Travaglio/Flores d’Arcais in dialogo su M5S e governo: speranze, rischi, harakiri

Travaglio/Flores d’Arcais in dialogo
su M5S e governo: speranze, rischi, harakiri

di Marco Travaglio e Paolo Flores d’Arcais

Questo articolo può essere riprodotto anche integralmente, purché preceduto dalla dicitura “riprendiamo questo testo dal sito www.micromega.net” e seguito dalla dicitura ©Paolo Flores d’Arcais

Paolo Flores d’Arcais: La mia posizione la conosci: non un accordo di governo fra Pd e M5S, ma un’iniziativa autonoma del Movimento 5 stelle: ribadire i punti qualificanti del proprio programma e indicare una personalità ineccepibile (ho azzardato i nomi di Zagrebelsky e Montanari), che dovrebbe avere ovviamente il gradimento di Mattarella, per un governo composto da ministri al di fuori dei partiti. Siccome anche Grillo ha detto qualche giorno fa che non sono interessati alle poltrone, ma ai contenuti, l’ipotesi mi sembra coerente. E renderebbe in tal modo molto difficile un “no” del PD. Si tratterebbe di proporre oggi un equivalente di quello che fu Rodotà in occasione delle elezioni per la Presidenza della Repubblica e dunque una strada che dovrebbe essere nelle loro corde e potrebbe davvero scuotere la situazione. Cosa ne pensi?

Marco Travaglio: Penso che i cinquestelle dovrebbero mantenere una disponibilità a una soluzione di questo genere, ma credo anche che in prima battuta dovrebbero provare a fare un governo un po’ più forte rispetto a quello che suggerisci tu, perché un governo privo di connotazioni politiche, sarebbe debolissimo, in quanto deresponsabilizzerebbe i partiti che lo sostengono. Al contrario, un governo forte, che durerebbe almeno due anni, potrebbe essere quello in cui Di Maio si rivolga al centro sinistra, al PD e a Grasso, proponendo un premier e due vice premier, che potrebbero anche essere lo stesso Grasso e un rappresentante del PD, come per esempio Minniti. Il resto del governo potrebbe invece essere composto non da eletti, ma da persone scelte in parte dalla squadra proposta dai 5 Stelle e in parte dall’aerea del centro sinistra, a condizione che non siano state in Parlamento, non abbiano avuto candidature né responsabilità partitiche. Sarebbe la dimostrazione che i governi tecnici non sono tutti uguali, perché Zagrebelsky e Settis non sono come Fornero e Monti.
Dovrebbero allora proporre i loro punti da armonizzare con quelli proposti da altri, partendo per esempio dal reddito di cittadinanza e dalla legge anticorruzione. Aggiungerei un tema su cui loro sono sempre molto evasivi, il tema dell’evasione, appunto, oltre a una politica di investimenti finanziata con ciò che si ricaverebbe dall’abbandono di alcune grande opere del tutto inutili. E ancora non l’abolizione totale, che sballerebbe tutti i conti, ma una seria riforma delle legge Fornero sulle pensioni, una riforma del Job Act con ripristino dell’articolo 18 per le imprese al di sopra di un certo numero di dipendenti. E così via. Si tratterebbe di partire da proposte di questo genere, che fanno parte del loro DNA. Una norma severissima su conflitti di interessi, sull’incompatibilità, una legge sulla Rai, sulla scorta di quanto avevamo proposto insieme ai tempi dei Girotondi: una televisione sul modello della BBC, una fondazione, con un consiglio di amministrazione che rappresenti intanto che ci lavora, poi i produttori, gli autori, le accademie eccetera.
Credo che un governo quasi angelicato, senza nessuna partecipazione né responsabilità politica – e di conseguenza privo di responsabilizzazione politica – rischierebbe di essere troppo debole e di venir già alla prima folata di vento. Invece dovrebbe essere un governo in cui ciascuna delle forze che lo appoggia prende un impegno preciso. È chiaro che deve passare attraverso una consultazione, le primarie per quanto riguarda il PD – aperte, come hanno fatto, e dunque non limitate agli iscritti.
Lo stesso potrebbero fare eventualmente anche i 5 Stelle e sottoporre tale accordo alla loro base, anche se per loro sarebbe più facile un’approvazione, mentre nel caso del PD si continua a ripetere che non deve allearsi con i 5 Stelle. Insomma, dovrebbero seguire l’esempio della Merkel e della SPD: individuare punti in comune e compatibilità e scrivere nel dettaglio le leggi che intendono approvare, dandosi magari anche due anni come orizzonte invece di cinque. Tale accordo dovrebbe poi esser sottoposto ai propri iscritti, in modo che siano loro a decidere, visto che si tratterebbe comunque di un governo che non era previsto in campagna elettorale, in particolare dal PD, mentre i 5 Stelle avevano già dichiarato che se non avessero avuto la maggioranza si sarebbero rivolti ad altre forze politiche. Se, infatti, gli elettori del Movimento hanno votato Di Maio sapendo che avrebbe fatto delle aperture nei confronti delle altre forze politiche, il PD ha invece sempre sostenuto che il suo orizzonte era il centro sinistra e non avrebbe fatto accordi con i 5 Stelle. Per questo sarebbe giusto che la base si pronunciasse per autorizzare un’intesa con coloro che in campagna elettorale erano presentati come alternativi. La posizione dei renziani, che in modo più sfumato è sostenuta anche da Martina, secondo cui gli elettori avrebbero deciso che il PD resti all’opposizione è priva di senso, perché chi vota per il PD vuole che vada al governo. Gli elettori non possono sapere quanti voti prenderà il partito e quindi se quel partito possa andare al governo o meno. Chi vota Potere al Popolo vota una forza di opposizione, non chi vota PD. Se poi sono pochi, non è che quei pochi hanno votato per andare all’opposizione. Sarebbe giusto che fosse la base a decidere quale deve essere la collocazione del PD. È chiaro che prima dovrebbero essere stillati i punti del programma, perché alla domanda su un’alleanza con Di Maio la risposta sarebbe negativa. Se invece la questione fosse relativa ad alcuni punti del programma, chiedendo agli elettori se vogliono determinate proposte precise, probabilmente la risposta sarebbe diversa. Sono convinto che se si prendessero a caso dieci elettori del PD e dieci del M5S e si mettessero intorno a un tavolo troverebbero un intesa molto prima di quando non farebbero intorno allo stesso tavolo Di Maio e Martina.

Paolo Flores d’Arcais: La cosa importante è che questa volta un eventuale accordo non sia generico, ma dettagliato come appunto nelle abitudini tedesche. Si dovrebbero discutere particolari anche minimi e fissare scadenze inderogabili.
A prima vista, la tua proposta sembra molto più solida. Io però mi domando: è davvero più facile dare luogo a consultazioni vere e proprie tra due forze politiche che si sono insultate nel modo più feroce e continuano a farlo anche in questi giorni, in cui pure si fanno aperture non simmetriche, ma comunque aperture da ambedue le parti? Ciò che sembrerebbe avere una maggiore solidità, avrebbe anche un peso e un rischio in più. Non sarebbe più facile e altrettanto decisivo limitare invece la responsabilità al programma e avere il coraggio di delegare a una persona di peso, di cui ci si fida per motivi diversi, come Rodotà che i 5 Stelle volevano capo dello stato? Questi avrebbe in prima persona la responsabilità, rispetto alle forze che lo voteranno, di applicare il programma sottoscritto con il M5S e il PD nel dettaglio e con le scadenze, ma sarebbe libero di scegliere le persone che ritiene più adatte a questo compito. Mettere invece questi due partiti a concordare – diciamolo in termini brutali – di poltroni e ministeri, penso sia molto più difficile: l’apparenza di solidità coinciderebbe invece con una maggiore fragilità, perché mettersi d’accordo sui nomi, a meno di non realizzare una forma di lottizzazione esplicita e a priori – due terzi o tre quarti a me e un terzo o un quarto a te – rendere estremamente fragile un ministero.
Discutere solo di programmi, escludendo la discussione sui posti, renderebbe molto più difficile nascondersi dietro a pretesti, perché, secondo l’esempio che facevi tu, dieci elettori a caso dell’uno e dell’altro gruppo troverebbero un accordo senza troppe difficoltà su un programma comune e a quel punto i loro gruppi dirigenti non potrebbero essere da meno.

Marco Travaglio: La possibilità meno difficile è ciò che ha proposto Cacciari, ovvero che il PD dia l’appoggio esterno ad un governo 5 Stelle. Sarebbe la via più semplice per far partire un governo, che però potrebbero affossare quando vogliono. A me sembra che per garantire un minimo di responsabilità sia necessaria una responsabilizzazione delle forze della maggioranza attraverso un loro referente dentro il governo. Questo perché ci si può ovviamente mettere d’accordo sulle varie riforme da fare, ma poi c’è l’ordinaria amministrazione, gli imprevisti che possono capitare nel frattempo e devono esser gestiti e che naturalmente richiedono comunque anche una presenza politica all’interno di una maggioranza, la quale sarebbe per giunta così nuova ed eterogenea. Monti è riuscito a fare quel che ha fatto proprio perché aveva il 90 e passa per cento dei parlamentari dalla sua parte terrorizzati dalle elezioni. In realtà qui avremmo una maggioranza composta dalla forza dominante, cioè i 5 Stelle, che ha tutto da guadagnare da nuove elezioni, e da altre due forze più piccole, che avrebbero tutto da perdere, perché sanno che se si va alle elezioni scompaiono o comunque si riducono al lumicino. Quindi, se fosse una maggioranza completamente spoliticizzata e deresponsabilizzasse quasi completamente i partiti, non mancherebbero i pretesti, anche al di fuori del programma concordato, per far cadere il governo.

Paolo Flores d’Arcais: Proprio l’ordinaria amministrazione richiederà di fare nomine importanti nell’apparato dello Stato (servizi, esercito ecc.) e in quello che è l’apparato del parastato (Finmeccanica, Ferrovie, ecc.). Non pensi che ciò sarebbe un facile motivo di frizione e di rotture, visto che si dovrebbe trovare un accordo tra responsabili politici – fra i tre capi politici, in pratica, secondo la tua proposta – mentre affidare le stesse nomine a persone di fiducia, ma terze (il ministero), che ne avrebbero tutto l’onere e la responsabilità, eviterebbe questi rischi? Potrebbero prendere queste decisioni anche con i loro errori, ma innanzitutto in accordo con il Capo dello Stato e senza che nessuno possa accusare l’altro di voler occupare una poltrona. Ci sarebbero molti meno veleni, forse. Io non sono sicuro, è possibile che la tua ipotesi sia in realtà più efficace, però ho l’impressione invece che, proprio una responsabilità enorme, ma solo programmatica, possa consentire un’eguale solidità, perché non si sfiducerebbe un governo, di cui si sono assunte le scelte ora per ora, giorno per giorno, e non si avrebbero quelle occasioni di contrasti che nascono quando si parla di posti, anche nel senso più nobile del termine.

Marco Travaglio: Su questo non c’è dubbio. Da questo punto di vista sarebbe preferibile il governo che proponi tu, sotto altri profili invece sarebbe meglio avere dentro un Ministero un triumvirato che possa garantire maggiore responsabilità e quindi maggiore stabilità a quella compagine, in particolare nel caso dell’ordinaria gestione e dell’eventuale risoluzione di problemi che nessuno può prevedere, ma che sono sempre in agguato: da questioni legate all’Europa a crisi o a scandali che possono scoppiare o anche nel caso dell’incapacità di un ministro di gestire una determinata situazione critica. Ci sono i pro e i contro sia alla mia ipotesi che alla tua, in ogni caso credo che se arrivassero già discutere di questo, vorrebbe dire che hanno già messo da parte alcuni idiosincrasie e incompatibilità che attualmente sembrano irresolubili.

Paolo Flores d’Arcais: Cos’è che rende al momento quasi utopistiche entrambe queste proposte che pure giudicate in un altro modo sono le più razionali sia per il paese che per queste stesse forze politiche, se non si ragiona nei termini dell’interesse immediato?

Marco Travaglio: Secondo me gli ostacoli in questo momento sono, innanzitutto, la diffidenza reciproca che nasce ovviamente da dieci anni di contrapposizioni, dall’eccessiva vicinanza con le elezioni e quindi ancora dall’illusione che stando fermi si possano lucrare rendite di posizione. Il fatto di non avere ancora visto all’opera di Mattarella, che, a differenza di Napolitano, attende giustamente notizie dai partiti e quindi intende le consultazioni in base a quella che è la prassi della Costituzione, cioè i partiti che vanno dal Presidente a dirgli quello che vogliono e non il Presidente che chiama i partiti per dire lui quello che vuole. Io credo che il fattore tempo lavorerà in qualche modo perché si sciolgano alcune rigidità. Sicuramente, se dopo due mesi di stallo il Presidente dirà o qualcuno viene più a miti consigli o vi rimando a votare, lì è chiaro che quelli che non vogliono saperne di andare a votare dovranno prendere una decisione e scegliere dall’Aventino. Poi vedo che ogni giorno che passa, da un lato c’è ci sono le aperture – non solo di Di Maio, ma anche di Grillo che sembrava o almeno veniva dipinto come il custode della purezza del movimento – dall’altro vedo che gli attuali vertici del PD escono un giorno dichiarando che saranno all’opposizione, poi il giorno dopo cominciano a dire che non potrebbero dire di no ad eventuali richieste del Presidente della Repubblica. Mi pare si tratti in entrambi i casi di grandi segnali, perché è chiaro che ad un certo punto il Presidente, raccolte le varie opzioni e le varie disponibilità, cercherà di mettere insieme i pezzi. Non credo che il suo partito dopo aver fatto gli accordi con Berlusconi, potrà sostenere che Di Maio è peggio di Berlusconi. Quello lo può sostenere dire Renzi, ma l’impressione è che più passa il tempo e meno renziani ci saranno nel partito. Quindi, probabilmente, fra due mesi l’attuale assetto sarà completamente sconvolto, anche per via dell’istinto di sopravvivenza di nuovi parlamentari che sono arrivati per la prima volta e non vogliono mettere in gioco il loro seggio.
Penso che la cosa principale sia che il partito arrivato primo, e cioè il M5S, e anche chi è arrivato primo come coalizione, e dunque il cento destra, se esiste ancora quella coalizione, facciano la loro proposta e chiedano i voti a chi vogliono sposare. Dopodiché è chiaro che tutti dovranno uscire dall’ambiguità: il PD dovrà decidere se tornare alle urne e suicidarsi, se sostenere dall’esterno un governo di centro destra e suicidarsi lo stesso, oppure cerare di stendere un programma sociale in sintonia con quegli elettori che sono scappati e anche con quelli che sono rimasti per cercare di salvare il salvabile. Io non escludo affatto che un governo del genere potrebbe fare del bene a coloro che ci partecipano. In fondo poi le cose da fare le abbiamo scritte da tanti di quegli anni, che il PD, che da solo non ha mai volute farle, magari costretto dal M5S riuscirebbe persino a realizzarle. Magari riusciranno a fare qualcosa e a stupire positivamente i loro elettori o i loro dirigenti. A me ha colpito molto quel ragazzo che abbiamo intervistato oggi, Nicolas, che ha 21 anni, ma mi sembra abbia chiaro il risultato delle elezioni molto più di quanto ce l’hanno i capi che continuano a prendersela con gli elettori invece che con se stessi.

Paolo Flores d’Arcais: Come diceva ironicamente la poesia di Brecht a proposito della rivolta operaia di Berlino Est nel ‘53: se il popolo non appoggia più il governo, “non sarebbe più semplice allora/ che il governo sciogliesse il popolo e ne eleggesse un altro?”

Marco Travaglio: Mi pare che sia questo l’atteggiamento che hanno molti nel PD e anche dei giornali a loro vicini: prendersela con gli elettori che sarebbero improvvisamente impazziti.

Paolo Flores d’Arcais: Poiché oggi l’impressione, molto fondata, è che tornando alle urne fra cinque mesi il M5S e ancora più la Lega aumenterebbero i loro voti, non pensi che il Movimento possa avere la tentazione di fare il “colpo gobbo”, senza valutare il fatto che ora, stando cosi le cose, le proiezioni sarebbero queste, ma dimenticando che la volatilità delle scelte elettorali si è dimostrata in questi anni estrema e legata a qualsiasi fenomeno che possa accadere non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo? Non credi che possa portare a una sorta di hybris da successo al M5S? Fra cinque o sei mesi in realtà nessuno sa in quali condizioni e con quali orientamenti dell’elettorato si andrebbe a votare .

Marco Travaglio: Sono d’accordo con te e infatti ritengo che i 5 Stelle debbano fare di tutto, non nel senso che debbano essere disposti a qualsiasi tipo di compromesso, ma debbano provare qualsiasi compromesso buono per almeno dimostrare di averci provato fino in fondo, facendo al centro sinistra una proposta che davvero non si possa rifiutare. Dopodiché, se verrà rifiutata, sarà chiaro agli elettori chi ha impedito che nascesse un governo di questo genere. Però devono essere molto più disponibili e anche più abili rispetto al 2013. Se all’epoca nella sostanza avevano ragione loro – cioè Bersani non poteva onestamente pensare il partito che aveva preso il suo stesso numero di voti, desse via libera a un governo dove il premier, i ministri e il programma appartenessero al PD – furono tuttavia poco astuti e non si capiva quale fosse la loro alternativa. In quel frangente avrebbero dovuto indicare quelle personalità che poi indicarono per il Quirinale, ma non per Palazzo Chigi. Ora sono però molto più scafati e hanno fatto molti cambiamenti al loro interno.

Paolo Flores d’Arcais: Mi pare lo avessimo detto e scritto all’epoca.

Marco Travaglio: Certo. Napolitano diceva non fatemi nomi fuori dai partiti perché io non li accetto. E loro sarebbero dovuti uscire dicendo che Napolitano non voleva nomi esterni, ma secondo loro, visto che M5S e Pd avevano pareggiato, l’unica soluzione sarebbe potuta essere un governo Zagrebelsky e Rodotà. Invece non arrivarono mai a fare una proposta simile. La partita si riaprì in occasione delle Presidenziali, quando proposero Rodotà e Grillo disse apertamente “votate Rodotà con noi e poi faremo il governo”, anche perché se glielo avesse chiesto Rodotà, il loro candidato eletto, come avrebbero potuto dirgli di no? E lì fu chiaro chi aveva detto no, ma oggi ovviamente questo secondo step viene dimenticato e si continua a raccontare solo la faccenda dello streaming. Nella sostanza avevano ragione loro, ma, invece di denigrare Bersani, avrebbero dovuto chiedergli il nome per un premier ponte, esterno ai due partiti, che potesse consentire loro di riconsiderare la propria posizione. A quel punto il cerino acceso sarebbe rimasto nelle dita di Bersani e non in quelle dei 5 Stelle. Questa volta non mi sembra siano cosi sprovveduti come allora e quindi dovrebbero fare una proposta con pochi punti programmatici ai quali un centro sinistra degno di questo nome non possa dire di no, perché nel caso di un rifiuto, dovrebbe spiegarlo ai suoi elettori residui.

Paolo Flores d’Arcais: Tu hai rapporti diretti o indiretti con i 5 Stelle più stretti forse di chiunque altro. L’impressione è che i loro dirigenti non solo non ascoltino e non si pongano il problema di discutere proposte come queste che vengono dal di fuori delle loro cerchie, ma talvolta sembra che ne siano addirittura infastiditi. Ecco, siccome tu li conosci molto meglio, pensi davvero che ci siano serie possibilità che smettano di essere cosi autoreferenziali?

Marco Travaglio: Io ho adottato questa tecnica: quando devo dirgli qualcosa, la scrivo sul giornale. Nessuno di loro mi chiama per chiedere consigli, né io mai chiamo loro per darli, perché preferisco mantenermi negli ambiti del mio lavoro. Quindi scrivo sempre anche consigli non richiesti.

Paolo Flores d’Arcais: Pensi stiano superando la sindrome dell’autoreferenzialità, che per anni si è rivelata un fattore di accrescimento di consenso, ma che oggi diventerebbe un handicap e potrebbe tra qualche mese dare sorprese elettorali negative anche a loro, rischiando di favorire invece Salvini?

Marco Travaglio: Li vedo abbastanza cambiati da questo punto di vista, innanzitutto perché le decisioni non le prendono più Grillo e Casaleggio, ma Di Maio con i suoi consiglieri e i suoi collaboratori, che vengono anche da ambiti molto diversi. Quando hanno fatto la giunta di Roma, si sono rivolti a personalità come Tomaso Montanari per chiedergli di fare l’assessore. Poi in seguito al suo rifiuto, è stato nominato Luca Bergamo, un uomo che viene dalla sinistra e non si è mai nemmeno dovuto iscrivere al Movimento. Poi sono arrivati anche ad altri che sembravano promettere bene e poi hanno fatto molto male, come Paolo Berdini, ma hanno in ogni caso provato ad aprirsi e ad allargare il giro, a nominare persone che non appartengono al loro mondo e ai quali non chiedono di aderire al loro mondo. Quando hanno dovuto designare un Consigliere d’Amministrazione della Rai, hanno scelto Carlo Freccero, basandosi innanzitutto sulla sua indipendenza e sulla sua competenza specifica; quando hanno dovuto nominare un membro della Corte Costituzionale, hanno chiesto a Zagrebelsky e poi hanno indicato un professore che non conoscevano neanche, ma di cui si sono fidati per via del curriculum; la stessa cosa hanno fatto al Consiglio Superiore della Magistratura. Per fortuna non è più la setta chiusa di cinque anni fa, quindi io sono da questo punto di vista fiducioso. Negli ultimi mesi li ho visti cambiare significativamente e anche molto più rapidamente di quanto non avessero fatto nei loro primi dieci anni di vita, quindi al momento mi sembra che da questo punto di vista siano molto aperti, forse anche fin troppo, ma non li vedi più chiusi in una stanza fra i padri fondatori e autoreferenziali.

Paolo Flores d’Arcais: In sostanza mi sembra di capire che abbiamo uno stesso auspicio, ovvero che il metodo seguito per le nomine alla Rai, alla Consulta eccetera lo seguano anche per il governo.

Marco Travaglio: Da questo punto di vista bisogna considerare anche quello che stanno facendo in Europa, come testimonia Barbara Spinelli, al di là di tutte le polemiche legate al gruppo di Farage, che lasciano il tempo che trova. Hanno preso quel taxi perché era l’unico modo per fare gruppo e contare qualcosa, visto che gli altri non li volevano, ma poi quasi mai hanno votato in sintonia con il gruppo con cui fanno parte, perché collaborano stabilmente con Barbara Spinelli, Curzio Maltese e altri senza nessun tipo di preclusione. Lavorare cinque anni in Europa li ha molto aiutati anche a scoprire che fuori non c’è soltanto il nemico, ma anche esperienze da valorizzare.

TRUMP IGNORA LE AMARE LEZIONI DEL PROTEZIONISMO

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Se gli Stati Uniti, la prima potenza economica e militare mondiale, lanciano una politica protezionistica imponendo alti dazi sulle importazioni, evidentemente intendono iniziare una vera e propria guerra commerciale. Le recenti dichiarazioni di Trump nei confronti della Cina e dell’Unione europea ne sono la prova.
Eppure Washington sa che, quando in passato sono state introdotte simili politiche, esse hanno soltanto esacerbato le crisi in corso aggravando le tensioni politiche internazionali.
Ciò avvenne dopo il crollo di Wall Street del 1929 con la conseguente Grande Depressione. Nel 1930 il presidente Herbert Hoover e, più ancora, il Congresso americano, allora dominato dal Partito Repubblicano, approvarono la legge Smoot-Hawley Tarif Act (dai nomi dei due parlamentari che la presentarono) che impose pesanti dazi su oltre 20.000 prodotti d’importazione.
Si trattò di una specie di “America First” che avrebbe dovuto rilanciare produzioni, consumi e occupazione, sbarrando la strada ai prodotti provenienti da altri paesi. Fu la risposta negativa all’appello generale fatto in precedenza, nel 1927, dalla Lega della Nazioni, precursore dell’ONU, che, al contrario, chiedeva di “porre fine alla politica dei dazi e di andare nella direzione opposta”.
Fino allora gli Usa avevano avuto una bilancia commerciale positiva, con un surplus delle esportazioni.
I dazi imposti sui beni inclusi nella lista, che mediamente erano del 40,1% nel 1929, raggiunsero il livello di 59,1% nel 1932, con un aumento del 19%.
Ovviamente su tali politiche restrittive sono stati fatti molti studi. Però nessuno mette in discussione l’effetto recessivo e depressivo provocato dai dazi.
Nel quadriennio 1929 – 1933 le importazioni americane diminuirono del 66% e le esportazioni scesero del 61%. Anche l’export-import con l’Europa crollò. Il Pil Usa passò da 103 miliardi di dollari del 1929 a 76 nel 1931 e a poco più di 56 nel 1933. Anche il commercio mondiale nel suo insieme si ridusse di circa il 33%.
Nello stesso periodo la disoccupazione americana salì dall’8% del 1930 al 25% nel 1933. Questa tendenza cambiò solo durante la seconda guerra mondiale con la grande mobilitazione produttiva bellica.
Purtroppo oggi c’è la tendenza a ignorare le lezioni del passato.
Gli Usa e le corporation americane sono stati loro a iniziare la cosiddetta politica dell’outsorucing e a portare all’estero le produzioni di componenti di prodotti manifatturieri, perché c’è mano d’opera a basso costo.
E’ stata la Federal Reserve a inondare il mondo, soprattutto le economie emergenti, con tanta liquidità a bassissimi tassi d’interesse. Fu il famoso Quantitative easing che ha favorito gli acquisti all’estero di beni da parte delle imprese americane e ha sostenuto al contempo i consumi interni. Al contrario i paesi emergenti hanno visto crescere i loro debiti e hanno accentuato la propria destabilizzazione finanziaria.
L’economia è stata quindi messa sottosopra, generando deficit enormi nella bilancia commerciale americana e di molti altri paesi. Si consideri che nel 2006 negli Usa esso era di 762 miliardi di dollari e nel 2017 era ancora di 566 miliardi. Però il deficit commerciale del settore dei beni reali va ben oltre gli 810 miliardi di dollari.
Di conseguenza anche il budget federale Usa è andato in tilt con deficit strepitosi: oltre 1400 miliardi nel 2009, 1300 miliardi nel 2011 e ancora 665 nel 2017. Quest’anno dovrebbe salire a oltre 830.
Tali politiche hanno portato a un grande indebitamento americano anche verso l’estero, in particolare verso la Cina, che detiene circa 1.000 miliardi di dollari in obbligazioni del Tesoro Usa, evidentemente emesse per coprire i deficit di bilancio.
Purtroppo Washington si sta muovendo come un elefante in un negozio di porcellane. Provoca tensioni con i partner commerciali, a cominciare dalla Cina e dall’Ue, e nello stesso tempo continua a esporsi con deficit e debiti che il resto del mondo dovrebbe in certo qual modo garantire.
C’è il forte timore che un qualsiasi evento non prevedibile in campo economico e finanziario possa generare guerre commerciali e monetarie con conseguenze incalcolabili. Ovviamente non solo negli Usa.

*già sottosegretario all’Economia **economista