Il socialismo delle comunità ristrette

Le idee socialiste non nascono soltanto quando si inizia a parlare di socialismo. Piuttosto si dovrebbe dire che nella storia il socialismo diventa un’idea quando si smette di praticarlo, cioè a partire dal momento in cui si formano le prime civiltà basate sull’urbanizzazione, sulle differenze di ceti e di classi, ecc. Prima di allora, tutta l’esperienza primordiale o primitiva del cosiddetto “uomo preistorico” può essere definita di tipo “socialistico”.

Le parole hanno soltanto un uso convenzionale: quello che conta sono i fatti. Abbiamo iniziato a parlare di “socialismo” usando le più disparate parole. Ed è compito dello storico saper andare al di là delle parole per comprendere i fatti. E i fatti, quando si parla di socialismo, devono essere riconducibili a una cosa sola: la proprietà comune dei mezzi produttivi, in maniera tale che nessuno possa prevalere su altri.

Questa proprietà comune è la base materiale per qualunque altra forma di “socializzazione”. Quindi l’unico criterio che distingue un’esperienza di socialismo da un’altra è il modo in cui si vive tale proprietà. Di conseguenza l’unico criterio che distingue un’idea di socialismo da un’altra è il modo in cui si cerca di realizzare questa esperienza.

Aveva ragione Lenin a puntare l’attenzione su questioni come la tattica e la strategia, che fino ad allora erano considerate patrimonio delle operazioni belliche. Con lui diventano questioni politiche, aventi come obiettivo la conquista del potere, cioè il rovesciamento delle istituzioni di governo. Il concetto di “rivoluzione”, con Lenin, diventa qualcosa di molto concreto, di fattibile, come mai, prima d’allora, s’era visto. Con lui si ha, per la prima volta, l’impressione che il socialismo, dopo 6000 anni di storia basata su conflitti antagonistici irriducibili, poteva passare dall’idea all’esperienza.

La vittoria del socialismo, in Russia, poi tradito dallo stalinismo, dimostrò la superiorità dell’organizzazione del bolscevismo rispetto a tutte le altre correnti che volevano superare lo zarismo. Dimostrò anche la superiorità rispetto a tutte le correnti del socialismo euroccidentale che dicevano di voler costruire un’alternativa al capitalismo. Semmai ci si può chiedere il motivo per cui il leninismo fu subito tradito dallo stalinismo. Qualcosa deve aver fatto difetto. E non si può certo sostenere, compiendo un’opera di sciacallaggio, che l’aberrazione dello stalinismo era già inclusa nel leninismo.

Che l’idea di “socialismo” sia imprescindibile nell’epoca contemporanea, lo dimostra il fatto che anche le esperienze nazi-fasciste vi si richiamavano. Certo, vi possono essere passi avanti in direzione del socialismo, e passi indietro a favore del capitalismo. Tuttavia la tendenza resta sempre verso il recupero di un socialismo perduto, proprio perché il capitalismo non solo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni, ma tende anche, per motivi endogeni, ad aggravarle sempre di più.

Il vero problema sta quindi nel cercare di capire quali possano essere le condizioni per far sì che i tradimenti non siano in grado di avere effetti così devastanti su milioni di persone. Eliminare la possibilità del tradimento è ovviamente impossibile. Ma si deve cercare di rendere quest’azione meno gravosa possibile. Il problema cruciale sta proprio in questo: da un lato, infatti, l’idea del socialismo, per realizzarsi, ha bisogno del concorso di grandi collettività; dall’altro ci si rende facilmente conto che il tradimento degli ideali ha ripercussioni dirette proprio su queste grandi collettività.

L’esperienza leninista ci ha fatto capire che se queste collettività non restano unite, a rivoluzione compiuta, possono facilmente essere sopraffatte dai conservatori del sistema, i quali possono avvalersi di aiuti esterni, da parte di altre forze avverse al socialismo. E tuttavia, una volta superata la reazione, si deve avere l’intelligenza per capire che una gestione “statalistica” della transizione facilmente porterà ad abusi e corruzione, come appunto hanno dimostrato gli orrori dello stalinismo.

Socialismo vuol dire non solo democrazia politica, ma anche autogestione sociale dei bisogni collettivi. Un’autogestione del genere non può essere statalizzata, proprio perché è l’istituzione stessa dello Stato che va abbattuta.

Un’autogestione è autentica se è circoscritta a livello territoriale. La democrazia infatti, per essere autentica, deve essere diretta, ma non potrà mai esserlo se è “statale”. Nell’ambito dello Stato la democrazia può essere solo indiretta, delegata, rappresentativa. È il concetto stesso di “istituzione” che impedisce la democrazia diretta. E là dove questa manca, è impossibile un’autogestione sociale dei bisogni collettivi.

La democrazia e l’autogestione sono possibili soltanto all’interno di comunità ristrette, dove sia possibile un controllo reciproco in forza di una conoscenza personale fra i soggetti che le compongono. Se non comprendiamo questo, non servirà a niente fare delle rivoluzioni per edificare degli Stati con cui sostituirne altri.