Socialismo, Democrazia, Laicità e Religione

Premessa

Uno dei grandi meriti da riconoscere al principio della coesistenza pacifica è che dà tutto il tempo che si vuole per riflettere sulle proprie posizioni. Nella vita infatti si possono compiere molti errori, alcuni purtroppo fatali, ma il dramma più vero è quello di non volerli riconoscere. Quando non vogliamo ammettere l’evidenza è perché siamo influenzati, o meglio, ci lasciamo influenzare negativamente dalle circostanze: sicché diciamo e facciamo cose che in situazioni diverse non diremmo e non faremmo mai.

Probabilmente quando esistono situazioni favorevoli al socialismo e alla democrazia, diventa più facile ripensare i propri criteri interpretativi, i propri stili di vita. Bisogna però impegnarsi nel far sì che il cambiamento sia possibile nel momento stesso in cui si pongono le condizioni che lo rendono tale. Non c’è un prima da superare e un dopo da realizzare, ma un cammino da percorrere, qui ed ora.

Ateismo e religione: conflitto o pacifica convivenza?

Generalmente il cristianesimo si considera come una concezione del mondo contrapposta a quella del socialismo, assolutamente alternativa e incompatibile con i princìpi materialistico-dialettici del marxismo e del leninismo. Non foss’altro che per una ragione: il socialismo crede anzitutto nell’uomo, mentre il cristianesimo crede anzitutto in Dio.

Ora, è noto che questa tesi è condivisa dallo stesso marxismo. L’incompatibilità è a livello ideologico e quindi, in un certo senso, a tutti i livelli: un’intesa politica ci può essere (ad es. a favore della pace o dei diritti umani) non quando il comunismo si avvicina alla fede, ma quando il cristianesimo si avvicina alla ragione (e questo vale per tutte le religioni).

Tuttavia, un modo di procedere del genere sarebbe troppo schematico per essere vero. In effetti, se non esistesse alcuna possibilità di pacifica convivenza fra le due ideologie, non si spiega perché, quando i partiti comunisti vanno al governo, riconoscano il diritto alla religione, o per quale motivo ammettano un regime di separazione tra Chiesa e Stato. In teoria sarebbe assurdo che un governo tutelasse giuridicamente quanto gli è radicalmente ostile.

A ciò in genere i cattolici obiettano che se il comunismo tollera la Chiesa è per la forza morale di cui questa dispone, non per l’intrinseca democraticità di quello. Essi cioè considerano il comunismo come un fenomeno non solo antireligioso, ma anche antidemocratico. In sostanza, la presunta antidemocraticità non dipenderebbe, per questi cattolici, da motivazioni contingenti, praticamente risolvibili, ma dalla stessa laicità del comunismo, dal suo integrale umanesimo. È nota anche la contrapposizione che i cattolici pongono fra laicità e ideologia: il comunismo non sarebbe “laico” proprio perché “ideologico”.

I fatti però vogliono che come in politica estera i partiti comunisti sostengano la tesi della coesistenza pacifica fra Stati a diverso ordinamento sociale, così in politica interna essi ammettono che sul piano della libertà di coscienza il cittadino possa essere ateo o credente.(1) Ciò significa, in altri termini, che nella società socialista la religione, ha il diritto, tutelato dalla Costituzione, di considerarsi come una concezione diversa o distinta rispetto a quella dominante.

Oltre a ciò si può aggiungere che uno Stato socialista, se è davvero democratico, non può impedire con la forza che una confessione religiosa lo contesti pubblicamente. Lo Stato deve limitarsi a chiedere ai cittadini di discutere democraticamente i loro problemi: l’unica cosa che non può permettere è che una religione pretenda di imporsi sulle altre, cioè pretenda dei privilegi inaccettabili sul piano democratico. Concetti come “Stato della Chiesa”, “Chiesa di Stato”, “Stato confessionale”, “religione nazionale”, “religione maggioritaria”, ecc., sono storicamente superati. Se sopravvivono non è per la forza della religione, ma per la debolezza della laicità, per la sua incoerenza.

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Se oggi uno Stato viola qualche principio religioso, gli si dovrebbe fare opposizione non tanto in nome della fede (i cui valori sovrannaturali nessuno Stato laico potrebbe riconoscere), quanto piuttosto in nome della libertà di coscienza: un principio che lo Stato è tenuto a rispettare, in quanto facente parte dei diritti umani fondamentali.(2) Un cittadino-credente che volesse opporsi allo Stato, dovrebbe quindi farlo non in quanto “credente”, ma proprio in quanto “cittadino”. Oggi, in una qualunque società che si dice democratica, sarebbe assurdo disquisire sul valore dei dogmi religiosi, cioè opporre a un’idea religiosa un’altra idea religiosa. La fede cristiana ha avuto duemila anni di tempo per costruire una società democratica e non vi è riuscita: è solo con se stessa che deve prendersela. Stesso discorso – ovviamente in rapporto a tempi storici differenti – vale per tutte le altre religioni.

La particolarità del rapporto socialista fra Stato e Chiesa si esprime nell’impossibilità, da parte di quest’ultima, di fare della propria diversa ideologia un motivo per contestare politicamente quella dominante, cioè quella accettata dalla maggioranza della popolazione. Gli eventuali abusi che può compiere lo Stato vanno superati in modo laico, evitando strumentalizzazioni o atteggiamenti pretestuosi in nome della fede religiosa. La diversità quindi fra ateismo e religione, tutelata giuridicamente, non può e non deve mai trasformarsi in un conflitto ideologico o politico, tanto meno se viene sostenuto dai governi in carica o da confessioni religiose che ambiscono a politicizzarsi.

Ufficialmente o formalmente, per tutti i cittadini di uno Stato socialista dovrebbe esistere una sola ideologia, quella appunto socialista(3), poiché è questa che, impostasi per motivi storici, detiene il potere politico. Di fatto però molti cittadini, privatamente, possono avere anche un’altra ideologia, quella appunto religiosa, che, attraverso il culto, può essere manifestata anche pubblicamente.

Paradossalmente si viene a creare in un paese socialista una situazione tale per cui un cittadino può essere, a seconda dei casi e dei momenti, ateo o credente. Ci sono dei casi in cui l’ateismo è per così dire obbligatorio, come un modus vivendi acquisito per via indotta, cioè per via del regime di separazione tra Stato e Chiesa, anche se non è ovviamente obbligatorio professare l’ateismo esplicitamente, in quanto non si deve coartare la coscienza di nessuno né fare discriminazione per motivi religiosi. Si è dunque per così dire atei o, se si preferisce, laici nell’ambito delle istituzioni statali, nei pubblici uffici, nella scuola ecc.; e naturalmente ci sono dei casi in cui il cittadino può manifestare un comportamento religioso, nell’ambito che gli è proprio, secondo una precisa regolamentazione giuridica, senza che lo Stato abbia alcun diritto d’interferire.

Qui, a dir il vero, ci sono molti cattolici che sostengono che è la stessa regolamentazione giuridica a costituire un’ingerenza indebita nell’attività della Chiesa. Tuttavia lo Stato non interviene sull’attività del credente in quanto credente ma solo in quanto cittadino. La regolamentazione della libertà di coscienza non può ovviamente riguardare la coscienza, ma soltanto l’espressione della libertà, che va riconosciuta a tutti nella stessa misura.

È fuor di dubbio che, posta in questi termini, la condizione della religione subisce un mutamento significativo rispetto ai tempi delle formazioni sociali antagonistiche (schiavismo, servaggio, capitalismo). In particolare essa viene a perdere tutto il suo potere politico e tutti i suoi privilegi di casta. D’altra parte la religione per millenni non è riuscita a risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità; anzi, essa ha sempre fatto da supporto alle mire espansionistiche dello Stato politico di appartenenza.

In definitiva, più che essere un fenomeno antireligioso, il socialismo, nell’ambito dello Stato, è un fenomeno areligioso: esso cioè non perseguita le diverse confessioni religiose, ma vive secondo un’etica sociale completamente separata da qualsiasi riferimento alla religione, proprio perché deve far coesistere, in un medesimo territorio, una molteplicità di religioni. L’anti negativo subentra soltanto in quei casi in cui la religione vuole riportare indietro la storia, cioè vuole politicizzarsi o sostituirsi alla scienza, pretendendo così di porsi in alternativa all’ideologia laica dominante, accettata dalla stragrande maggioranza dei cittadini, e di riportare indietro la storia. Il socialismo spera che la religione si estingua in virtù del processo di maturazione delle masse popolari e lascia ch’esse si confrontino liberamente a livello sociale e culturale.

È stata la storia a decidere che l’imposizione politica, attraverso organismi istituzionali, di una determinata confessione religiosa, non ha più ragione di esistere. Peraltro, là dove esiste una Chiesa di stato, non si permette alle concezioni religiose diverse da quella dominante, di poter avere una rilevanza pubblica, sociologicamente significativa, o di poter esercitare un’opposizione politica. Non si capisce perché il socialismo, che garantisce a tutti i cittadini una libertà di coscienza e che considera tutte le religioni uguali di fronte allo Stato, aventi la facoltà di manifestare pubblicamente il proprio culto e le proprie convinzioni, debba essere considerato antidemocratico.

Cristiano e/o socialista?

Dire che chi vuole essere un “cristiano coerente” non può essere un “comunista coerente”, significa dare al cristianesimo una valenza e un contenuto politici.

Il cristianesimo petro-paolino non nacque per opporsi allo Stato romano, ma per convivere pacificamente al suo interno. L’unica cosa che non riconosceva era la divinizzazione dell’imperatore, ch’era un modo, da parte dello Stato, d’imporre una propria ideologia a tutti i cittadini. Ufficialmente il cristianesimo divenne una religione di Stato soltanto sotto l’imperatore Teodosio. E da allora ha sempre preteso di esserlo, almeno sino a quando sono scoppiate le rivoluzioni borghesi. Le quali, avendo affermato una concezione laica della vita, hanno imposto al cristianesimo di tornare ad essere quello che era prima di Teodosio: una semplice scommessa sull’incapacità umana di costruire una vera democrazia.

Tuttavia la storia ha dimostrato che, ogniqualvolta le società laiche, borghesi o proletarie che siano, falliscono i loro obiettivi politici, è facile che ne approfittino le varie concezioni religiose presenti in tutto il mondo (p.es. in Iran l’ha fatto l’islam sciita di Khomeini dopo la fine della shah Reza Pahlavi; in Afghanistan andarono al potere i talebani dopo la crisi del governo di Najibullah; in Egitto ci provarono i Fratelli Musulmani dopo la fine del governo di Mubarak. Nel mondo di lingua araba l’islam sembra essere diventato il linguaggio delle opposizioni politiche ai regimi filo-occidentali).

Lenin si rendeva conto di quanto fossero inconciliabili i princìpi del comunismo con quelli del cristianesimo; pur tuttavia si preoccupava di precisare che non era giusto impedire a un credente di iscriversi al partito comunista per un fine rivoluzionario, in quanto la suddetta inconciliabilità andava considerata come una “questione personale” del credente, ch’egli, col tempo, spontaneamente e liberamente, avrebbe dovuto risolvere. “Un’organizzazione politica – scriveva nel 1909(4) – non può sottoporre i suoi scritti a un esame sull’assenza di contrasti tra le loro opinioni e il programma del partito”. E ancora: “noi siamo assolutamente contrari a ledere in qualsiasi forma i convincimenti religiosi dei credenti; tuttavia noi li reclutiamo per educarli secondo lo spirito del nostro programma”.

Detto altrimenti, la libertà di opinione era certamente ammessa all’interno del partito bolscevico, ma “entro i limiti precisi fissati dalla libertà di associazione”. Se dunque la religione è un “affare privato” del cittadino di fronte allo Stato o per un credente che milita in un partito comunista, non può esserlo per il comunista che deve lottare “contro l’oppio del popolo, le superstizioni religiose, ecc.”. Una “lotta” che in Italia non è mai avvenuta in quanto il togliattismo voleva impedire che si sconfinasse nell’anticlericalismo.

Ora, è chiaro che se un credente non è disposto, in quanto comunista, a lottare contro il clericalismo e la superstizione, né quindi a privatizzare la propria scelta religiosa, ben difficilmente potrà continuare a svolgere un’azione politica all’interno di un partito del genere. La sua stessa Confessione religiosa gli farà capire, con la minaccia della scomunica, che un qualunque catto-comunismo è un controsenso. In effetti, il cristianesimo integralistico, volendo assumere il principio marxista della prassi in funzione anticomunista, si pone inevitabilmente in antagonismo con la realtà del socialismo e farà di tutto per abbattere i governi in carica: o in maniera diretta, mobilitando il clero, o indiretta, servendo dei politici laici.

Sappiamo tutti che il liberismo e il socialismo sono nati in Europa in conseguenza del fallimento del cristianesimo sul piano sociale. Già la filosofia borghese aveva dimostrato quanto fosse invivibile la teologia cristiana. È sufficiente questo per sostenere che al cristianesimo non può essere data, dopo duemila anni di storia, una nuova possibilità per imporsi come “religione di stato”. Sarebbe un processo del tutto antistorico tornare a una situazione precedente alla formazione e allo sviluppo della laicità, quanto meno nell’ambito del capitalismo e del socialismo. Peraltro oggi la presenza dei flussi migratori a livello mondiale obbliga i cittadini ad appartenere a Stati pluriconfessionali.

Essendo considerato dagli integralisti(5) un “cristianesimo senza Dio”, il socialismo è destinato a inverarsi nel suo contrario, in una forma di antiumanesimo, non riguardante solo gli aspetti etici e politici, ma anche quelli socio-economici. Di qui la rivalsa politica del suddetto cristianesimo, il quale appunto presume di svilupparsi sugli insuccessi del processo di socialistizzazione avviato a partire dalla rivoluzione d’Ottobre e che già presentava delle significative anticipazioni nella Comune di Parigi e in tutto il socialismo utopistico. Questa pretesa politicizzazione della fede la si è vista chiaramente in Polonia al tempo del sindacato Solidarność e durante il pontificato di Woytjla.

Il cattolicesimo polacco di matrice integristica cercò di porsi come compito quello di sostituirsi (ovviamente con l’appoggio delle forze reazionarie del capitalismo mondiale) a un socialismo statale ritenuto fallimentare. E, a tal fine, esso mirava a costituirsi come una società “dal volto umano” (negli interessi, nel linguaggio, negli scopi finali), una società che, nonostante la sua marcata religiosità, si sforzava di aprirsi a tutte le istanze di autentica umanità. Poi si è visto com’è andata a finire. Non esiste una “terza via religiosa” tra capitalismo e socialismo. Il cattolicesimo sociale non è in grado di garantire una vera democratizzazione del capitalismo. Come non sono in grado di farlo i fondamentalisti islamici andati al potere (o che hanno tentato di farlo) in varie parti del mondo, a partire dalla fine degli anni Settanta. L’unica alternativa possibile a un socialismo autoritario o burocratico è un socialismo democratico.

I cattolici integralisti della Polonia avevano pensato di poter recuperare lo spirito originario del cristianesimo primitivo, ed erano addirittura arrivati a ringraziare il socialismo statale del loro paese di aver “depurato” la spiritualità cristiana, obbligandola a una rigorosa separazione dalle questioni del potere politico, dai compromessi con le classi aristocratiche e borghesi. E si erano altresì illusi di poter recuperare la “dimensione eroica” che il cristianesimo aveva avuto al tempo delle persecuzioni romane, e di poter costruire con quell’eroismo una nuova società.

Oggi di questa illusione non esiste più nulla. Si è rinunciato al socialismo statale per affermare il capitalismo privato. Al massimo si sponsorizza un capitalismo monopolistico statale. Tutte le contrapposizioni ideologiche tra cristianesimo e socialismo sono servite soltanto per favorire un sistema sociale che del cristianesimo non sa che farsene o che lo usa soltanto in funzione anticomunista. Lo stesso cristianesimo moderno, col fatto di preferire, in ogni caso, il peggior capitalismo al miglior socialismo, ha perduto ogni residua credibilità. Sotto questo aspetto il cattolicesimo integralistico non è molto diverso dal sionismo religioso-nazionalistico, che appoggia tutti i governi di destra d’Israele, o dai buddisti radicali che nello Sri Lanka, non sopportando la minoranza islamica, chiedono che la nazione adotti il buddismo come religione di stato.

Contraddizioni soggettive e oggettive

Il cristianesimo integralistico è convinto che il marxismo divida la società in borghesi e proletari come se fossero due categorie etiche: il male e il bene. Lo dice come se questa caratteristica non sia stata invece un patrimonio culturale tipico del cristianesimo, cattolico o protestante che sia. Quante volte, proprio in nome della separazione tra eretici e ortodossi, tra cristiani e pagani, tra credenti e non credenti o tra cristiani e infedeli non sono stati compiuti grandi atti d’intolleranza politica e ideologica?

Ci sono due cose che del marxismo questo tipo di cristianesimo non ha capito o non vuole capire. La prima è che nella separazione di borghesi e proletari il socialismo non pretende tanto di dare un giudizio sul comportamento “soggettivo” di tali classi o degli individui ad esse appartenenti, quanto piuttosto sul ruolo “oggettivo” ch’esse ricoprono nell’ambito della società capitalistica. E, oggettivamente parlando, cioè a prescindere dalle intenzioni meramente soggettive che può avere, la borghesia si trova in una posizione socialmente ed economicamente antidemocratica, essendo materialmente detentrice, in via esclusiva, dei mezzi di produzione. Il che la rende, al di là di qualunque considerazione in merito, fautrice di oppressione materiale e spirituale.

La seconda cosa è che il marxismo non considera il proletariato come una classe in sé perfetta, esente da errori. È vero anzi il contrario: se dalla rivoluzione industriale ad oggi la borghesia monopolistica ha potuto continuare a svolgere, in Europa occidentale, la sua oppressione morale e materiale, ciò è unicamente dipeso dalla debolezza del proletariato e dei suoi dirigenti. Infatti, se il proletariato è oggettivamente la classe oppressa (a prescindere dalle intenzioni umanitarie che la borghesia può avere), lo stesso proletariato può soggettivamente sbagliare, indipendentemente dalla sua condizione di oppressione o di emancipazione dallo sfruttamento.

La verità dei fatti non è una cosa autoevidente, né è possibile acquisirla una volta per tutte; non è indipendente dalla libertà di scelta, dalla volontà personale di riconoscerla. Gli stessi credenti dovrebbero sapere che non è una grazia che concede il Padreterno a sua completa discrezione.

Ecco, in tal senso, non è affatto vero che il marxismo divida la società in “buoni e cattivi”. Tuttavia, una cosa è dire che il proletariato può sbagliare e che, per tale ragione non ha il diritto di emanciparsi totalmente dalla borghesia; un’altra è dire che gli errori soggettivi non intaccano la tesi che la rivoluzione è necessaria.

Filosofia del lavoro o Weltanschauung?

Un’altra tesi inaccettabile nelle riflessioni del cristianesimo integralista è quella che considera il marxismo come una semplice, ancorché significativa, “filosofia del lavoro”. Tale modo di vedere le cose è alquanto riduttivo. Parlare di “filosofia del lavoro” è come parlare di “metafisica del lavoro” o, nel migliore dei casi, di “sociologia del lavoro”.

Lo sfruttamento del lavoro è sì il problema centrale del pensiero marxista, ma solo fino a quando il partito non ha conquistato il potere e i mezzi di produzione non sono stati socializzati. A partire da quel momento lo sfruttamento perde la sua caratteristica oggettiva dominante. Determinati abusi e corruzioni potranno anche permanere o riprodursi nel periodo della transizione verso il socialismo democratico e autogestito, ma non per questo si renderà necessaria una nuova rivoluzione politica. Le rivoluzioni politiche, sempre molto dolorose, hanno senso solo in presenza di un antagonismo irriducibile di classe: quando questo antagonismo sarà definitivamente risolto, non ci sarà più né alcuna rivoluzione né alcuna politica.

Rebus sic stantibus, è impossibile ridurre il marxismo a una mera “filosofia del lavoro”. Esso in realtà è una vera e propria Weltanschauung, cioè un’ideologia integrale e totalizzante, concernente non solo gli aspetti materiali della produzione, ma anche quelli soggettivi della morale personale: è un’ideologia in fase di continua evoluzione e arricchimento creativo, conformemente ai princìpi essenziali elaborati dai suoi fondatori. Il materialismo storico-dialettico è più di un semplice strumento per l’emancipazione delle masse, è una concezione di vita. Non si può ridurre il marxismo a un economicismo, senza riconoscergli anche il suo valore etico e filosofico specifico.

Il cristianesimo integralistico fa questo ragionamento sbagliato: siccome il marxismo parla solo di “materia” e non anche di “spirito”, non può affrontare il problema dello sfruttamento meglio del cristianesimo. La realtà, ancora una volta, è un’altra. Il grande contributo del marxismo sta anche nell’aver saputo rivalutare “spiritualmente” la materia, nell’averle conferito “dignità ontologica”, dopo secoli e secoli di degradazione morale cui l’avevano costretta lo spiritualismo platonico e quello cristiano (come d’altra parte lo stesso Nietzsche aveva detto, pur essendo lontanissimo dal socialismo).

Il marxismo è l’erede legittimo di tutte le concezioni antiidealistiche e antimetafisiche della materia. E in ogni caso lo sfruttamento economico non lo si può risolvere in chiave etica. La separazione tra capitale e lavoro è basata su una contrapposizione oggettiva, su una forma irriducibile di antagonismo sociale, e chi non capisce questo, si pone, oggettivamente, dalla parte degli sfruttatori, anche quando dice di voler compiere un’opera di mediazione.

Sfruttamento economico e morale

Forse la critica più severa che il cristianesimo integralista ha potuto muovere al socialismo statale, ha riguardato lo sfruttamento del plusvalore. Tuttavia è stata una critica che tale cristianesimo ha mutuato completamente dalla socialdemocrazia borghese, e non riguardava, ovviamente, le questioni etiche vere e proprie, anche se tale cristianesimo l’ha sfruttata dicendo che nel socialismo statale esiste un’appropriazione indebita del plusvalore da parte dello Stato, in quanto l’ideologia socialista, essendo per definizione atea, non ha dei veri presupposti morali ed è quindi portata a vedere l’uomo come un semplice strumento economico. La critica in sostanza consiste in questo: nell’ambito del socialismo è lo Stato che si appropria del plusvalore dei lavoratori, per cui esso svolge le funzioni del capitalista classico. Quindi il socialismo statale non sarebbe altro che un capitalismo senza capitalisti.

In questa argomentazione due cose vanno preliminarmente contestate: anzitutto in un sistema economico socialista non può esistere un plusvalore di tipo capitalistico, né privato né statale, quindi è improprio parlare di “sfruttamento economico” (il plusvalore – si sa – è lavoro non pagato); in secondo luogo, essendo stata abolita la proprietà privata dei mezzi produttivi e garantita la distribuzione dei beni prodotti secondo il lavoro e tendenzialmente secondo il bisogno, in teoria non dovrebbe esistere uno Stato contrapposto al popolo lavoratore.

Non si può insomma parlare di “sfruttamento” quando non esiste né rendita fondiaria né profitto capitalistico, quando il lavoro è garantito di fatto a tutti i cittadini, quando con i “fondi sociali di consumo” lo Stato copre i tre quarti delle esigenze dei lavoratori, quando i prezzi sono controllati e tutto o quasi tutto è razionalmente pianificato. Non si può paragonare l’attività regolamentatrice dello Stato socialista con l’esigenza del capitalismo di ottenere il massimo profitto dai propri investimenti, a prezzo di uno sfruttamento disumano dei lavoratori.

Se il cosiddetto “socialismo reale” fosse stato una sorta di “capitalismo di stato”, avrebbe tollerato un qualsivoglia uso della proprietà privata, come appunto avviene nei paesi ove esiste un capitalismo monopolistico di stato.(6) Invece è fallito proprio perché non permetteva l’evoluzione verso un socialismo autogestito e cooperativistico, in cui il ruolo dello Stato, fatta salva la proprietà sociale dei mezzi produttivi, si riduce in maniera progressiva.

Il fatto è che il cristianesimo integralistico vuole porre un irriducibile contrasto fra lo Stato socialista e i cittadini lavoratori. P.es. una delle sue affermazioni ricorrenti è la seguente: il salario della stragrande maggioranza degli operai è sufficiente soltanto a soddisfare i bisogni elementari. Sembra non si voglia sapere quanto sia difficile per un operaio di media categoria vivere in un sistema capitalistico, ovvero di quali incertezze e di quanta precarietà sia costituita la vita quotidiana in Occidente.

La filosofia di vita di tale cristianesimo porta in sostanza ad accettare l’idea che sia sempre meglio avere una ricca aristocrazia operaia all’interno di un proletariato affamato, piuttosto che una classe operaia complessivamente garantita a un livello accettabile di sussistenza.

Certamente con questo non si vuol dire che in un paese socialista non sia possibile realizzare un benessere generalizzato. Si vuol soltanto dire che questo benessere non può essere raggiunto senza tener conto dello stato reale delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Le forze complessive di tutti i lavoratori dovrebbero procedere, affinché si realizzi un progresso equilibrato, in maniera regolare e uniforme.

Il cristianesimo integralistico dovrebbe in realtà porsi altre domande. P. es. questa: se il socialismo statale dei paesi est-europei avesse potuto beneficiare dello sfruttamento neocoloniale del terzo mondo, sarebbe crollato lo stesso? Detto altrimenti: che cosa succederebbe al capitalismo se non potesse più beneficiare di tale sfruttamento? E per quale ragione in Occidente i poteri dominanti non amano far sapere all’opinione pubblica da dove proviene tutto il benessere economico dei loro paesi?

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che il socialismo statale non avesse bisogno d’essere riformato in profondità. Di sicuro però l’introduzione del capitalismo di stato o addirittura privato non può costituire la soluzione ai problemi riscontrati. Il socialismo statale aveva il difetto di essere amministrato esclusivamente dall’alto, cioè dagli organi istituzionali dello Stato, per cui tendeva a disincentivare la produttività, ovvero a burocratizzare le decisioni e il modo di applicarle. Si faceva coincidere la proprietà sociale con la proprietà statale, senza porre in essere il progressivo smantellamento dello Stato e la valorizzazione delle autonomie locali.

Uno Stato burocratico o un socialismo da caserma non ha fiducia nei propri cittadini, diventa per forza di cose “paternalistico”, cioè autoritario e ideologico. L’alternativa a uno Stato del genere era una società che progressivamente si autogestisce, che sviluppa la cooperazione multilaterale, che si autofinanzia, gestendo in proprio i redditi da lavoro, insomma che decide autonomamente cosa produrre e come ripartire i risultati del proprio lavoro, affrontando i problemi del calcolo economico. Con la perestrojka di Gorbaciov si era iniziato a procedere in questa direzione, ma poi gli eventi ne presero una del tutto opposta. I cittadini, ad un certo punto, pensarono soltanto a distruggere l’autoritarismo, senza essere capaci di sostituirlo con una vera democrazia sociale.

L’esempio del padrone e del servo

Sono note a tutti le riflessioni filosofiche di Hegel sul rapporto sociale fra “padrone e servo”. A modo di vedere dell’idealista tedesco la contraddizione esistente fra queste due categorie sociali può essere risolta solo a condizione che il servo non la voglia assolutizzare. Ossia, come per il padrone la contraddizione del rapporto ha un carattere relativo, in quanto egli sa bene che il suo status sociale dipende dal lavoro del servo, così anche quest’ultimo deve maturare, pur nel rapporto di dipendenza oggettiva, la consapevolezza di una libertà interiore. In caso contrario la mediazione, che è poi una sorta di “pacifica convivenza”, sarebbe impossibile.

Hegel voleva forse fare l’apologia dello schiavismo o del servaggio? In un certo sì, e in un altro no. Per lui il rapporto padrone / servo non andava considerato storicamente ma in maniera naturale: ciò significa che se il servo si ribella al padrone, diventerà, a sua volta, inevitabilmente, un padrone di altri servi, e così all’infinito, proprio perché qui si ha a che fare con dei processi naturali, che vanno al di là dell’evoluzione storica. Infatti la mediazione, in tal caso, è possibile solo se il suddetto rapporto viene riconosciuto come un dato di fatto imprescindibile della vita di ogni essere umano, di qualunque epoca storica, come un aspetto non contraddittorio in maniera assoluta.

Per Hegel la contraddizione, quella vera, non sta tanto nel rapporto in sé tra padrone e servo, quanto piuttosto nella coscienza soggettiva che avverte quel rapporto in maniera alienante. La soluzione (ed è una soluzione che deve ricercare soprattutto il servo, poiché, in un certo senso, egli si deve trasformare in una sorta di “filosofo stoico”) sta nel considerare la schiavitù o il servaggio non come un fatto estrinseco alla persona, cioè oggettivo, ma come un fatto intrinseco, cioè eminentemente soggettivo. Siamo tutti schiavi di qualcosa o di qualcuno. Sotto questo aspetto neppure il padrone può considerarsi libero. Anzi, considerando che il servo è in grado di acquisire la propria libertà interiore in virtù del fatto che il suo lavoro gli offre una dignità personale, il padrone, che vive senza lavorare, è ancora più schiavo.

La schiavitù, in sostanza, non è qualcosa di “economico” ma di “morale”, come ad es. l’incapacità di essere se stessi o di accettare la propria condizione naturale o sociale. Ovviamente il padrone, secondo Hegel, dovrà far di tutto perché il servo si senta favorevolmente indotto ad accettare la propria condizione. La libertà, per l’idealismo, è qualcosa che appartiene allo “spirito” o al pensiero dell’uomo, ed è qualcosa che l’uomo può raggiungere a prescindere da qualsiasi circostanza a lui esterna, da qualsiasi impedimento naturale o sociale. Come si può facilmente notare, l’idealismo hegeliano non faceva che tradurre in chiave filosofica dei concetti chiaramente teologici, restando nell’ambito del cristianesimo.

Quanto questa concezione di vita sia pericolosa e reazionaria è evidente, soprattutto al giorno d’oggi. Praticamente Hegel, circoscrivendo nella sfera privata della coscienza il problema dell’emancipazione umana (che a quel tempo andava risolto conformemente alla volontà dello Stato confessionale prussiano), giustificava, sul piano pubblico, quell’ordine di cose che impediva all’uomo di emanciparsi anche sul piano sociale. Col pretesto che l’essere umano è tendenzialmente incline al male, egli in sostanza permetteva al più forte di prevalere sul più debole e impediva a quest’ultimo di reagire. Col principio che la libertà interiore può essere vissuta adeguatamente in qualsiasi situazione sociale ed economica, egli in definitiva legittimava quelle situazioni in cui lo sviluppo delle libertà sociali è sfavorito più che altrove. Hegel ragionava in maniera aristocratica e, per questa ragione, è considerato un filosofo conservatore, pur in contrasto con la sua avanzata dialettica degli opposti.

L’odierno cristianesimo integralistico fa lo stesso ragionamento, con la differenza che lo dirige contro il socialismo, cioè praticamente considera la soggettività del proletariato alla stessa stregua di quella della borghesia, arrivando tranquillamente a dire che il proletariato tende a prendere il posto dei capitalisti, per cui la rivoluzione comunista, come ogni altra rivoluzione, è inutile: sarebbe una rivoluzione delle “forme”, non della “sostanza”. Questo perché l’uomo non ha alcuna possibilità di tornare alla situazione precedente al cosiddetto “peccato originale”.

Ma allora perché – ci chiediamo – questi cattolici integralisti, così rassegnati sulle capacità umane di liberazione, vogliono ribellarsi allo stato di cose creato dal socialismo? Quali garanzie offrono che dalla loro rivoluzione cristiana non nascerà un nuovo “padrone”? O forse tutta la loro insofferenza nei confronti del socialismo dipende dal fatto che, per realizzare la propria rivoluzione, i comunisti non hanno chiesto la loro autorizzazione?

È possibile compiere una rivoluzione in nome del cristianesimo? Non poche volte, nell’ambito di questa confessione, si sono usati i vangeli per criticare le ricchezze dei poteri dominanti (ivi inclusi quelli ecclesiastici), ma la reazione è sempre stata quella di una dura repressione. Il cristianesimo al potere non ama essere messo in discussione da nessun’altra forza politica. Se di una cosa il socialismo statale meritava d’essere criticato, era proprio quella d’essersi comportato come il cristianesimo istituzionalizzato del periodo medievale.

La politicità della fede e il fondamentalismo monoteistico

La limitata concezione ideologica del cristianesimo integralistico dipende dall’aver assunto un punto di vista obiettivamente errato: quello di non voler considerare il socialismo superiore al capitalismo sul piano dei diritti sociali.

Il capitalismo è il trionfo dell’individualismo, è nato contrapponendosi alle esigenze delle comunità di villaggio, e ha vinto la sua partita contro il feudalesimo proprio perché sembrava garantire maggiore libertà e benessere.

Ma il capitalismo garantisce il benessere soltanto a chi è proprietario di capitali, o comunque a chi, per ottenerli, non ha scrupoli morali. Anche quando si parla di “capitalismo statale”, non si mette mai in discussione il principio della proprietà privata dei mezzi produttivi, e quindi il diritto di sfruttare il lavoro altrui. Generalmente le istituzioni servono al capitale perché questo possa riprodursi più facilmente. Non riconoscere queste cose significa porsi fuori della storia, cioè mettersi esplicitamente dalla parte del capitale, anche se sul piano etico si predica la “condivisione del bisogno” o l’amore universale.

Pertanto, quando il socialismo dice che la religione deve restare una faccenda privata della persona, lo dice proprio in relazione al fatto che nessuna religione ha in sé degli elementi che possono permettere di superare i limiti fondamentali del capitalismo. Non foss’altro che per una ragione: o le religioni rimandano alla fine dei tempi la liberazione integrale dell’uomo o racchiudono quest’ultima in una dimensione individuale o di piccole comunità isolate, che non partecipano alla vita urbana. Quando le religioni pretendono di istituzionalizzarsi, diventando delle “Chiese statali o nazionali”, inevitabilmente restano soggette, al giorno d’oggi, alle dinamiche internazionali del capitalismo (basta vedere, p.es., l’ebraismo in Israele o l’islam nei Paesi del Medio oriente o il cattolicesimo in Polonia o nei Paesi le cui lingue provengono dal latino). Perché tale istituzionalizzazione sia scongiurata, occorre uno Stato autenticamente laico e democratico, cosa che è possibile solo nel socialismo, poiché qui si pongono le basi per il superamento dello stesso Stato.

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Di tutte le religioni quelle che meno sopportano d’essere relegate nell’ambito della coscienza o del culto sono ovviamente quelle monoteistiche. Chi crede in un unico Dio, che esclude l’esistenza di altri Dèi, è inevitabilmente intollerante.

Va detto tuttavia che le religioni monoteistiche pretendevano, al loro sorgere, di superare quelle politeistiche proprio nell’atteggiamento che queste avevano nei confronti delle istituzioni di potere: un atteggiamento rassegnato, che accettava supinamente le differenze di ceto e di classe, nonché l’immoralità dei ceti dominanti e il culto per l’imperatore.

Le religioni politeistiche erano politicamente disimpegnate, prone ai voleri degli Stati, prive di una dimensione universalistica. Viceversa, quelle monoteistiche pretendevano, almeno ai loro esordi o nelle loro intenzioni, di costruire delle nuove società, basate su valori più umani e democratici.

Il fatto però che tutte le religioni monoteistiche abbiano fallito i loro obiettivi, la dice lunga sul valore della religione in sé. È stato proprio il capitalismo a far capire all’umanità che una religione vale l’altra, ovvero che nessuna fede è in grado di opporsi alla rendita dei proprietari terrieri, alle esigenze del profitto, alla continua espansione del capitale, alle necessità dei mercati, allo sviluppo dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, alla finanziarizzazione dei mercati, e così via.

Il socialismo non ha fatto altro che ereditare la convinzione secondo cui la religione ha senso nella misura in cui resta un affare privato della coscienza. Per tale ragione esso ha preferito rivolgere la sua critica al capitalismo, prendendo in esame le questioni socio-economiche. Qualunque religione pretenda oggi di dare alla fede una valenza politica, fa sempre, in qualche modo, gli interessi del capitale, anche quando presume di porsi come “terza via” tra capitalismo e socialismo.

Con questo naturalmente non si vuol sostenere che la fede non abbia diritto a professarsi pubblicamente o che la religione non debba avere una propria “dottrina sociale” o che non debba esistere una “educazione o istruzione religiosa”. Si vuol semplicemente dire che le istituzioni debbono essere laiche, cioè non devono “parteggiare” per nessuna religione, né possono permettere che per motivi religiosi venga minacciato l’ordine pubblico o messa in discussione la validità di leggi promulgate da un parlamento regolarmente eletto. Alla violazione di un diritto si risponde con un altro diritto.

Può un esponente del clero partecipare alla vita politica? Sì, ma dovrebbe farlo in quanto cittadino laico. Se pretende di farlo sostenendo la propria religione contro altre religioni o contro l’idea stessa di laicità, apparirà sicuramente, agli occhi di un laico, come un fanatico, uno che rischia di minacciare l’ordine pubblico, o persino di incitare all’odio o alla violenza. In ogni caso anche se vi partecipasse in una maniera così aggressiva, lo Stato dovrebbe assicurare a tutte le confessioni religiose un trattamento equipollente, a prescindere dalla loro rilevanza pubblica o sociologica. Tutte dovrebbero avere il medesimo diritto di parola, nelle medesime forme.(7)

D’altra parte lo Stato non può negare dei pubblici dibattiti in cui una confessione religiosa dichiari d’essere migliore di altre confessioni. I cittadini van lasciati liberi di decidere. L’unica cosa che lo Stato può fare è di impedire che una determinata confessione risulti privilegiata rispetto ad altre, ovvero ch’essa sfrutti la propria rilevanza sociale o nazionale, dovuta a motivazioni storiche, in un’occasione di discriminazione per le minoranze religiose.

Per il resto dovrebbero essere gli stessi credenti a capire, autonomamente, che il pieno rispetto della libertà di religione viene garantito quando si tutela la libertà di coscienza. Non si può impedire a un credente di fare proselitismo o di organizzare eventi per diffondere la propria fede, ma non gli si può permettere di utilizzare le istituzioni statali, che appartengono a tutti, per favorire la propria religione.

Ecco perché, p.es., una qualunque scuola privata non può essere finanziata con denaro pubblico. Se lo Stato decidesse, per ragioni contingenti (p.es. la scarsità di mezzi finanziari), di sostenere materialmente tutte le scuole private dei credenti (che ovviamente resterebbero di tendenza, cioè ideologiche), dovrebbe farlo con le tasse dei relativi cittadini credenti, anche se esse verrebbero sottratte, in tale maniera, all’edificazione di opere pubbliche comuni alla collettività. Questa però è una situazione anomala, che col tempo va superata.

Se le Chiese vanno tenute separate dallo Stato, per impedire privilegi di qualsivoglia natura, lo Stato deve necessariamente garantire un’educazione e un’istruzione improntata al laicismo, lasciando ovviamente alle Chiese il diritto di agire, in forma privata, secondo criteri propri, soggetti ad autofinanziamento. Lo Stato, da parte sua, deve garantire tutti i servizi pubblici, tra cui quello relativo all’educazione ai valori civili e all’istruzione. Non ha alcun senso che i servizi garantiti da una confessione religiosa vengano finanziati con le tasse dei cittadini aderenti ad altre confessioni o del tutto privi di riferimenti confessionali.

Etica e politica fra religione e ateismo

Da quando s’è imposto il capitalismo, le Chiese, se proprio vogliono continuare a dare un contenuto politico alla loro fede, possono farlo solo in maniera indiretta, cioè in chiave etica, opponendosi ai princìpi e ai valori professati dagli Stati laici. Le stesse Chiese tendono a dire di non voler fare politica direttamente, per quanto non abbiano scrupoli a servirsi, attraverso canali privati, dell’appoggio di fidati parlamentari.

P.es. uno Stato può essere favorevole a una legislazione che permetta di divorziare o di abortire, mentre una Chiesa è contraria. Può lo Stato impedire alla Chiesa di esprimere una propria opinione su un argomento di natura etica? No, non può. Se lo facesse, creerebbe una situazione pericolosa per l’ordine pubblico. Lo Stato deve soltanto garantire che, quando sono in gioco argomenti così “sensibili”, i cittadini possono e anzi debbono confrontarsi liberamente, lasciando che la decisione ultima in materia venga presa dal parlamento, che si presume regolarmente eletto.

La domanda però che, a questo punto, inevitabilmente si pone è la seguente, che qui vogliamo formulare in varie maniere: posto che una legge sia contraria ai princìpi di un credente, si può accettare che questi non la applichi? Può un credente, in nome della propria fede, impedire che un altro credente o non credente possa esercitare i diritti riconosciuti dallo Stato? Può un credente, quando esercita come cittadino una funzione pubblica nell’ambito delle istituzioni statali, appellarsi all’obiezione di coscienza e non applicare una determinata legge? Più in particolare, può un medico cattolico rifiutarsi di praticare l’aborto o di prescrivere al paziente degli anticoncezionali? O un sindaco credente rifiutarsi di sposare una coppia omosessuale? O un carceriere contrario alla pena di morte rifiutarsi di eseguirla? Sono tante le situazioni in cui si verifica una contraddizione inconciliabile tra la legge e la propria coscienza. Ai tempi di Don Milani si parlava di obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare: oggi tale problema è stato risolto rendendo il servizio del tutto facoltativo. Ma la soluzione migliore sarebbe stata un’altra: fare in modo che tutti i cittadini, di tanto in tanto, vengano esercitati a difendere il loro territorio locale.

La libertà di coscienza è una delle cose più preziose che lo Stato deve tutelare, ma non può farlo violando la volontà della maggioranza dei cittadini che, attraverso i propri rappresentanti parlamentari, liberamente eletti, si è espressa in una determinata direzione. A volte accade che, per non sentirsi costretto a prendere provvedimenti, obbligando gli obiettori di coscienza a cambiare mestiere, lo Stato, sul piano amministrativo, concede delle deroghe, cioè fa delle eccezioni. Ma in questi casi deve comunque appurare che il diritto, sancito per legge, non venga violato, onde evitare una qualsivoglia minaccia all’ordine pubblico o un inaccettabile disservizio.

Lo Stato non può permettersi il lusso d’essere denunciato perché non ha applicato o fatto applicare una legge votata in parlamento. L’unica scappatoia a una situazione così anomala è quella di responsabilizzare i propri funzionari affinché controllino che, nonostante la possibilità dell’obiezione di coscienza, la legge viene comunque rispettata. In altre parole, se p.es. un medico rifiuta di praticare un aborto, deve comunque esserci, in tempo reale, un altro medico in grado di sostituirlo. È responsabilità del dirigente assicurare tale alternativa, e dovrebbe pagare di persona nel caso in cui essa non si verifichi puntualmente. Se si accetta l’idea che la volontà della minoranza prevalga su quella della maggioranza, la democrazia è impossibile. Si possono tollerare le eccezioni, ma non a scapito della regola.

Laicità e democrazia

Vi sono al mondo delle nazioni in cui etica e religione coincidono, o quasi. Vi sono paesi in cui in parlamento siedono dei deputati appartenenti al clero. Addirittura in alcuni paesi il governo e i ministeri sono gestiti da membri del clero. È ovvio che in situazioni del genere la laicità è ancora un diritto da conquistare, e non potrà certo esserlo con la forza.

La laicità può diventare un valore significativo, destinato a durare nel tempo, solo usando la democrazia. Ed è usandola che la società civile e quindi lo Stato possono mettere le confessioni religiose in condizioni di dimostrare la propria antidemocraticità.

Di per sé la religione non può essere considerata più antidemocratica dell’etica laica, ma lo diventa subito se non accetta l’idea che, sulle questioni religiose, la si può pensare diversamente. Non si dovrebbe esser mai perseguiti per le proprie opinioni di coscienza. La libertà di pensiero e di parola dovrebbe essere riconosciuta in tutte le Costituzioni del mondo.

È ovvio che un determinato partito politico o una confessione religiosa non possono tollerare forme di dissenso interno che ne minaccino la stabilità. È possibile discutere quanto si vuole su taluni argomenti, ma poi vanno prese delle decisioni e, se si vuole che la democrazia continui a funzionare, occorre che la minoranza si adegui alla volontà della maggioranza (salvo che si ritorni sullo stesso argomento in un momento successivo, con nuove idee da discutere). Con questo non si vuole affermare che la “verità” sta sempre nella maggioranza, ma semplicemente che non si può “discutere” all’infinito, meno che mai quando si hanno delle decisioni politiche da prendere. Solo il tempo potrà dire se la decisione presa era stata giusta o sbagliata.

Ciò che un partito politico o una confessione religiosa non può impedire è che esistano altri partiti o altre confessioni aventi gli stessi diritti di parola e di associazione. Anche un governo in carica deve accettare l’idea ch’esista un’opposizione intenzionata a criticarlo. Questo è l’abc della democrazia.

Semmai è importante stabilire quale peso dare alle varie opposizioni al governo in carica. È evidente, infatti, che un’opposizione al 40% non può avere lo stesso peso di una che è al 4%. Il diritto di parola va concesso in misura proporzionale al numero dei cittadini che lo rivendicano. Tutti hanno il diritto di parlare, ma soprattutto quelli che sono rappresentati da forze sociali significative. I governi devono sempre porre le condizioni affinché le minoranze possano diventare maggioranze rispettando i princìpi della democrazia

Stato e Chiese possono coesistere pacificamente?

Il diritto che lo Stato concede al cittadino credente di professare pubblicamente la propria fede è implicito nel diritto a poter esercitare pubblicamente il proprio culto. Se tutti i culti fossero vietati, lo sarebbe anche la fede. Quindi fede e culto, in un certo senso, coincidono. È infatti il culto che distingue un credente da un altro o da un non credente. E ogni culto, in uno Stato laico e democratico, è ovviamente pubblico. Tant’è che là dove talune sette religiose esercitano il proprio culto solo privatamente, lo fanno perché temono i dettami della legge o l’opinione pubblica, a meno che ovviamente lo Stato non professi ufficialmente il proprio ateismo, come accadeva nell’Albania di Enver Hoxha, il quale aveva posto fuorilegge tutte le religioni.

È ovvio che se non esistesse uno Stato laico, una confessione religiosa potrebbe non accontentarsi di manifestare la propria fede solo attraverso il culto. Potrebbe pretendere insegnanti religiosi, funzionari religiosi, giudici religiosi e così via. Vi sono religioni, soprattutto quelle monoteistiche, che pretendono di conformare tutta la vita sociale, culturale e politica ai propri valori. Dicono di volerlo fare proprio perché esigono una stretta coerenza fra la teoria e la pratica (di qui p.es. la cosiddetta “Dottrina sociale della Chiesa”). In sostanza non accettano l’idea che un credente si comporti come un semplice cittadino di fronte allo Stato, poiché ritengono che tale atteggiamento dualistico sia una forma di sdoppiamento della personalità, un venir meno ai propri obiettivi.

Si comportano così perché rifiutano l’idea che l’etica abbia dei valori equivalenti a quelli della religione. Per tali Confessioni integralistiche un’etica non influenzata dalla religione è semplicemente priva di moralità e quindi tendenzialmente disumana. Non a caso si avvalgono del detto di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, all’uomo tutto è concesso”.

È dunque impossibile per uno Stato laico avvalersi dell’appoggio delle Confessioni integralistiche. Esse faranno sempre in modo da porre le condizioni perché il governo in carica venga sostituito da uno favorevole al clericalismo politico.

Il fondamentalismo religioso, infatti, non è pericoloso soltanto quando difende la superstizione contro la scienza, ma anche quando presume di dare un contenuto direttamente politico alla propria fede. Che uno Stato laico non sia tenuto a fare distinzione tra religione e superstizione è pacifico. È tenuto però a fare distinzione tra una Confessione che, in nome della propria fede, vuole smentire le acquisizioni della scienza, e una Confessione che si limita a sostenere idee soprannaturali nell’ambito delle proprie convinzioni. Ancor più deve fare distinzione tra una Chiesa che ritiene possibile la democrazia compiuta solo nell’aldilà, e una Chiesa che vuol fare di questa idea un motivo per rovesciare un governo in carica legittimamente costituito.

Con questo non si vuole negare che, in teoria, anche lo Stato laico può rischiare di finire nella superstizione o nel dogmatismo: si pensi soltanto a quando vuole imporre alla società civile l’idea che il mercato sia fonte di libertà o che la scienza è in grado di risolvere qualunque problema o che la democrazia parlamentare va esportata in tutto il mondo o che il diritto occidentale è l’unico in grado di garantire dei valori umani universali. Sono tutti dogmi privi di alcun fondamento, regolarmente smentiti dalla storia: sono le principali fonti di tutte le nostre illusioni.(8)

Qui si vuole semplicemente sostenere che i difetti di una democrazia laica vanno superati rendendo ancora più democratica la laicità. È compito degli Stati laici dimostrare alle Confessioni religiose che sono in grado di correggere da soli i propri errori e che, in ogni caso, sanno accettare le critiche costruttive provenienti anche dagli ambienti ecclesiastici.

I cittadini, credenti o non credenti che siano, devono saper trovare in loro stessi le ragioni per superare i limiti di quelle democrazie che sono tali solo all’apparenza. La stessa definizione di “Stato laico” è indubbiamente destinata a essere inglobata in quella di “società democratica”, in quanto una società davvero democratica non ha bisogno di uno Stato che garantisca la laicità delle leggi. Se uno Stato avesse la pretesa di garantire la laicità e la democrazia a prescindere dalla società civile, ebbene, proprio in quel momento le starebbe violando.

Quand’è che uno Stato è davvero laico e democratico?

Bisogna sempre fare molta attenzione al significato delle parole. “Stato laico” non vuol dire “Stato ateo”. Per capire la differenza prendiamo in esame una questione religiosa.

Noi possiamo facilmente constatare che oggi tutte le Confessioni monoteistiche dicono di voler fare politica solo indirettamente, dedicandosi agli aspetti sociali (assistenzialismo, volontariato, ecc.) e culturali (educazione, istruzione, editoria, ecc.). Molte poi si servono, in forme private o ufficiose, della collaborazione di taluni politici eletti in parlamento. Nessuna Chiesa oggi vuole sentirsi protagonista attiva sul piano politico, salvo quelle che sul proprio territorio hanno imposto una sorta di monarchia teocratica.(9)

Ebbene, anche gli Stati laici svolgono, di fatto, un’operazione di tipo “ateistico” in maniera indiretta, servendosi appunto della loro laicità. Se lo Stato fosse esplicitamente ateo dovrebbe impedire sia il culto che la fede. Uno Stato laico invece permette entrambe le cose.

Laicità vuol dire “indifferenza” nei confronti delle religioni, nel senso che lo Stato non parteggia per nessuna in particolare, ma le considera tutte uguali. È questo un atteggiamento ateistico? Indirettamente sì (o, se si preferisce, è di tipo agnostico), ma è un atteggiamento che ha il vantaggio di non violare la libertà di coscienza di nessuno.

Gli Stati non lottano contro le religioni in sé, ma possono farlo contro quegli atteggiamenti che, in nome della fede, negano credibilità alla scienza e un valore effettivo alla laicità e all’etica democratica. Semmai si oppongono con decisione a tutte le forme di clericalismo politico. Ma non per questo sono tenuti a sostenere una “democrazia atea”.

L’ateismo può essere un patrimonio culturale di un partito politico, che lo usa per contestare il valore delle religioni, ma non può essere una convinzione imposta con la forza della legge. Ateismo o agnosticismo non possono essere trasformati in una nuova religione, se si vuole salvaguardare il significato della laicità.

Il cittadino deve esser lasciato libero di credere in quel che vuole, anche perché, nel caso in cui alcuni valori religiosi vengono violati dallo Stato, egli ha il diritto di protestare. E, di fronte allo Stato (che assicura, nei suoi diritti fondamentali, quello alla libertà di coscienza), lo farà in quanto cittadino, non avendo bisogno di farlo in quanto credente in una specifica Confessione.

In ultima istanza, ovviamente, ogni cittadino è tenuto a conformarsi alla volontà della maggioranza. In una qualunque società o comunità il valore della maggioranza è decisivo per garantire il rispetto della legge. Il che ovviamente non significa che, nell’ambito della democrazia, una minoranza non possa diventare maggioranza. Non ha senso ipostatizzare delle posizioni politiche o ideologiche.

Certo, uno Stato laico, mettendo tutte le religioni sullo stesso piano, può far credere ch’esse siano soltanto una sopravvivenza del passato, una forma di oscurantismo; e, per questa ragione, può cercare di ostacolarle (anche solo sul piano amministrativo) in vari modi. L’abbiamo visto durante le rivoluzioni borghesi e proletarie: il fatto d’avere storicamente ragione offriva il pretesto per compiere cose umanamente riprovevoli o politicamente inaccettabili. Ricordiamo tutti quando Gorbaciov diceva che se è giusto tenere separata la Chiesa dallo Stato, è insensato pensare di poterla tenere separata anche dalla società civile.

Compito dello Stato è quello di stare molto attento a non porre le condizioni che possono indurre i cittadini a disobbedire alle sue leggi, anche perché, quando avviene un meccanismo del genere, ogni occasione diventa facilmente un pretesto per rincarare la critica al sistema. Alla fine tra cittadini e istituzioni non ci si comprende più, e prima o poi i cittadini vincono: se passa l’idea che qualcuno è ingiustamente perseguitato, inevitabilmente il consenso tende ad allargarsi.

Lo Stato governa la società civile, ma questa deve essere messa in grado di non aver bisogno di alcuno Stato per autogovernarsi. Lo Stato non dovrebbe mai esercitare il potere contro la società civile. Semplicemente dovrebbe essere considerato uno strumento che la maggioranza dei cittadini si dà per far rispettare le leggi. Tuttavia, nella misura in cui la società è davvero in grado di rispettarle, avendole acquisite per abitudine, nella consapevolezza della loro necessità, lo Stato diventa inutile.

Quando si dice che lo Stato è uno strumento che si dà la maggioranza dei cittadini per far rispettare a tutti determinate leggi, bisognerebbe anche aggiungere che se lo Stato non usa la persuasione ragionata, il confronto dialettico, il rispetto dei diritti umani, prima o poi, agli occhi della pubblica opinione, la suddetta maggioranza diventa “minoranza”, sicché all’ordine del giorno torna di nuovo il problema di come abbattere le istituzioni.

In tal senso lo Stato non deve temere che una Confessione religiosa, attraverso il proselitismo, aumenti il proprio consenso. È un diritto del cittadino non solo credere in ciò che vuole, ma anche pubblicizzare le proprie idee ed espandere la cerchia degli aderenti alla propria fede. Lo Stato deve semplicemente educare i cittadini alla tolleranza, al rispetto delle idee altrui, a credere nel pluralismo.

È vero che lo Stato è un ente astratto ed è quindi impossibile che il proprio compito educativo escluda a priori l’uso della forza. Lo Stato non può educare soltanto attraverso l’esempio etico dei propri funzionari. In ultima istanza si riserva sempre il privilegio esclusivo di poter usare la forza contro una popolazione disarmata o non adeguatamente attrezzata e preparata per affrontare i suoi corpi di polizia, le sue forze armate. Tuttavia la storia è piena di esempi in cui l’uso della forza non ha fatto altro che produrre una reazione contraria, spesso di intensità assai maggiore, che puntualmente ha trovato impreparati ad affrontarla i governi al potere.

Il più grande limite dello Stato è che per assicurare l’ordine pubblico usa degli organi repressivi separati dalla popolazione. Ecco perché i cittadini devono imparare a difendere da soli i propri diritti, cioè a educarsi reciprocamente, prendendo spunto dagli esempi concreti di persone reali, che vivono un’esistenza comune, del tutto normale. L’etica viene garantita, nella sua democraticità, soltanto quando i cittadini si sentono uniti liberamente.

Uno Stato è davvero laico e democratico quando si fida dei propri cittadini e non assume atteggiamenti paternalistici, anche perché, quando si possiedono le leve del potere, è facile passare dal paternalismo alla dittatura.

Può esistere una internazionalizzazione della fede?

Le Confessioni religiose non solo hanno diritto a fare proselitismo a livello nazionale, ma possono anche svolgere un’attività internazionale a favore della pace e dei diritti umani, con o senza l’aiuto dei loro rispettivi Stati.

Tali Confessioni sono organismi che i cittadini possono darsi per affrontare meglio i problemi della vita, propria e altrui. Gli Stati laici non hanno il diritto e tanto meno il dovere di sindacare sull’efficacia degli strumenti religiosi, a meno che con essi non vengano palesemente violate delle disposizioni di legge. Se una Chiesa è a favore della tutela ambientale, che è un valore riconosciuto a livello internazionale, ha tutto il diritto di dirlo e persino di contestare gli Stati che non lo rispettano o non lo fanno rispettare. Se una Chiesa, sul piano pratico, dimostra d’essere più coerente dello Stato nell’applicare i princìpi o le leggi che appartengono alla democrazia, sarà compito dello Stato modificare il proprio atteggiamento.

Noi non possiamo sapere a priori quali sono tutti i modi in cui l’obiettivo della democrazia può essere realizzato. Sappiamo soltanto che la forza dovrebbe essere esercitata dopo aver provato inutilmente tutte le altre modalità. Ma è a tutti evidente che forza e democrazia non possono, alla lunga, stare insieme. Quando i cittadini usano la forza per compiere le rivoluzioni politiche, non possono pensare di continuare a usarla ad libitum, dopo averle compiute. È vero che una rivoluzione che non si sa difendere, non vale nulla, ma l’obiettivo finale non è quello di stare sempre sulla difensiva.

Le istituzioni non possono diventare paranoiche e vedere nemici in ogni dove, anche perché in una situazione del genere è molto facile accusare qualcuno ingiustamente. L’abbiamo eloquentemente visto nelle dittature staliniana e maoista. Quando uno Stato si sente debole e non ha fiducia nei propri cittadini, non vede l’ora di dimostrare con esempi eclatanti (p.es. dei processi giudiziari) chi è che comanda. Può anche arrivare a compiere atti di terrorismo, scaricando la colpa su nemici completamente inventati. Si badi che, per far questo, non è obbligatorio essere degli Stati “socialisti”.

Se al mondo esistesse un minimo di democrazia, noi dovremmo vedere gli Stati chiedere alle Confessioni religiose di esprimersi chiaramente a livello internazionale quando i diritti umani o civili vengono minacciati o violati. La democrazia non è forse un bene per tutti, credenti e non credenti?

Probabilmente se le Chiese non avvertissero se stesse in competizione tra loro; se fossero abituate a confrontarsi liberamente e francamente e non si limitassero a difendere gli interessi nazionali o “di parte”, potrebbero svolgere un ruolo più produttivo nel mondo. Dovrebbero smetterla di sentirsi in colpa per aver assunto nel passato una posizione favorevole ai poteri dominanti; anche perché gli stessi Stati hanno svolto il ruolo di difendere gli interessi dei potentati economici. Gli Stati esistono da circa 500 anni, un periodo che, guarda caso, coincide con quello in cui si è sviluppato il capitalismo moderno.

Teoricamente gli Stati sono a favore del diritto internazionale, ma praticamente difendono gli interessi del capitale, sia esso nazionale o globale. In tal senso le Confessioni religiose potrebbero dimostrare, se solo lo volessero, maggiore coerenza; soprattutto dovrebbero essere capaci di andare oltre i retaggi del passato, che le condizionano negativamente. P. es. chi appartiene alla Confessione islamica difficilmente emetterebbe dei comunicati congiunti con chi appartiene alla Confessione cristiana, poiché gli sembrerebbe di fare un favore al passato colonialismo occidentale.

Eppure vi sono argomenti trasversali a tutte le religioni, come p.es. il diritto alla vita, alla pace, al lavoro, a un ambiente naturale, il rispetto delle minoranze e delle categorie sociali più deboli, ecc. Che senso ha che le Confessioni religiose vogliano espandersi a livello internazionale, e poi si comportino come se fossero degli organi vincolati a esigenze nazionali? O come se dovessero difendere degli schieramenti geopolitici (occidente contro oriente, nord contro sud, Euro-America contro Asia, ecc.)?

Poiché il Medioevo è finito da un pezzo, le Confessioni religiose non hanno il diritto di sostituirsi agli Stati. Né, per essere meglio accettate in un mondo sempre più laico, devono sentirsi in obbligo di rinunciare alla loro specifica identità religiosa. Semplicemente esse hanno il dovere di compiere una pressione morale là dove i valori laici e democratici non vengono concretamente rispettati. Sarà poi la storia a decidere se per un credente è preferibile la religione o l’ateismo.

Stati e Chiese nazionali

Oggi è ancora molto facile vedere come gli Stati difendano a spada tratta gli interessi delle loro Chiese nazionali, accettate dalla maggioranza dei cittadini; spesso lo fanno contro gli interessi delle Confessioni minoritarie o addirittura contro quelle Confessioni straniere che nel mondo si pongono in maniera concorrenziale rispetto alle loro Chiese nazionali. Non è poi infrequente che gli Stati laici si servano delle Chiese presenti nei loro territori in maniera ostile nei confronti di altri Stati.

Le Chiese si prestano facilmente a tali strumentalizzazioni. Anzi, si può con certezza dire che le Chiese nazionali sono ben contente di poter fruire di una protezione o di un privilegio statale che le metta al riparo dalla concorrenza sul piano religioso. In questa maniera le Chiese minoritarie vengono semplicemente “tollerate” dalle istituzioni, ma devono stare sempre molto attente a come si comportano, alle parole che dicono: soprattutto devono evitare di fare “proselitismo”, o comunque limitarsi a farlo in maniera molto privata. Le Chiese nazionali o maggioritarie possono pretendere d’essere inserite nel “diritto pubblico”; le altre devono accontentarsi di appartenere al “diritto privato”.

Ora, il fatto che là dove esiste una larga tutela statale, le Chiese maggioritarie la accettino ben volentieri, è la riprova che i valori religiosi non sono migliori di quelli laici. In genere si ha come l’impressione che le Chiese non abbiano alcuna fiducia nel loro futuro. Il confronto con le rivoluzioni borghesi e proletarie le ha come disarmate. Avvertono di poter sopravvivere solo perché esistono ancora degli Stati che, ignorando il senso della laicità, le proteggono in varie maniere.

L’unica identità o personalità che possono far valere è quella giuridica. Sul piano propriamente etico non hanno da dire qualcosa di diverso dai loro Stati di appartenenza. Non riescono neppure a chiedere a tali Stati di essere apertamente democratici e pluralisti. Preferiscono sentirsi privilegiate. Si comportano come le Chiese pagane nei regimi schiavistici. Non sono neppure in grado di trovare tra loro delle strategie comuni per indurre tutti gli organismi internazionali a essere più coerenti nell’applicare i princìpi laici che professano.

Le Chiese hanno una visione internazionale delle cose soltanto quando ognuna di loro può espandersi geograficamente a spese delle altre. Il loro principale obiettivo è quello di svolgere una sorta di “governo nazionale indiretto” e, per potersi diffondere all’estero, non hanno scrupoli a servirsi del potere o dei servizi dei loro rispettivi Stati nazionali, i quali naturalmente non mancheranno di chieder loro qualcosa in cambio. Se una missione religiosa fa del bene a una comunità locale del Terzo Mondo, sul piano scolastico o sanitario, non è forse più facile alle aziende che appartengono al medesimo Stato di quella missione sfruttare economicamente quella comunità o lo Stato in cui essa vive?

Quando gli Stati politici si comportano in maniera antidemocratica, le confessioni religiose possono anche sponsorizzare delle rivoluzioni politiche vere e proprie. Possono addirittura passare da un governo “indiretto” a uno effettivo vero e proprio. L’esempio dell’Iran è quello più eclatante: vedere gli imam che gestiscono un’intera nazione, a noi occidentali fa abbastanza impressione. A dir il vero però, in tutto il mondo islamico, dopo la caduta di alcuni leader governativi filo-occidentali, il fondamentalismo religioso ha voluto assumere una funzione direttamente politica, e senza farsi tanti scrupoli dall’usare mezzi terroristici.

In una situazione del genere i valori religiosi non hanno alcuno spessore etico. D’altra parte chi nutre atteggiamenti integralistici difficilmente sopporta che la propria fede religiosa resti priva di una veste politica ben definita. E purtroppo questa fede riesce anche ad avere la meglio sull’etica laica, quando la politicità che tale etica esprime, viene esercitata in forme autoritarie, corrotte, antidemocratiche.

Una volta giunta al potere, l’etica laica deve dimostrare quotidianamente d’essere superiore ai valori e all’esperienza religiosa, altrimenti un’insurrezione sarà sempre possibile. E un’insurrezione fatta in nome di valori religiosi facilmente oggi si trasforma in un’aberrazione. Nella storia il tempo non passa invano.

Etica e religione: quale futuro?

Sembra, ma è solo un’apparenza, che la religione sia più antica dell’etica, cioè abbia un’esistenza di più lunga durata.

L’autonomia dell’etica, la sua indipendenza dalla religione, è andata di pari passo col distacco della filosofia dalla mitologia, al tempo dei Greci. Anche nel corso del basso Medioevo la riscoperta dell’aristotelismo ha contribuito non poco a separare la metafisica dalla teologia.

Tuttavia si sono dovute aspettare le rivoluzioni borghesi e proletarie prima di avere una significativa affermazione dell’etica laica. La borghesia ha avuto il compito di laicizzare il cattolicesimo, creando una confessione, il protestantesimo, e una cultura generale, l’Umanesimo, nonché una specifica tipologia artistica, il cosiddetto Rinascimento, che di religioso avevano solo la parvenza. La quale, poi, è stata completamente rimossa dal socialismo scientifico, dopo aver subìto terribili colpi demolitori dalla rivoluzione francese, dalla Comune di Parigi e dagli sviluppi ateistici dell’idealismo hegeliano (Feuerbach, Stirner, i fratelli Bauer e Strauss).

Il merito del socialismo scientifico è stato quello di aver fatto capire che più importante ancora dell’ateismo è il superamento del capitalismo. L’attenzione quindi si è spostata dalle questioni filosofiche e teologiche a quelle economiche (Marx) e politiche (Lenin).

Oggi la religione è solo uno degli strumenti (neanche il più importante: la cinematografia, p.es., lo è molto di più) di cui si serve il capitale per riprodurre culturalmente se stesso. Il capitalismo si serve di tante cose per riprodursi: il consumismo ad oltranza, la democrazia formale, la forza militare, il diritto astratto, la superiorità tecnologica, e via dicendo. Tutti questi strumenti in genere vengono usati in maniera tale che l’etica risulta priva di vera umanità. Essa è sì separata dalla religione (e per farlo ha dovuto dimostrare d’essere migliore), ma vive come se fosse del tutto alienata: sul piano teorico vengono affermati princìpi altamente democratici; su quello pratico ci si comporta in maniera completamente opposta.

L’etica borghese è schizofrenica, e il motivo di ciò sta proprio nelle contraddizioni economiche del capitalismo, profondamente lacerato tra la proprietà dei mezzi produttivi e il lavoro di chi non li possiede. Questa è un’etica che riesce a imporsi sulla religione non per la sua forza morale intrinseca, ma perché alla base è sostenuta da una continua rivoluzione tecnico-scientifica.

Le religioni, per dire qualcosa di utile o di convincente, devono prima aspettare che l’etica borghese, in forza del proprio cinismo, procuri sommi disastri all’umanità, come p. es. le guerre mondiali o le devastazioni ambientali.

Oggi tuttavia è raro trovare qualcuno che creda nella possibilità di superare i limiti dell’etica borghese grazie alla religione. In Occidente i cittadini sono troppo disincantati. È più facile credere che tali limiti siano insuperabili. Al massimo si pensa, ma si tratta di convinzioni molto minoritarie, ch’essi potranno essere superati solo dopo aver abbattuto il sistema capitalistico con una rivoluzione proletaria. In Occidente si è smesso di credere in questa possibilità dopo il fallimento di quella stagione eversiva iniziata nel Sessantotto e conclusa una decina d’anni dopo. Il colpo di grazia l’hanno dato il crollo del “socialismo reale” e l’insuccesso della perestrojka gorbacioviana, con cui si sperava di poter passare dal socialismo burocratico a quello democratico.

Nel mondo della sinistra radicale non manca chi pensa che nell’attuale Cina sia possibile far coesistere una politica governativa di tipo socialista con una economia prettamente borghese, ma si tratta di un’illusione. Là dove sul piano sociale si sviluppa il capitalismo, l’etica e la politica ne risentono inevitabilmente. Una volta affermato il primato del valore di scambio, l’etica sottesa al valore d’uso tende progressivamente a scemare, fino a scomparire del tutto, e tale declino non può essere impedito da una politica che, per affermarsi, usa la forza.

In Cina si sta sperimentando soltanto una forma di capitalismo in cui lo Stato ha la pretesa di fare da arbitro, cioè di giocare il ruolo del controllore. Il fatto che in questo paese la religione non conti pressoché nulla, è la riprova che un’etica laica, di per sé, non rende migliore la società. Potrà farlo soltanto quando sarà sostenuta da una democrazia effettiva, anzitutto sociale ed economica, di cui quella politica sia un semplice riflesso.

Per milioni di anni il genere umano non ha avuto alcun bisogno della religione, proprio perché viveva una forma di socialismo del tutto compatibile con le esigenze riproduttive della natura. Gli uomini primitivi erano atei non perché culturalmente arretrati, ma perché nella loro essenza umana e naturale non soffrivano di contraddizioni antagonistiche, quelle che appaiono irrisolvibili.

Oggi abbiamo bisogno di tornare a quel periodo, con o senza la scienza e la tecnica di cui siamo capaci. Di sicuro non possiamo nutrire nei confronti della scienza quegli stessi atteggiamenti devozionali o fideistici che nel passato si nutrivano nei confronti delle divinità.

Etica e politica nel socialismo

Davvero il socialismo pone la politica al di sopra dell’etica? Gli integralisti religiosi sostengono che è sufficiente tale convinzione per non concedere nulla al socialismo. Infatti per loro la politica, quando ha un primato sull’etica, inevitabilmente si disumanizza, sicché nei confronti della religione diventa ancor peggio dell’etica laica.

In realtà la questione andrebbe rovesciata, nel senso che ci si dovrebbe chiedere se davvero esistono dei valori etici universali, la cui applicazione possa prescindere dallo spazio e dal tempo, cioè dei valori che siano indipendenti dalle interpretazioni che determinate comunità locali o nazionale possono darne.

Prendiamo ad es. il diritto alla vita. Apparentemente sembra essere il diritto umano più universale: ne sanno qualcosa i medici col loro “Giuramento di Ippocrate”. Eppure le religioni lo interpretano come vogliono. Tante di loro prevedono tranquillamente la pena di morte. Quasi tutte negano alle donne il diritto di abortire, cioè ritengono che abbia più diritti una persona che non c’è di una in carne ed ossa. E non si preoccupano di sapere quale sia la causa di una scelta così dolorosa.

Vi sono Confessioni religiose i cui aderenti, in caso di guerra, rifiuterebbero di difendere la loro patria occupata da una potenza straniera, e solo perché, impugnando le armi, sarebbero costretti a uccidere il nemico. Quante volte sentiamo di genitori credenti che uccidono le loro figlie quando queste decidono di non accettare un “matrimonio combinato” o di sposare chi non segue la loro religione? Sono innumerevoli i casi in cui il diritto alla vita subisce delle interpretazioni unilaterali che impediscono di considerarlo un valore umano universale.

È per questa ragione che il socialismo non sopporta le astrattezze. La politica serve per dare concretezza all’etica. Predicare un’etica universale è una forma di idealismo astratto, una vuota filosofia. Significa, in sostanza, fare gli interessi della politica dominante, cioè fare gli interessi di potere, che generalmente sono di tipo economico, di quelle classi sociali che, per nascondere la privatezza dei loro interessi, predicano appunto i valori universali. Oggi i valori universali che vanno per la maggiore solo la libertà di mercato e la democrazia parlamentare: due valori che fanno anzitutto gli interessi dei monopoli economici e degli organismi finanziari internazionali.

Nelle società divise in classi sociali opposte il potere si è sempre servito della religione per affermare se stesso. E il compito della religione è appunto questo, far credere che esistono valori al di sopra della politica, cui la stessa politica deve rendere conto. In un certo senso la religione è una specie di finta opposizione al sistema: da un lato si serve della propria etica per contestare la politica laica; dall’altro fa concretamente gli interessi di quella politica che vuole strumentalizzarla in funzione anticomunista. Essa odia il socialismo proprio perché il socialismo le impedisce di svolgere questo lavoro ambiguo, che rende ipocriti anche quando lo si compie con le migliori intenzioni.

Un vero credente dovrebbe esser grato al socialismo di averlo tolto dall’imbarazzante posizione di chi, da un lato, predica il bene universale e, dall’altro, oggettivamente, è costretto a fare gli interessi del bene particolare delle classi dominanti.

Quante volte il cristianesimo ha predicato un amore incondizionato per i nemici, tacendo, per opportunismo o convenienza, sulle loro ingiustizie? Quante volte lo ha predicato distinguendo tra nemico e nemico? E quante volte lo ha soltanto predicato? È utopica l’idea di poter superare una società basata sullo sfruttamento del lavoro altrui, senza dover ricorrere alla forza politica e, se occorre, anche militare. Non s’è mai visto da nessuna parte che gli sfruttatori abbiano rinunciato spontaneamente al loro mestiere limitandosi ad ascoltare delle “belle parole”.

Il socialismo non afferma il primato della politica per negare all’etica il suo valore: se lo facesse sarebbe cinico o machiavellico o gesuitico. Non è forse stato Machiavelli a far nascere la scienza della politica subordinando nettamente a quest’ultima ogni considerazione di tipo morale? Perinde ac cadaver non era forse il motto principale dei gesuiti?

In realtà è proprio il socialismo democratico che sa benissimo come non ci possa essere alcuna etica migliore di quella in grado di dimostrare concretamente il proprio valore. È la prassi il criterio della verità. Semmai è la politica borghese che si deve preoccupare di creare le condizioni favorevoli allo sviluppo di un’etica davvero umanistica.

Compito del socialismo è quello di chiedere all’etica, e quindi anche alla religione, di affermare dei valori che facciano gli interessi non di classi particolari, ma della stragrande maggioranza dei cittadini. Il popolo ha bisogno di valori in cui potersi riconoscere, e questi valori devono essere veri, non costruiti artificiosamente dai poteri dominanti. Valori veri sono quelli che permettono al popolo di vivere un’esistenza dignitosa, non lacerata da conflitti che costituiscono una minaccia quotidiana e che costringono a fare scelte indesiderate o che inducono a comportarsi in maniera alienata, degradante.

Il valore della libertà di scelta

Se tutti potessero esercitare concretamente il diritto alla libertà di scelta, senza limitarsi a fruirne in maniera puramente teorica, i valori universali si formerebbero spontaneamente. Finché questa libertà non esisterà fattivamente per tutti i cittadini del mondo, la politica avrà tutti i diritti di pretendere un primato sull’etica astratta. Quando invece essa esisterà, scompariranno sia la politica che regolamenta i conflitti di classe o che cerca di superarli, sia la religione che dà per scontato che su questa Terra essi non siano risolvibili. Resterà solo l’etica, umana e democratica.

Invece di pensare ad astratti valori umani universali, i credenti dovrebbero chiedersi, quando vedono i poteri dominanti manifestare una profonda incoerenza tra ciò che dicono e ciò che fanno: “Che cosa possiamo fare per risolvere tale antinomia?”. Cioè non dovrebbero limitarsi a contestare il socialismo solo perché questo non ha idee religiose, ma dovrebbero anche dire basta al consumismo sfrenato, al saccheggio ambientale, alle discriminazioni di genere, allo sfruttamento della forza-lavoro e a tante altre cose che il capitalismo mette in atto quotidianamente sull’intero pianeta.

Cosa fanno i credenti per dimostrare che non sono dei “sepolcri imbiancati”? Che non predicano soltanto pazienza e rassegnazione? Che non sono disposti a chiudere un occhio sulle aberrazioni del capitalismo pur di avere in cambio una fetta del potere?

È palesemente falso sostenere che il socialismo mette in discussione non soltanto l’esistenza di Dio, ma anche il diritto dell’uomo ad avere una speranza ultraterrena. È vero il contrario: una volta risolta la principale questione economica, cioè il conflitto tra capitale e lavoro, tutti saranno finalmente liberi di credere in ciò che professano, senza impedimenti o condizionamenti di sorta. Questo poi senza considerare che il socialismo non nega affatto che possa esistere una dimensione vitale diversa da quella terrena. La materia è eterna e universale, soggetta a perenne trasformazione. Semplicemente il socialismo considera il nostro pianeta come il luogo in cui sperimentare il lato umano e democratico della materia. Che poi questa materia sia fatta anche di antimateria o, se si preferisce, di spirito anima energia dynamis… chi mai potrebbe escluderlo? Non abbiamo ancora elementi sufficienti per conoscere l’intera “sostanza” di cui l’universo è fatto.

Politica ed etica, nel socialismo democratico, sono strettamente connesse, nel senso che gli obiettivi dell’una sono gli obiettivi dell’altra. Quando il socialismo si comporta in maniera difforme da tale coerenza, è perché sta imitando il sistema borghese, che è cinico per definizione. Con questa differenza: i capitalisti sono disposti a calpestare qualunque valore etico quando in gioco sono i loro interessi economici; i socialisti imborghesiti lo fanno quando vogliono restare legati alla loro ideologia, senza tener conto della realtà concreta.(10)

Delle due aberrazioni, quella borghese, essendo nata un migliaio di anni fa nei Comuni italiani, è stata in grado di condizionare la realizzazione di tutte le rivoluzioni socialiste. Partorire un socialismo davvero democratico si è rivelato un’operazione incredibilmente complessa, oltre ogni immaginazione. Due guerre mondiali non sono state sufficienti per trovare la giusta strada.

L’umanità però di fronte a sé continua ad avere due sole alternative: o socialismo o barbarie. E se il socialismo che si vuole e si deve creare non è sufficientemente umano e naturale, la barbarie è assicurata.

Compiti del futuro socialismo democratico

Il socialismo democratico non è altro che un ritorno al comunismo primitivo nella consapevolezza di tutti gli errori compiuti nella storia. Le religioni sono nate in conseguenza della fine del comunismo primitivo. Il cosiddetto “peccato originale” non è stato che la nascita dello schiavismo, cioè di quella esperienza storica che ha posto fine a quel comunismo. Si tratta di capire se questa fine va considerata irreversibile.

La differenza tra socialismo e religione sta nel fatto che quest’ultima non ritiene più possibile su questa Terra un ritorno al paradiso perduto, quello della foresta. La liberazione da tutti i “mali” è prevista soltanto nell’aldilà. Ecco perché socialismo e religione sono del tutto incompatibili, almeno nell’obiettivo finale che si propongono, che però condiziona tutto il resto, anzitutto i mezzi con cui conseguirlo.

Fino ad oggi la storia ha sperimentato varie forme di oppressione sociale, ma ognuna di esse, al suo sorgere, si poneva l’obiettivo di superare i limiti dello stile di vita precedente. Schiavismo, feudalesimo e capitalismo, nelle forme statali o private, sono state delle formazioni sociali che pretendevano di superare i limiti della precedente. Il socialismo statale ha preteso, vanamente, di superare i limiti del capitalismo.

La mia generazione, nata negli anni Cinquanta, ha assistito al superamento del capitalismo privato con quello sostenuto dallo Stato; ha assistito al crollo repentino del socialismo statale, sostituito dal capitalismo statale o privato; sta osservando l’esperimento cinese, in cui un partito sedicente comunista al governo sta gestendo un capitalismo privato e statale. Inoltre nella cosiddetta area “terzomondiale”, usata dal capitalismo occidentale in forma “coloniale”, le contraddizioni sono diventate talmente esplosive che hanno iniziato a sperimentarsi varie forme di socialismo, con risultati però del tutto insoddisfacenti.

L’umanità procede in maniera contorta, molto diversificata, sulla base di specifiche condizioni storiche. Le uniche esperienze di “socialismo democratico” sembrano essere quelle delle ultime, sparute, comunità primitive che vivono nei luoghi più impervi della Terra.

Che cosa possiamo fare oggi per sopravvivere in maniera dignitosa? Indubbiamente lottare contro le contraddizioni antagonistiche di tutti i sistemi sociali e politici. Bisognerebbe farlo lì dove si è nati e cresciuti, evitando d’illudersi di potersi emancipare emigrando altrove. La conoscenza del proprio territorio, di tutte le sue caratteristiche, è di fondamentale importanza. In secondo luogo occorre recuperare il valore del comunismo primitivo, non solo sul piano teorico, approfondendo gli studi antropologici, ma anche tutelando gli interessi delle ultime comunità rimaste, che non possono essere lasciate da sole a combattere i meccanismi perversi del capitale. In terzo luogo bisogna associare l’idea di socialismo a quella di ambientalismo, poiché solo oggi ci stiamo accorgendo che le risorse naturali sono in via di esaurimento e che taluni danni compiuti alla natura hanno la caratteristica d’essere irreversibili. Infine, per non ripetere gli errori del passato, bisognerebbe cercare di capire bene i motivi per cui, dopo essere risultata clamorosamente vittoriosa, l’esperienza rivoluzionaria del bolscevismo si è trasformata, sotto lo stalinismo (e successivamente sotto il maoismo), in una incredibile dittatura.

Note

(1) Si noti che nella nostra Costituzione non è neppure previsto che un cittadino possa essere ateo.

(2) Attenzione che l’obiezione di coscienza non ha lo stesso valore della libertà di coscienza. Nell’ambito delle istituzioni civili o statali non ci si può opporre a una legge del parlamento sulla base di una convinzione religiosa. Se lo Stato permettesse una cosa del genere, la laicità perderebbe la sua ragion d’essere. Lo Stato può soltanto evitare che un cittadino compia qualcosa contro la propria coscienza, ma non può non intervenire quando un cittadino, per far valere la propria libertà di coscienza, viola quella altrui o altri diritti fondamentali.

(3) D’altra parte in uno Stato capitalista esiste una sola ideologia dominante, cui tutti devono formalmente attenersi, quella liberista.

(4) Proprio nello stesso anno nasceva invece il fondamentalismo protestantico nordamericano, che si opponeva all’esegesi laica della Bibbia e che poi, col nome di Christian Right, appoggerà sempre il partito repubblicano.

(5) Si pensi solo a tutta la filosofia politica di Augusto Del Noce e di Rocco Buttiglione.

(6) In Cina il governo interviene sull’uso della terra, che è rimasta statale, solo in ultima istanza, quando sono in gioco degli interessi statali: per il resto viene concessa ad uso privato, dietro il pagamento di un affitto.

(7) Cosa che in Italia è la stessa Costituzione, con l’art. 7, a impedirlo. La differenza tra “Concordato” con una religione e “Intese” con tutte le altre è abissale.

(8) A proposito di “illusioni”, non sono forse gli Stati capitalistici che alimentano la convinzione di poter vivere al di sopra delle proprie effettive risorse? Di poter pagare qualunque cosa se il costo viene rateizzato? O che si può sempre vincere in una lotteria milionaria per superare la propria precarietà? Dogmi e superstizioni possono riguardare tranquillamente tanto le religioni quanto il laicismo.

(9) Ufficialmente le monarchie teocratiche risultano essere oggi quella vaticana e quella del Monte Athos in Grecia, ma in Iran la repubblica è ierocratica, gestita dal clero islamico; e in Arabia Saudita i non musulmani non possono ottenere la cittadinanza saudita e la pratica religiosa privata non è definita legalmente; nel Regno Unito non può esserci un sovrano che non sia di religione anglicana; in Norvegia fino al 1º gennaio 2017 il luteranesimo era la religione di stato; in Israele il Gran Rabbinato è in grado di legiferare autonomamente su molte materie etico-religiose, senza che lo Stato possa dire alcunché.

(10) Da notare che sotto la denominazione di “socialismo imborghesito” è possibile farci stare sia la socialdemocrazia occidentale, che è socialista a parole e borghese nei fatti, sia il socialismo burocratico e autoritario, tipico, almeno sino al crollo degli anni Novanta, dei paesi est-europei, ma anche asiatici. Il cosiddetto “socialismo reale” era una forma di dittatura ideologica da parte di una casta di intellettuali, analogamente al giacobinismo della rivoluzione francese. La disumanità della socialdemocrazia borghese era evidente là dove si accettava l’imperialismo occidentale, cioè lo sfruttamento dei popoli coloniali. Quella invece del cosiddetto “socialismo amministrato dall’alto” era evidente là dove lo Stato e il governo in carica impedivano alla società civile ogni forma di libertà di pensiero e di parola.

Fonti

Luca Ozzano, Fondamentalismo e democrazia, ed. Il Mulino, Bologna 2009

Gabriel A. Almond, R. Scott Appleby, Emmanuel Sivan, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale, ed. Il Mulino, Bologna 2006

Enzo Pace – Renzo Guolo, I fondamentalismi, ed. Laterza, Roma-Bari 2002

Gilles Kepel, La rivincita di Dio, ed. Rizzoli, Milano 1991

Diritti e bisogni

Dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789
una ipotetica Dichiarazione sui bisogni e le libertà universali dell’essere umano

Nei secoli XVII e XVIII la classe borghese ha svolto un ruolo progressivo in tutte le parti del mondo, non solo sul piano socioeconomico, ma anche su quello giuspolitico. L’esempio di questa Dichiarazione dei diritti elaborata nel corso della rivoluzione francese lo dimostra. Ancora oggi potremmo dire di esserne figli, almeno in parte. L’altra parte, infatti, quella relativa ai diritti sociali, emerse nel XIX secolo, quando venne alla ribalta il proletariato industriale e la sua rappresentanza socialista. Questa tabella è frutto di un ragionamento fatto col senno del poi. Una cosa del tutto antistorica, che forse però sarebbe piaciuta a Rousseau, cui Robespierre faceva costante riferimento. Ci si è messi nei panni di un giacobino con una consapevolezza che non poteva avere, anche se le prime idee socialiste in Francia, vennero fuori da due seguaci del giacobinismo: Babeuf e Buonarroti.

Diritti dell’Uomo e del Cittadino

Articolo 1 Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.

Bisogni e Libertà dell’essere umano

Articolo 1 Tutti i diritti sono basati sui bisogni, in maniera proporzionale: quanto più grandi sono i bisogni tanto maggiori sono i diritti.

Articolo 2 Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Articolo 2 Ogni essere umano deve concorrere, sulla base delle proprie capacità, a soddisfare i bisogni altrui.
Articolo 3 Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa. Articolo 3 Nessuna distinzione sociale può essere imposta con la forza. L’utilità comune va decisa dalla stessa comunità che usa le distinzioni sociali.
Articolo 4 La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di quegli stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla Legge. Articolo 4 La libertà personale consiste nel promuovere la libertà altrui. Si è tanto più liberi quanto più lo sono gli altri. La libertà quindi è un impegno volto a rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono agli altri di essere liberi.
Articolo 5 La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina. Articolo 5 L’esercizio della libertà è un bisogno universale, illimitato nello spazio e nel tempo. La libertà non può essere definita una volta per tutte da alcuna affermazione, né può essere codificata da una legge. La libertà definisce l’essere umano e la libertà di coscienza è l’aspetto più significativo della libertà in generale.
Articolo 6 La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve quindi essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti. Articolo 6 Ogni violazione dell’esercizio della libertà non può essere risolta né con la forza né col diritto, ma solo con la persuasione ragionata e la condivisione del bisogno.
Articolo 7 Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente; opponendo resistenza si rende colpevole. Articolo 7 La proprietà deve soddisfare un bisogno, che può essere quello all’esistenza, alla sicurezza personale, alla libertà di movimento: non può essere rivendicata come un diritto che non tenga conto dei bisogni altrui. Non si tratta tanto di conservare dei diritti naturali quanto di soddisfare dei bisogni comuni.
Articolo 8 La Legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata. Articolo 8 Il principio di sovranità piena e diretta risiede nella stessa comunità che gestisce i propri bisogni. La comunità elegge i propri rappresentanti, il cui mandato può essere esercitato solo all’interno della stessa comunità e nei rapporti con le altre comunità. Il mandato deve poter essere revocato in qualunque momento. Una democrazia solo delegata è sempre un abuso.
Articolo 9 Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge. Articolo 9 La volontà generale di una comunità non può essere codificata in una legge, proprio perché i bisogni sono illimitati e mutevoli. Gli usi e i costumi sono superiori a qualunque legge, anche perché prescindono totalmente dall’esercizio della scrittura e quindi sono più universali. Solo la volontà generale di una comunità può decidere quando una consuetudine va modificata o superata.
Articolo 10 Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge. Articolo 10 Nessuna sanzione può risultare lesiva della dignità di una persona. Ogni sanzione ha lo scopo di rieducare a una convivenza civile. L’esercizio della critica senza quello dell’autocritica non aiuta lo sviluppo della convivenza civile.
Articolo 11 La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.
Articolo 12 La garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica; questa forza è dunque istituita per il vantaggio di tutti e non per l’utilità particolare di coloro ai quali essa è affidata.
Articolo 13 Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d’amministrazione, è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini, in ragione delle loro sostanze.
Articolo 14 Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare, da loro stessi o mediante i loro rappresentanti, la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente, di controllarne l’impiego e di determinarne la quantità, la ripartizione e la durata.
Articolo 15 La società ha il diritto di chieder conto a ogni agente pubblico della sua amministrazione.
Articolo 16 Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione.
Articolo 17 La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità. Articolo 17 La proprietà dei fondamentali mezzi produttivi di una collettività è sempre pubblica. Nessuno può usare una proprietà personale contro gli interessi della collettività.

Risorgerà il socialismo dalle sue ceneri?

In fondo Eduard Bernstein aveva visto giusto: con l’imperialismo la classe operaia non aveva bisogno di compiere la rivoluzione; la ricchezza aumentava per tutti e, con essa, la democrazia; si poteva arrivare al socialismo anche per via parlamentare, senza alcuna rivoluzione violenta. L’acutizzazione dei rapporti sociali, cioè la radicale polarizzazione delle classi antagonistiche, prefigurata nel Manifesto del 1848, non era avvenuta: dunque occorreva un mutamento significativo di strategia politica. La sinistra doveva diventare riformista. E in Europa occidentale lo divenne, prima con Bernstein, poi con Kautsky, infine con tutti gli altri.

Solo i bolscevichi non li seguirono. E loro fecero una rivoluzione radicale, così come l’avrebbero voluta Marx ed Engels, che però, col tempo, si rivelò fallimentare. Non meno drammatico fu il destino dei socialisti riformisti, che finirono col perdere completamente la loro natura socialista.

In che cosa il socialismo ha sbagliato?

Anzitutto non ha capito che il miglioramento delle condizioni di vita, in Europa occidentale, non dipendeva affatto dall’industrializzazione capitalistica, bensì dall’imperialismo, cioè dallo sfruttamento delle colonie. Era in virtù di questo sfruttamento che si poteva corrompere la classe operaia, aumentandole i salari o comunque offrendole migliori condizioni di lavoro, in cambio di un proprio silenzio sul sistema in generale.

Se la classe operaia preferisce le rivendicazioni sindacali alla lotta politica rivoluzionaria, i suoi dirigenti, ad un certo punto, l’asseconderanno. La lotta rivoluzionaria richiede infatti molti rischi e sacrifici, senza i quali non è possibile perseguire ideali elevati. Se poi sono gli stessi dirigenti a non credere più nella lotta rivoluzionaria, la classe operaia, che non ha lo stesso livello culturale e non è capace di avere una veduta d’insieme delle cose, se ne farà una ragione ancor prima.

Qui infatti era Lenin a brillare per intelligenza: la classe operaia, lasciata a se stessa, matura soltanto una coscienza sindacale; per averne una di tipo rivoluzionario, bisogna infondergliela dall’esterno, e questo è un compito che può fare solo l’intellettuale, poiché solo lui può vedere che la contraddizione tra capitale e lavoro è sempre assoluta e mai relativa a circostanze di tempo e luogo. Può essere variegata la strategia con cui la si affronta, ma l’obiettivo finale deve restare integro: quello della conquista del potere politico per il ribaltamento del sistema.

Ma come si può pensare di ribaltare il sistema in presenza dell’imperialismo? A questa domanda Lenin rispose dicendo che bisogna saper approfittare del momento favorevole, quello più critico, quello che produce infinite sofferenze, assolutamente insopportabili, che, ai suoi tempi, erano determinate dalla guerra mondiale. Egli lanciò una parola d’ordine molto chiara, anche se per realizzarla ci voleva molto coraggio e non poca organizzazione: trasformare la guerra mondiale contro un nemico esterno in una guerra civile contro il nemico interno. La classe operaia russa doveva abbattere il capitalismo interno attraverso una rivoluzione, dopodiché si sarebbe tirata fuori dalla guerra mondiale. E così fece.

Riuscirono i socialisti euro-occidentali a fare altrettanto? Nessuno. La guerra mondiale fu vista come guerra tra nazioni, quando invece doveva essere vista come guerra tra capitalisti di nazioni imperialistiche, che mandavano a morire, per i loro sporchi interessi, i rispettivi lavoratori (operai o contadini che fossero). Non ci furono ribellioni di massa a questa carneficina. E alla fine il socialismo non si realizzò da nessuna parte, a testimonianza che un affronto meramente parlamentare, cioè riformistico, delle contraddizioni strutturali del capitalismo, conduce soltanto a una forma di opportunismo e di tradimento degli ideali originari. Per un piatto di lenticchie, concesso dai loro rispettivi governi, i socialisti persero la primogenitura degli ideali rivoluzionari.

Tuttavia il socialismo mostrò ovunque un altro grave difetto, a fronte del quale persino la Russia si trovò del tutto impreparata. Fu un difetto così grande che nel 1991 la Russia decise di chiudere l’esperienza del socialismo statale, quello gestito in maniera burocratica. E, con questa realizzazione piena di manchevolezze, si buttò via anche la necessità di un socialismo democratico. Si finì col far tornare in auge il capitalismo, più o meno corretto da esigenze di tipo statale.

Quale fu il macroscopico difetto del cosiddetto “socialismo reale”? Fu il fatto di non aver capito che la classe operaia era totalmente priva di cultura e socialmente sradicata, mentre quella rurale aveva per tradizione un senso storico della collettività e si trasmetteva la propria cultura ancestrale oralmente di generazione in generazione. Fu il fatto di non aver capito che la produzione industriale in serie è una pura e semplice mostruosità, che può andar bene per esigenze specifiche in un lasso di tempo determinato, ma che non ha alcun senso in una condizione di vita normale. Non è da una produzione del genere che può dipendere il benessere di un paese, anche perché con essa vengono messe in subordine tutte le preoccupazioni di tipo ambientalistico.

Fu anche il fatto di non aver capito che il contadino non diviene per forza un piccolo-borghese quando possiede un pezzo di terra. Certo, il contadino vuol essere padrone in casa propria – com’è naturale che sia -, ma è disposto spontaneamente alla cooperazione, a convivere pacificamente col proprio vicino, a risolvere qualunque controversia, pur di far sopravvivere alla propria famiglia.

È piuttosto l’operaio, il quale spesso non è che un ex contadino o un ex bracciante rurale, ad aver bisogno d’essere integrato in maniera organica nella società. Anche l’intellettuale di sinistra che lo rappresenta è uno sradicato come lui, uno che non ha riferimenti culturali o sociali al mondo rurale e che si deve creare un’identità dal nulla.

Lenin era convinto, influenzato in questo dalle idee di Marx ed Engels, che la classe operaia, non avendo nulla da perdere, fosse più rivoluzionaria dei contadini, che avevano appunto la terra da difendere oppure da ottenere come obiettivo finale della loro lotta. La storia ha dimostrato che la classe operaia, non avendo una propria cultura ancestrale, è più facilmente manipolabile dei contadini, pur essendo questi tradizionalmente religiosi, mentre quella è di idee ateistiche. Infatti il socialismo staliniano, dopo averli fatti passare per dei piccolo-borghesi, sterminò milioni di contadini e non toccò gli operai, i quali, non a caso, credevano ciecamente nel socialismo amministrato dall’alto.

Certo, ci si può chiedere se i contadini russi, lasciati da soli (in mano ai populisti prima, e poi ai socialisti-rivoluzionari), avrebbero compiuto lo stesso la rivoluzione. Probabilmente non l’avrebbero fatta, ma solo per colpa dei propri dirigenti, che s’illudevano di poter ovviare pacificamente alla penetrazione del capitalismo nelle campagne.

I dirigenti russi dei contadini sono sempre stati degli ingenui, prima nei confronti dello zarismo, poi nei confronti del capitalismo. Ci volle Lenin per far capire ai contadini che se si fossero alleati con gli operai, avrebbero ottenuto subito la terra in proprietà e gratuitamente, senza dover pagare i forti indennizzi previsti dalla passata abolizione del servaggio. I contadini credettero in Lenin e si allearono con gli operai non solo per fare la rivoluzione, ma anche per uscire dalla guerra mondiale e per combattere la controrivoluzione bianca e l’interventismo straniero. Fecero enormi sacrifici (soprattutto a causa del comunismo di guerra, poi superato dalla Nep leniniana), e alla fine vinsero.

Chi distrusse il loro entusiasmo? la loro tenacia? Lo stalinismo, un’ideologia irrazionale che puntò tutto sulla industrializzazione pesante e accelerata, che doveva essere integralmente pagata dalla classe rurale, costretta peraltro a una collettivizzazione forzata. Idea, questa, che Stalin mutuò proprio dal suo irriducibile nemico, Trotsky, il quale vedeva i limiti dello stalinismo solo nella gestione burocratica e autoritaria del potere.

Questi errori molto gravi sono stati pagati in maniera drammatica. I contadini non erano contrari all’industrializzazione, ma a un primato inaccettabile, che ne faceva pagare a loro tutti i costi. Un primato che non poteva neppure essere giustificato dicendo che il socialismo russo minacciava d’essere distrutto dalle potenze occidentali. Se ci fosse stato un nuovo interventismo straniero, come quello del 1918-20, sarebbero stati nuovamente i contadini a scongiurarne il pericolo, le conseguenze. Questo perché decine di milioni di contadini, disposti a difendere la loro terra a qualsiasi prezzo, sono una forza spaventosa, di cui tutti devono aver paura.

Stalin ne eliminò una quantità sterminata, convinto che solo con l’industrializzazione si poteva tener testa ai paesi capitalistici avanzati. Ottenne esattamente l’effetto contrario: il capitalismo, infatti, non ha bisogno di usare le armi convenzionali, quelle da fuoco, per abbattere i propri nemici, e neppure quelle non convenzionali, come le armi atomiche. Per vincere gli basta la propaganda ideologica, la pubblicità commerciale, l’esibizione del benessere a oltranza, degli agi e delle comodità a tutti i livelli, del lusso sfrenato, della democrazia parlamentare, delle borse per qualunque valore e titolo, dei giganteschi mercati internazionali, degli istituti di credito finanziari, dello spionaggio e controspionaggio, della corsa alla conquista dello spazio cosmico, del peso della propria moneta negli scambi mondiali, della manipolazione degli istituti o enti internazionali, come p.es. l’Onu, l’Unesco, l’Ocse, la Fao, ecc.

E così oggi si sono tutti “imborghesiti”: gli operai rivoluzionari, i contadini attaccati alla loro terra, gli intellettuali socialcomunisti, i partiti di sinistra… Oggi, di fronte a un capitalismo che si muove molto facilmente su un piano globale (che è insieme materiale e immateriale), non si è neppure capaci di darsi degli strumenti altrettanto “globali” per difendersi.

I limiti di fondo dell’economia politica

Prendiamo un qualunque Manuale di economia politica scritto da un marxista: quello di Antonio Pesenti (Editori Riuniti, Roma 1972). Sin dalle prime pagine si capisce che c’è qualcosa che non va, ovviamente non perché si è contro il capitalismo, quanto perché non si riesce a valorizzare sino in fondo il pregio di un’economia naturale basata su autoconsumo e baratto. Questo è un limite di fondo di tutti i manuali di economia politica, siano essi borghesi o socialisti.

Un manuale marxista di economia politica non dovrebbe porsi anzitutto in antitesi allo sviluppo capitalistico, poiché se si esordisce facendo questo, l’antitesi non sarà mai davvero radicale, ma sempre relativa. Per essere un minimo obiettivi, si dovrebbero anzitutto valorizzare tutte quelle forme di produzione economica in cui non esisteva una forte divisione del lavoro, una propensione accentuata per gli scambi commerciali, l’esigenza di avere tutte le comodità possibili, la necessità imprescindibile di produrre di più in minor tempo e con minor fatica e altre caratteristiche tipiche delle società basate sull’antagonismo sociale.

È vero che è stata la borghesia a inventare la scienza dell’economia, ma quando si parla di economia bisognerebbe anzitutto farne una storia, eventualmente avvalendosi degli studi di etno-antropologia, altrimenti rischiano di apparire falsati i presupposti metodologici della critica materialistica. Non si può fare del “materialismo dialettico” con uno sguardo rivolto solo verso al futuro, senza tener conto che siamo figli di un passato ancestrale, le cui caratteristiche, quando si viveva di caccia, pesca, raccolta di frutti selvatici, erano completamente diverse da quelle che si sono formate con la nascita delle prime civiltà urbanizzate.

Vediamo ora due capitoli: il II (Il mercato e i prezzi) e il III (Il valore). Basta leggersi questi capitoli per capire i limiti di fondo e come superarli. Quel che c’interessa infatti non è tanto analizzare nel dettaglio come funziona il capitalismo (cosa già fatta dai classici del marxismo-leninismo), quanto piuttosto come uscirne completamente sul piano economico. Sul piano politico, infatti, l’unico modo per superarlo è fare la rivoluzione. Si possono realizzare singole riforme su aspetti particolari, ma, in ultima istanza, nessuna di esse è in grado di risolvere il problema dell’antagonismo in maniera radicale.

La nostra impostazione metodologica parte da un presupposto storicamente inconfutabile: tutte le rivoluzioni politiche anticapitalistiche già compiute si sono rivelate fallimentari, nel senso che, dopo un certo periodo di tempo, sono state reintrodotte, in un modo o nell’altro, dinamiche di tipo borghese. È evidente quindi che c’è qualcosa che non funziona non tanto sul versante politico, quanto proprio su quello economico. E noi non possiamo dare per scontato che, siccome sul versante economico non c’è alcuna possibilità di superare il capitalismo, allora dobbiamo rinunciare a compiere qualunque rivoluzione politica.

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“La prima divisione del lavoro che si ha nelle comunità primitive non comporta di per sé il mercato, perché è una divisione interna, basata prevalentemente sul sesso e sull’età. Gli uomini nella società primitiva andavano a caccia e le donne cercavano di tenere in ordine l’abitazione, conservare il fuoco e, nello stesso tempo, iniziare quella rudimentale conservazione dei cibi e quella limitata produzione agricola che permetteva almeno di mangiare, anche quando non era possibile cacciare o la caccia era infruttuosa” (p. 48, tutte le citazioni si riferiscono al primo volume).

Queste osservazioni di Pesenti in sé non sono sbagliate, ma si noti con quale finalità sembrano essere svolte. Siccome non c’è, nella preistoria, una forte divisione del lavoro, che avrebbe potuto favorire la formazione di un mercato, la conservazione dei cibi è ovviamente “rudimentale”, la produzione agricola è inevitabilmente “limitata” e la caccia spesso è “infruttuosa”. In sostanza si stanno usando aggettivi fuori contesto storico, messi in relazione ai nostri parametri di vita.

La comunità primitiva non viene presa in esame in sé e per sé, ma in rapporto a ciò che poi dovrà diventare. Quando si affronta la realtà dal punto di vista dell’economia politica non si può rischiare di essere così superficiali sul piano storico. Che valore può avere un’analisi economica quando sono così approssimativi i suoi riferimenti storici?

Vediamo ora quest’altra affermazione. La divisione del lavoro e il mercato si formano “quando l’accresciuta produttività del lavoro, la scoperta che gli animali possono essere addomesticati, produrre latte, ecc. e l’inizio dell’agricoltura portano storicamente nella società alla divisione delle tribù in tribù di pastori, di cacciatori, di agricoltori, nonché alla produzione permanente di un’eccedenza sui bisogni immediati e alla divisione in classi della società” (pp. 48-49).

Si noti con quanta faciloneria si passa dall’uguaglianza sociale della comunità primitiva, basata sulla raccolta del cibo selvatico e sulla caccia, alla disuguaglianza sociale delle prime civiltà urbanizzate. Viene esaltata una nuova qualità di vita a causa di progressive determinazioni quantitative, in virtù delle quali appare del tutto naturale che si creino conflitti irriducibili quando si afferma una maggiore produttività del lavoro.

Si vuol far passare un tale processo storico, che sicuramente ha comportato degli aspetti drammatici, per qualcosa di necessario o di inevitabile, nel senso che deve apparire naturale che si voglia aumentare la produttività oltre il livello di soddisfacimento dei bisogni, com’è ancora più naturale che con la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento le tribù si siano suddivise in fazioni opposte.

Infatti, se si fosse rimasti a un basso livello di produzione, cioè al livello del semplice autoconsumo, non si sarebbe formata alcuna particolare divisione del lavoro (capace di andare oltre quella per sesso e per età), e quindi non si sarebbe formato alcun mercato. E questo, per l’economia politica, sarebbe stato inconcepibile, proprio perché essa trae la sua ragion d’essere dalla presenza di divisione del lavoro, di eccedenze, mercati, classi in competizione, ecc.: tutte cose che la comunità primitiva, basata sull’autoconsumo e al massimo sul baratto, non poteva avere, e che se avesse potuto vedere in anticipo come si sarebbero sviluppate le civiltà urbane, avrebbe cercato di evitare come la peste.

Un economista rigoroso, che analizza il periodo storico delle comunità primitive, dovrebbe anzitutto chiedersi: “qual è la condizione per cui risulta del tutto normale accumulare delle eccedenze?”. La condizione, in realtà, è molto semplice: le eccedenze devono restare a disposizione dell’intero collettivo e non, in via esclusiva, di chi le ha materialmente prodotte o ottenute o di chi può disporne per motivi politici. Né la loro distribuzione può essere decisa da un personale specializzato, il quale, in virtù di tale mansione, pretende di rivendicare un potere particolare. Qualunque funzione specifica si abbia in un determinato collettivo può essere svolta soltanto temporaneamente. È inammissibile riconoscere una funzione che prescinda dalle capacità personali, le quali vanno dimostrate e controllate costantemente, in quanto non si può mai dare nulla per scontato.

Un altro aspetto che il marxismo non riesce a capire è che il mercato di tipo “borghese”, quello quotidiano, rivolto a chiunque, basato sul denaro, non nasce in virtù di progressive determinazioni quantitative, ma proprio per una diversa concezione della vita.

Pesenti afferma, giustamente, che “lo scambio, all’inizio, è occasionale, e assume la forma più semplice dello scambio di merce con merce” (p. 49), cioè, in sostanza, è un baratto. “Questi scambi poi si generalizzano, diventano più frequenti, sorge la moneta quale intermediario degli scambi” (ib.).

Ecco, già qui si sarebbero dovute spendere delle parole chiarificatrici. Il passaggio dal baratto alla moneta non può essere avvenuto spontaneamente. L’uso della moneta, che è un’astrazione, non può essere stato che imposto o autorizzato da un potere dominante, il quale, ad un certo punto, ha preferito considerare qualcosa di inutile sul piano pratico (p.es. l’oro o l’argento) come metro di misura per tutti i beni di consumo. Nell’antichità pre-schiavistica si usavano questi metalli pregiati prevalentemente per motivi estetico-ornamentali.

Quindi delle due l’una: o si ammette che già in presenza del baratto esistevano conflitti di classe o di casta irriducibili: in tal caso si potrebbe accettare l’idea di un passaggio naturale all’uso della moneta, ma allora andrebbe spiegato perché il baratto, di per sé, non presume affatto l’antagonismo sociale; oppure si deve chiarire come il passaggio sia avvenuto in seguito a sconvolgimenti drammatici, che hanno messo definitivamente in crisi le dinamiche sociali delle comunità primitive: infatti l’uso della moneta vera e propria presume sempre dei conflitti sociali irriducibili.

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Afferma Pesenti: nell’antichità romana “gli oggetti veri di scambio, ossia le merci, erano prodotti [dagli schiavi] per l’uso di una ristretta classe dominante e non per la grande massa della popolazione” (p. 49).

È vero, ma perché avveniva questo? Nel mondo romano le città erano infinitamente più sviluppate che nell’alto Medioevo; eppure a partire dal Mille si sono formati dei Comuni borghesi che hanno reso possibile un mercato più sviluppato di quello romano. Com’è stato possibile? Qui le determinazioni quantitative non spiegano nulla. I Romani sarebbero potuti passare tranquillamente a un mercato di tipo capitalistico (grazie a determinazioni progressive di quantità!) se solo avessero fatto una cosa che non vollero mai fare: abolire lo schiavismo e rendere tutti giuridicamente liberi. Quando iniziarono, parzialmente, a farlo, trasformando lo schiavo in colono, era troppo tardi, in quanto le cosiddette popolazioni barbariche premevano irresistibilmente alle porte, ed esse, pur accettando l’idea del colonato, non avevano la cultura sufficiente per passare da un’economia mercantile a una capitalistica.

Nei Comuni medievali tutti erano giuridicamente liberi e tutti avevano interesse a espandere il più possibile i mercati, basati sull’uso del denaro. Anche i mercanti medievali, all’inizio, vendevano merci solo alle classi facoltose, ma non ci volle molto tempo perché la cosa si generalizzasse a livello sociale. Il marxismo non è stato capace di capire l’importanza della cultura cristiana nel passaggio dal mercato schiavile di epoca romana al mercato libero di epoca borghese. Se avesse capito l’importanza della cultura o della mentalità nella gestione dell’economia, avrebbe anche capito il motivo per cui in epoca romana non si sarebbe mai potuto sviluppare alcuna rivoluzione industriale (come non si sviluppò nell’America schiavistica delle piantagioni, pur essendo essa già presente nell’Europa occidentale).

In tutte le civiltà schiavistiche si rimane fermi allo stadio dell’artigianato e, al massimo, della produzione agricola finalizzata al mercato, proprio perché esiste la schiavitù, che impedisce la libera espressione della creatività umana, quella creatività che si può usare sia in senso positivo, per il bene della collettività, che in senso negativo, quando si pensa che il proprio interesse debba prevalere su quello degli altri.

Il mercato borghese non è stato altro che una sintesi tra due elementi opposti: la libertà giuridica (formalmente uguale per tutti) e l’interesse economico privato. Solo una cultura superiore – quale appunto quella cristiana – poteva tenere uniti due elementi così antitetici: una forma universale positiva e una sostanza particolare negativa.

Il marxismo non è stato neppure capace di capire il motivo per cui il capitalismo industriale trova un terreno più favorevole in ambito protestantico che non in uno cattolico. Scrive Pesenti: nel Medioevo “l’artigiano è proprietario e della bottega e del prodotto del suo lavoro, cioè della merce che porta al mercato… La moneta serve come intermediario di questi scambi e solo eccezionalmente come capitale” (p. 50).

È vero, ma perché a partire dalla riforma protestante cambia tutto? Se si fosse esaminata – come fece Max Weber – l’influenza del protestantesimo sull’attività economica, lo si sarebbe capito, anche meglio di questo sociologo borghese. Calvino non fece altro che portare alle estreme conseguenze l’ipocrisia della borghesia cattolica, la quale, a sua volta, non aveva fatto altro che sfruttare l’ipocrisia del papato, che predicava i valori etici del cristianesimo primitivo e, nel contempo, li contraddiceva con una pratica legata a un’affermazione di potere autoritario, politico ed economico: costruire uno specifico Stato della Chiesa in previsione di una teocrazia universale.

La differenza tra la borghesia protestante e quella cattolica stava appunto nella risposta che si dava a tale domanda: se il papato viene considerato irriformabile, ha senso permettergli di avere un potere politico ed economico? La borghesia cattolica, soprattutto quella italiana, era convinta di poter trovare un compromesso reciprocamente vantaggioso con un papato altamente corrotto; quella protestante invece aveva capito che se riusciva a emanciparsi dalla dittatura politica del papato, poteva svilupparsi molto meglio e con maggiore sicurezza sul piano economico, cioè poteva sentirsi molto più libera di far valere i propri interessi privati.

Se il successo personale dipende unicamente da se stessi e non dai compromessi che si devono realizzare con autorità imposte dall’esterno, quale limite vi può essere nell’uso del denaro, della divisione del lavoro, dei mercati ecc.? Gli unici limiti sono quelli che ci si può imporre da sé, esaminando a posteriori se la prassi dell’individualismo economico produce cose più negative che positive. Essendo l’economia borghese completamente sganciata dall’etica, i poteri costituiti intervengono soltanto quando gli effetti generati dall’individualismo economico risultano pericolosi per la stabilità del sistema.

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L’ultimo aspetto da considerare è la differenza tra valore d’uso e valore di scambio. Si faccia attenzione a questa affermazione di Pesenti: “Il valore d’uso, concreta produzione del valore umano, è il presupposto del valore di scambio. Però quando io voglio considerare il valore di scambio di una merce, nella sua origine e lo voglio quantificare, debbo ricercare un legame tra i diversi valori d’uso che abbia un carattere oggettivo e non soggettivo, e questo legame non può essere rappresentato altro che dallo sforzo di lavoro umano contenuto in quantità diverse della merce” (p. 53).

Cosa c’è che non quadra in questa affermazione? L’impressione infatti è che essa voglia considerare il valore di scambio superiore a quello d’uso, quando invece dovrebbe essere il contrario. Non a caso ogni volta che il valore di scambio tende a prevalere su quello d’uso, si è in presenza di un chiaro indizio di società antagonistica.

Sono due le cose che Pesenti non comprende: anzitutto che l’esigenza di “quantificare” il valore di una merce fa già parte di una società ove domina il conflitto tra classi opposte; in secondo luogo non è affatto vero che là dove esiste il baratto non sia possibile dare una valutazione “oggettiva” del valore d’uso di un prodotto. Basterebbe leggersi il Saggio sul dono dell’etnologo francese M. Mauss, per convincersi del contrario.

In generale è possibile dire che là dove esiste il baratto si scambiano cose di cui si ha certamente bisogno, ma che non sono essenziali alla sopravvivenza fisica del collettivo, altrimenti non verrebbero cedute. Il baratto è una conseguenza dell’autoconsumo, non una precondizione per la sua esistenza (semmai è sotto il capitalismo che non si potrebbe vivere senza mercato). Quando si scambia un bene eccedente si sa già qual è il suo valore oggettivo in rapporto agli altri beni che si possiedono, e quindi si sa già quale può essere il suo valore di riferimento quando lo si va a barattare con le eccedenze altrui. Cioè non è il momento dello scambio che decide il valore di un bene. Il suo valore è già stato deciso prima, in rapporto ai beni essenziali che permettono la sopravvivenza, e non si andrà mai ad acquistare un bene essenziale che garantisca la propria sopravvivenza.

Un qualunque bene da barattare, cedendolo o acquistandolo, avrà sempre un valore economico relativo. In questo sta la sua oggettività, e nessuna comunità comprometterebbe la propria esistenza attribuendo a un bene non prodotto da essa stessa un valore assoluto. In sostanza quindi non si baratta qualunque bene, ma solo quelli eccedenti, non essenziali alla riproduzione materiale del collettivo, e non si vanno ad acquistare beni che garantiscono la propria sopravvivenza, altrimenti la si metterebbe a rischio. Ecco perché nella comunità primitiva era l’autoconsumo – esperienza collettiva per eccellenza – a decidere qualunque valore da attribuire ai prodotti eccedenti da scambiare.

Si faccia ora attenzione a quest’altra affermazione: “Soggettivamente si scambia una merce quando essa, per il soggetto venditore, non presenta più un valore d’uso” (p. 55). Questa frase non ha alcun senso in una comunità primitiva: sia perché in tale comunità si scambiano solo eccedenze di prodotti che si usano, cioè non esiste baratto con prodotti che non si usano o che si producono proprio per scambiarli; sia perché il baratto non è mai un fenomeno individuale, essendo soltanto l’intera comunità a poter decidere quale bene considerare eccedente e che valore attribuirgli.

Questo per dire che il baratto dell’autoconsumo e lo scambio di una produzione finalizzata per il mercato sono due cose completamente diverse, assolutamente irriducibili, al punto che non può esservi alcun naturale passaggio dall’una all’altra. Tra le due forme di scambio vi è, nascosta, una tragedia: la fine della comunità primitiva.

Se poi si vuol sostenere che il baratto rappresentava uno sviluppo soltanto “embrionale” delle forze produttive, si abbia almeno l’onestà di precisare che in tale giudizio non vi è tanto una valutazione di fatto, quanto piuttosto una di merito, ritenendo la comunità primitiva una condizione di vita che andava necessariamente superata. Col che il lettore si mette il cuore in pace, avendo capito che l’analisi marxista accetta tutti i presupposti dell’economia politica borghese, salvo uno: la privatizzazione dei mezzi produttivi. Cioè in questa maniera appare chiaro che per cercare un’alternativa all’attuale sistema di vita dobbiamo andare oltre sia all’economia politica borghese che alla critica marxista di tale economia.

Quello che proprio non si riesce ad accettare nell’analisi marxista è l’idea che l’eccedenza in sé presupponga una divisione della società in classi. In realtà essa, in sé, non presuppone nulla. L’eccedenza può essere il frutto di una comunità basata sull’autoconsumo, sullo schiavismo, sul servaggio o sul lavoro salariato. È piuttosto l’idea di produrre eccedenze appositamente per essere scambiate o vendute sul mercato, al fine di ottenere qualcosa che, dall’esterno, modifichi progressivamente il proprio stile di vita, che appartiene a un’esistenza non più naturale bensì artificiale. È la ricerca costante di beni materiali per aumentare il proprio benessere, le proprie comodità, i propri agi, i propri beni o proprietà, in previsione di un futuro che si ritiene incerto o soltanto per mostrare la propria superiorità, che lascia intendere d’essere in presenza di qualcosa di assai poco naturale.

“Affinché l’oggetto possa essere scambiato – afferma Pesenti – deve accadere una cosa paradossale e cioè che l’oggetto non abbia un valore d’uso per la persona che vuole scambiarlo, sia superfluo al suo bisogno. Ciò è indubbiamente vero nella produzione per il mercato” (p. 56), ovvero nella produzione finalizzata principalmente al mercato.

In realtà tale meccanismo economico non andrebbe considerato soltanto “paradossale”, ma anche e soprattutto “traumatico”. Qui infatti è già venuta meno l’identità umana e naturale del collettivo di appartenenza: si è già dipendenti da qualcosa di esterno alla propria volontà. Si è eterodiretti. Chi non è in grado di capire l’assoluta gravità di una cosa del genere e si mette a criticare l’economia politica borghese, non coglierà mai il nocciolo del problema e farà sempre un’analisi superficiale, epifenomenica.

Sostenere poi che “l’atto individuale è l’atto con cui l’operatore produce quello che serve per i suoi bisogni e l’eccedenza che la produttività del suo lavoro gli permette di produrre”, mentre “l’atto sociale è l’incontro di questi atti di natura individuale, che avviene nel mercato attraverso il fenomeno dello scambio” (p. 57), significa prendersi gioco della realtà.

L’atto individuale iniziale non è affatto un atto individuale libero, ma sempre un atto condizionato dai poteri dominanti, che da tempo si sono staccati dall’esperienza della comunità primitiva. Il mercato non è mai stato il luogo in cui s’incontrano dei produttori che vivono isolati, come Robinson Crusoe. Una produzione finalizzata esclusivamente per il mercato presuppone una progressiva destabilizzazione della produzione per l’autoconsumo. Ciò non può essere fatto da individui isolati, e tanto meno può essere fatto senza il consenso, diretto o indiretto, dei poteri dominanti.

Detto questo, è ridicolo pensare che sul mercato si verifichi una socializzazione da parte dei produttori. È del tutto fuori luogo mettere sui due piatti della bilancia la socializzazione del mercato di epoca schiavistica o capitalistica e una sorta di produzione individuale. Storicamente la produzione è sempre stata sociale, sia per l’autoconsumo che per il mercato. La differenza stava piuttosto nella finalità. Una cosa infatti è produrre eccedenze da destinare a un baratto di cui, volendo, si potrebbe anche fare a meno; un’altra, completamente diversa, è la produzione di beni destinati esclusivamente al mercato, per ottenere un certo guadagno. Sono due forme di socializzazione completamente diverse, tant’è che nel basso Medioevo si regolamentava la produzione per il mercato attraverso le corporazioni di arti e mestieri, in cui vigevano princìpi tipicamente borghesi, anche se non così borghesi come quelli che pretenderanno la fine delle stesse corporazioni.

Questo per dire che la socializzazione che si forma nell’ambito del mercato possiede qualcosa di assolutamente formale sul piano etico, mentre offre qualcosa di sostanziale solo per le esigenze quantitative legate al valore di scambio, cioè in sostanza al prezzo delle merci.

E qui si apre un nuovo capitolo dedicato al lavoro quale criterio per stabilire un valore sufficientemente esatto alle merci che si vendono sul mercato. Ora, che il valore di una merce non coincida mai col suo prezzo, è cosa risaputa. E si può anche concedere al marxismo, in questo sicuramente superiore all’economia politica borghese, che il valore di tale merce possa dipendere dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla, sulla base di un lavoro astratto compiuto da un tipo medio di lavoratore.

Ciò che invece bisogna superare è l’idea che il valore di un bene eccedente debba essere calcolato in maniera quantitativa. Il valore di un bene eccedente, oggetto di scambio, può essere calcolato solo in maniera molto approssimativa e non necessariamente in rapporto a una valutazione di tipo economico. Può essergli infatti attribuito un valore extra-economico, che aumenta o diminuisce in rapporto a valutazioni di tipo etico.

Facciamo un esempio. Se due comunità sono ai ferri corti per questioni di competenza territoriale, il baratto (o lo scambio di doni reciproci) può avere un alto significato simbolico; ma se gli stessi oggetti vengono scambiati in occasione di un matrimonio esogamico tra due comunità del tutto pacifiche, il valore simbolico sarà sicuramente inferiore. Questo per dire che stabilire un valore economico sulla base del lavoro, del tempo impiegato, delle energie profuse, delle risorse utilizzate… fa già parte di una mentalità venale, che non può certamente costituire un incentivo a cambiare stile di vita. E con ciò è inutile procedere nella lettura di manuali del genere: sono i limiti di fondo dei loro presupposti metodologici a impedirlo.

Tornare indietro per andare avanti

Dobbiamo tornare a vivere come l’uomo primitivo, se vogliamo sopravvivere come specie. Caccia e raccolta anzitutto. Se proprio vogliamo limitarci ad agricoltura e allevamento, avendo distrutto la gran parte delle foreste, dobbiamo farlo temporaneamente, in attesa che le foreste ricrescano grazie al nostro rimboschimento.

Dobbiamo tornare ad essere come eravamo all’inizio, in cui ci siamo conservati umani e naturali almeno sino alla nascita dell’agricoltura e dell’allevamento, allorché sono iniziate le ostilità tra agricoltori, che avevano bisogno di campi chiusi, e allevatori, che avevano bisogno di campi aperti.

I problemi sono sorti non tanto quando sono nate l’agricol­tura e l’allevamento, ma quando si è cominciato a separarle. Infatti, quando ci si specializza in un settore produttivo, si vede l’altro come un rivale, un concorrente, e lo si teme. Con la caccia e la raccolta non vi erano questi problemi, anche perché, generalmente, la prima veniva praticata dagli uomini e la seconda dalle donne. Non si andava oltre le differenze di sesso ed età. Non a caso si pensa che l’agricol­tura sia stata inventata dalle donne e l’allevamento dagli uomini.

Agricoltura e allevamento sono due forme di sedentarietà. Caccia e raccolta indicano invece il movimento, l’instabilità, l’itineranza, che meglio si addice alla natura umana, se vuole restare coerente con se stessa. La comunità tendeva a spostarsi là dove si trasferivano gli animali selvaggi, e le donne dovevano apprendere, in ambienti diversi, dove trovare il cibo sano e nutriente. Era la natura stessa che s’incaricava di formare gli esseri umani.

In origine, quando la Terra era completamente ricoperta di foreste, forse ci si spostava molto meno. Si viveva soprattutto di raccolta, in quanto il cibo vegetale era molto abbondante. La caccia è subentrata in un secondo momento, per integrare un cibo considerato non del tutto sufficiente.

Oggi quasi tutta la Terra è antropizzata negativamente. La catastrofe ambientale che ci attende pare inevitabile. Naturalmente ci saranno vari modi di affrontarla. Uno potrà essere quello di continuare a vivere in maniera disumana e innaturale, fingendo ch’essa non serva come monito per una inversione radicale di tendenza. Quindi è molto probabile che ai disastri ambientali andranno ad aggiungersi nuovi conflitti mondiali, scatenati da parte di quegli Stati che vorranno far pagare agli Stati più deboli il peso di quei disastri.

Il vero problema tuttavia non sarà soltanto quello di come prevenire la catastrofe ambientale, ma anche e soprattutto quello di che cosa fare quando verrà il momento di cercare un’alternativa alla nostra insensatezza. Fino ad oggi, infatti, nonostante 6000 anni di antagonismi epocali, non siamo riusciti a capire che l’unico modo per restare umani e naturali è quello di tornare all’epoca primitiva, quella in cui appunto si viveva di caccia e raccolta, e dove l’agricol­tura e l’allevamento non costituivano una fonte di irriducibili conflitti sociali all’interno della comunità tribale.

Fino ad oggi non abbiamo fatto altro che sostituire un antagonismo con un altro. In un primo momento il superamento di determinate contraddizioni sociali appare un fenomeno molto positivo, ma poi se ne formano altre che, per molti aspetti, diventano ancora più gravi, e il problema di come superarle si ripresenta, senza che mai si riesca a porre le condizioni perché una determinata contraddizione non si trasformi in un irriducibile conflitto.

Dobbiamo uscire da questa spirale perversa e, per farlo, c’è solo un modo: tornare alla preistoria. L’alternativa deve essere radicale: non possono esserci mezze misure. E l’alternativa non può essere che questa: praticare l’autoconsumo e il baratto, eliminare la proprietà privata dei mezzi produttivi e la dipendenza dai mercati, ridurre la tecnologia a quella compatibile con le esigenze riproduttive della natura e, per quanto riguarda la politica, affermare la democrazia diretta, sopprimendo gli Stati e i parlamenti della democrazia meramente rappresentativa.

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In ogni caso, anche se non vogliamo tornare spontaneamente alla preistoria, sarà la storia stessa che s’incaricherà d’imporcelo. Infatti quanto più sviluppiamo scienza, tecnica, mercati, economia finanziaria, armamenti, tanto più ci avviciniamo alla catastrofe, umana e ambientale. E quanto più grande sarà questo disastro, tanto più saremo costretti, per poter sopravvivere, a riportare in auge lo stile di vita dell’uomo primitivo.

Siamo liberi di muoverci, ma entro certi limiti: se li oltrepassiamo, l’inevitabile apocalisse ci riporterà in carreggiata. Una libertà senza limiti non ha senso. Certo la conoscenza può non aver limiti, e così il bisogno di amare e di essere amati, e anche l’esigenza di produrre qualcosa, ma se andiamo oltre i limiti dell’umano e del naturale, tutto quello che facciamo perde immediatamente di valore. Perdiamo tempo, perdiamo noi stessi. E quanto più uno si perde, tanta più fatica gli costerà ritrovarsi. Se davvero vogliamo essere responsabili, dobbiamo saper gestire il senso della illimitatezza, dell’incondizionato: dobbiamo arrivare a capire che l’infinito è possibile solo all’interno di determinate regole universali.

Avremmo dovuto vivere un percorso evolutivo senza traumi, cioè senza guasti irreparabili, ma per colpa delle nostre scelte scriteriate abbiamo finito col creare delle situazioni ingestibili. Abbiamo addirittura smarrito il criterio con cui stabilire quando una scelta può essere considerata giusta o sbagliata. Solo a posteriori ci accorgiamo dell’erroneità delle nostre scelte. E i rimedi che vi poniamo non sono mai sufficienti, mai risolutivi.

Tuttavia questo non impedisce alla natura di seguire il proprio corso. Vi è un’oggettività più potente della nostra soggettività (quanto meno è più ancestrale). Infatti quando vogliamo fare di questa soggettività una diversa oggettività, un nuovo criterio di valori, la pretesa non dura molto tempo: prima o poi ci si scontra con situazioni insostenibili. Quanto maggiore è la pretesa di dominare il mondo intero, tanto più breve è il tempo per rendersi conto dell’illusorietà di tale obiettivo, proprio perché gli effetti sono più devastanti.

C’è qualcosa che ci collega direttamente alla natura. È come se la natura avesse leggi universali e necessarie che tutti i suoi componenti, meno l’essere umano, vivono inconsapevolmente. L’unico però che potrebbe viverle secondo ragione, è anche quello che più le trasgredisce. E lo fa senza rendersi conto di perdere tempo prezioso per la crescita della propria autoconsapevolezza. Le conquiste dell’umanità, soprattutto quelle scientifiche e tecnologiche, il più delle volte le usiamo contro la natura e contro noi stessi. È impossibile dare una spiegazione razionale di questo comportamento. La libertà è un mistero assolutamente insondabile.

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Il socialismo si è illuso che vi potesse essere un progresso semplicemente limitandosi a socializzare la proprietà privata. Invece dobbiamo azzerare un’intera civiltà, quella basata sul macchinismo. L’unico vero socialismo è stato quello preistorico.

La domanda che, a questo punto, dobbiamo porci è soltanto una: dobbiamo attendere rassegnati la catastrofe, nella convinzione che le contraddizioni sono diventate talmente abnormi da risultare irrisolvibili all’interno dell’attuale sistema, oppure possiamo porre sin da adesso le condizioni (o almeno le pre-condizioni) in virtù delle quali si possa realizzare quanto prima una transizione verso il nostro più lontano passato, quello precedente alla nascita dello schiavismo?

In altre parole: com’è possibile realizzare la democrazia diretta e l’autoconsumo all’interno del sistema antagonistico? Vi è la possibilità di ritagliarsi uno spazio autonomo, oppure è prima necessario abbattere politicamente il sistema? Il socialismo democratico che vogliamo realizzare deve passare attraverso un riformismo graduale o attraverso una rivoluzione che inevitabilmente sarà violenta, in quanto il sistema non depone mai spontaneamente le armi?

Al giorno d’oggi è difficile pensare che esista una terza via, quella di trasferirsi in zone vergini del pianeta, non contaminate dallo stile di vita occidentale. Gli angoli rimasti puri sono talmente piccoli da risultare del tutto insufficienti per una transizione che coinvolga milioni e milioni di persone, intenzionate a realizzarla. Pensare di trasferirsi altrove per ricominciare da capo va considerata una soluzione impraticabile, del tutto utopistica. La via d’uscita va cercata là dove si vive, anche perché si ha il vantaggio di conoscere, più o meno bene, il proprio territorio.

Dunque il metodo da seguire per realizzare la transizione potrebbe essere il seguente: tentare delle esperienze innovative di autoconsumo e di democrazia diretta, cominciando a proporle alla collettività. Tutti i mass-media possono essere utilizzati per propagandare un’alternativa concreta al sistema. Poi da come il sistema reagirà, si deciderà il da farsi. L’importante è non escludere a priori l’idea di dover difendere le proprie esperienze innovative anche, se necessario, con l’uso delle armi. Bisogna cioè fare molta attenzione a che il concetto di non-violenza non venga usato dal sistema per impedire una vera transizione al socialismo democratico.

Bisogna semplicemente limitarsi a sfruttare il fatto che il sistema, per affermare se stesso, si avvale, formalmente, del concetto di democrazia, che implica quello di diritti umani, civili e politici. Dobbiamo mettere il sistema nelle condizioni di svelare che la sua difesa della democrazia è puramente formale. Dobbiamo dimostrare, con le armi della democrazia diretta e dell’autoconsumo, che il nostro stile di vita è più umano e naturale di quello che offre il sistema, e che siamo disposti a difenderlo, da chi vorrà distruggerlo, con ogni mezzo.

La critica di Marx ed Engels a Mazzini

Gran parte dei giudizi di Marx su Mazzini si trovano nel “New York Daily Tribune”, ove Marx scriveva come giornalista, e ovviamente nell’epistolario con Engels. In genere sono giudizi negativi, come quando dice, in riferimento ai vari manifesti del leader repubblicano, che usava “roboanti proclami”.

Quello che Marx proprio non sopportava era il bisogno di una continua cospirazione, come se le rivoluzioni potessero essere fatte “su ordinazione”, a prescindere dalle “possibilità favorevoli che offrono le complicazioni europee”. Per di più – diceva con un certo fastidio – venivano promosse da un leader molto lontano dalla sua patria, che pretendeva “azioni individuali da parte di cospiratori che dovevano agire di sorpresa”.

Secondo lui Mazzini ebbe modo di capire, dal fallimento delle Cinque giornate di Milano del 1848, che nei moti rivoluzionari “non è alle classi superiori che si deve guardare, bensì alle differenze di classe”. Tuttavia gli rimproverò sempre di non tenere in alcun conto le “condizioni materiali della popolazione italiana delle campagne”, quelle che l’avevano resa “indifferente alla lotta nazionale”. Lo dice anche nella lettera a Joseph Weydemeyer (11-09-1851): “la politica di Mazzini è fondamentalmente sbagliata, in quanto trascura di rivolgersi a quella parte dell’Italia che è oppressa da secoli, ai contadini, e in tal modo prepara nuove riserve alla controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce soltanto le città con la loro nobiltà liberale e i loro cittadini illuminati. I bisogni materiali delle popolazioni agricole italiane – dissanguate e sistematicamente snervate e incretinite come quelle irlandesi – sono troppo al di sotto del firmamento retorico dei suoi manifesti cosmopolitici, neocattolici e ideologici. Certo ci vorrebbe del coraggio per dichiarare ai borghesi e alla nobiltà che il primo passo, per fare l’indipendenza dell’Italia, è la completa emancipazione dei contadini e la trasformazione del loro sistema di mezzadria in libera proprietà borghese. A quanto pare per Mazzini un prestito di 10 milioni di franchi [quello che da Londra aveva chiesto per finanziare i moti insurrezionali] è più rivoluzionario che conquistare 10 milioni di uomini”.

Marx era altresì convinto che se non si fossero coinvolti i contadini promettendo loro la fine del latifondo e la loro trasformazione da mezzadri a liberi proprietari 1, il governo austriaco avrebbe fatto ricorso ai metodi cosiddetti “galiziani”, quelli cioè che usò per rivolgere i contadini insorti della Galizia contro i nobili rivoltosi polacchi, che chiedevano la liberazione della Polonia; dopo di che, repressa la rivolta di Cracovia, il governo austriaco fece altrettanto con quella galiziana. Questo nel 1846. Ma due anni dopo fece lo stesso, quando dichiarò in Galizia l’abolizione delle corvées obbligatorie e gratuite, senza però intaccare la proprietà fondiaria, anzi scaricando sui contadini un enorme riscatto che si protrasse per decine di anni.

Questo per dire che Marx vide molto positivamente il fatto che il comitato degli esuli italiani guidato da Mazzini a Londra, dopo il fallimento della Repubblica romana nel 1849, si spaccasse in due, con una minoranza che gli rimproverava di parlare troppo di dio e di predicare continuamente l’insurrezione senza cercare di coinvolgere le masse contadine, ovvero di non voler intaccare minimamente gli interessi materiali dei borghesi e della nobiltà liberale, che rappresentavano “la grande falange mazziniana”.

Sotto questo aspetto Marx era convinto che sarebbe stato piuttosto il generale Radetzky, saccheggiando enormemente il nord Italia, a fare della penisola quel “cratere rivoluzionario” che Mazzini non era riuscito a evocare con le sue declamazioni.

Marx però deve ammettere che “la rivoluzione italiana è stata legata per quasi trent’anni al nome di Mazzini e durante questo periodo l’Europa ha visto in lui il miglior esponente delle aspirazioni nazionali dei suoi compatrioti”. Fu lui infatti che denunciò i piani segreti concordati tra Francia, Russia e Regno Sabaudo per cacciare gli austriaci senza fare alcuna rivoluzione. Evidentemente – sostiene Marx – Mazzini “disponeva dei mezzi più ampi per penetrare nei foschi segreti delle potenze dominanti”. Infatti la Francia voleva in qualche modo amministrare il Mezzogiorno e parte del centro della penisola, senza eliminare lo Stato della chiesa. Quanto ai Savoia, si sarebbero accontentati di gestire il nord Italia.

In una lettera a Engels (8-10-1858), Marx sostiene che finalmente Mazzini, in uno dei suoi ultimi proclami, si era degnato “di non considerare più il sistema del salario come la forma ultima e assoluta del lavoro”. Tuttavia l’ultimo Mazzini scrisse cose del tutto calunniose, in quanto non provate, o addirittura palesemente false contro l’Internazionale socialista e la Comune di Parigi. Lo fece alla vigilia del Congresso delle Società operaie italiane (novembre 1871), allo scopo d’impedire la creazione di un’organizzazione proletaria in Italia.

In quell’occasione sarà Engels a farsi sentire. In particolare dirà, in una lettera a Carlo Cafiero, che non era vero che Mazzini non avesse mai partecipato all’Internazionale socialista; semmai aveva cercato di strumentalizzarla per i propri fini, servendosi di un garibaldino, il maggiore Luigi Wolff (principe Thurn und Taxis), ch’era una spia della polizia francese, smascherata da Paolo Tibaldi, un comunardo parigino.

I mazziniani – disse Engels – uscirono dall’Internazionale nel 1865, quando si resero conto che la loro strategia politica, secondo cui “la democrazia borghese offriva diritti politici agli operai, onde poter conservare i privilegi sociali delle classi medie e superiori”, non aveva avuto alcun successo.

D’altra parte Mazzini attaccava sempre i proletari quando si sollevavano: non l’aveva fatto solo in occasione della Comune di Parigi, ma anche prima, con l’insurrezione parigina del giugno 1848, tant’è che Louis Blanc scrisse un opuscolo contro di lui.

Engels usa, nelle sue lettere a Marx o in articoli pubblicati su varie riviste, parole severe contro di lui. Gli rimprovera di manifestare una “mal dissimulata libidine di autorità”, “un’astratta furia insurrezionale”; lo definisce uno “scaltrito fanatico” e, proprio per questo, ritiene che “la rivoluzione italiana superi di gran lunga quella tedesca per la povertà delle idee e l’abbondanza delle parole”. Lo prende poi in giro con questa eloquente frase: “Mazzini non ha per gli operai altro consiglio che: Educatevi, istruitevi come meglio potete (come se ciò potesse essere fatto senza mezzi!)… Adoperatevi a creare più frequenti le società cooperative di consumo (nemmeno di produzione!) e fidate nell’avvenire!”.

Nota

1 Da notare che nelle sue lettere e negli articoli di giornale neppure Marx prevede per i contadini un’alternativa alla mezzadria che non sia di tipo “borghese”.

La democrazia greco-classica e contemporanea

Si può parlare di “democrazia diretta” nella polis ateniese dei secoli V e IV a.C.? Diciamo che un primo tentativo di scardinare gli antichi privilegi gentilizi, tipicamente aristocratici, fu compiuto alla fine del VI sec., quando Clistene creò dieci nuove tribù territoriali, aventi valenza anche militare, al posto delle vecchie quattro tribù gentilizie.

demi, che andarono a sovrapporsi alle trittie, erano piccole autonome comunità di villaggio, coi loro magistrati (politici e funzionari). Ora, con Clistene, diventavano un sistema di autogoverno che coinvolgeva circa 30.000 persone (cioè i cittadini maschi adulti e liberi, di legittima ascendenza ateniese, in quanto nati da genitori ateniesi legittimamente sposati, con esclusione quindi delle donne, degli schiavi e degli stranieri).

La base della democrazia era costituita, per ogni demo, dall’Assemblea popolare (ekklesìa), esclusiva fonte politica e normativa delle decisioni popolari. Essa si riuniva 40 volte l’anno, con una frequenza media di 6.000 persone. Vi intervenivano i leader del popolo (demagoghi e retori), i quali non rappresentavano gli interessi di determinati partiti politici, organizzati come oggi, ma semplicemente si facevano portavoce di istanze popolari.

Oltre all’ekklesìa vi era la bulê (il Consiglio dei Cinquecento: 50 per ognuna delle 10 tribù territoriali). I buleuti si occupavano degli affari correnti, assicurando la continuità del governo. Nessuna decisione dell’Assemblea poteva essere ratificata senza il parere preventivo del Consiglio. D’altra parte ogni discussione preliminare in Consiglio andava autorizzata dall’Assemblea. Quando il Consiglio aveva esaurito il dibattito interno, presentava all’Assemblea una proposta organica su cui bisogna prendere una decisione. Sotto questo aspetto si può sostenere che nella democrazia ateniese non è mai esistita una reale separazione dei poteri.

Vi era anche il corpo giudiziario dei cittadini, cioè 6.000 giudici del tribunale popolare e circa 700 funzionari pubblici di età non inferiore ai 30 anni. Fatto singolare di questo organo è che non si conosceva in anticipo la causa che si doveva giudicare.

Tutte le cariche venivano assegnate per sorteggio ed esercitate per un solo anno, a rotazione e ogni carica per non più di due volte nella vita. L’esercizio delle cariche richiedeva molto tempo e tendeva a escludere quanti non avevano sufficienti risorse, almeno finché non si deciderà, nel IV secolo, con Pericle, un livello adeguato di remunerazione, in grado di coprire le spese sostenute o i mancati introiti.

Si trattava di una democrazia esclusivamente politico-amministrativa e giudiziaria, che riguardava una minoranza di persone, non implicando l’estensione universale dei diritti umani e civili. Inoltre non andava a coinvolgere gli aspetti materiali e produttivi della popolazione, per una più equa redistribuzione delle ricchezze. Anzi, per il pagamento dei pubblici uffici Atene si avvaleva, in gran parte, delle risorse degli alleati (soprattutto dopo la battaglia di Salamina).

Il fatto stesso che obbligasse a una rotazione così frequente delle cariche, dimostra l’inesistenza di una vera e propria democrazia economica: non ci si fidava gli uni degli altri. Lo stesso diritto alla cittadinanza non era il conseguimento di un diritto naturale, in ambito politico, ma il godimento di un privilegio, che permetteva di esercitare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Insomma permanevano distinzioni di censo e di rango: cosa peraltro che non riguardava la sola Atene, ma tutte le poleis della Grecia.

Una differenza semmai stava tra la democrazia ateniese, dove la votazione abituale era per alzata di mano (e in taluni casi per voto segreto), e l’oligarchia spartana, dove la votazione era soltanto per acclamazione. Inoltre a Sparta non vi era un’uguale opportunità di parola nelle assemblee pubbliche. E’ evidente infatti che là dove esiste uguale diritto di parola e uguaglianza davanti alla legge, il cittadino si sente indotto a riflettere di più tra le diverse opzioni politiche che gli vengono proposte. Ad Atene gli stessi oratori dovevano sottostare a controlli preliminari e al rispetto di un rigoroso iter procedurale e di un certo codice deontologico. Non era certo facile presentare proposte illegali, anche se sarà proprio una democrazia del genere a decidere la morte di Socrate (cosa che avvenne anche perché Socrate si permise di giudicare i cittadini nella loro totalità, riuniti appunto in Assemblea).

Di singolare, in questo esperimento democratico, è che non vi fu alcuna teoria politica, almeno non nel senso in cui l’intendiamo oggi. Se ne trova assai di più nei testi di Platone e anche in quelli di Aristotele, quando però la democrazia politica era già in forte declino, finché scomparve del tutto sotto la dominazione macedone. (1) Per avere una teoria politica moderna, riguardante la democrazia diretta, si dovrà aspettare l’opera di Rousseau.

Ciononostante in quella fase storica il popolo ateniese di sentiva “sovrano” (kyrios). Gli bastava l’equa distribuzione dei diritti e delle cariche (un uomo un voto). Naturalmente pretendevano, da parte degli eletti, una rendicontazione generale, a fine mandato (soprattutto di tipo fiscale). Nel caso in cui vi fossero state denunce da parte dei cittadini, il magistrato poteva anche essere sottoposto a un processo davanti al tribunale popolare.

Quel che a noi oggi pare poco logico era la decisione di usare il sorteggio per svolgere cariche di una certa importanza. Evidentemente gli ateniesi erano convinti di avere tutti un merito equivalente. Solo gli ufficiali militari (strateghi) venivano eletti mediante il voto: la loro era l’unica carica che poteva assicurare una certa continuità, benché fosse di durata annuale. A dir il vero il popolo, quand’erano in corso dei conflitti armati, chiedeva una competenza specifica non solo in campo militare, ma anche in quello economico-finanziario.

Oggi invece tendiamo a considerare il sorteggio una pratica inerente alla sfera dei doveri più che a quella dei diritti. Nel mondo militare del passato i plotoni di esecuzione venivano sorteggiati, se non ci si offriva spontaneamente; in guerra si può essere sorteggiati quando si devono compiere delle operazioni che comportano un elevato rischio personale; si può ricorrere al sorteggio anche quando le persone che si offrono spontaneamente per compiere un’impresa rischiosa, sono superiori al necessario; ma si potrebbero fare molti altri esempi.

In genere, quando nessuno si offre spontaneamente per fare una determinata cosa, si procede al sorteggio, cui si può anche far seguire la periodica rotazione degli obblighi tra tutti gli appartenenti a un collettivo. Sorteggio, nella fase iniziale, e rotazione, in quella successiva, riguardano sempre la sfera degli obblighi o dei doveri. Chi può essere, di diritto, esentato da questa procedura è chi dalla comunità viene riconosciuto di un grado superiore rispetto a tutti gli altri, nel senso che si riconosce un merito o una capacità particolare. E’ anche vero però che se, in caso di necessità, questa persona si rifiutasse di accettare un dovere cui ogni altra persona si sente obbligata, facilmente verrebbe considerata poco meritevole d’essere riconfermata nel suo incarico.

Oggi quindi se, da un lato, ci pare assurdo affidare al caso la gestione di importanti compiti politici o amministrativi; dall’altro tendiamo a confermare l’idea della rotazione delle cariche, proprio per impedire gli abusi di potere.

Naturalmente nelle democrazie moderne, tutte meramente rappresentative, il riconoscimento del merito e la rotazione delle cariche hanno un valore molto relativo. Questo perché, per quanto riguarda il merito, è abbastanza consueto che venga riconosciuto, se lo si deve esercitare in ambiti amministrativi, con procedure piuttosto formali e meramente burocratiche, come p.es. i pubblici concorsi, dove il controllo effettivo delle capacità è sempre piuttosto teorico, basato su conoscenze nozionistiche. Quando poi si ottiene l’incarico, i controlli sull’effettiva capacità gestionale sono sempre piuttosto scarsi: in genere avvengono in seguito a denunce o segnalazioni da parte di alcuni cittadini, tra quelli che fruiscono dei servizi inerenti a quell’incarico. Tuttavia il diretto interessato raramente viene rimosso o licenziato: più facilmente verrà trasferito altrove, quando non sarà sufficiente limitarsi a redarguirlo o a sanzionarlo.

La democrazia rappresentativa di uno Stato nazionale può sempre avvalersi della vasta estensione geografica del proprio territorio, unitamente all’assenza di una vera e propria democrazia diretta (2), per celare i propri errori di valutazione, le proprie incapacità nella selezione del personale e nel controllo del suo operato.

Viceversa, per quanto riguarda l’attribuzione del merito in campo politico, i controlli devono per forza essere più stringenti, poiché ne va di mezzo il destino non dello Stato (o di una sua porzione), ma dell’intero partito politico, che garantisce un certo potere, che è piuttosto ristretto, riservato a pochi.

Nell’ambito dello Stato si possono acquisire poteri sul piano amministrativo, giudiziario e militare, ma tutti questi settori sotto sottomessi, almeno in via di principio, a quello politico, che è l’ambito di potere per eccellenza e che, non a caso, permette di fare carriera anche in altri ambiti, una volta che, per un motivo o per un altro, da esso si è usciti.

In ambito politico i meriti personali non vengono riconosciuti dagli elettori dei partiti e neppure da tutti i loro iscritti, ma soltanto dai loro dirigenti più influenti. Nei partiti si fa carriera solo per cooptazione, cioè solo se si viene scelti da un gruppo ristretto di persone, che devono fidarsi reciprocamente o dove comunque la minoranza deve sottostare alla volontà della maggioranza. Una volta eletto “dirigente” del partito (o di un suo qualche settore), si rimane in carica fino a quando le condizioni per cui si è stati scelti restano immutate. E’ praticamente impossibile che una scelta compiuta dai dirigenti di un partito possa essere contraddetta dalla volontà dei suoi aderenti, che costituiscono la base degli elettori, siano essi tesserati o no. Dovrebbero esserci motivazioni piuttosto gravi.

Il leader di un partito può pretendere la revoca di alcune nomine, che si sono rivelate sbagliate, ma perché prenda decisioni del genere, devono esserci forti contestazioni da parte di qualcuno, che è tenuto a documentarle o a motivarle con dovizia di particolari. A nessun leader piace far vedere d’aver compiuto scelte sbagliate. Di regola i partiti politici non amano né i sorteggi, né le rotazioni delle cariche, ma la stabilità, la continuità nell’esercizio del potere. E’ questo il motivo per cui rimangono del tutto impreparati, addirittura sconcertati, quando vengono sconfitti dai partiti avversari, soprattutto se lo sono platealmente nelle competizioni elettorali o nelle rivoluzioni o nei colpi di stato. Essi infatti sono convinti di poter vivere di rendita politica.

La democrazia rappresentativa degli Stati moderni è in realtà una forma di dittatura di pochi privilegiati, il cui tasso di moralità è spesso di levatura piuttosto modesta, in quanto, per conservare il potere acquisito, si deve essere disposti ad accettare molti compromessi, anche piuttosto vergognosi.

D’altra parte anche nella democrazia greca fu impossibile evitare che si formassero dei politici di professione o delle élite di potere, che andavano a convergere verso le élite di censo, di lignaggio e di superiore educazione e istruzione.

Note

(1) Platone, Aristotele e anche Senofonte ritenevano la democrazia ateniese una forma di anarchia, in cui i demagoghi manipolavano i partecipanti alle assemblee, i quali non riuscivano a difendersi proprio perché non avevano sufficiente preparazione per poter prendere decisioni oculate. La politica, come qualunque altra arte, richiedeva una certa dose di specializzazione, per cui non poteva essere posseduta da molti. Per Aristotele il popolo, al massimo, poteva eleggere i magistrati e chiamarli a rendicontazione, ma non doveva tenere i pubblici uffici. Viceversa, Protagora era convinto che il popolo poteva essere educato a praticare l’arte di governare tramite l’insegnamento dei sofisti e la pratica quotidiana della politica. Vi furono dei sofisti (come Callicle, Antifonte e Alcidamante) che sostenevano addirittura l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini, inclusi gli schiavi.

(2) Anche i Consigli comunali, pur essendo pubblici, rientrano nella mera democrazia rappresentativa. Per avere una democrazia diretta bisognerebbe dare tutti i poteri ai Consigli di quartiere, che invece oggi sono strumenti del tutto pletorici.

Quando il califfato si chiamava papato

Dal IV sec. in poi la storia della chiesa cristiana è stata la storia di differenti forme d’intolleranza, con tanto di violenza fisica, torture ed esecuzioni capitali, al solo scopo d’imporre una determinata fede.

A partire dall’editto di Teodosio del 380 le misure persecutorie cominciarono ad essere rivolte sia contro i pagani, sempre più costretti a riunirsi in case private, mentre i loro templi venivano demoliti; sia contro gli stessi eretici (p.es. in Spagna Priscilliano e i suoi seguaci). La filosofa neoplatonica Ipazia fu addirittura linciata da un gruppo di fanatici, istigati dal vescovo Cirillo di Alessandria.

La legittimazione dottrinale per qualunque tipo di persecuzione veniva presa dall’Antico Testamento, cioè da quella stessa fonte ch’era già servita agli ebrei per sterminare i cosiddetti “idolatri”. Loro stessi si videro perseguitati dai cristiani proprio in nome di un dio che aveva assunto sembianze veterotestamentarie. Sant’Ambrogio di Milano ammise molto tranquillamente d’aver dato lui l’ordine di bruciare la sinagoga della sua città.

L’intolleranza religiosa fu teorizzata da gran parte dei Padri della chiesa (Agostino, Girolamo ecc.), nonché da tutti i papi, a partire da Leone I Magno, che chiedeva all’imperatore bizantino di non fare differenza tra nemici della chiesa e nemici dello Stato. Fu proprio lui ad anticipare ciò che nel Medioevo diverrà l’idea-chiave dell’Inquisizione: il potere temporale va considerato come braccio secolare di quello spirituale. La chiesa cioè si limitava a condannare sul piano ideologico, mentre lo Stato eseguiva le sentenze.

Papa Gelasio I considerava gli eretici peggio delle devastazioni barbariche, mentre per Gregorio I se gli schiavi andavano convertiti con “botte e torture”, i liberi invece dovevano subire una “dura carcerazione”. Ovviamente i papi non erano sempre così espliciti nell’uso della violenza ai fini della conversione, però il ricorso a metodi autoritari veniva considerato legittimo in extrema ratio.

L’uso del rogo iniziò nel 1022, quando il re di Francia, Roberto II il Pio, fece bruciare una quindicina di monaci di Orléans, e divenne una prassi consueta con l’Inquisizione, le cui esecuzioni sono state circa mezzo milione (da 70 mila a 300 mila solo le streghe). Gli ultimi roghi per stregoneria in Europa avvennero tra il 1782 e il 1793 in Svizzera e in Polonia.

Tutti potevano essere sospettati, imprigionati, perdere le proprietà, privati di qualunque difesa, torturati (anche solo come misura precauzionale, per sincerarsi dell’affidabilità della confessione) e infine arsi vivi. Non si giudicavano i crimini ma le idee, e la presunzione non era quella d’innocenza (come oggi) ma di colpevolezza, per cui era a carico dell’accusato dimostrare il contrario.

Quando si parla di perseguitati dalla chiesa romana, si ricordano sempre i soliti nomi (Giordano Bruno, Galilei, Vanini, Jan Huss, Savonarola…), lasciando credere che, tutto sommato, non dovettero essere molti, ma quegli intellettuali, in realtà, erano soltanto la punta di un iceberg. Decine di migliaia sono stati gli illustri sconosciuti o i seguaci di leader religiosi significativi.

Federico Barbarossa non batté ciglio quando al Concilio di Verona papa Lucio III pretese la bolla Ad abolendam, poi integrata nelle Decretali di Gregorio IX. Sperava d’essere riconosciuto come imperatore nell’Italia comunale, ma il papato, dopo essersi servito di lui contro gli eretici (clamorosa fu l’esecuzione di Arnaldo da Brescia), si servì degli stessi Comuni contro di lui, e ne uscì vittorioso, anche se l’imperatore, poco prima di andare a morire in un’ennesima quanto inutile crociata anti-islamica, fece sposare suo figlio con l’erede dei Normanni d’Altavilla, che nel Mezzogiorno svolgevano la parte di feudatari della chiesa. Il papato andò su tutte le furie, perché voleva allargare a dismisura il proprio Stato, e alla morte di Federico II, nipote del Barbarossa, non ci pensò un attimo a far venire in Italia gli Angioini. Questa infatti è sempre stata un’altra caratteristica del papato italiano: servirsi di una potenza straniera per combattere i nemici interni.

Per la chiesa feudale l’eresia doveva essere equiparata al reato di “lesa maestà” (cosa molto contestata, p.es., da un grande teologo come Marsilio da Padova), per cui andava sempre punita con la morte, soprattutto in caso di recidiva. Si era così severi che la condanna si estendeva anche ai discendenti degli eretici: lo si faceva al solo scopo d’intimidire, oltre ovviamente a quello di privare l’eretico di ogni suo bene.

La crociata interna contro gli Albigesi fu una strage incredibile in Occitania. Papa Innocenzo III fu, in quell’occasione, un vero “macellaio”, poiché permise di far fuori un’intera comunità di duemila fedeli.

Oggi ci stupiamo molto che i membri dell’Isis taglino la testa o brucino vivo chi per loro è un eretico o un infedele. Ma questi trattamenti erano considerati del tutto legittimi dalla chiesa e dai sovrani cattolici in Europa. Catari arsi vivi vi furono a Colonia nel 1163, 80 eretici a Strasburgo nel 1212, e così via: l’elenco di casi del genere è lunghissimo.

Nel 1197 Pietro d’Aragona introdusse il rogo tra le forme di punizione espressamente previste per gli eretici che non avessero lasciato immediatamente il paese (spesso l’esecuzione era preceduta dal taglio della lingua, come punizione contro il reato di bestemmia).

I papi fondamentalisti non lesinavano citazioni ad hoc per giustificare i loro crimini. Disse, p.es., Gregorio IX nel 1233: “Dov’è lo zelo di un Mosè, che in un solo giorno annientò 23 mila idolatri? Dov’è lo zelo di un Elia, che uccise con la spada i 450 profeti di Baal?”.

Anche il teologo più importante della chiesa romana, Tommaso d’Aquino, se non aveva dubbi che i giudei o i pagani non potessero essere costretti a credere, di sicuro però dovevano esserlo gli eretici e gli apostati, con pene corporali e anche con quella capitale, se necessario.

La pena del rogo fu introdotta da Federico II in tutto il sacro romano-germanico impero; ufficialmente la Francia lo fece nel 1270; Venezia nel 1249; Alfonso X di Castiglia la prevedeva nel 1255 per chi si convertiva dal cristianesimo all’islam o all’ebraismo; nel 1401 entrò nella legislazione inglese.

Quando il papato era ad Avignone, i Templari, che si erano arricchiti enormemente con le crociate anti-islamiche, furono sterminati dal re di Francia con l’avallo di papa Clemente V, che autorizzò le più barbare torture al fine di privarli di tutti i loro beni: 500 di loro morirono persino prima ancora di finire sul rogo. Nel caso in oggetto non si trattava neppure di veri e propri “eretici” in senso teologico.

E neppure lo erano i fraticelli francescani, che contestavano il clero corrotto non sul piano ideologico ma solo dal punto di vista della pratica della fede. A Carcassonne papa Giovanni XXII ne fece bruciare 113. In Italia gli apostolici-dolciniani sterminati furono circa 3.000.

Quando papa Wojtyla disse che tali atti erano in contrasto con la dottrina della chiesa, mentiva sapendo di mentire. Gli inquisitori, i teologi, i papi erano tutti convinti che, uccidendo l’eretico, facevano il suo bene, in quanto gli impedivano di continuare a peccare.

La chiesa romana ha praticato esecuzioni capitali sino all’unificazione italiana (l’ultimo giustiziato è del 1870) e ha abolito giuridicamente la pena di morte solo nel 2001!

Innocenzo IV (1243-54) legittimò l’uso della tortura con la bolla Ad extirpanda, e i suoi successori, Alessandro IV e Urbano IV autorizzarono gli inquisitori ad essere presenti a tutte le torture. Il solo Bernardo Gui, domenicano francese e grande inquisitore di Tolosa, condannò 636 persone dal 1308 al 1322, di cui 40 finirono sul rogo, 300 imprigionate a vita, e le altre a pene minori. Papa Giovanni XXII lo premiò facendolo diventare vescovo.

Nel Manuale dell’inquisitore, scritto nel 1376 dal domenicano Eymerich, si può chiaramente leggere che persino gli eretici pentiti finivano male: come minimo infatti subivano l’ergastolo.

Non dimentichiamo che se si scopriva in ritardo che uno era stato eretico, si poteva anche riesumarlo dalla tomba, fargli il processo e mandarlo al rogo. Il primo a subire una procedura del genere, che a dir macabra è poco, ma che poi divenne prassi, fu addirittura un papa, di nome Formoso, nell’897. Lo si faceva per far capire all’eretico che non aveva scampo, né da vivo né da morto.

Di recente papa Bergoglio ha chiesto scusa ai Valdesi per le persecuzioni subite. Pochi infatti sanno che persino in epoca umanistica venivano messi al rogo (p.es. nel 1445 a Cuneo, ma anche nel 1560-61 in Calabria, allorché i gesuiti li mandavano a morire anche se pentiti).

Non c’è d’altra parte da stupirsi. Il papato ricorreva a metodi di oppressione tanto più terribili, quanto più si rendeva conto che il potere politico gli stava sfuggendo di mano. Ecco perché l’Inquisizione continuò, ancor più virulenta, finito il Medioevo, durante la Controriforma.

Mentre nella Spagna tardo-feudale, a partire dal 1478, si usò l’Inquisizione contro gli ebrei e gli islamici convertiti al cristianesimo, semplicemente perché di loro non ci si fidava, e si preferiva cacciarli dalla Spagna unificata per privarli di tutti i loro beni; nel resto dell’Europa invece il nemico da abbattere era il “protestante”, luterano o calvinista che fosse.

L’Inquisizione moderna se la prendeva contro ogni idea diversa da quella che doveva apparire “ufficiale”. Quella “romana” fu istituita nel 1542 da papa Paolo III, per inaugurare la Controriforma. Agli inquisitori si diede piena licenza di torturare e giustiziare, mirando a colpire non solo con gli eretici, ma anche i bestemmiatori in senso lato, gli omosessuali, i simoniaci, i celebranti senza ordinazione, chi violava i giorni festivi, i giudaizzanti, ecc. Nel 1556 ad Ancona furono condannati a morte 25 ebrei, previo il rogo di tutti i loro testi sacri.

Nella monumentale Storia della chiesa, curata da H. Jedin per i tipi della Jaca Book, appare abbastanza ridicolo che, di fronte a eccidi del genere, si dica che “nell’insieme tali provvedimenti repressivi erano ben superati dal positivo lavoro costruttivo della pubblicazione del catechismo, del breviario e del messale”.

È rimasto alla storia il Te Deum che papa Gregorio XIII fece celebrare a titolo di ringraziamento per l’orrenda strage di migliaia di ugonotti (tra 5.000 e 30.000) compiuta dai cattolici a Parigi nella notte di San Bartolomeo (1572).

Difficile sostenere la legittimità di comportamenti del genere e poi continuare a non negare l’assurdità di un dogma come quello dell’infallibilità pontificia. Probabilmente l’unico papa davvero “infallibile” è stato Celestino V, che si dimise dopo pochi mesi, prima ancora di compiere qualcosa di cui, in quanto benedettino eremitico, si sarebbe amaramente pentito.

Da notare, inoltre, che se le torture e le esecuzioni capitali dovevano sottostare in Europa a procedure formalmente “corrette”, nei paesi colonizzati tutte le remore venivano meno. Se aggiungiamo alle vittime europee quelle latinoamericane e di altre colonie, il numero diventa incalcolabile.

L’Inquisizione ha continuato a fare molta paura ancora nel Seicento e nel Settecento. La temettero o la subirono nomi famosi: da Giordano Bruno, a Galilei, a Cartesio, sino ai massoni (si pensi p.es. alla vicenda di Tommaso Crudeli). Il libro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, fu messo all’Indice, come tantissimi altri.

L’Inquisizione ebbe termine non grazie al senso del diritto dei cattolici, ma alle idee dell’Illuminismo, della rivoluzione francese e dell’espansione napoleonica in Europa. Si iniziò praticamente dalla metà del Settecento, anche se l’intolleranza della chiesa romana continuò imperterrita.

Nel 1832 papa Gregorio XVI condannava recisamente ogni affermazione della libertà di coscienza (Mirari vos); cosa che fu ribadita nel 1864 da papa Pio IX (Quanta cura), che farà approvare il dogma dell’infallibilità per difendere lo Stato della chiesa dalle minacce dei Savoia.

Nel 1910 papa Pio X condannò i cattolici progressisti francesi (anche in Italia il modernismo fu pesantemente represso); e il suo successore, Pio XI, pretese da Mussolini, per risolvere la “questione romana”, che lo Stato dichiarasse il cattolicesimo a “fondamento e coronamento” della propria istruzione scolastica. Cosa che è stata eliminata solo con la revisione concordataria del 1984, anche se permane intonso l’art. 7 nella Costituzione.

Ci vorrà il Concilio Vaticano II per ammorbidire le posizioni integralistiche della chiesa, che però torneranno in auge coi due pontificati nettamente anti-comunisti di Wojtyla e Ratzinger, i principali affossatori anche della teologia della liberazione.

Il Marx di Diego Fusaro

Indubbiamente Diego Fusaro, astro nascente dell’attuale filosofia marxista italiana, ha avuto e tuttora ha il merito di aver aiutato a riscoprire la portata eversiva delle teorie anti-capitalistiche di quel grande economista chiamato Karl Marx.

Vogliamo sottolineare la qualifica di “economista” perché è in questo ruolo che Marx ha dato il meglio di sé, checché ne pensi Fusaro, che invece lo preferisce di più nei panni del “filosofo” o in quelli del “filosofo dell’economia”, rischiando così pericolosamente di darne un’interpretazione influenzata dall’hegelismo, come d’altra parte fece uno dei suoi principali maestri, Costanzo Preve.

La vera grandezza di Marx sta invece proprio in questo, nell’aver distrutto il primato della filosofia, facendo dell’economia politica una vera scienza, e non una semplice ideologia al servizio della borghesia, com’era, in particolar modo, quella elaborata in Inghilterra, in cui dominava l’idea di considerare il capitalismo un fenomeno di tipo “naturale” e non “storico”, ovvero come un evento destinato a durare in eterno e non a essere superato da una società di tipo comunista. Per l’ultimo Marx, quello interessato all’antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall’antagonismo tra capitale e lavoro.

A dir il vero il giovane Marx non aveva affatto intenzione di superare la filosofia con l’economia, bensì con la politica. Solo dopo aver conosciuto Engels si mise a studiare questa disciplina. Fu la sua sconfitta come politico della Lega comunista, nel corso delle rivoluzioni europee del 1848, che lo portò, una volta emigrato a Londra, a dare più peso agli studi teorici dell’economia capitalistica, di cui quelli dedicati al pre-capitalismo risultavano, agli occhi esigenti di Marx, non meritevoli d’essere pubblicati.

Tutti i testi di economia – ad eccezione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che maturarono a Parigi a contatto con gli ambienti socialisti – sono stati elaborati sotto il peso di un’amara sconfitta politica: di questo, leggendoli, non bisogna mai dimenticarsi, se si vuole tentare di esaminarli nella maniera più obiettiva possibile, cioè se non si vuole soprassedere al fatto che in tutti quegli scritti risulta alquanto forte l’uso dialettico della categoria hegeliana della necessità e quindi un certo determinismo economico, che tanto peso avrà nella storia della seconda Internazionale e in quasi tutto il marxismo europeo, sempre molto influenzato da correnti borghesi di pensiero, come ad es. il positivismo e lo strutturalismo, mentre, per quanto riguarda la Russia, ci si deve riferire allo sviluppo del cosiddetto “marxismo legale” ed “economicismo”, contro cui il giovane Lenin muoverà le sue forti proteste.

Marx è stato un genio assoluto in campo economico, ma per averne uno in campo politico abbiamo dovuto attendere Lenin, di cui però Fusaro non s’interessa minimamente. Eppure egli, pur scrivendo testi dichiaratamente filosofici, vuole darsi un obiettivo politico generale: quello del superamento del capitalismo. Perché dunque non fare mai alcun riferimento organico, propositivo, a Lenin? Il quale indubbiamente fu non solo il Marx dell’epoca imperialistica sul piano economico (il suo testo sull’Imperialismo è ancora oggi assolutamente fondamentale per capire le premesse dell’epoca in cui viviamo), ma anche il politico marxista più coerente, l’unico che seppe realizzare con successo gli insegnamenti del suo maestro, dimostrando una creatività di pensiero fuori del comune. Se Marx avesse potuto conoscerlo, non l’avrebbe certamente considerato di livello inferiore ai tanti suoi seguaci, più o meno ortodossi (Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lassalle, Lafargue, Guesde…), che in Germania e in Francia si accingevano a costruire un partito socialista rivoluzionario e una seconda Internazionale.

Rivalutare Marx, senza fare alcun riferimento a Lenin, può portare a due inevitabili conseguenze: ripetere cose già dette o fraintendere il suo pensiero. Marx e Lenin sono due soggetti molto particolari: non possono essere semplicemente “studiati” o, peggio ancora, “letti” come due autori qualunque. Entrambi chiedono d’impegnarsi per trasformare le cose, proprio perché avvertono con drammaticità la gravità della crisi e con urgenza il compito di risolverla, senza sfociare in alcuna forma d’irrazionalismo. Tuttavia, se si dà più peso a Marx che non a Lenin, si finisce col fare i “teorici dell’alternativa”, senza lasciarsi coinvolgere in alcun partito o movimento politico e senza neppure essere capaci di fondarne uno nuovo. È appunto questa la posizione che ha l’attuale Diego Fusaro, che quando parla di filosofia fa politica e quando parla di politica fa filosofia.

Se ci si ferma a Marx, tralasciando Lenin, si sarà indotti ad attendere, in virtù delle proprie critiche eversive, che le masse spontaneamente insorgano. Cioè si finirà col compiere il medesimo errore di Marx, di cui lui stesso si rese conto (dicendolo nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica), senza però riuscire a porvi rimedio, tant’è, anzi, ch’egli si trovò come costretto ad accentuare il lato deterministico della transizione al socialismo, appellandosi alla necessità, per chiunque voglia compiere la rivoluzione, di vedere preventivamente esaurite le forze propulsive del capitale. Un errore che Lenin evitò accuratamente di ripetere, anche perché precisò subito, in Che fare?, che la coscienza rivoluzionaria di un superamento complessivo del sistema bisogna portarla, al proletariato, dall’esterno, in quanto, se lo si lascia a se stesso, al massimo matura una coscienza sindacale.

Lenin aveva capito queste cose oltre un secolo fa; trascurarle, pensando sia sufficiente riscoprire Marx per fare di nuovo un discorso anti-capitalistico, rischia di portare fuori strada, anche perché il revival di Marx è già avvenuto, soprattutto in Europa occidentale, negli anni della contestazione operaio-studentesca: ripetere oggi quella scoperta, senza fare un passo avanti, in direzione del leninismo, non servirà a nulla. Anzi, su taluni aspetti è lo stesso leninismo che va rivisto: si pensi ad es. ai primati concessi all’industrializzazione, all’urbanizzazione, allo sviluppo tecnico-scientifico, che oggi una qualunque coscienza ambientalista guarderebbe con molto sospetto; ma si pensi anche alla necessità di non trascurare i rapporti tra coscienza umana e coscienza politica, onde evitare di veder assorbita la prima alla seconda.

Fusaro è convinto d’essere titolato pienamente a parlare di “riscoperta di Marx”, in quanto, secondo lui, quella avvenuta nella stagione del Sessantotto (che si protrasse almeno sino al delitto di Aldo Moro) fu tutta all’interno del sistema borghese, cioè fu una riscoperta che servì alla piccola borghesia per modernizzare il sistema. In realtà se questo fu l’esito della contestazione, bisogna dire che fu del tutto involontario o comunque non intenzionale. In gran parte dipese appunto dal fatto che si volle riscoprire solo Marx, senza fare i conti con Lenin, cioè ci si affidò più allo spontaneismo delle masse che non all’organizzazione di un partito di professionisti, capace di creare un consenso popolare e di gestirlo in chiave rivoluzionaria. Quando parlavano di rivoluzione, generalmente i partiti finivano nel terrorismo, ripetendo così gli errori di un certo anarchismo estremo e individualistico. E quando si parlava di Lenin, al massimo lo si faceva – come Althusser – sul piano meramente filosofico.

In Italia si ebbe addirittura l’impressione, negli anni Settanta, che il parlare così tanto di Gramsci, soprattutto di quello dei Quaderni, pubblicati per la prima volta dal 1948 al 1951, servisse proprio per non parlare di Lenin. L’importanza attribuita alla cultura appariva cioè strumentale all’esigenza di non toccare i tasti dell’impegno rivoluzionario vero e proprio, al fine di accettare acriticamente la politica di “larghe intese” (il famoso “compromesso storico”) realizzata tra comunisti e democristiani.

Un movimento come quello del Sessantotto non può essere guardato con gli occhi del filosofo: ci vogliono quelli del politico. E Fusaro ancora non li ha, e se non si emancipa dalla lezione di Preve, ch’egli peraltro ha assorbito quando Preve era già nella sua fase involutiva, rischierà di spegnersi in questa sua forte carica contestativa. Questo per dire che al giorno d’oggi, se davvero si vuol fare i “marxisti”, non è sufficiente fare dei “discorsi eversivi”; non si può evitare d’essere meramente “filosofi” limitandosi a usare quella che Lenin chiamava la “fraseologia rivoluzionaria”. Occorre l’appartenenza a un partito, una militanza personale.

Marx aveva ucciso la filosofia con l’economia, ma Lenin aveva detto che “la politica è una sintesi dell’economia”. Questo perché non c’è bisogno di conoscere il sistema capitalistico in tutte le sue sfumature prima di potersi organizzare praticamente per abbatterlo. Non abbiamo bisogno di riscrivere il Capitale per capire la nostra epoca globalizzata. È già sufficientemente chiaro che l’unica alternativa è quella di fuoriuscire dal sistema, abbattendo i suoi due pilastri fondamentali: lo Stato e il mercato, cioè il principale strumento oppressivo della borghesia e il primato assoluto che il valore di scambio ha su quello d’uso. Le differenze fra una strategia e l’altra possono riguardare soltanto le modalità e i mezzi da impiegare, anche perché il capitalismo si evolve di continuo e l’analisi economica viene sempre dopo, come ai tempi di Hegel la filosofia, civetta di Minerva. Con questa differenza, che la filosofia non riusciva mai a comprendere l’essenza degli antagonismi sociali.

Il primo a farlo, in maniera scientifica, dal punto di vista economico, con le sue teorie sul plusvalore, è stato appunto Marx. Fusaro glielo riconosce, anzi, lo esalta proprio per questo motivo, senza però accorgersi di un limite di fondo di tutta l’analisi del Capitale, e cioè la sottovalutazione dell’importanza dei fattori sovrastrutturali. Se Fusaro avesse studiato Lenin, o se almeno l’avesse fatto senza usare le lenti deformanti del suo maestro Costanzo Preve, che rifiutava il leninismo non solo sul piano politico, ma anche, e ancor più, su quello filosofico, forse avrebbe potuto dare di Marx una valutazione più obiettiva.

Dopo l’interpretazione che Lenin ha dato del “marxismo classico”, mediante cui ha valorizzato enormemente l’aspetto sovrastrutturale della politica, non è più possibile fare una semplice “riscoperta” di Marx. Ci vuole ben altro. Persino il giorno in cui riscopriremo Lenin, ci vorrà ben altro. Non potremo infatti considerare sufficiente una “politica rivoluzionaria”, trascurando, colpevolmente, quelli che oggi vengono chiamati i “diritti (o valori) umani universali”, i quali, per quanto formulati astrattamente, cioè senza riferimenti specifici a condizioni di spazio e tempo, fanno parte comunque del patrimonio dell’umanità, la cui formalizzazione è stata avvertita come inderogabile dopo due devastanti guerre mondiali, e che sono stati sinteticamente riprecisati dopo la fine di quella che Fusaro, sulla scia di Preve, chiama la “terza guerra mondiale” (cioè la “guerra fredda”), in quel documento significativo (la cosiddetta “Carta della nonviolenza” o “Dichiarazione di Delhi”) che Gorbaciov firmò nel 1986 insieme a Rajiv Gandhi.

Il tempo non passa invano, e per non ripetere gli errori del passato, occorre approfondire la riflessione critica, rendendo la prassi ad essa conseguente. I limiti sovrastrutturali nell’analisi economica di Marx non riguardano soltanto la scarsa importanza attribuita ai nessi con la politica. Per tutto il periodo londinese Marx si è sentito un teorico dell’economia e, fatto salvo l’impegno per costituire la prima Internazionale, che però nel 1876 si era già sciolta, egli non arrivo mai a impegnarsi per la costruzione di un partito autenticamente rivoluzionario. Qui la differenza da Lenin è netta.

Ma il limite di fondo riguarda anche la scarsa importanza attribuita ai fenomeni culturali, relativamente alla capacità che hanno di condizionare i processi economici. Per tutta la sua vita Marx ha visto la cultura, l’ideologia, le idee etiche, religiose, filosofiche, giuridiche, artistiche… come semplici riflessi o rispecchiamenti di determinate strutture economiche. Al massimo – aveva detto nella Prefazione alla prima edizione del Capitale – ci si poteva elevare soggettivamente nella comprensione delle contraddizioni sociali.

Lenin non era affatto così schematico, proprio perché attribuiva un’importanza decisiva, ai fini della rivoluzione, agli strumenti e ai metodi della tattica e della strategia. In Italia abbiamo dovuto attendere Gramsci – lettore di Lenin, anche se totalmente a digiuno di economia – prima che, nell’ambito del socialismo, si capisse l’importanza della cultura, per quanto già l’ultimo Engels non avesse mancato di sottolineare, coi suoi testi sullo Stato, la proprietà privata e la famiglia, sulla riforma protestante e la guerra contadina, che qualcosa del “marxismo” del suo geniale collega andava emendato, tant’è che proprio lui fu indotto a sostenere che il primato della struttura sulla sovrastruttura andava considerato tale solo in ultima istanza.

D’altra parte lo stesso Marx, alla fine della sua vita, cominciò a capire l’importanza delle formazioni sociali precapitalistiche (in modo particolare l’esperienza della comune agricola russa) e a rivalutare quel periodo storico che poi fu definito col termine di “comunismo primitivo”. Ma ormai gli mancavano le forze per approfondire questi temi. La stesura del Capitale lo aveva completamente distrutto; più volte Engels l’aveva messo sull’avviso, nelle lettere che gli scriveva, che quell’opera avrebbe minato irreparabilmente la sua salute.

Anche Lenin si rese conto solo alla fine della sua vita di non aver dato sufficiente spazio al lato umano della politica rivoluzionaria. Ma non ebbe il tempo sufficiente per porvi rimedio (anche a causa del grave attentato che subì) e la svolta autoritaria s’impose appena dopo pochi anni dalla sua morte. Per poter leggere il suo Testamento i comunisti russi han dovuto attendere il 1956: sotto lo stalinismo lo si considerava addirittura inesistente.

Che anche Fusaro non abbia capito l’importanza della cultura, come fattore particolarmente condizionante della struttura economica, lo si evince dalla mancata comprensione della motivazione per cui, nel tempo, si è passati dalla schiavitù diretta (quella tipica p.es. del periodo greco-romano) a quella salariata, che si è imposta proprio sotto il capitalismo. Il passaggio fu determinato non solo da fattori storici e contingenti, ma anche dallo sviluppo del cristianesimo. Cosa di cui Fusaro si disinteressa completamente, rischiando di fare un passo indietro persino rispetto a Marx, il quale, pur senza mai approfondirlo, aveva intravisto nel Capitale un nesso significativo tra capitalismo e protestantesimo. Argomento, questo, che verrà particolarmente sviluppato, ma dal punto di vista borghese, da Max Weber. Il quale, se ben comprese che il calvinismo era la confessione religiosa che meglio si confaceva allo sviluppo del capitalismo, non riuscì però a capire che le prime tracce di capitalismo s’erano sviluppate nell’Italia comunale e signorile, dove la religione dominante era quella cattolico-romana.

D’altra parte Fusaro, tralasciando, nei libri dedicati a Marx, di fare un’analisi sulla dittatura politica e ideologica affermatasi nel cosiddetto “socialismo reale”, non arriva neppure a comprendere che una schiavitù salariata non è una prerogativa del solo capitalismo privato, ma anche dello Stato totalitario di marca socialista, in cui il partito-guida, che è un padre e padrone, usa mistificanti motivazioni di tipo ideologico con cui estorcere plusvalore alla massa dei lavoratori.

È importante essere convinti di questo, poiché quando si contesta l’Europa delle banche e della finanza – come fa Fusaro con insistenza – e si vuole tornare alla sovranità degli Stati nazionali (che per lui ovviamente dovrebbero diventare di tipo socialista), si rischia di ripetere errori già compiuti. Tutti i giorni, infatti, vediamo che l’idea di Stato nazionale viene progressivamente erosa dalle esigenze del grande capitale, che sempre più ha bisogno di governi e istituti sovranazionali. Sono le esigenze del mercato che lo impongono, proprio per mantenere alti i profitti dei grandi monopoli, industriali e finanziari. Una battaglia contro questi monopoli, i quali per espandersi hanno continuamente bisogno di provocare tensioni e conflitti d’ogni tipo, non può riportarci alla fase dello “Stato nazionale”, sia questo di tipo capitalista o socialista.

È dal “sistema” che bisogna uscire, coi suoi meccanismi di mercato e di oppressione istituzionale. E, sotto questo aspetto, bisogna stare attenti a non ripetere gli errori della rivoluzione d’Ottobre e di tutte le rivoluzioni comuniste, dove, pur parlando, teoricamente, di progressiva estinzione dello Stato, si è finiti, temendo continui attacchi militari da parte dei nemici storici, col rafforzare all’inverosimile proprio le istituzioni statali, facendole, ad un certo punto, implodere. È stata una grande illusione pensare di eliminare le leggi del mercato usando la forza di uno Stato autoritario. Questo è un compito che va lasciato alla popolazione civile, messa in grado di usare liberamente la propria volontà. Anche se, ovviamente, non può essere considerata sbagliata l’idea di usare le leve dello Stato per affrontare l’eventuale controrivoluzione.

Nota

I due testi di Diego Fusaro cui qui si fa riferimento sono Karl Marx e la schiavitù salariata, ed. Il prato, Saonara 2007 e Bentornato Marx! Rinasci­ta di un pensiero rivoluzionario, ed. Bompiani, Milano 2012. Il presente articolo è già stato pubblicato nel libro curato da I. Pozzoni, Frammenti di filosofia contemporanea VI, ed. Limina Mentis, 2015

I dieci peccati capitali di Marx

  1. Marx ha sottovalutato l’importanza del colonialismo nella formazione del capitalismo, lasciando credere ch’esso fosse una sua logica conseguenza, quando, in realtà, tra capitalismo e colonialismo vi è un’influenza reciproca. Il colonialismo infatti s’impone sin dai tempi delle crociate, cioè a partire dal Mille. Certamente non possiamo sostenere ch’esso sia stato la principale causa per la nascita del capitalismo, in quanto a ciò hanno contribuito anche fattori ideologici e tecnologici; e tuttavia l’influenza del colonialismo va considerata decisiva, come risulta ancora oggi per la sopravvivenza del capitalismo.
    Questo errore non fu compiuto da Lenin, il quale, anzi, si rese conto, ad un certo punto, che proprio il colonialismo permetteva al capitalismo di condizionare pesantemente il movimento operaio metropolitano e, ancor più, i suoi dirigenti politici e sindacali, mantenendo alti i salari e gli stipendi, pagati, sostanzialmente, con l’enorme sfruttamento delle colonie.
  2. Ritenendo che il proletariato industriale fosse l’unica classe che, priva di tutto, non avrebbe avuto nulla da perdere a scatenare una rivoluzione politica, ne ha sopravvalutata la capacità eversiva. Cioè si è affidato eccessivamente a quello che viene definito “lo spontaneismo delle masse”, rinunciando così a costruire un partito politico vero e proprio.
    Errore, questo, che Lenin non fece, essendo persuaso che la classe operaia, lasciata a se stessa, senza una guida politica, al massimo si limitava a fare delle rivendicazioni salariali, non riuscendo ad avere una visione d’insieme relativa all’intero sistema da abbattere. Lenin in sostanza aveva capito che non basta la “sofferenza”, dovuta alla miseria e alla privazione dei diritti, per compiere una rivoluzione: ci vuole l’organizzazione determinata e consapevole di un partito politico, che può essere anche composto di operai, ma questi devono dedicarsi completamente alla tattica e alla strategia eversiva, cioè devono diventare dei “professionisti” della politica rivoluzionaria.
  3. Marx ha del tutto trascurato l’alleanza degli operai con la piccola-borghesia e soprattutto coi contadini. Non è stato capace di creare un consenso su temi comuni. Ha sempre considerato i contadini troppo ignoranti, troppo bigotti, troppo isolati tra loro per poter compiere una rivoluzione comunista.
    Lenin non farà questo errore, anche perché, in un paese come il suo, all’80% contadino, non avrebbe avuto alcuna possibilità di fare una rivoluzione autenticamente popolare; senza l’appoggio delle masse contadine avrebbe soltanto potuto fare un colpo di stato.
  4. Marx ha sottovalutato l’importanza della sovrastruttura ai fini del cambiamento qualitativo della struttura socio-economica. Questo lo ha portato, altresì, a inglobare il sociale nell’economico, cadendo nello stesso limite della borghesia.
    Tra struttura e sovrastruttura oggi si ammette un’influenza reciproca, sempre e in ogni caso, come ben compresero Lenin (che ritenne la politica più importante dell’economia ai fini della rivoluzione) e Gramsci (che ritenne la cultura più importante addirittura della politica ai fini dell’egemonia del partito nell’ambito della società civile).
  5. Marx non solo ha trascurato la realizzazione di un partito politico rivoluzionario, guidato da professionisti della politica, ma non ha mai valorizzato neppure il socialismo utopistico e il mondo della cooperazione, insistendo invece nel fare un’analisi economica in cui la transizione dal capitalismo al socialismo apparisse come un qualcosa di necessario, dipendente dalle stesse irrisolvibili contraddizioni del capitale, la prima delle quali è sempre stata considerata quella della crescente sfasatura tra forze e rapporti produttivi.
    Conseguenza di ciò è stato che, insieme ad Engels, ha allestito un’Internazionale comunista che di eversivo non aveva nulla. Il soggiorno londinese è servito a poco sul piano politico e, su quello dell’analisi economica, è servito soltanto ad approfondire le tesi già espresse durante il soggiorno parigino. Marx si è lasciato determinare troppo dalla categoria hegeliana della necessità.
  6. Egli inoltre non ha capito che lo sviluppo tecnico-scientifico non può essere utilizzato così com’è. Una società socialista non può fondarsi sull’idea che sia sufficiente socializzare i mezzi produttivi per poter utilizzare al meglio la tecnologia prodotta dalla borghesia. Questa tecnologia non può essere considerata come qualcosa di neutrale, dipendente dall’uso che se ne può fare. Essa stessa, essendo il prodotto di precisi conflitti di classe, va rimessa continuamente in discussione. Sotto il socialismo ci si dovrà ogni volta chiedere, di fronte all’esigenza di dover risolvere un problema, se i mezzi ereditati dalla società capitalistica siano davvero quelli idonei.
  7. Marx non ha capito che tutta l’industrializzazione e tutta la scienza e la tecnologia che si sono sviluppate sotto il capitalismo e, prima ancora, nelle società e civiltà basate sugli antagonismi sociali, hanno sempre una ricaduta negativa sull’ambiente. Egli ha sempre contrapposto l’uomo alla natura e ha sempre considerato la natura un bene da consumare, un oggetto da dominare grazie appunto alla scienza e alla tecnica, seppur ciò andasse fatto in maniera razionale, diversamente da quanto accade sotto il capitalismo. Oggi questo modo di vedere le cose viene considerato profondamente anti-ecologico.
  8. Marx ha ritenuto assolutamente necessaria la transizione dal feudalesimo al capitalismo, senza mai prospettare l’idea di una riforma agraria che spezzasse il latifondo ed evitasse quindi quella transizione. Ma, quel che è peggio, ha sempre ritenuto necessario il passaggio dal comunismo primordiale (che non soffriva di conflitti di classe o di casta) allo schiavismo. Di qui la necessità di credere, secondo i principi del determinismo economico, che sarebbe stata necessaria anche la transizione dal capitalismo al socialismo.
  9. Marx non ha capito i motivi per cui, a parità di traffici commerciali, o comunque in presenza di mercati, di valori di scambio e di monete, il capitalismo nasce in un luogo invece che in un altro, anche se ha intuito due aspetti fondamentali dell’economia borghese: la prima è che non può nascere il capitalismo se non esiste la libertà giuridica pienamente affermata a favore del lavoratore, la seconda è che il protestantesimo rappresenta la religione che meglio si presta a garantire l’affermarsi di tale libertà giuridica formale o astratta, in cui la libertà viene fatta coincidere con la pura libertà di scelta, mentre per il resto ci si affida alla legge economica del più forte.
  10. Nel suo soggiorno londinese Marx è sempre stato convinto che fino a quando una società non esaurisce tutta la sua forza propulsiva, è impossibile una transizione al socialismo. D’altra parte non ha mai spiegato come avrebbe dovuto svolgersi l’ultima transizione della storia. Diceva, p. es., che lo Stato va occupato e persino gestito in maniera dittatoriale in presenza di una controrivoluzione, ma poi sia lui che Engels hanno detto che doveva “estinguersi”, seppure in maniera progressiva. Neppure è stata chiarita la fase relativa alla socializzazione dei mezzi produttivi: lo Stato ha un proprio ruolo in tale socializzazione o non ne ha alcuno? È più importante la società o lo Stato? Come può la società organizzarsi fino al punto da non aver bisogno di alcuno Stato?

Sulla contraddizione

Nel suo libretto Sulla contraddizione Mao non contrappone idealismo a materialismo, ma metafisica a dialettica, sostenendo che anche il materialismo può essere metafisico, come in genere è quello borghese.

Impossibile dargli torto su questo, anche se una precisazione è lecita. La scoperta delle leggi della dialettica (attrazione e repulsione degli opposti, svolgimento di tesi-antitesi-sintesi, dalle progressive determinazioni quantitative a una nuova qualità, ecc.) di per sé non è in grado d’impedire che la dialettica si trasformi in una metafisica. Detto altrimenti: non esiste alcun principio teorico che impedisca a una teoria di svolgersi in maniera opposta ai propri princìpi. In ultima istanza solo la prassi è garante di se stessa. Questo perché una teoria può sempre essere soggetta a interpretazioni opposte; e in ogni caso non può essere una teoria a “garantire” validità a una prassi.

Anche la prassi può essere vissuta secondo intenzioni e modalità opposte, ma gli effetti di queste intenzioni e modalità si vedono abbastanza presto, sicuramente molto prima di quanto non accada nel campo della teoria. La teoria infatti deve aspettare le realizzazioni pratiche, e se la pratica non è conforme ai princìpi della teoria, quest’ultima può sempre dire che la responsabilità non è la sua. La prassi invece non può permettersi questo lusso e, per rimediare ai propri errori, deve correggersi in fretta.

Tuttavia la prassi, pur non avendo questo lusso, ha un primato sulla teoria, che la teoria non le potrà mai togliere: la prassi deve rispondere a bisogni reali, immediati, contingenti, e deve cercare appoggi e consensi nel presente. Deve sapersi organizzare al meglio: non può essere astratta, poiché ciò significa essere inefficaci, inconcludenti.

La teoria diventa utile quando la prassi non è capace di rispondere ai bisogni della gente, ma la propria utilità deve dimostrarla proponendo una prassi alternativa. Non basta formulare una “teoria critica” per dimostrare d’avere ragione. Per “dimostrare” la verità di qualcosa, bisogna “mostrarla” concretamente.

Questo spiega il motivo per cui la politica è superiore alla filosofia e a qualunque scienza teorica che non si preoccupa di cercare delle verifiche pratiche. La politica è la scienza delle risposte pratiche ai bisogni delle masse popolari. Un testo filosofico, infatti, può essere letto da un individuo singolo. Una proposta politica deve invece riguardare una moltitudine di persone.

Tutto ciò per dire che la scoperta delle leggi della dialettica di per sé non vuol dire nulla. Almeno per una serie di ragioni: 1) la scoperta fu fatta da Hegel, che non era certamente un materialista, ed egli la usò per giustificare lo Stato prussiano, che non era certamente democratico; 2) la sua scoperta venne ereditata da Marx, Engels e Lenin, ma questo non impedì a Stalin di stravolgerla completamente nel suo significato; 3) l’operazione compiuta dallo stalinismo non fu capita da Mao, il quale anzi, dopo la destalinizzazione voluta da Krusciov, prese a criticare di revisionismo l’Unione Sovietica.

Cioè il fatto d’aver capito le leggi della dialettica non è stato sufficiente per rispettarle sul piano pratico. Il motivo di questa incoerenza sta nel fatto che non si è permesso alla pratica di correggere se stessa. Se all’interno del popolo si forma un ceto d’intellettuali che pretende d’imporre la propria teoria, il tradimento è sicuro. E all’interno di una società dominata dagli antagonismi sociali è facile che gli intellettuali si separino dal popolo o che la teoria si separi dalla pratica. La divisione tra lavoro intellettuale e manuale è all’origine delle stesse civiltà.

Esiste un criterio oggettivo per impedire alla prassi di tradire se stessa? Purtroppo (o per fortuna) non esiste. La prassi, infatti, ha un valore significativo solo se è determinata dalla libertà, ma la libertà non può essere garantita da qualcosa di esterno a se stessa. Ecco perché la teoria ha sempre un valore molto relativo: non c’è teoria che possa garantire un’esperienza adeguata della libertà. Tutto può essere, in qualunque momento, completamente o parzialmente tradito o travisato. Di qui l’importanza del controllo reciproco tra i componenti di una comunità.

È bene infatti precisare che la vigilanza ha senso solo se è reciproca. Se gli intellettuali pensano di esercitarla sul popolo, la democrazia è finita. Questo significa che non è possibile dare definizioni univoche della dialettica, come non è possibile darle della verità o della libertà o della giustizia. Tutto va sempre contestualizzato nello spazio e nel tempo, che sono le precondizioni fondamentali di qualunque esperienza umana, di qualunque storicità.

Se vogliamo essere coerenti sino in fondo, dobbiamo dire che non è possibile dare alcuna definizione della dialettica, come non è possibile farlo nei confronti della libertà o della verità. L’essenza umana è, per antonomasia, indefinibile. Il fatto stesso che un intellettuale scriva un testo sulle leggi della dialettica, mostrando come essa vada interpretata, è già un segno negativo, l’indizio di un’assenza della pratica corrispondente ai princìpi che si affermano: una pratica che dovrebbe essere data per tradizione, collaudata da un’esperienza ancestrale, di tipo collettivistico.

Se in assenza di questa pratica della libertà, un intellettuale scrive un testo interpretativo della stessa libertà, che valore può avere il suo testo? Sicuramente sarà deficitario in qualcosa di essenziale. Chiunque aspiri a dire che cos’è la libertà, eo ipso la nega. La libertà può essere solo vissuta, non detta. La libertà è indicibile.

Stando le cose in questi termini, l’unico modo di controllare l’applicazione delle leggi della dialettica (che è necessariamente un modo bidirezionale e multilaterale) è quello che si può vivere in comunità ristrette, del tutto autonome, cioè non dipendenti da fattori esterni, siano essi istituzionali o mercantili.

Paradossalmente anche il parlare di queste cose è indice di alienazione. Anche quando si dice che non si può dire nulla di definitivo della libertà, di fatto non la si sta vivendo. La scrittura, ai fini dell’esperienza della libertà, è quanto di più inutile vi sia. Rispetto alla parola, detta con la voce, la scrittura è qualcosa del tutto artificiale. Ma se la parola viene usata per giustificare i rapporti antagonistici, la sua inutilità ai fini della democrazia è non meno evidente.

Il socialismo delle comunità ristrette

Le idee socialiste non nascono soltanto quando si inizia a parlare di socialismo. Piuttosto si dovrebbe dire che nella storia il socialismo diventa un’idea quando si smette di praticarlo, cioè a partire dal momento in cui si formano le prime civiltà basate sull’urbanizzazione, sulle differenze di ceti e di classi, ecc. Prima di allora, tutta l’esperienza primordiale o primitiva del cosiddetto “uomo preistorico” può essere definita di tipo “socialistico”.

Le parole hanno soltanto un uso convenzionale: quello che conta sono i fatti. Abbiamo iniziato a parlare di “socialismo” usando le più disparate parole. Ed è compito dello storico saper andare al di là delle parole per comprendere i fatti. E i fatti, quando si parla di socialismo, devono essere riconducibili a una cosa sola: la proprietà comune dei mezzi produttivi, in maniera tale che nessuno possa prevalere su altri.

Questa proprietà comune è la base materiale per qualunque altra forma di “socializzazione”. Quindi l’unico criterio che distingue un’esperienza di socialismo da un’altra è il modo in cui si vive tale proprietà. Di conseguenza l’unico criterio che distingue un’idea di socialismo da un’altra è il modo in cui si cerca di realizzare questa esperienza.

Aveva ragione Lenin a puntare l’attenzione su questioni come la tattica e la strategia, che fino ad allora erano considerate patrimonio delle operazioni belliche. Con lui diventano questioni politiche, aventi come obiettivo la conquista del potere, cioè il rovesciamento delle istituzioni di governo. Il concetto di “rivoluzione”, con Lenin, diventa qualcosa di molto concreto, di fattibile, come mai, prima d’allora, s’era visto. Con lui si ha, per la prima volta, l’impressione che il socialismo, dopo 6000 anni di storia basata su conflitti antagonistici irriducibili, poteva passare dall’idea all’esperienza.

La vittoria del socialismo, in Russia, poi tradito dallo stalinismo, dimostrò la superiorità dell’organizzazione del bolscevismo rispetto a tutte le altre correnti che volevano superare lo zarismo. Dimostrò anche la superiorità rispetto a tutte le correnti del socialismo euroccidentale che dicevano di voler costruire un’alternativa al capitalismo. Semmai ci si può chiedere il motivo per cui il leninismo fu subito tradito dallo stalinismo. Qualcosa deve aver fatto difetto. E non si può certo sostenere, compiendo un’opera di sciacallaggio, che l’aberrazione dello stalinismo era già inclusa nel leninismo.

Che l’idea di “socialismo” sia imprescindibile nell’epoca contemporanea, lo dimostra il fatto che anche le esperienze nazi-fasciste vi si richiamavano. Certo, vi possono essere passi avanti in direzione del socialismo, e passi indietro a favore del capitalismo. Tuttavia la tendenza resta sempre verso il recupero di un socialismo perduto, proprio perché il capitalismo non solo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni, ma tende anche, per motivi endogeni, ad aggravarle sempre di più.

Il vero problema sta quindi nel cercare di capire quali possano essere le condizioni per far sì che i tradimenti non siano in grado di avere effetti così devastanti su milioni di persone. Eliminare la possibilità del tradimento è ovviamente impossibile. Ma si deve cercare di rendere quest’azione meno gravosa possibile. Il problema cruciale sta proprio in questo: da un lato, infatti, l’idea del socialismo, per realizzarsi, ha bisogno del concorso di grandi collettività; dall’altro ci si rende facilmente conto che il tradimento degli ideali ha ripercussioni dirette proprio su queste grandi collettività.

L’esperienza leninista ci ha fatto capire che se queste collettività non restano unite, a rivoluzione compiuta, possono facilmente essere sopraffatte dai conservatori del sistema, i quali possono avvalersi di aiuti esterni, da parte di altre forze avverse al socialismo. E tuttavia, una volta superata la reazione, si deve avere l’intelligenza per capire che una gestione “statalistica” della transizione facilmente porterà ad abusi e corruzione, come appunto hanno dimostrato gli orrori dello stalinismo.

Socialismo vuol dire non solo democrazia politica, ma anche autogestione sociale dei bisogni collettivi. Un’autogestione del genere non può essere statalizzata, proprio perché è l’istituzione stessa dello Stato che va abbattuta.

Un’autogestione è autentica se è circoscritta a livello territoriale. La democrazia infatti, per essere autentica, deve essere diretta, ma non potrà mai esserlo se è “statale”. Nell’ambito dello Stato la democrazia può essere solo indiretta, delegata, rappresentativa. È il concetto stesso di “istituzione” che impedisce la democrazia diretta. E là dove questa manca, è impossibile un’autogestione sociale dei bisogni collettivi.

La democrazia e l’autogestione sono possibili soltanto all’interno di comunità ristrette, dove sia possibile un controllo reciproco in forza di una conoscenza personale fra i soggetti che le compongono. Se non comprendiamo questo, non servirà a niente fare delle rivoluzioni per edificare degli Stati con cui sostituirne altri.

I limiti insuperabili della filosofia borghese

Tutto questo parlare di “dio” nella filosofia moderna dell’Europa occidentale era una conseguenza del carattere “borghese” di quella filosofia, cioè del suo carattere “classista”, non democratico, anche se indubbiamente quella filosofia appariva più democratica della teologia medievale, che, per sua natura, era legata all’aristocrazia (laica ed ecclesiastica) e quindi a forme assolutistiche della monarchia.

I filosofi borghesi, non avendo l’appoggio delle masse popolari, poiché volevano assolutamente emanciparsi anche dalla vita contadina, che quella volta era prevalente, erano in un certo senso costretti a parlare di dio per non subire spiacevoli conseguenze da parte dei poteri costituiti. Tuttavia, se avessero potuto parlare liberamente, avrebbero usato soltanto la parola “io”.

L’io borghese vuole indubbiamente liberarsi del peso di una comunità religiosa i cui valori non sente più come propri. In particolare il borghese non sopporta più l’incoerenza, tipica del cattolicesimo-romano, tra alti valori affermati in sede teorica, e grande corruzione vissuta sul piano pratico da parte delle gerarchie ecclesiastiche, che ambiscono sempre ad avere privilegi economici e poteri politici.

Il filosofo borghese ha però questa caratteristica che lo rende umanamente poco credibile: non lotta per abolire tutti i privilegi, per affermare una piena democrazia sociale, ma vuole affermare un proprio diritto esclusivo, capace di farsi strada nel mare magnum dei privilegi feudali.

Il borghese non è che un ecclesiastico laicizzato, è un “prete dentro”, nella sua coscienza. Ha avuto bisogno di non pochi secoli per affermarsi proprio perché la sua filosofia non era “popolare” ma “classista”. Ha dovuto cercare un’infinità di compromessi, di sotterfugi, di ambiguità semantiche prima d’imporsi in maniera definitiva.

Viceversa in Europa orientale si poté passare dalla religione ortodossa all’ateismo scientifico proprio perché gli intellettuali vollero fare una rivoluzione popolare, che eliminasse non solo il feudalesimo ma che non permettesse neppure al capitalismo di svilupparsi. Che poi le cose siano finite tragicamente, con un ritorno ai valori dell’ortodossia religiosa, non significa che, in quella fase iniziale, le intenzioni non fossero giuste.

In particolare i comunisti affermarono subito, per ottenere il consenso delle masse rurali, che, a rivoluzione avvenuta, avrebbero provveduto a fare la riforma agraria, spezzando il latifondo e concedendo in proprietà gratuita dei lotti di terra sufficienti per vivere.

Questa cosa non è mai stata fatta dalla borghesia. I borghesi non avevano proprietà terriere, ma solo abilità personali per fare affari commerciali. Volevano arricchirsi a titolo individuale, per poter accedere alle leve del potere politico. Nei confronti dei contadini potevano soltanto avere un atteggiamento strumentale, quello di servirsene per fare una rivoluzione anti-feudale. A rivoluzione avvenuta, venivano immancabilmente traditi, in quanto la borghesia, temendo che le idee democratiche diventassero “socialiste”, provvedeva subito a cercare un compromesso con l’aristocrazia. Nel contempo venivano illusi prospettando loro una vita “libera” se si fossero trasferiti nelle città a svolgere il mestiere dell’operaio o dell’artigiano. Li s’illudeva di potersi arricchire partendo anche da precarie condizioni sociali, totalmente prive di proprietà.

Tutte le rivoluzioni borghesi, nessuna esclusa, hanno subìto questa involuzione. Nel momento in cui venivano fatte, si poteva anche aver chiaro fin dove si sarebbe potuti arrivare, ma nel momento in cui venivano concluse, le forze borghesi provvedevano subito a ridimensionare gli obiettivi, a ridurre le pretese “popolari” in direzione della democrazia. Al massimo – si diceva – ci si può emancipare nell’ambito del capitalismo.

Questo spiega il motivo per cui l’esperienza borghese dell’economia è destinata ad essere superata da un’esperienza più democratica. Il momento in cui ciò avverrà dipenderà da due fattori: consapevolezza e determinazione rivoluzionarie. Un qualunque peggioramento dei conflitti sociali non farà che rendere più evidente questa esigenza.

Machiavelli e l’autonomia della politica

Si fa fatica oggi a dire che Machiavelli aveva torto nel volere una politica separata dalla morale. Semplicemente perché la morale cui egli si riferiva era quella religiosa o che trovava nel cristianesimo le propria fondamenta. Ed era una morale ch’egli disprezzava profondamente, in quanto vedeva i cattolici troppo passivi al cospetto delle ingiustizie, troppo fiduciosi nella provvidenza divina e nella magnanimità delle istituzioni, soprattutto in quelle clericali.

Non c’è dubbio che non può esservi laicità della politica là dove questa è determinata dalla fede religiosa: determinata o in maniera diretta, come accadeva nello Stato della chiesa, dove il papato costituiva una monarchia assolutistica, e lo è ancora oggi; o in maniera indiretta, come accadeva negli Stati confessionali, gestiti da laici credenti o comunque da governi che con una determinata chiesa avevano stabilito dei rapporti privilegiati, come, in forza del Concordato, è ancora oggi in Italia.

E tuttavia ci si chiede: che bisogno c’era, separando la politica dalla morale religiosamente ispirata, separarla anche dalla morale tout-court? Era forse questo l’unico modo per fondare una “scienza della politica”? Chi l’ha detto che una disciplina può ritenersi “scientifica” soltanto quando non ha riferimenti alla morale? E se fosse proprio questa mancanza di riferimenti a farle perdere il senso della realtà e quindi la propria scientificità?

Machiavelli diceva che bisogna guardare la realtà così com’è, e rifuggiva da quelle costruzioni ideali di tipo utopistico che prospettavano come una realtà avrebbe dovuto essere (molto famosa era l’Utopia di Thomas More). Ma il giudizio ch’egli dava della realtà del suo tempo era estremamente negativo: gli uomini, per lui, erano fondamentalmente guidati dall’ambizione e dall’avidità personale. Modificare una situazione del genere era per lui impossibile, certamente non con gli strumenti della democrazia o della mera denuncia etico-religiosa: non poteva non ricordarsi, visto che ne era stato un testimone oculare, del fallimento dell’operato di Savonarola, “profeta disarmato”.

Ma allora a cosa doveva servire la politica? Doveva servire soltanto a gestire nel migliore dei modi l’esistente. Cioè la politica era lo strumento che il governo doveva usare per consolidare lo Stato; e se, per fare questo, si doveva ricorrere a mezzi immorali, come p.es. il tradimento o l’assassinio, il fine superiore – ch’era appunto quello dell’integrità dello Stato, e possibilmente del suo rafforzamento – li avrebbe successivamente giustificati. In politica, come non è sempre vero che una buona azione morale sia politicamente utile, così non è detto che non lo sia un’azione moralmente illecita. Quante volte gli interpreti del Machiavelli hanno giustificato le sue concezioni della politica semplicemente perché voleva l’unificazione nazionale eliminando lo Stato della chiesa?

Machiavelli avrebbe detto che si può decidere dell’efficacia di una qualunque azione soltanto di volta in volta, nella concreta contingenza. È l’utilità contestuale che deve decidere dell’efficacia di un’azione.

In sostanza egli parlava come un borghese ateo e fondamentalmente come una persona cinica, priva di moralità. Gli storici han cercato di giustificarlo dicendo che l’idea che aveva di “sovrano” era quella di un “uomo di stato” e non quella di un opportunista che entra in politica per coltivare i suoi interessi personali. Cioè il suo cinismo sarebbe stato in realtà una forma di realismo politico, per cui, al massimo, si può parlare di “amoralità” e non di “immoralità”. Tra i “grandi” la pensavano così anche Hegel, Gramsci e Althusser.

Questo però non giustifica nulla. Non si diventa meno cinici agendo come “uomini di stato”. Anzi, può apparire in una luce alquanto perversa o mostruosa, il fatto che un politico, pur avendo un elevato senso dello Stato, si pieghi ad accettare soluzioni particolarmente indegne sul piano morale.

Semmai ci si può chiedere da dove Machiavelli avesse preso una concezione della politica così spregiudicata, la quale, peraltro, non si faceva scrupolo ad usare la religione come instrumentum regni. La risposta è molto semplice: l’aveva presa dalla stessa chiesa romana. Il suo modello era il papato, non era certo la democrazia. Machiavelli non aveva elaborato una politica soltanto per separarsi dall’egemonia di quella pontificia, ma anche per riprodurla in forma laicizzata. Sicché, mettendo all’Indice tutte le sue opere, la chiesa non si rendeva conto di mettere all’Indice se stessa.

La chiesa e lo sviluppo del pensiero scientifico

La scienza moderna, nata nel XVII secolo, non va contestata perché contraria alla religione, ma perché contraria all’etica. Qualcuno potrà dire che, a quel tempo, religione e morale coincidevano, in quanto era la chiesa a dire come ci si doveva comportare in ogni situazione della vita, e quindi anche in campo scientifico. E tuttavia l’etica della chiesa, essendo appunto “religiosa”, non poteva essere laica, cioè aperta a soluzioni non dogmatiche.

Anche questa però può essere un’affermazione molto discutibile, in quanto l’etica religiosa della chiesa romana conteneva molti aspetti di laicità, sin dalla riscoperta accademica dell’aristotelismo, che si poneva in antitesi alla tradizione platonico-agostiniana. Possiamo addirittura dire che il progresso verso il pensiero scientifico fu proprio una conseguenza, indiretta o involontaria, di quella distinzione che gli Scolastici cominciarono a fare tra funzioni della fede e funzioni della ragione. A forza di distinguere le due facoltà umane si arrivò, ad un certo punto, a dire con la ragione cose molto diverse da quelle che per tradizione o secondo autorità si dicevano con la fede.

E la rottura fu inevitabile, non solo con Galilei, messo agli arresti domiciliari e obbligato all’abiura, ma anche con Machiavelli, le cui opere vennero messe tutte all’Indice, o Giordano Bruno, messo sul rogo, o Campanella, che passò 27 anni in carcere, e tanti altri. La reazione della chiesa fu durissima, poiché, essendo un soggetto eminentemente politico, temeva di perdere il proprio potere temporale. Di conseguenza, invece di considerare l’evoluzione del pensiero scientifico come necessariamente separato o distinto dalla riflessione teologica, lo interpretò come una minaccia alla propria stabilità.

Sbagliò in questo comportamento? Se si accetta l’idea che una chiesa debba fare politica, certamente no. Ma la cosa sarebbe da discutere anche solo dal punto di vista etico. Infatti è sotto gli occhi di tutti che la scienza cosiddetta “sperimentale” o “induttiva”, nata con Bacone e Galilei, ha prodotto, a distanza di quattro secoli, immani disastri ambientali. E continua a farlo imperterrita, nonostante gli allarmi degli ecologisti.

Ovviamente le autorità ecclesiastiche non si opponevano ai princìpi della scienza sulla base di una salvaguardia della natura. E tuttavia ci si può chiedere se una difesa dei valori squisitamente religiosi avrebbe potuto in qualche modo favorire un maggior rispetto dell’ambiente.

Qui però bisognerebbe aprire una parentesi, ponendo in discussione il concetto stesso di “valori religiosi”, poiché, guardando quelli professati dal papato, vien da pensare che fossero più che altro dei valori politici rivestiti da un’ideologia di tipo religioso. Anzi, ci si può addirittura chiedere se non fosse stata proprio questa fondamentale incoerenza a favorire, nella classe borghese, l’esigenza di uno sviluppo del pensiero scientifico del tutto autonomo dalla fede, il quale, dando più peso alla ragione, voleva porsi in maniera più coerente. In tal senso dovremmo dire che, condannando la scienza, la chiesa romana, in realtà, stava condannando se stessa, o comunque stava condannando un prodotto inevitabile di un proprio comportamento che di “religioso” aveva assai poco.

Problematiche del genere non si ponevano neppure nel Seicento. Tuttavia era forte la consapevolezza negli scienziati di voler “dominare” la natura, cioè di voler conoscere le sue leggi per meglio permettere alla borghesia di sfruttarla. Le scoperte scientifiche venivano incontro alle esigenze di una classe emergente, quella appunto borghese, che, a partire dalla nascita dei Comuni, aveva cominciato a farsi strada in Europa occidentale, e che, a partire dalla scoperta dell’America, aveva cominciato a dominare dei territori extraeuropei, e che, a partire dalla formazione delle monarchie assolutistiche, aveva cominciato a ridimensionare i poteri dell’aristocrazia, laica ed ecclesiastica.

Le suddette problematiche, quindi, non si ponevano non tanto o non solo perché non si aveva alcuna consapevolezza ambientale, quanto perché i poteri che si contrapponevano erano entrambi autoritari: quello ecclesiastico perché di tipo feudale, quello borghese perché di tipo capitalistico. La chiesa subordinava la natura a una concezione religiosa favorevole alla teocrazia; la borghesia subordinava la natura alle esigenze del profitto economico.

Quindi tra chiesa romana e scienziati la contrapposizione era molto relativa, in quanto, in definitiva, essi rappresentavano le due facce di una stessa medaglia. Nessuno dei due contendenti stava difendendo un’etica davvero democratica e umanistica, e tanto meno un’etica ambientalistica.

È vero che la chiesa non parlava di “dominare” la natura (nel Genesi l’Eden andava “custodito”), ma è anche vero che non le riconosceva alcuna autonomia: la natura veniva considerata un semplice strumento che dio metteva a disposizione dell’uomo e che, in ultima istanza avrebbe sempre potuto riprendersi (p.es. nei confronti dell’idea di “fine del mondo” era implicito che dio si sarebbe servito di imponenti fenomeni naturali).

Tra dio, natura e uomo vi era lo stesso rapporto che il mondo feudale esprimeva tra sovrano, terra (o feudo) e vassallo. Il feudo non veniva dato in “proprietà” (anche se, a partire dall’877, per i grandi vassalli, cominciò a esserlo), ma solo in “usufrutto”, e in teoria poteva essere revocato in qualunque momento. Il fatto che i vassalli insistessero per averlo in proprietà (e nel 1037 vi riuscirono tutti), sta proprio a indicare che nel feudalesimo dell’Europa occidentale le esigenze di tipo individualistico sono sempre state molto forti.

Questo per dire che se in epoca feudale la chiesa si trovò a essere meno invasiva nei confronti della natura, fu solo perché disponeva di mezzi tecnologici di molto inferiori a quelli che si diede la classe borghese. Da un lato quindi la chiesa romana considerava la natura uno strumento nelle mani di dio (al pari del tempo (1)); dall’altro però non si sarebbe fatta scrupolo di sottomettere la natura alle esigenze umane di dominio, o comunque non sarebbe stata capace di trovare nella propria ideologia valide motivazioni per impedirlo (né le trova oggi: basta vedere come inquina l’ambiente con le onde elettromagnetiche di Radio Vaticana).

Quando la chiesa si opponeva allo sviluppo scientifico, non era tanto per tutelare le esigenze riproduttive della natura, quanto piuttosto perché in quello sviluppo scorgeva degli aspetti che mettevano in discussione le fondamenta del proprio potere politico. Se la propria autorità politica si basa anche sul fatto che tutti devono credere nel geocentrismo, è evidente che se qualcuno parla di eliocentrismo, fosse anche un esponente del clero in tutta la sua buona fede (come lo fu p.es. Copernico), non è possibile non sospettarlo di “eresia”.

Al papato ci sono voluti 400 anni prima di ammettere che nei confronti di Galilei ci si era sbagliati. Tuttavia Wojtyla, facendolo, non si era reso conto che contro quella scienza antiecologica è invece venuto il momento di dire qualcosa che sia davvero umanistico e naturalistico. Paradossalmente quindi la chiesa romana nei confronti di Galilei ha sbagliato due volte.

Nota

(1) Il tempo era considerato uno strumento nelle mani di dio, al punto che si vietava il prestito a interesse, anche se poi, con la nascita dei comuni, la teologia scolastica cominciò a tollerarlo a condizione che l’interesse non fosse eccessivo. Dopodiché la chiesa fu costretta a inventarsi i monti di pietà per venire incontro alle esigenze di quei cristiani che non erano in grado di pagare eccessivi interessi. La storia dell’usura, sotto questo aspetto, sembra anticipare quello che sarebbe avvenuto nell’evoluzione del pensiero scientifico.