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Lo studio delle civiltà (I)

Premessa

Forse a questo punto si è capito che un manuale di storia dovrebbe essere impostato non solo come occasione per fare ricerche sul campo, ma anche come stimolo a capire che lo studio delle forme di civiltà è il terminus a quo e ad quem di ogni indagine storica. Oggetto particolare d’interesse dovrebbero essere le trasformazioni di una civiltà in un’altra.

La nostra stessa civiltà – che è quella borghese o capitalistica (anche se la borghesia la definisce con altri termini: p.es. “democratica”, “liberale”, “industriale” o addirittura “post-industriale”, “tecnologica”, “mediatica”, “terziaria”, sino a quelli più generici come “avanzata”, “complessa” ecc.) – andrebbe studiata in rapporto a ciò che l’ha preceduta e anche in rapporto a ciò che potrebbe superarla o sostituirla. In tal modo se ne capirebbero meglio i pregi e i difetti.

Invece gli storici fanno il processo inverso: considerano la nostra civiltà come il metro di paragone di tutte le altre, le quali inevitabilmente vengono viste in maniera distorta. È vero che lo storico non è un politico, ma è singolare che non riesca a vedere i limiti del nostro presente, né sia in grado di proporre alcuna soluzione di carattere generale per le sue gravi contraddizioni.

Nel 1966 uscì a Parigi il libro di J. Maquet, Les civilisations noires, in cui si faceva chiaramente capire che il termine “civiltà” andava usato sensu lato, come sinonimo di “cultura avanzata”, donde le nozioni di “civiltà neolitica”, “civiltà pastorale” ecc. Ebbene, nonostante sia passato un quarantennio, ancora oggi i manuali scolastici di storia usano il termine di “civiltà” per indicare tutto ciò che è “storico”, in contrapposizione alla “preistoria”. Il prefisso “pre” non sta semplicemente ad indicare una precedenza temporale, ma una limitatezza semantica.

Infatti, fa parte della “civilizzazione” quanto soprattutto ha contribuito, anche indirettamente, allo sviluppo della odierna “civiltà borghese”, unanimemente considerata dai redattori di questi manuali al vertice di tutte le civiltà.

D’altra parte anche molti storici stranieri delle civiltà la pensano così: p.es. R. McCormick Adams, The Evolution of Urban Society (Chicago 1966); C. Renfrew, The Emergence of Civilization (London 1972); K. V. Flannery, The Cultural Evolution of Civilization in “Annual Review of Ecology and Systematics” (n. 3/72); G. Daniel, The First Civilizations (London 1968); Ch. L. Redman, The Rise of Civilizations (San Francisco 1978). Tutti questi storici, chi più chi meno, collegano la civiltà alla società classista, cioè al sistema di stratificazione sociale dei ceti e delle classi, a una delimitazione precisa del territorio, a un’organizzazione statale sufficientemente sviluppata, alla divisione avanzata del lavoro ecc. E tutti ritengono la “nostra civiltà” la migliore in assoluto.

È così difficile accettare l’idea di considerare “relative” le civiltà? Cioè pensarle nei loro aspetti positivi e negativi, aventi in sé elementi di successo e di sconfitta? È strano che gli storici, abituati come sono a studiare l’evoluzione delle cose, non siano capaci di applicare il concetto di “relativismo” alla stessa civiltà in cui vivono.

Certo, nel momento in cui si è contemporanei a una determinata civiltà, si pensa inevitabilmente ch’essa sia la migliore o che debba durare il più a lungo possibile; tuttavia, è proprio lo studio della storia che dovrebbe risparmiarci queste pie illusioni.

Le civiltà nascono, si sviluppano e muoiono – e così sarà anche per la nostra. Ecco perché bisognerebbe cercare di porre sin da adesso le fondamenta della civiltà prossima a venire. Se gli uomini si sentissero parte della storia di un popolo, che vive attraverso varie civiltà, forse non attribuirebbero a se stessi delle qualità che non hanno e che non possono avere.