioni di dollari, di cui un terzo nei Paesi emergenti. Dal 2009 vi è stato un aumento del 50%.

Il debito delle economie emergenti in valuta estera è quindi aumentato di molto. Tanta liquidità globale ha generato la crescita dei bond e di altri titoli di debito tanto da creare instabilità.

Negli ultimi mesi, a seguito delle svalutazioni delle monete locali, molti Paesi hanno risposto attingendo alle proprie riserve e vendendo le obbligazioni di stato denominate in dollari. La Banca dei Regolamenti Internazionali stima che il loro ammontare potrebbe superare quello dei titoli acquistati dalla Bce. Ciò ovviamente può determinare una competizione sul mercato globale delle obbligazioni in dollari e in euro con effetti non secondari anche sui cambi, neutralizzando l’ipotizzato effetto positivo del Qe europeo.

Ciò dato non sorprende che anche l’Economist sottolinei che l’”offshore dollar system” si sia allargato senza freni. Esso ricorda che immediatamente dopo la crisi del 2008 la Fed intervenne con 1.000 miliardi di dollari a sostegno di banche private e di banche centrali estere. Oggi in caso di una nuova crisi finanziaria l’intervento richiesto alla Fed potrebbe essere di dimensioni molto maggiori rispetto al passato. Si calcola che entro il 2020 la quantità di dollari fuori dai confini degli Usa potrebbe superare tutti gli attivi dell’intero settore bancario americano.

Anche la rivista Forbes scrive che se una grossa banca, come la Goldman Sachs o la Morgan Stanley, dovesse affrontare una crisi simile a quella della Glencore, la multinazionale delle materie prime i cui titoli sono crollati dell’85% dal loro debutto in borsa del 2011, ci sarebbero sufficienti ragioni per temere una Lehman Brothers 2.0. Questo perché le “too big to fail” hanno operazioni in derivati otc che, come noto, variano tra i 600 e i 700 trilioni di dollari. Quello di Forbes non è un avviso velato in quanto le banche menzionate sono grandemente coinvolte nei derivati speculativi sulle commodity.

La mancanza di regole e la mancanza di un effettivo raccordo tra i maggiori attori internazionali dell’economia e della politica mantengono il mondo sotto la minaccia di nuove crisi e di nuove instabilità, non meno preoccupanti di quelle determinate dagli attuali conflitti regionali.

Di ciò purtroppo si parla poco ignorando che spesso alla radice delle varie tensioni territoriali e dei fenomeni migratori vi sono anche regioni economiche e culturali.

*già sottosegretario all’Economia ** economista

Crisi del settore energetico: nuovo rischio sistemico?

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

(*già sottosegretario all’Economia; ** economista)

Uno degli effetti dei Quantitative easing delle banche centrali è stato quello di provocare un certa volatilità sui prezzi delle commodity. Il solo annuncio del Qe europeo da parte della Bce, come è noto, in quel periodo determinò variazioni quotidiane fino al 9% del prezzo del petrolio.

In passato molta nuova liquidità ha generato l’aumento della produzione energetica, soprattutto di petrolio e di gas, anche con l’accensione di nuovi debiti.

Molti analisti, anche la Bri, consapevoli e preoccupati delle eventuali conseguenze sistemiche sul settore e sull’intera economia e finanzia mondiali, pur sorvolando sulle ragioni profonde di geopolitica, si stanno interrogando sulle altre ragioni dell’anomalo quanto rilevante crollo del prezzo del petrolio.

Oggi il debito totale del settore del petrolio e del gas è di circa 2,5 trilioni di dollari. Rispetto ai livelli del 2006 è cresciuto due volte e mezzo. Attualmente sono in circolazione obbligazioni legate al settore per 1,4 trilioni di dollari. Dal 2006 vi è stato un aumento annuo del 15%. Il debito residuo è con le banche.

Negli Usa i debiti del settore energetico sono cresciuti a ritmi più alti di quelli degli altri settori industriali. Essi rappresentano il 15% dei principali indici di debito, sia investment grade (ritenuto affidabile dagli investitori istituzionali) che ad alto rendimento, mentre erano il 10% soltanto 5 anni prima. Recentemente le compagnie petrolifere americane hanno preso a prestito “alla grande” tanto che incidono per il 40% sul totale dei nuovi prestiti sindacati, quelli erogati da un consorzio di banche, e delle nuove obbligazioni in circolazione.

La maggior parte di questi crediti è andata alle imprese minori, quelle impegnate nell’esplorazione e nella produzione del gas da scisti bituminosi. Infatti, mentre per le cosiddette “seven sisters” il rapporto debiti/attività è rimasto costante, per le altre è quasi raddoppiato.

Come è noto, il prezzo del petrolio è anche il riflesso del valore degli attivi sottostanti che reggono le montagne di debiti. Perciò il suo recente calo sta causando difficoltà finanziarie al settore. Se si cercasse di rispondere con l’aumento della produzione, il prezzo inevitabilmente tenderebbe a scendere ulteriormente. Il che manterrebbe lo squilibrio tra domanda e offerta.

I bassi prezzi del petrolio ovviamente tendono a ridurre il profitto, aumentano il rischio di default e generano costi finanziari più alti per le compagnie. Contemporaneamente si riducono i flussi di cassa relativi alla produzione con meno liquidità per far fronte al pagamento degli interessi sul debito.

Il settore energetico ha un comportamento non dissimile dalla dinamica di un asset market (mercato di attività) che riflette non soltanto i cambiamenti attesi nei valori economici fondamentali, ma anche quelli legati alle situazioni finanziarie che alla fine determinano le decisioni delle imprese. Il settore immobiliare è l’esempio più eclatante, non solo negli Usa. Quando le attività sottostanti di un settore altamente indebitato scendono di valore, lo “stress” provocato dal calo dei prezzi induce a vendere una quantità maggiore degli asset su cui si basano i debiti.

Di fronte alle crescenti difficoltà finanziarie, il settore energetico può essere anche indotto a diminuire le spese di investimento, che in gran parte finora sono state finanziate attraverso il debito. Negli Usa molte imprese hanno annunciato tagli fino al 50% delle spese in conto capitale. Quelle altamente indebitate potrebbero essere costrette a vendere attività e impianti o piuttosto a spingersi sui pericolosi mercati dei derivati nella speranza di garantirsi contro le oscillazioni del prezzo.

Sono quindi molti gli effetti che il drastico calo dei prezzi del petrolio e del gas hanno provocato. A seguito del calo di valore delle attività da portare a garanzia, ora le banche americane tendono a ridurre i crediti a breve per le imprese petrolifere di minori dimensioni, in particolare quelle impegnate nell’estrazione del gas da scisti. Questa è una delle ragioni per cui anche gli investitori di lungo periodo sono meno attratti da questo settore in difficoltà.

In altre parole, come in passato, la crisi del settore energetico riverbera sull’intera economia i suoi effetti destabilizzanti e aumenta il rischio di conseguenze sistemiche sulla finanza globale.

Manca un Roosevelt europeo: anziché varare un nuovo New Deal, nel Vecchio Continente si pensa solo alle banche e alla bassa inflazione

L’alternativa è tra un New Deal e il Quantitative Easing

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** *Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

Come da noi evidenziato, nel recente passato il governatore Mario Draghi nella sua ultima conferenza stampa mensile di fatto ha affermato che il Quantitative easing “all’europea” è pronto per essere messo in campo. L’abbassamento allo 0,15% del tasso di interesse, il tasso negativo di – 0,10% per i depositi overnight fatti dalle banche presso la Bce e i 400 miliardi di euro di nuova liquidità alle banche che concedono prestiti a imprese e famiglie, non sono altro che il corollario delle prossime mosse che prevedono l’utilizzo di “strumenti non convenzionali”, come l’acquisto diretto da parte della Bce di asset backed security, titoli cartolarizzati basati su prestiti fatti al settore privato dell’eurozona.

Consapevole del ruolo nefasto che certi abs, soprattutto quelli legati al settore immobiliare, hanno avuto nello scatenare la crisi finanziaria americana nel 2007-8, Draghi ha voluto sottolineare che, tenuto conto delle nuove regole in discussione sui derivati finanziari, gli abs in questione dovranno essere “semplici, perciò non Cdo complessi, reali, cioè basati su prestiti veri e non su derivati, trasparenti, e quindi comprensibili per i sottoscrittori”. La Bce quindi si sforza di spiegare che l’operazione sarà differente da quelle finora fatte negli USA, in UK e in Giappone, in quanto non si acquisteranno titoli di stato bensì si cercherà di facilitare la concessione di prestiti all’economia reale da parte delle banche. Continua a leggere

FELICE PASQUA! Occhio però alla nuova bolla dei mercati valutari e al Quantitative Easing europeo, che farà felici le banche



LA NUOVA BOLLA DEI MERCATI VALUTARI

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**  *Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista

I mercati valutari, i cosiddetti mercati FX, sembrano vivere una strana e pericolosa euforia. Secondo le più recenti analisi dei principali istituti economici internazionali, quali la Banca dei Regolamenti Internazionali, nell’aprile 2013 il totale di tutte le operazioni giornaliere di questi mercati era pari a 5,3 trilioni di dollari, con un aumento del 35% rispetto ai livelli del 2010!

E’ necessario un metro di paragone con l’economia reale per comprendere meglio tale straordinaria dimensione. Nel 2013 il commercio annuale delle merci dei Paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, cioè di tutto il pianeta, è stato di 17,3 trilioni di dollari. La differenza è enorme. Continua a leggere