Pandemia, eurobond e futuro dell’Unione europea

Pandemia, eurobond e futuro dell’Unione europea

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  *già sottosegretario all’Economia  **economista

Chiamamoli eurobond, non covid-bond. Sono, del resto gli strumenti finanziari di lungo periodo più importanti e virtuosi che l’Unione europea dovrebbe responsabilmente mettere in campo, e non in modo occasionale, in dimensioni notevoli e appropriate per il rilancio e per uno sviluppo continuo e duraturo del suo sistema produttivo e industriale, ora, di fatto, in gran parte fermato dalla pandemia.

C’è chi vorrebbe chiamarli “recovery bond” perché, dice, il termine “eurobond” farebbe paura a molti. In realtà, se fosse solo così, si tratterebbe di un escamotage un po’ infantile per bypassare l’ostacolo. Come se chi li osteggia si facesse confondere da questo giochetto di parole. In realtà, i “recovery bond” potrebbero nascondere l’idea di un programma limitato e a tempo determinato, da accantonare subito dopo la ripresa economica. In ogni caso, se fosse l’inizio di un percorso virtuoso, sarebbero comunque ben accetti. 

Dopo che i rigidi parametri di austerità sono saltati dappertutto, anche nelle case dei più duri rigoristi, siamo travolti da un turbinio di centinaia, di migliaia di miliardi di euro e di dollari che i governi e le banche centrali dicono di voler disporre per affrontare l’emergenza. Toppi numeri e troppe parole: c’è il rischio che partoriscano il classico topolino.

L’Unione europea ha sospeso il Patto di stabilità lasciando i governi liberi di decidere i loro interventi di sostegno all’economia e ai propri cittadini. Decisione giusta, non sufficiente.

Il futuro dell’Unione europea si misurerà in rapporto alla capacità di programmare unitariamente la ripresa e il suo sviluppo continuo e congiunto. Perciò si dovrebbe elaborare un dettagliato programma di investimenti, proiettato in modo capillare verso tutte le regioni d’Europa. Valorizzarle e svilupparle non dovrebbe essere interesse soltanto locale e nazionale ma anche interesse generale dell’intero continente.

Dopo la creazione dell’euro, la politica di sviluppo industriale e tecnologico e la creazione di nuova e qualificata occupazione sono il tassello principale per la realizzazione di uno Stato europeo davvero federale, cioè la realizzazione della tanto desiderata evoluzione dell’Unione europea. D’altra parte, è noto che dopo l’unione monetaria, dopo il mercato unico, dopo l’unione bancaria, è quasi naturale, oltre che necessario, attuare una difesa comune, un sistema fiscale unico e certamente anche un sistema industriale e occupazionale europeo unitario.    

Questo piano di rilancio dell’economia europea, in tutte le sue componenti, oggettivamente esige l’emissione di titoli europei, cioè di obbligazioni pubbliche (eurobond) a lunga scadenza, eventualmente con rendimenti moderati, sicuri e fissi, garantite dall’Unione europea, quindi individualmente, congiuntamente, in solido, da tutti i Paesi membri. Sarebbe opportuno prevederne anche l’esenzione da imposte, totale o parziale. In questo modo, dopo una prima sottoscrizione coperta dal bilancio dell’Unione europea e anche dagli acquisti della Banca centrale europea, dette obbligazioni sarebbero dei safe asset che avrebbero un appeal sul mercato per i grandi investitori istituzionali di lungo termine, europei e internazionali. Non solo le assicurazioni e i fondi pensione, sarebbe così sollecitato e coinvolto anche il risparmio delle famiglie.  

Da decenni si parla di eurobond, come pilastro portante dell’Unione europea. Per primo fu Jacques Delors, presidente della Commissione, nel 1994. Fu, poi, Romano Prodi, d’accordo con il cancelliere tedesco Helmut Kohl a rilanciare l’idea. In seguito divenne anche un cavallo di battaglia di Giulio Tremonti, insieme al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. La crisi finanziaria globale del 2008, invece di spingere l’Europa verso una politica economica comune, purtroppo, fece emergere gli egoismi nazionali e l’ideologia del “rigore” e dell’austerità, imposta poi ai Paesi più deboli e indebitati. E gli eurobond sono finiti nel dimenticatoio.

Oggi, per chiarezza e per tranquillità di quelle forze politiche “austere ma poco solidali” occorre sapere che gli eurobond non mutualizzano i debiti esistenti dei singoli Paesi membri. Gli Stati cosiddetti “virtuosi” non darebbero, quindi, la loro garanzia sui debiti pregressi degli altri Paesi. Ovviamente gli eurobond non sono trasferimenti di soldi da un Paese all’altro. Sono, invece, il meccanismo del completamento naturale della moneta unica. Sarebbero strumenti di finanziamento mirato soltanto per investimenti in infrastrutture, nuove tecnologie, modernizzazioni industriali, ricerca, educazione, sanità e in altri settori produttivi sull’intero territorio europeo.

La parola “solidarietà”, che dovrebbe caratterizzare uomini e Stati, spesso è erroneamente usata come fosse l’aiuto “peloso” del benefattore verso l’indigente. Con gli eurobond si vuole, invece, manifestare la volontà di uno sviluppo congiunto, in un momento in cui l’intera società europea è “attaccata” da un nemico esterno, da un coronavirus che non fa distinzioni di sorta.

L’emissione di questi eurobond potrebbe essere affidata a un veicolo già esistente e operante come la Banca europea degli investimenti.

Con gli eurobond l’Europa farebbe un bel passo in avanti nel cammino ipotizzato dai Padri Fondatori. Senza, quindi, non una perdita per l’Italia ma per l’Europa. E sarebbe un duro colpo alla sua credibilità, alla sua visione, alla sua stessa esistenza.

 

 

La necessità di una banca nazionale di sviluppo

La necessità di una banca nazionale di sviluppo

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  *già sottosegretario all’Economia **economista

Il coronavirus, con la sua diffusione planetaria e i suoi effetti devastanti, condiziona tutti i Paesi, a partire dall’Italia. La sfida del rilancio economico sarà epocale, per tutti. E’ evidente che anche il futuro dell’Unione europea passa inevitabilmente attraverso il finanziamento di un programma unitario di investimenti e di sostegni all’occupazione imperniato sull’efficienza e sulla solidarietà.

Ovviamente è opportuno che vi siano anche risorse finanziarie nazionali e degli interventi più mirati alle necessità di stabilità sociale e di ripresa economica.

La decisione del governo tedesco di mettere in campo 550 miliardi di euro di investimenti nei settori dell’economia reale, attraverso la mediazione della Kreditanstalt fuer Wiederaufbau (KfW) potrebbe essere un esempio virtuoso da seguire. Al di là dei sentimenti pro o anti teutonici, concentriamoci, invece, sul contenuto politico e operativo della scelta fatta dai tedeschi. Si tratta di investimenti veri destinati all’economia, senza inutili mediazioni del sistema bancario privato.

La KfW è una banca di sviluppo pubblica, controllata dal governo federale per l’80% e dai Laender (l’equivalente delle nostre regioni ma con un potere rafforzato) per il 20%. Fu creata nell’immediato dopo guerra per emettere credito e sostenere progetti per la ricostruzione. Era un “tassello” del Piano Marshall dedicato alla Germania. Ottenne presto la possibilità di trasformare gli interessi dovuti agli Stati Uniti in aumenti di capitale proprio, e di ampliare così la sua capacità d’investimento.

Nei decenni passati è stata uno dei principali motori dello sviluppo industriale, infrastrutturale, tecnologico e sociale della Germania fino a diventare un colosso economico. Oggi ha un capitale (equity) di 30 miliardi di euro e investimenti pari a  610 miliardi. La KfW affianca sempre anche le grandi corporation tedesche, come la Siemens, la Daimler o la Mercedes, nella stipulazione di importanti contratti di cooperazione internazionale, siano essi in Cina, in Russia, negli Usa o in altre parti del mondo.

Raccoglie capitali sui mercati finanziari con l’emissione di obbligazioni, che dal 1998 per legge sono garantite dallo Stato tedesco. Li trasforma poi in crediti per investimenti in vari settori produttivi, infrastrutture, edilizia sociale, innovazione, nuove tecnologie e in sostegno forte alle imprese. Lo fa attraverso una rete di enti che ha creato e che controlla, come il fondo per le PMI, quelli per l’export, per lo sviluppo regionale e locale, per le nuove fonti di energia, per l’ambiente, per la cooperazione internazionale, ecc.

Nel 2008 ha creato anche la IPEX Bank che sostiene le imprese tedesche ed europee in progetti internazionali e nelle loro operazioni di export. Oggi ha un volume di business superiore agli 80 miliardi di euro.

La KfW, inoltre, è esentata dai requisiti di capitale e dalle regole dell’Unione bancaria, così come lo sono le banche tedesche di sviluppo regionale, le Landesbank.

In verità, anche il nostro Medio Credito Centrale (MCC) nel 1953 fu creato su questo modello ma con molti meno poteri e meno autonomia. Oggi, com’è noto, realizza e integra le politiche pubbliche a sostegno del sistema produttivo, in particolare delle Pmi. Una mission molto importante che, purtroppo, è rimasta confinata entro dimensioni troppo limitate.

Anche la nostra Cassa Depositi e Prestiti (CDP) è molto simile alla struttura della KfW. A confronto, però, è anch’essa molto più limitata nelle sue attività. Entrambe sono attive in parecchie operazioni congiunte, per esempio, nel Long Term Investors Club (LTIC). Quest’ultimo, si ricordi, dopo la Grande Crisi del 2008 è stato creato proprio con il compito di promuovere investimenti produttivi e infrastrutturali di lungo periodo in alternativa alla disastrosa finanza “mordi e fuggi”.

Per statuto la nostra CDP, che gestisce ingenti capitali generati dalla raccolta di risparmio popolare (oltre 342 miliardi di euro) attraverso le obbligazioni emesse dalle Poste Italiane, è “ingessata” su operazioni specifiche relative agli investimenti locali. Da qualche anno ha creato anche un fondo di sostegno agli investimenti nelle Pmi e ha dovuto cambiare lo statuto per avere la possibilità di operare anche nell’internazionalizzazione dei mercati a sostegno delle imprese italiane che esportano e operano all’estero. Prima non era consentito.

L’emergenza economica provocata dal coronavirus, con la sospensione del Patto di stabilità europeo, potrebbe diventare l’opportunità, la classica “window of opportunity”, per ripensare e rimodellare certi enti italiani. Senza inventare cose nuove si potrebbe “copiare” ciò che la Germania ha fatto e dare alla nostra CDP gli stessi poteri e le stesse prerogative della KfW.

Certo non si risolverebbero i gravi problemi storici dell’Italia, quali un debito pubblico troppo elevato, un’evasione fiscale sproporzionata, una corruzione intollerabile, una burocrazia inefficiente e tasse elevate su produzione e lavoro. Questi sono problemi e sfide ineludibili per lo Stato italiano. Ma, almeno, avremmo un ente, una sorta di banca nazionale per lo sviluppo, certamente più controllata e più efficiente.

Si tenga presente, inoltre, che i 550 miliardi di euro di investimenti annunciati dal governo tedesco non vanno a incrementare il debito pubblico nazionale. Saranno gestiti dalla KfW che, in quanto ente indipendente, non entra nel computo del bilancio nazionale. Lo stesso avverrebbe con l’utilizzo della CDP “rafforzata”.

Qualsiasi aumento della spesa pubblica da parte del nostro governo, sia per l’emergenza sia per altre esigenze, andrà, invece, ad aumentare direttamente il nostro debito pubblico.

Non si tratterebbe di una furbizia ma di un semplice ritorno all’idea della “banca nazionale per lo sviluppo”.

Guardando oltre l’attuale emergenza, il presidente Mattarella giustamente ha detto che “per rinascere ci è richiesta la stessa unità del dopoguerra”.  E noi, più modestamente, riteniamo siano necessari anche istituzioni, tempi e programmi economici simili.