Gli ultimi semi botanici

Lo Svalbard global seed vault (Deposito globale di semi delle Svalbard) è un deposito che si trova vicino alla cittadina di Longyearbyen, nell’isola norvegese di Spitsbergen, nel remoto arcipelago artico delle isole Svalbard a circa 1200-1300 km dal Polo Nord.

È una banca dei semi inaugurata nel 2008, che ha la funzione di fornire una rete di sicurezza contro la perdita botanica del patrimonio genetico tradizionale delle sementi dovuta a guerre e calamità naturali. In particolare si cerca di preservare le 21 colture più importanti della Terra, quali il riso, il mais, il frumento, le patate, le mele, la manioca, il taro e la noce di cocco con le loro varietà, garantendo così la diversità genetica.

Ha già ricevuto più di un milione di campioni da tutto il mondo. Che sono protetti da un centro di tre sale con porte d’acciaio di notevole spessore: la struttura è costruita in calcestruzzo in modo da resistere a una eventuale guerra nucleare o a un incidente aereo.

In un certo senso si può dire che il governo norvegese è proprietario dell’edificio mentre le banche del gene lo sono dei semi.

Ora la struttura è a rischio, perché il clima sta cambiando e il terreno ghiacciato che la circonda ha cominciato a sciogliersi.

Ormai non abbiamo neanche più bisogno delle guerre per autodistruggerci. È sufficiente la tecnologia eco-insostenibile.

D’altra parte nelle regioni polari, e in particolare nell’Artico, il cambiamento climatico dovuto alle emissioni di gas serra sta procedendo molto rapidamente, a causa del fatto che ghiacci e nevi, essendo bianchi, riflettono molta più luce (e quindi calore) rispetto all’oceano e alla terra nuda. Il riscaldamento accelera lo scioglimento, che a sua volta accelera il riscaldamento. Non se ne esce.

In Siberia l’inizio dello scioglimento del permafrost, lo strato di terreno che nelle regioni circumpolari resta ghiacciato per tutto l’anno, sta liberando nell’atmosfera grandi quantità di anidride carbonica, metano e altri gas serra, che favoriscono la diffusione degli incendi, responsabili nel 2019 di oltre 3 milioni di ettari di foresta andati in fumo.

Situazione esplosiva a Napoli

La situazione a Napoli è tragica, perché l’economia della città, dalla fine degli anni Novanta, si fonda prevalentemente sugli introiti dovuti al turismo: bed and breakfast, hotel, ristoranti, trattorie, bar, taxi, guide turistiche. Molti preferiscono morire di covid che di fame.

Durante la prima crisi sanitaria solo nel territorio di Napoli i volontari e il Comune hanno distribuito la spesa a circa seimila famiglie in condizione di forte necessità.

Ora la Campania è una delle regioni più colpite dalla seconda ondata con quasi quattromila contagi al giorno.

Il governatore Vincenzo De Luca aveva annunciato un lockdown regionale, che poi però ha dovuto sospendere per l’esplosione delle proteste di piazza.

Nelle proteste non ci sono bandiere politiche, perché di regola sono eventi spontanei, organizzati sui social network da parte di gruppi e categorie di lavoratori che di solito non scendono in piazza o che non scendevano in piazza da tempo.

Non è da escludere che siano presenti soggetti appartenenti a organizzazioni criminali di tipo camorrista, che sostengono i commercianti, perché da loro prendono il pizzo. I camorristi fingono d’interessarsi alla sofferenza economica delle categorie più deboli, perché questo è anche un modo per reclutare affiliati a buon mercato. Inoltre hanno la possibilità di infiltrarsi nelle attività economiche facendo affari di varia natura (dagli acquisti sotto costo all’usura). I momenti di emergenza sono una manna caduta dal cielo per la criminalità organizzata.

Chiudere poi le scuole in una città dove l’abbandono scolastico è già alto e dove molti ragazzi non hanno la possibilità di collegarsi via internet per seguire le lezioni a distanza, pare del tutto insensato. Senza poi considerare che molti bambini vivono in alloggi che sono al di sotto degli standard nazionali.

Un’altra categoria che scende in piazza da mesi a Napoli è quella dei lavoratori precari dello spettacolo, che spesso svolgono la loro attività in nero, a chiamata o con contratti di collaborazione che non prevedono ammortizzatori sociali.

Ma la categoria più numerosa nelle piazze delle ultime settimane è stata quella dei ristoratori e dei baristi, colpiti direttamente dalle ultime misure che impongono chiusure anticipate.

La situazione rischia di esplodere perché ci sono troppe persone che lavorano in nero e in grigio, per le quali bisognerebbe pensare a un reddito universale e a una sospensione di tasse e affitti.

Queste categorie di lavoratori (dalle lavoratrici domestiche ai parcheggiatori fino ai lavoratori della ristorazione e del turismo) hanno fatto fatica ad accedere ai sussidi (dai buoni spesa alla cassa integrazione), proprio per l’impossibilità di formalizzare le loro richieste a causa del lavoro che svolgono.

Su “Internazionale” del 2 novembre.

Forse il covid-19 è una prova da superare, non solo di resistenza personale ma anche in funzione di un ripensamento degli stili di vita, dei modelli sociali. Sta mettendo allo scoperto un sistema che non funziona o che non può continuare a funzionare con le mezze misure, i sotterfugi, la cronica precarietà quotidiana, la mancanza di prospettive…