Si può davvero scegliere tra Galilei e Bellarmino?

La diatriba tra lo scienziato Galilei e il cardinale Bellarmino era sin dall’inizio impostata male. Basteranno alcune considerazioni per convincersene.

Che la Bibbia non potesse dir nulla sulla verità razionale degli esperimenti scientifici, laboratoriali, di Galilei, appare oggi pacifico. Solo una concezione integralistica della fede religiosa, che fa della teologia un’imposizione politico-istituzionale, cui un’intera società deve attenersi, poteva sostenere il primato “scientifico” della Bibbia su discipline come la matematica, la fisica e l’astronomia.

Una diatriba del genere non avrebbe mai potuto esserci là dove la Chiesa non pretende di avere un ruolo politico. Senza un tale ruolo, infatti, non si ha neppure la pretesa di egemonizzare la cultura e la scienza. Sotto questo aspetto Galilei avrebbe potuto avere seri problemi anche se avesse avuto a che fare non con la Chiesa romana, profondamente controriformistica, ma semplicemente con uno Stato confessionale (cattolico o protestante che fosse), ivi incluso quello ideologico e ateistico del regime staliniano.

Idee scientifiche così innovative come le sue e, per molti aspetti, chiaramente favorevoli a una visione laica della vita, potevano trovare, a quel tempo, ampi consensi solo se la borghesia si poneva il compito di difenderle. Cosa niente affatto scontata. Copernico, ad es., diede alle stampe le sue analisi rivoluzionarie solo poco prima di morire. E nessun testo degli scienziati del XVII e XVIII secolo mette in dubbio l’esistenza di dio. Tutti hanno paura di spiacevoli conseguenze per la loro carriera e persino per la loro incolumità, siano essi cattolici o protestanti.

È noto che Lutero, Melantone e Calvino giudicarono assai negativamente le idee di Copernico: non accettarono neppure la riforma gregoriana del calendario (che tra l’altro si basava proprio sui suoi calcoli matematici). Se gli scienziati dell’Europa protestante ebbero maggiore libertà d’azione, fu solo perché qui la borghesia era notevolmente più sviluppata, come lo era stata quella italiana prima del Concilio di Trento. Questo per dire che se anche la Chiesa romana si fosse astenuta dal criticare le idee scientifiche di Galilei e Copernico, rinunciando ad avvalersi della propria autorità politica, non avrebbe comunque potuto esimersi dal criticare le conseguenze laicistiche di quelle teorie.

Tuttavia è proprio su questo punto, relativo alla critica del laicismo implicito in quelle teorie scientifiche, che l’azione della Chiesa romana si è rivelata del tutto inadeguata. Cosa, d’altra parte, naturale quando si vuole sostenere una visione altamente ideologica della vita, la quale, peraltro, non permette neppure di capire sino in fondo le implicazioni di teorie opposte a quelle dominanti.

Da un lato infatti la Chiesa era tutta preoccupata di dimostrare che la Bibbia non poteva essere letta, là dove si voleva, avvalendosi di allegorie o metafore, poiché così si sarebbe potuta facilmente sostenere una qualunque interpretazione. Dall’altro però non riusciva a capire che la concezione della natura che aveva Galilei era pericolosa non tanto perché vicina all’ateismo, quanto perché profondamente “borghese”, cioè connessa a una concezione della vita e dei rapporti con la natura tutt’altro che democratica.

Galilei amava fare scienza secondo un preciso scopo, ch’era quello di tutti gli scienziati dell’epoca: dominare la natura. Secondo lui la scienza doveva essere posta al servizio delle esigenze di dominio di una classe sociale particolare. La Chiesa romana non lo contesta mai su questo aspetto, né vede che quelle teorie possono diventare pericolose per l’integrità della natura, per il rispetto dell’ambiente. Lo contesta semplicemente per il fatto ch’egli vuole sostenere delle idee contrarie a quelle dominanti.

In altre parole la Chiesa, come istituzione avente un determinato potere politico, teme che se la società si convince che quelle teorie scientifiche, così diverse da quelle ufficiali della teologia, risultano essere più credibili, allora è il suo stesso potere istituzionale che rischia d’essere minacciato. Bellarmino critica ideologicamente Galilei perché in realtà si sente rappresentante di una Chiesa preposta a gestire un potere politico. Più volte infatti aveva sostenuto che l’Inquisizione non avrebbe avuto nulla da eccepire se gli scienziati si fossero limitati a dire che le loro teorie erano semplici ipotesi interpretative, prive di qualunque attendibilità: cosa che sul piano fisico-matematico era quanto meno una richiesta irricevibile.

Su questi temi si potrebbero scrivere interi trattati, sia perché quando si sostiene (e gli scienziati lo facevano) che tra fede e scienza non vi è contraddizione, in quanto sono separati i loro ambiti e diversi i loro obiettivi, si sta in realtà sostenendo una posizione ambigua, di compromesso, che è poi chiaramente falsa, poiché uno sviluppo della scienza è sempre incompatibile con una posizione religiosa (almeno con una teologia tradizionale, chiaramente definita). Ma anche perché lo sviluppo “borghese” della scienza è straordinariamente somigliante a quello della religione cattolica e protestante (la prima sul piano politico-istituzionale, la seconda su quello socio-economico); nel senso che sia la teologia che la scienza hanno sempre avuto la concezione dell’uomo come “dominatore” della realtà, libero di usare gli strumenti più opportuni (quindi anche quelli più arbitrari) per affermarsi.

In Bacone (al servizio dei Tudor, una dinastia particolarmente sostenuta dalla borghesia inglese) è evidentissima l’equazione di scienza e potere. Né l’una né l’altro, nella sua filosofia, possono essere dati dai sillogismi della logica aristotelica o dalle magie e astrologie dell’Umanesimo del Quattrocento, ma solo dalla matematica e dalle scienze naturali con cui si scoprono le leggi della materia.

Ecco, sotto questo aspetto la differenza tra teologia cristiana (cattolica o protestante) e scienza borghese verteva soltanto sui mezzi o sugli strumenti da usare. Gli scienziati del Seicento portano alle più logiche conseguenze le filosofie laico-umanistiche sviluppatesi nei secoli precedenti, le quali, a loro volta, non avevano fatto altro che laicizzare ulteriormente le posizioni dell’ultima Scolastica, soprattutto di quella francescana presente in Inghilterra, chiaramente favorevole al sensismo e all’empirismo.

Questo sviluppo “borghese” della scienza è potuto avvenire in Europa occidentale proprio perché qui era maturata una teologia che di “umano” aveva assai poco: sia perché non conosceva in alcun modo il senso della “democrazia” (che si ritrova a quel tempo nello spirito conciliare della chiesa ortodossa), sia perché il rispetto della natura non era intrinseco alla teologia cattolica ma semplicemente relativo al fatto che ancora non si era compiuta la rivoluzione industriale.

A partire da Copernico (che peraltro era un ecclesiastico!) la scienza borghese non si poneva affatto (nonostante si pensasse il contrario) come un’alternativa alla teologia fondamentalista della Chiesa romana, ma si poneva come la sua immagine speculare, privata semplicemente di quegli orpelli mistici che il tempo aveva reso obsoleti. Tant’è che gli stessi scienziati erano così affascinati dalle loro scoperte che non tardarono a fare della nuova scienza una nuova “religione”. Il fatto stesso di voler tradurre tutta la realtà in rapporti matematici, lo dimostra; e anche il fatto di voler trascurare la qualità delle cose a tutto vantaggio della quantità.

Tutti, nessuno escluso, sono convinti che la nuova scienza debba servire per “dominare” la natura; e, pur di realizzare questo obiettivo, compiono cose che oggi giudichiamo eticamente discutibili, come ad es. il fatto di riprodurre in laboratorio condizioni ambientali private di tutte quelle imperfezioni, eccezioni, incongruenze… che nella realtà quotidiana sono del tutto naturali e che generalmente si accettano come facenti parte di una vita normale, in cui le contraddizioni vengono giudicate inevitabili.

La scienza da laboratorio, quella tipica di Galilei, pretendeva (e lo pretende ancora oggi) d’essere “pura”, aliena da condizionamenti socio-ambientali. Invece di chiedersi come superare “scientificamente” le contraddizioni sociali, la scienza borghese si poneva al servizio di quella classe che, in mezzo a quelle contraddizioni, ambiva soltanto a cercare un’affermazione personale, esclusiva, ch’era sì ostile ai poteri dominanti, ma soltanto per ottenere un proprio spazio nell’ambito di quegli stessi poteri. Per questa scienza non contava più chiedersi il “perché” delle cose ma solo il “come”. L’essenza stessa dei fenomeni veniva ridotta a un’operazione di calcolo. Si voleva far credere che un approccio alla realtà di tipo matematico potesse essere esente da valutazioni ideologiche, e quindi condivisibile da chiunque.

Questa scienza fisica e astronomica rappresenta le premesse culturali di quella scienza che di lì a poco sarebbe stata l’economia politica classica. Si vuol fare della scienza un qualcosa di asettico, di neutrale, indipendente da ogni valutazione etica (che quella volta coincideva con la religione); e, così facendo, si pongono le basi per una qualsivoglia scoperta o invenzione, privando la scienza di un criterio che possa stabilire quando una ricerca è “sensata” (cioè a misura d’uomo) oppure no.

La scienza borghese è tutto meno che scientifica, proprio in quanto rifiuta di confrontarsi con l’etica. Infatti solo a posteriori, dopo che sono avvenuti immani disastri, la borghesia si chiede come porvi rimedio. Un criterio per stabilire i limiti della ricerca viene rifiutato categoricamente, come se la scienza fosse un dio da adorare in maniera indiscutibile. Infatti quando avvengono i disastri (che oggi sono sempre più di carattere internazionale), non si mette mai in discussione la scienza in sé, ma solo il metodo con cui la si è applicata. Si pensa cioè di poter risolvere i suoi difetti semplicemente rendendo gli uomini migliori, più umani, e non si pone mai all’ordine del giorno il problema di come rivedere i criteri con cui si fa “scienza”.

E così, come sempre accade, gli uomini, eticamente migliorati per necessità oggettive, determinate dalle varie devastazioni, si trovano nuovamente a gestire dei criteri e dei mezzi tecnologici per i quali la loro eticità continua a rivelarsi del tutto insufficiente. Tant’è che dopo un certo periodo di tempo avvengono nuovi disastri, nuove apocalissi, in una spirale senza fine. Guarite le ferite, si torna a combattere una battaglia persa in partenza. Andando avanti di questo passo si rischia soltanto di porre delle condizioni sempre più autodistruttive, per le quali sarà impossibile trovare dei rimedi efficaci alle nostre assurde pretese di dominio.