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Chi ha votato in massa Grillo. Ambrosoli troppo disinvolto e pieno di sé.

Ma Beppe Grillo dove ha “rubato” i voti? Premesso che non ha rubato voti a nessuno, per il semplice motivo che il voto è libero e nessuno, neppure Grillo, ha costretto qualcuno a votare in un modo o in un altro, provo a spiegare perché ha portato via voti, e non pochi, sia alla destra che alla cosiddetta sinistra e a quale destra e a quale cosiddetta sinistra.

Alla destra ha portato via voti della politica spettacolo inventata dallo stesso Berlusconi, politica spettacolo che Grillo ha capovolto in spettacolo politica. Il Cavaliere e il suo partito, a prescindere dal nome, hanno saputo lucrare dalla degradazione della politica in spettacolo condotta anche a grandi manciate di “circenses” elargite dalle tv private e dal sostituzione dela figura del leader politico con quella del personaggio di successo comunque accattivante. Politica strada facendo adottata anche da Veltroni nei vari partiti dei quali ha fatto parte infilandoci ogni volta fosse possibile vedove, orfani, familiari di eroi civili che come unico merito hanno quello di essere congiunti di vittime della criminalità organizzata o del terrorismo. L’ultimo acquisto di questo tipo a sinistra è l’avvocato Umberto Ambrosoli, che però, esattamente come Grillo, ha capovolto le procedure: anziché dire lui sì all’offerta del PD ha fatto in modo che fosse il PD a dover dire sì a lui, ma la sostanza non cambia. Politicamente Umberto Ambrosoli, candidato trombato a guidare la Regione Lombardia, non ha storia. Non si può considerare attività politica neppure il suo far parte del comitato antimafia milanese voluto dal sindaco Pisapia e presieduto da Nando Dalla Chiesa, comitato che oltre a dar lustro ai suoi componenti non è ben chiaro a cosa serva in pratica. Continua a leggere

Di Umberto Ambrosoli ce n’è uno: che a differenza di altri ha rifiutato l’uso politico elettorale dei familiari delle vittime del terrorismo e delle mafie

L’avvocato Umberto Ambrosoli ha dunque rifiutato l’offerta fattagli dal PD di candidarsi come presidente della Regione Lombardia. Un gesto inaspettato e assai diverso dall’usuale accettare candidature elettorali da parte dei figli e delle vedove di eroi civili o di vittime della mafia o del terrorismo. Una buona occasione, quindi, per affrontare un tema spinoso, sul quale sovrabbondano la retorica e l’interesse peloso dei politici.

Umberto Ambrosoli è figlio di Giorgio Ambrosoli, avvocato milanese fatto uccidere il 12 luglio 1979  dal banchiere mafioso Michele Sindona perché in qualità di curatore fallimentare della sua Banca Privata Italiana non aveva voluto piegarsi, nonostante le pressioni di politici a quel tempo potenti come Giulio Andreotti, alle pretese di salvarla a tutti i costi  occultandone le gravissime magagne. La città di Milano a ricordo di questo eroe civile ha intitolato al suo nome una piazza. Il figlio ha seguito le orme del padre diventando avvocato anche lui, ma ha preferito andare a vivere lontano da Milano, nelle Marche. Ed ha sempre evitato di usare la figura paterna per farsi pubblicità o trarre vantaggi di qualunque tipo. L’anno scorso – in qualità di consulente editoriale della casa editrice Baldini Castoldi Dalai – gli proposi di scrivere un libro sulla figura di suo padre e della sua vita da bambino con lui, ma rifiutò e mi propose invece di scrivere un libro sui problemi della sua professione e più in generale della giustizia in Italia oggi. Proposta purtroppo non andata in porto per disinteresse dell’editore. Continua a leggere

Il collega Enzo Magosso ha scritto una verità scomoda, e cioè che i carabinieri di Milano sapevano con sei mesi di anticipo che Walter Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980, era nel mirino dei terroristi. E per averla scritta lo hanno condannato. Una sentenza che il processo d’appello deve cancellare, se la libertà di stampa non è diventata un’auto priva di benzina e con i freni in azione

In vista del processo di appello che inizia domani, 13 ottobre, a Milano, questa mattina ho assistito alla conferenza stampa del collega Enzo Magosso, condannato in primo grado dal tribunale di Monza a pagare 240 mila euro di risarcimento per “danni morali e all’immagine” al generale dei carabinieri Alessandro Ruffino e alla sorella del defunto generale Umberto Bonaventura a causa di una intervista a un sottufficiale dei carabinieri in pensione, Dario Covolo, pubblicata sul settimanale Gente del 17 giugno 2004. Covolo aveva raccontato come i carabinieri dell’antiterrorismo di Milano non avessero mosso un dito pur avendo saputo con sei mesi di anticipo da un loro confidente militante della sinistra armata – il postino Rocco Ricciardi, di Varese – che il giornalista Walter Tobagi era nel mirino dei terroristi della Brigata XXVIII Marzo che in seguito, il 28 maggio 1980, lo uccisero davvero.
Al processo a Monza non solo Covolo ha ribadito tutto, ma il generale dei carabinieri in pensione Nicolò Bozzo ha consegnato vari elementi che smentivano la tranquillizzante versione ufficiale dei suoi ex colleghi milanesi.
Nei giorni scorsi ho avuto modo di vedere un altro documento, che per fortuna Magosso è riuscito a procurarsi, che inchioda alle loro responsabilità alcuni carabinieri ex responsabili dell’antiterrorismo di quell’epoca. Non solo è incomprensibile, contro la logica, se non vergognoso che Magosso sia stato condannato, ma sarebbe ancor più grave se in appello la condanna venisse confermata, pur se magari ridimensionata. Sarebbe  grave perché si tratterebbe di un altro colpo alla libertà di stampa.
E’ certamente non vero che in Italia non esiste la libertà di stampa o che sia minacciata da un “regime”. E’ però certamente vero che la libertà di stampa somiglia sempre di più a un’auto che c’è, sì, ma alla quale si centellina la benzina e si preme sul freno per ridurne drasticamente la velocità e i movimenti. Da qualche tempo si aziona anche il freno a mano…
Non è solo un problema di Magosso o dei giornalisti in blocco. E’ anche un problema dei cittadini tutti, perché la libertà se priva di una informazione non condizionata e non intimidita, è una libertà manovrabile e manovrata, perciò tendenzialmente in pericolo.

POST SCRIPTUM

Ho assistito all’intera udienza tenuta nella mattinata di oggi, 14 ottobre. La prossima udienza, conclusiva e forse seguita dalla sentenza, è stata fissata per le ore 9 del 3 novembre. La prima cosa che mi ha colpito è stata la mancanza di qualunque giornalista del Corriere della Sera, che pure è il giornale per il quale Tobagi lavorava e per il quale ci ha rimesso lavita. Non mi par poco. Come giornalisti, c’eravamo solo Franco Abruzzo, ex presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Milano, Davide Moro, della Fininvest, Ilaria Cavo e io. Pochi, direi. Troppo pochi. Grave anche la mancanza di qualsiasi dirigente della Federazione nazionale della Stampa.

L’altra cosa che mi ha molto colpito è stato il divieto, chiesto dal rappresentante della pubblica accusa e dai querelanti, di riprese televisive e di registrazione del sonoro per Radio Radicale. Si tratta di un divieto molto grave. E’ stato infatti detto no a Giovanni Minoli intenzionato a inviare una troupe per il suo programma “La storia siamo noi”, ed è fuori dubbio che la vicenda Tobagi sia ormai un pezzo di storia. e al programma Matrix di Canale 5, che aveva inviato una troupe e la giornalista, Ilaria Cavo. E’ la prima volta che Radio Radicale si vede chiudere le porte in faccia in quello che è un pubblico servizio, che come tale avrebbe dovuto essere coperto dalla Rai, che non s’è neppure fatta vedere da lontano. Mi viene in mente inoltre una ben precisa considerazione: solo persone che hanno la coda di paglia di solito impediscono che benga fatta circolare l’informazione al pubblico di fatti che le riguardano, ma che sicuramente non riguardano solo loro.

Ritengo quindi molto strano, e non commendevole, che si sia opposto alle riprese video e audio anche il generale dei carabinieri Alessandro Ruffino, presente in aula. Un carabiniere, per giunta di grado così elevato, dovrebbe invece avere a cuore l’informazione al pubblico, perché il giornalismo è un bene prezioso per l’intera collettività. Il mio sgomento diventa indignazione quando a parlare è uno degli avvocati dei querelanti, che era presente ieri mattina alla conferenza stampa di Magosso e che letto in aula stralci, a mio avviso non del tutto esatti, di quanto detto ieri da Magosso ed altri. Ma come? Si oppone alla presenza dei giornalisti radiofonici e televisivi proprio chi ieri ha usufruito a mani basse di una conferenza stampa convocata in particolare per loro?

Mi hanno detto che in aula era presente anche il responsabile dei servizi segreti a Milano, non ho capito se dei servizi civili o militari. Trovo strana una tale presenza. Se dovessi parlarne come giornalista investigativo, quale in effetti sono, mi verrebbe da dire che una tale presenza denota un desiderio più di controllo della situazione che di semplice informazione, desiderio più consono a chi ha qualcosa da temere che a chi ha la coscienza a posto e quindi gli può bastare la lettura dei giornali o un giro di telefonate ad avvocati e querelanti.

Non capisco il tono duro e accusatorio contro Magosso da parte del rappresentante della Procura generale. In una querela privata cosa c’entra un pubblico ministero sbilanciato solo verso l’accusa? La sua presenza credo sia legata al reato di omesso controllo contestata all’allora direttore di Gente, ma il tono e le argomentazioni a senso unico mal si addicono, a mio parere, a un processo di questo tipo. In ogni caso il tono dell’accusa e degli avvocati dei querelanti questa volta non è stato offensivo e aggressivo come invece al processo di primo grado a Monza.

Le considerazioni svolte dai due avvocati della difesa e la nuova documentazione da loro prodotta dimostrano che Magosso ha solo fatto il suo dovere di giornalista, anche verificando le notizie presso le fonti a lui accessibili. Motivo per cui anche ammesso, ma non concesso, che abbia davvero in qualche modo danneggiato i generale  Ruffino e Bonaventura, tra persone civili non rancorose dovrebbe bastare una lettera in cui, appunto, ci si scusa di eventuali e involontari danni morali e all’immagine. Ruffino è senza dubbio un gentiluomo, così come l’erede di Bonaventura è una signora perbene.

Stando anche il tono non troppo aggressivo dei loro avvocati, così diverso da quello di Monza, propongo di chiedere noi giornalisti al generale Ruffino e alla Bonaventura di chiudere la vicenda ritirando la querela in cambio di una  lettera del nostro collega Enzo Magosso in cui, appunto, potrebbe scusarsi per eventuali offese perché, se ci sono state, sono state fatte sicuramente senza volerlo e in assoluta buona fede.