I limiti di fondo dell’economia politica

Prendiamo un qualunque Manuale di economia politica scritto da un marxista: quello di Antonio Pesenti (Editori Riuniti, Roma 1972). Sin dalle prime pagine si capisce che c’è qualcosa che non va, ovviamente non perché si è contro il capitalismo, quanto perché non si riesce a valorizzare sino in fondo il pregio di un’economia naturale basata su autoconsumo e baratto. Questo è un limite di fondo di tutti i manuali di economia politica, siano essi borghesi o socialisti.

Un manuale marxista di economia politica non dovrebbe porsi anzitutto in antitesi allo sviluppo capitalistico, poiché se si esordisce facendo questo, l’antitesi non sarà mai davvero radicale, ma sempre relativa. Per essere un minimo obiettivi, si dovrebbero anzitutto valorizzare tutte quelle forme di produzione economica in cui non esisteva una forte divisione del lavoro, una propensione accentuata per gli scambi commerciali, l’esigenza di avere tutte le comodità possibili, la necessità imprescindibile di produrre di più in minor tempo e con minor fatica e altre caratteristiche tipiche delle società basate sull’antagonismo sociale.

È vero che è stata la borghesia a inventare la scienza dell’economia, ma quando si parla di economia bisognerebbe anzitutto farne una storia, eventualmente avvalendosi degli studi di etno-antropologia, altrimenti rischiano di apparire falsati i presupposti metodologici della critica materialistica. Non si può fare del “materialismo dialettico” con uno sguardo rivolto solo verso al futuro, senza tener conto che siamo figli di un passato ancestrale, le cui caratteristiche, quando si viveva di caccia, pesca, raccolta di frutti selvatici, erano completamente diverse da quelle che si sono formate con la nascita delle prime civiltà urbanizzate.

Vediamo ora due capitoli: il II (Il mercato e i prezzi) e il III (Il valore). Basta leggersi questi capitoli per capire i limiti di fondo e come superarli. Quel che c’interessa infatti non è tanto analizzare nel dettaglio come funziona il capitalismo (cosa già fatta dai classici del marxismo-leninismo), quanto piuttosto come uscirne completamente sul piano economico. Sul piano politico, infatti, l’unico modo per superarlo è fare la rivoluzione. Si possono realizzare singole riforme su aspetti particolari, ma, in ultima istanza, nessuna di esse è in grado di risolvere il problema dell’antagonismo in maniera radicale.

La nostra impostazione metodologica parte da un presupposto storicamente inconfutabile: tutte le rivoluzioni politiche anticapitalistiche già compiute si sono rivelate fallimentari, nel senso che, dopo un certo periodo di tempo, sono state reintrodotte, in un modo o nell’altro, dinamiche di tipo borghese. È evidente quindi che c’è qualcosa che non funziona non tanto sul versante politico, quanto proprio su quello economico. E noi non possiamo dare per scontato che, siccome sul versante economico non c’è alcuna possibilità di superare il capitalismo, allora dobbiamo rinunciare a compiere qualunque rivoluzione politica.

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“La prima divisione del lavoro che si ha nelle comunità primitive non comporta di per sé il mercato, perché è una divisione interna, basata prevalentemente sul sesso e sull’età. Gli uomini nella società primitiva andavano a caccia e le donne cercavano di tenere in ordine l’abitazione, conservare il fuoco e, nello stesso tempo, iniziare quella rudimentale conservazione dei cibi e quella limitata produzione agricola che permetteva almeno di mangiare, anche quando non era possibile cacciare o la caccia era infruttuosa” (p. 48, tutte le citazioni si riferiscono al primo volume).

Queste osservazioni di Pesenti in sé non sono sbagliate, ma si noti con quale finalità sembrano essere svolte. Siccome non c’è, nella preistoria, una forte divisione del lavoro, che avrebbe potuto favorire la formazione di un mercato, la conservazione dei cibi è ovviamente “rudimentale”, la produzione agricola è inevitabilmente “limitata” e la caccia spesso è “infruttuosa”. In sostanza si stanno usando aggettivi fuori contesto storico, messi in relazione ai nostri parametri di vita.

La comunità primitiva non viene presa in esame in sé e per sé, ma in rapporto a ciò che poi dovrà diventare. Quando si affronta la realtà dal punto di vista dell’economia politica non si può rischiare di essere così superficiali sul piano storico. Che valore può avere un’analisi economica quando sono così approssimativi i suoi riferimenti storici?

Vediamo ora quest’altra affermazione. La divisione del lavoro e il mercato si formano “quando l’accresciuta produttività del lavoro, la scoperta che gli animali possono essere addomesticati, produrre latte, ecc. e l’inizio dell’agricoltura portano storicamente nella società alla divisione delle tribù in tribù di pastori, di cacciatori, di agricoltori, nonché alla produzione permanente di un’eccedenza sui bisogni immediati e alla divisione in classi della società” (pp. 48-49).

Si noti con quanta faciloneria si passa dall’uguaglianza sociale della comunità primitiva, basata sulla raccolta del cibo selvatico e sulla caccia, alla disuguaglianza sociale delle prime civiltà urbanizzate. Viene esaltata una nuova qualità di vita a causa di progressive determinazioni quantitative, in virtù delle quali appare del tutto naturale che si creino conflitti irriducibili quando si afferma una maggiore produttività del lavoro.

Si vuol far passare un tale processo storico, che sicuramente ha comportato degli aspetti drammatici, per qualcosa di necessario o di inevitabile, nel senso che deve apparire naturale che si voglia aumentare la produttività oltre il livello di soddisfacimento dei bisogni, com’è ancora più naturale che con la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento le tribù si siano suddivise in fazioni opposte.

Infatti, se si fosse rimasti a un basso livello di produzione, cioè al livello del semplice autoconsumo, non si sarebbe formata alcuna particolare divisione del lavoro (capace di andare oltre quella per sesso e per età), e quindi non si sarebbe formato alcun mercato. E questo, per l’economia politica, sarebbe stato inconcepibile, proprio perché essa trae la sua ragion d’essere dalla presenza di divisione del lavoro, di eccedenze, mercati, classi in competizione, ecc.: tutte cose che la comunità primitiva, basata sull’autoconsumo e al massimo sul baratto, non poteva avere, e che se avesse potuto vedere in anticipo come si sarebbero sviluppate le civiltà urbane, avrebbe cercato di evitare come la peste.

Un economista rigoroso, che analizza il periodo storico delle comunità primitive, dovrebbe anzitutto chiedersi: “qual è la condizione per cui risulta del tutto normale accumulare delle eccedenze?”. La condizione, in realtà, è molto semplice: le eccedenze devono restare a disposizione dell’intero collettivo e non, in via esclusiva, di chi le ha materialmente prodotte o ottenute o di chi può disporne per motivi politici. Né la loro distribuzione può essere decisa da un personale specializzato, il quale, in virtù di tale mansione, pretende di rivendicare un potere particolare. Qualunque funzione specifica si abbia in un determinato collettivo può essere svolta soltanto temporaneamente. È inammissibile riconoscere una funzione che prescinda dalle capacità personali, le quali vanno dimostrate e controllate costantemente, in quanto non si può mai dare nulla per scontato.

Un altro aspetto che il marxismo non riesce a capire è che il mercato di tipo “borghese”, quello quotidiano, rivolto a chiunque, basato sul denaro, non nasce in virtù di progressive determinazioni quantitative, ma proprio per una diversa concezione della vita.

Pesenti afferma, giustamente, che “lo scambio, all’inizio, è occasionale, e assume la forma più semplice dello scambio di merce con merce” (p. 49), cioè, in sostanza, è un baratto. “Questi scambi poi si generalizzano, diventano più frequenti, sorge la moneta quale intermediario degli scambi” (ib.).

Ecco, già qui si sarebbero dovute spendere delle parole chiarificatrici. Il passaggio dal baratto alla moneta non può essere avvenuto spontaneamente. L’uso della moneta, che è un’astrazione, non può essere stato che imposto o autorizzato da un potere dominante, il quale, ad un certo punto, ha preferito considerare qualcosa di inutile sul piano pratico (p.es. l’oro o l’argento) come metro di misura per tutti i beni di consumo. Nell’antichità pre-schiavistica si usavano questi metalli pregiati prevalentemente per motivi estetico-ornamentali.

Quindi delle due l’una: o si ammette che già in presenza del baratto esistevano conflitti di classe o di casta irriducibili: in tal caso si potrebbe accettare l’idea di un passaggio naturale all’uso della moneta, ma allora andrebbe spiegato perché il baratto, di per sé, non presume affatto l’antagonismo sociale; oppure si deve chiarire come il passaggio sia avvenuto in seguito a sconvolgimenti drammatici, che hanno messo definitivamente in crisi le dinamiche sociali delle comunità primitive: infatti l’uso della moneta vera e propria presume sempre dei conflitti sociali irriducibili.

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Afferma Pesenti: nell’antichità romana “gli oggetti veri di scambio, ossia le merci, erano prodotti [dagli schiavi] per l’uso di una ristretta classe dominante e non per la grande massa della popolazione” (p. 49).

È vero, ma perché avveniva questo? Nel mondo romano le città erano infinitamente più sviluppate che nell’alto Medioevo; eppure a partire dal Mille si sono formati dei Comuni borghesi che hanno reso possibile un mercato più sviluppato di quello romano. Com’è stato possibile? Qui le determinazioni quantitative non spiegano nulla. I Romani sarebbero potuti passare tranquillamente a un mercato di tipo capitalistico (grazie a determinazioni progressive di quantità!) se solo avessero fatto una cosa che non vollero mai fare: abolire lo schiavismo e rendere tutti giuridicamente liberi. Quando iniziarono, parzialmente, a farlo, trasformando lo schiavo in colono, era troppo tardi, in quanto le cosiddette popolazioni barbariche premevano irresistibilmente alle porte, ed esse, pur accettando l’idea del colonato, non avevano la cultura sufficiente per passare da un’economia mercantile a una capitalistica.

Nei Comuni medievali tutti erano giuridicamente liberi e tutti avevano interesse a espandere il più possibile i mercati, basati sull’uso del denaro. Anche i mercanti medievali, all’inizio, vendevano merci solo alle classi facoltose, ma non ci volle molto tempo perché la cosa si generalizzasse a livello sociale. Il marxismo non è stato capace di capire l’importanza della cultura cristiana nel passaggio dal mercato schiavile di epoca romana al mercato libero di epoca borghese. Se avesse capito l’importanza della cultura o della mentalità nella gestione dell’economia, avrebbe anche capito il motivo per cui in epoca romana non si sarebbe mai potuto sviluppare alcuna rivoluzione industriale (come non si sviluppò nell’America schiavistica delle piantagioni, pur essendo essa già presente nell’Europa occidentale).

In tutte le civiltà schiavistiche si rimane fermi allo stadio dell’artigianato e, al massimo, della produzione agricola finalizzata al mercato, proprio perché esiste la schiavitù, che impedisce la libera espressione della creatività umana, quella creatività che si può usare sia in senso positivo, per il bene della collettività, che in senso negativo, quando si pensa che il proprio interesse debba prevalere su quello degli altri.

Il mercato borghese non è stato altro che una sintesi tra due elementi opposti: la libertà giuridica (formalmente uguale per tutti) e l’interesse economico privato. Solo una cultura superiore – quale appunto quella cristiana – poteva tenere uniti due elementi così antitetici: una forma universale positiva e una sostanza particolare negativa.

Il marxismo non è stato neppure capace di capire il motivo per cui il capitalismo industriale trova un terreno più favorevole in ambito protestantico che non in uno cattolico. Scrive Pesenti: nel Medioevo “l’artigiano è proprietario e della bottega e del prodotto del suo lavoro, cioè della merce che porta al mercato… La moneta serve come intermediario di questi scambi e solo eccezionalmente come capitale” (p. 50).

È vero, ma perché a partire dalla riforma protestante cambia tutto? Se si fosse esaminata – come fece Max Weber – l’influenza del protestantesimo sull’attività economica, lo si sarebbe capito, anche meglio di questo sociologo borghese. Calvino non fece altro che portare alle estreme conseguenze l’ipocrisia della borghesia cattolica, la quale, a sua volta, non aveva fatto altro che sfruttare l’ipocrisia del papato, che predicava i valori etici del cristianesimo primitivo e, nel contempo, li contraddiceva con una pratica legata a un’affermazione di potere autoritario, politico ed economico: costruire uno specifico Stato della Chiesa in previsione di una teocrazia universale.

La differenza tra la borghesia protestante e quella cattolica stava appunto nella risposta che si dava a tale domanda: se il papato viene considerato irriformabile, ha senso permettergli di avere un potere politico ed economico? La borghesia cattolica, soprattutto quella italiana, era convinta di poter trovare un compromesso reciprocamente vantaggioso con un papato altamente corrotto; quella protestante invece aveva capito che se riusciva a emanciparsi dalla dittatura politica del papato, poteva svilupparsi molto meglio e con maggiore sicurezza sul piano economico, cioè poteva sentirsi molto più libera di far valere i propri interessi privati.

Se il successo personale dipende unicamente da se stessi e non dai compromessi che si devono realizzare con autorità imposte dall’esterno, quale limite vi può essere nell’uso del denaro, della divisione del lavoro, dei mercati ecc.? Gli unici limiti sono quelli che ci si può imporre da sé, esaminando a posteriori se la prassi dell’individualismo economico produce cose più negative che positive. Essendo l’economia borghese completamente sganciata dall’etica, i poteri costituiti intervengono soltanto quando gli effetti generati dall’individualismo economico risultano pericolosi per la stabilità del sistema.

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L’ultimo aspetto da considerare è la differenza tra valore d’uso e valore di scambio. Si faccia attenzione a questa affermazione di Pesenti: “Il valore d’uso, concreta produzione del valore umano, è il presupposto del valore di scambio. Però quando io voglio considerare il valore di scambio di una merce, nella sua origine e lo voglio quantificare, debbo ricercare un legame tra i diversi valori d’uso che abbia un carattere oggettivo e non soggettivo, e questo legame non può essere rappresentato altro che dallo sforzo di lavoro umano contenuto in quantità diverse della merce” (p. 53).

Cosa c’è che non quadra in questa affermazione? L’impressione infatti è che essa voglia considerare il valore di scambio superiore a quello d’uso, quando invece dovrebbe essere il contrario. Non a caso ogni volta che il valore di scambio tende a prevalere su quello d’uso, si è in presenza di un chiaro indizio di società antagonistica.

Sono due le cose che Pesenti non comprende: anzitutto che l’esigenza di “quantificare” il valore di una merce fa già parte di una società ove domina il conflitto tra classi opposte; in secondo luogo non è affatto vero che là dove esiste il baratto non sia possibile dare una valutazione “oggettiva” del valore d’uso di un prodotto. Basterebbe leggersi il Saggio sul dono dell’etnologo francese M. Mauss, per convincersi del contrario.

In generale è possibile dire che là dove esiste il baratto si scambiano cose di cui si ha certamente bisogno, ma che non sono essenziali alla sopravvivenza fisica del collettivo, altrimenti non verrebbero cedute. Il baratto è una conseguenza dell’autoconsumo, non una precondizione per la sua esistenza (semmai è sotto il capitalismo che non si potrebbe vivere senza mercato). Quando si scambia un bene eccedente si sa già qual è il suo valore oggettivo in rapporto agli altri beni che si possiedono, e quindi si sa già quale può essere il suo valore di riferimento quando lo si va a barattare con le eccedenze altrui. Cioè non è il momento dello scambio che decide il valore di un bene. Il suo valore è già stato deciso prima, in rapporto ai beni essenziali che permettono la sopravvivenza, e non si andrà mai ad acquistare un bene essenziale che garantisca la propria sopravvivenza.

Un qualunque bene da barattare, cedendolo o acquistandolo, avrà sempre un valore economico relativo. In questo sta la sua oggettività, e nessuna comunità comprometterebbe la propria esistenza attribuendo a un bene non prodotto da essa stessa un valore assoluto. In sostanza quindi non si baratta qualunque bene, ma solo quelli eccedenti, non essenziali alla riproduzione materiale del collettivo, e non si vanno ad acquistare beni che garantiscono la propria sopravvivenza, altrimenti la si metterebbe a rischio. Ecco perché nella comunità primitiva era l’autoconsumo – esperienza collettiva per eccellenza – a decidere qualunque valore da attribuire ai prodotti eccedenti da scambiare.

Si faccia ora attenzione a quest’altra affermazione: “Soggettivamente si scambia una merce quando essa, per il soggetto venditore, non presenta più un valore d’uso” (p. 55). Questa frase non ha alcun senso in una comunità primitiva: sia perché in tale comunità si scambiano solo eccedenze di prodotti che si usano, cioè non esiste baratto con prodotti che non si usano o che si producono proprio per scambiarli; sia perché il baratto non è mai un fenomeno individuale, essendo soltanto l’intera comunità a poter decidere quale bene considerare eccedente e che valore attribuirgli.

Questo per dire che il baratto dell’autoconsumo e lo scambio di una produzione finalizzata per il mercato sono due cose completamente diverse, assolutamente irriducibili, al punto che non può esservi alcun naturale passaggio dall’una all’altra. Tra le due forme di scambio vi è, nascosta, una tragedia: la fine della comunità primitiva.

Se poi si vuol sostenere che il baratto rappresentava uno sviluppo soltanto “embrionale” delle forze produttive, si abbia almeno l’onestà di precisare che in tale giudizio non vi è tanto una valutazione di fatto, quanto piuttosto una di merito, ritenendo la comunità primitiva una condizione di vita che andava necessariamente superata. Col che il lettore si mette il cuore in pace, avendo capito che l’analisi marxista accetta tutti i presupposti dell’economia politica borghese, salvo uno: la privatizzazione dei mezzi produttivi. Cioè in questa maniera appare chiaro che per cercare un’alternativa all’attuale sistema di vita dobbiamo andare oltre sia all’economia politica borghese che alla critica marxista di tale economia.

Quello che proprio non si riesce ad accettare nell’analisi marxista è l’idea che l’eccedenza in sé presupponga una divisione della società in classi. In realtà essa, in sé, non presuppone nulla. L’eccedenza può essere il frutto di una comunità basata sull’autoconsumo, sullo schiavismo, sul servaggio o sul lavoro salariato. È piuttosto l’idea di produrre eccedenze appositamente per essere scambiate o vendute sul mercato, al fine di ottenere qualcosa che, dall’esterno, modifichi progressivamente il proprio stile di vita, che appartiene a un’esistenza non più naturale bensì artificiale. È la ricerca costante di beni materiali per aumentare il proprio benessere, le proprie comodità, i propri agi, i propri beni o proprietà, in previsione di un futuro che si ritiene incerto o soltanto per mostrare la propria superiorità, che lascia intendere d’essere in presenza di qualcosa di assai poco naturale.

“Affinché l’oggetto possa essere scambiato – afferma Pesenti – deve accadere una cosa paradossale e cioè che l’oggetto non abbia un valore d’uso per la persona che vuole scambiarlo, sia superfluo al suo bisogno. Ciò è indubbiamente vero nella produzione per il mercato” (p. 56), ovvero nella produzione finalizzata principalmente al mercato.

In realtà tale meccanismo economico non andrebbe considerato soltanto “paradossale”, ma anche e soprattutto “traumatico”. Qui infatti è già venuta meno l’identità umana e naturale del collettivo di appartenenza: si è già dipendenti da qualcosa di esterno alla propria volontà. Si è eterodiretti. Chi non è in grado di capire l’assoluta gravità di una cosa del genere e si mette a criticare l’economia politica borghese, non coglierà mai il nocciolo del problema e farà sempre un’analisi superficiale, epifenomenica.

Sostenere poi che “l’atto individuale è l’atto con cui l’operatore produce quello che serve per i suoi bisogni e l’eccedenza che la produttività del suo lavoro gli permette di produrre”, mentre “l’atto sociale è l’incontro di questi atti di natura individuale, che avviene nel mercato attraverso il fenomeno dello scambio” (p. 57), significa prendersi gioco della realtà.

L’atto individuale iniziale non è affatto un atto individuale libero, ma sempre un atto condizionato dai poteri dominanti, che da tempo si sono staccati dall’esperienza della comunità primitiva. Il mercato non è mai stato il luogo in cui s’incontrano dei produttori che vivono isolati, come Robinson Crusoe. Una produzione finalizzata esclusivamente per il mercato presuppone una progressiva destabilizzazione della produzione per l’autoconsumo. Ciò non può essere fatto da individui isolati, e tanto meno può essere fatto senza il consenso, diretto o indiretto, dei poteri dominanti.

Detto questo, è ridicolo pensare che sul mercato si verifichi una socializzazione da parte dei produttori. È del tutto fuori luogo mettere sui due piatti della bilancia la socializzazione del mercato di epoca schiavistica o capitalistica e una sorta di produzione individuale. Storicamente la produzione è sempre stata sociale, sia per l’autoconsumo che per il mercato. La differenza stava piuttosto nella finalità. Una cosa infatti è produrre eccedenze da destinare a un baratto di cui, volendo, si potrebbe anche fare a meno; un’altra, completamente diversa, è la produzione di beni destinati esclusivamente al mercato, per ottenere un certo guadagno. Sono due forme di socializzazione completamente diverse, tant’è che nel basso Medioevo si regolamentava la produzione per il mercato attraverso le corporazioni di arti e mestieri, in cui vigevano princìpi tipicamente borghesi, anche se non così borghesi come quelli che pretenderanno la fine delle stesse corporazioni.

Questo per dire che la socializzazione che si forma nell’ambito del mercato possiede qualcosa di assolutamente formale sul piano etico, mentre offre qualcosa di sostanziale solo per le esigenze quantitative legate al valore di scambio, cioè in sostanza al prezzo delle merci.

E qui si apre un nuovo capitolo dedicato al lavoro quale criterio per stabilire un valore sufficientemente esatto alle merci che si vendono sul mercato. Ora, che il valore di una merce non coincida mai col suo prezzo, è cosa risaputa. E si può anche concedere al marxismo, in questo sicuramente superiore all’economia politica borghese, che il valore di tale merce possa dipendere dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla, sulla base di un lavoro astratto compiuto da un tipo medio di lavoratore.

Ciò che invece bisogna superare è l’idea che il valore di un bene eccedente debba essere calcolato in maniera quantitativa. Il valore di un bene eccedente, oggetto di scambio, può essere calcolato solo in maniera molto approssimativa e non necessariamente in rapporto a una valutazione di tipo economico. Può essergli infatti attribuito un valore extra-economico, che aumenta o diminuisce in rapporto a valutazioni di tipo etico.

Facciamo un esempio. Se due comunità sono ai ferri corti per questioni di competenza territoriale, il baratto (o lo scambio di doni reciproci) può avere un alto significato simbolico; ma se gli stessi oggetti vengono scambiati in occasione di un matrimonio esogamico tra due comunità del tutto pacifiche, il valore simbolico sarà sicuramente inferiore. Questo per dire che stabilire un valore economico sulla base del lavoro, del tempo impiegato, delle energie profuse, delle risorse utilizzate… fa già parte di una mentalità venale, che non può certamente costituire un incentivo a cambiare stile di vita. E con ciò è inutile procedere nella lettura di manuali del genere: sono i limiti di fondo dei loro presupposti metodologici a impedirlo.

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