LE VERITA’ NEGATE SULLA FINE DI ENRICO MATTEI – 4

di Benito Li Vigni

Il giorno dello sciacallo

La mattina del 27 ottobre Mattei raggiunge Gagliano in elicottero e da un balcone prospiciente il monumento ai caduti, dov’era stato installato un microfono, parla alla folla che preme nella piazza. Gli sono accanto il presidente della Regione D’Angelo, il sindaco del paese e altre autorità locali. Qui Mattei pronuncia l’ultimo discorso della sua vita: un discorso di vibrante umanità con cui ribadisce ancora una volta il suo concetto contro l’emigrazione forzata dei lavoratori siciliani. Mattei era indubbiamente un «meridionalista» convinto. Il concetto della redenzione del Sud, ad opera degli stessi meridionali, e della sua funzione pilota nel processo di sviluppo del Paese, risuonava con insistenza nei suoi discorsi e nelle sue interviste. Sapeva che l’emigrazione meridionale era stata e continuava ad essere un’emorragia incontenibile e una traumatica devastazione democrafica. Che negli ultimi vent’anni almeno quattro milioni di meridionali erano stati costretti ad abbandonare il loro paese; e di questi oltre un milione erano partiti dalla sola Sicilia… S’era attentamente documentato sulla dolorosa scelta della emigrazione che colpiva quelle popolazioni indigenti e che da lungo tempo era diventata il mezzo “curativo” dei gravi mali economici e sociali di cui il Sud d’Italia da tanti anni soffriva. Aveva saputo di tante storie dei disperati delle campagne, cacciati dalle loro case dalla miseria, sconfitti dalla desolazione del latifondo, dallo sfruttamento dei padroni. Raccontava spesso, di essersi commosso fino alle lacrime, leggendo un vecchio reportage giornalistico di Edmondo De Amicis che parlava della massa di disperati, sbarcata come bestiame nel porto di New York, attesi al varco dai nuovi sfruttatori e che faceva pensare “che fosse contata per essere venduta e che non passassero davanti cittadini d’uno stato d’Europa ma vittime d’una razza di ladri di carne umana. Ed era uno spettacolo che rappresentava la fuga di un popolo, una vera e propria diaspora”.

Ecco i passaggi più importanti del discorso:

«Noi siamo convinti che la vostra terra conserva ancora beni nascosti, perciò noi siamo impegnati con tutti i nostri uomini. Dovete ringraziare veramente il vostro presidente per quello che ha fatto per questo paese, per questa provincia povera. Amici miei, anche io vengo da una provincia povera, da un paese povero come il vostro. Pure oggi c’è qua della nostra gente – io sono marchigiano quelli son paesi poverissimi – che viene a lavorare in Sicilia: perché prima che qui, in alta Italia e nel centro-Italia, abbiamo fatto ricerche minerarie come queste, e qui abbiamo creato le scuole, abbiamo creato gli uomini che oggi operano anche in Sicilia: noi contiamo di creare siciliani che operino in Sicilia e pensiamo di mandare anche i siciliani in altre zone d’Italia. Poi, con le riserve di metano che sono state accertate, una grande ricchezza è a disposizione della Sicilia. Amici miei, noi non vi porteremo via niente. Tutto quello che è stato trovato – che abbiamo trovato – è della Sicilia, e il nostro sforzo fatto per la Sicilia è per voi. Giustamente il vostro presidente diceva che noi non abbiamo nessun profitto personale. È vero; noi lavoriamo per convinzione. Con la convinzione che il nostro Paese, e la Sicilia, e la vostra provincia possono andare verso un maggior benessere; che ci possa essere lavoro per tutti; e si possa andare verso una maggiore dignità personale e una maggiore libertà. Amici miei, io vi dico solo questo: noi ci sentiamo impegnati con voi per quanto c’è da fare in questa terra. Noi non portiamo via il metano, il metano rimane in Sicilia, rimane per le industrie, per tutte le iniziative, per tutto quello che la Sicilia dovrà esprimere».

Dalla piazza una voce lo interrompe: “Così si può levare questa miseria di Gagliano”. Rivolgendosi all’anonimo Mattei dice:

«Amico mio, io non so come lei si chiami, ma anch’io ero un povero come lei; e anch’io ho dovuto emigrare perché il mio paese non mi dava lavoro, sono andato al nord, e adesso dal nord stiamo tornando al sud con tutta l’esperienza acquistata. Noi ci impegniamo con le nostre forze, con le nostre conoscenze, con i nostri uomini, a dare tutto il nostro contributo necessario per lo sviluppo e l’industrializzazione della Sicilia e della vostra provincia».

Dalla folla qualcuno grida. «Resti tra noi, ingegnere Mattei». Interrompendosi il presidente dell’Eni chiede chi avesse parlato, «Scardavilli», rispose una voce. E Mattei di rimando:

«Mi scuso di non poter restare tra voi, ma dovete sapere che ho alle mie dipendenze 50 mila persone che ogni giorno hanno bisogno di me: sono 160 ingegneri, 300 geologi e decine di migliaia di specialisti che si muovono in tutto il mondo».

La folla applaude e da più parti si chiede di poter godere ancora della presenza di Mattei, il quale così conclude:

«Sapevo che un giorno sarei venuto in mezzo a voi e che voi mi avreste guardato con simpatia e con affetto. Abbiamo discusso, con i vostri rappresentanti, dei vostri problemi, molti dei quali non sono che problemini. Non assorbiremo 70 persone, ma tutti coloro che potrete darmi, tutti, e sarà necessario che tornino molti di quelli che sono andati all’estero perché a Gagliano avremo bisogno anche di loro. Noi non vi porremo dei limiti. Noi vogliamo solo stabilire una collaborazione che duri per sempre. C’è una scuola di qualificazione da fare? Mi darete il vostro contributo indicandomi i corsi che dovranno essere istituiti. Sono piccoli problemi: l’importante è questa enorme massa di risorse che da oggi è messa a disposizione della Sicilia, e sulla quale si potrà e si dovrà costruire, se ci sarà l’impegno di tutti».

Terminato il discorso, Mattei scende in piazza e s’immerge nel gran tripudio di folla: applausi, evviva, inviti a ritornare e lanci di coriandoli. Alle 13 pranza a Nicosia. C’è anche D’Angelo, col quale prende impegno di rimuovere Guarrasi da ogni incarico, soprattutto dalla carica di consigliere di amministrazione dell’Anic-Gela; un impegno che serve a togliere un po’ di gelo nel rapporto tra i due. Poi, sempre a bordo dell’elicottero dell’Agip, si dirige alla volta di Catania. Fatte alcune telefonate e ricevute delle persone Mattei si avvia verso l’aeroporto di Fontanarossa per prender posto sul bireattore “Morane-Saulnier” che lo dovrà portare a Milano.

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Come abbiamo detto, il giorno precedente, 26 ottobre, Mattei aveva impartito l’ordine di portare il suo aereo all’aeroporto di Catania che reputava più sicuro e più affidabile rispetto alla vecchia pista militare di Gela. Ma quella notte era avvenuto un fatto grave, inaudito. L’Isnap all’insaputa del pilota Bertuzzi, recatosi a pernottare in un grande albergo della città, era stato stranamente portato in un’area militare, cosa alquanto atipica e al di fuori delle regole per un velivolo d’uso civile. E fu nell’officina «grandi riparazioni» dell’aeroporto di Catania che di notte misteriosi personaggi, tecnicamente esperti, poterono armeggiare indisturbati all’interno del velivolo. Il sabotaggio fu preparato nei minimi dettagli per far sembrare un incidente quello che sarebbe stato invece un attentato. Infatti la carica esplosiva doveva provocare la perdita di controllo dell’aereo e il suo precisare in rovinosa caduta libera come se fosse un normale incidente aviatorio. A Catania, dunque, tutto era stato previsto, organizzato, pianificato da tempo nei minimi particolari: i tecnici da utilizzare, il tipo di esplosivo, la tecnica da applicare, la strategia da usare nell’attentato, il luogo dove attuare lo sciagurato progetto; un’area militare protetta e inaccessibile agli estranei al di fuori d’ogni sospetto. In questa logica va dunque interpretata la «tempestiva» scelta, presa poche ore dopo la tragedia di affidare l’inchiesta a una commissione dell’aeronautica militare che pervenne a un risultato falso e ambiguo, in apparenza coerente con la tecnica applicata. Un progetto criminale che nei cui aspetti e nella modalità esecutiva, secondo la procura di Pavia, si proietta l’ombra inquietante dei servizi segreti.

Alla fine del 1995, dopo trentatré anni di bugie, grazie alla perizia ordinata dalla procura di Pavia verrà fuori un primo elemento di certezza: l’aereo di Mattei è esploso in volo, in prossimità della pista dell’aeroporto di Linate, a causa di una carica di cento grammi di «Compound B», potente e dirompente esplosivo, posta dietro il cruscotto dell’aeromobile, collegata con il congegno d’apertura del carrello in modo da esplodere poco prima dell’atterraggio, come di fatto avvenne. Carica ovviamente collocatavi prima della partenza all’aeroporto di Catania. Per il pubblico ministero Vincenzo Calia della procura di Pavia che nel 1994 ha riaperto l’inchiesta, Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista William Mc Hale sono stati uccisi da chi o da coloro che hanno messo la bomba sull’aereo.

Ma quale aereo?

Un fatto clamoroso aggiunge mistero a mistero in questo ingarbugliato giallo italiano. Infatti, il giudice Calia andando in fondo nell’inchiesta avrebbe scoperto qualcosa di strano. Il Morane Saulnier di Mattei, quel tragico giorno a Catania, ha registrato due rifornimenti di carburante in poche ore; non giustificati per le poche miglia percorse dal velivolo. Si è desunto quindi che a disposizione di Mattei quel giorno ci fossero in Sicilia due aerei Snam: uno per volare, cambiandolo continuamente, e l’altro per fungere da “specchietto delle allodole”, per confondere gli eventuali attentatori. D’altra parte a giustificare questa preacauzione c’erano state le minacce ricevute dal presidente dell’Eni e le tensioni che erano pericolosamente cresciute attorno alla sua “politica” e quindi alla sua persona. L’esistenza di due aerei per motivi di sicurezza pone un’altra questione decisamente inquietante: per conoscere tutto questo e per sapere quale fosse l’aereo da sabotare bisognava essere persone molto vicine a Mattei. Persone in grado di agire con sciagurata decisione sicuri di non dare alcun sospetto. Il giudice Calia con fatica ha fatto ammettere ai vertici dell’Eni l’esistenza dei due aerei ma non è riuscito a rintracciare l’aereo superstite perché nel frattempo era stato smontato e venduto negli Stati Uniti con un contratto firmato da Eugenio Cefis allora presidente della Snam. Il secondo aereo presente in Sicilia quei giorni portava la sigla I-Snai ed era pilotato da Ferdinando Bignardi la cui sorte farà sorgere inquietanti sospetti. Lasciata la Snam, Bignardi operò come pilota di aerei privati e in questa veste aveva portato in Kenya l’avvocato Gianni Agnelli e amici per un tour africano. Era il capodanno del 1980. Quel giorno, Bignardi sostò a Nairobi, all’hotel Norfolk, restando vittima di una esplosione causata da una bomba collocata dai servizi segreti israeliani che intendevano così vendicare il raid di Entebbe. Una semplice coincidenza, oppure il Bignardi quella notte venne ucciso da chi intendeva eliminare uno scomodo testimone?

E tre domande perciò s’impongono: chi doveva proteggere Mattei? Chi doveva garantire la sorveglianza del suo aereo in quell’aeroporto? Chi segnalò l’aereo da sabotare?

Dopo il durissimo messaggio di morte da parte dell’Oas (28 luglio 1961), attorno al presidente dell’Eni vengono rafforzate le misure di sicurezza. Lui non si fida né della polizia né dei servizi segreti, e chiama alcuni ex-partigiani a occuparsi della sua protezione. A coordinare il servizio di sicurezza interno chiama Rino Pacchetti, medaglia d’oro della Resistenza, suo vecchio compagno ai tempi della lotta clandestina. Pacchetti è un duro, ed è intransigente anche coi massimi dirigenti dell’Eni e, soprattutto, è un uomo della massima affidabilità. Oltre al servizio di sicurezza interno coordinato da Pacchetti, c’è quello del Sifar (Servizi Segreti delle Forze Armate) diretto da Massimiliano Gritti e Giovanni Allavena; quest’ultimo un fedelissimo del generale De Lorenzo, quello del tentativo di colpo di Stato nel 1964. Allavena, nel giugno 1965 diventerà capo del Sifar e, nell’autunno 1968, entrerà a far parte della P2 del “venerabile” Licio Gelli che così eredita le copie dei fascicoli del Sifar. Sono gli anni tragici della strategia della tensione. Il magistrato Aldo Rizzo, ex-componente della commissione parlamentare sulla P2, dirà: «Non dobbiamo dimenticare che dopo il ’68 Licio Gelli, da Arezzo comincia la sua attività di reclutamento e forma la P2 all’interno della massoneria. In questo contesto si deve capire la vicenda Mattei…».

Alla vigilia dell’ultimo viaggio di Mattei in Sicilia, qualcuno, improvvisamente prende una decisione che, alla luce di quanto accade all’aeroporto di Catania, appare quanto mai ingiustificata. Rino Pacchetti viene estromesso dall’incarico e riceve l’ordine perentorio di sospendere ogni sorveglianza; di conseguenza le misure di sicurezza si allentano. Il risultato è quello che sappiamo. Che vi sia stato o no quest’ordine, sta di fatto che Mattei a Catania non fu protetto né dal suo servizio di sicurezza né da altri. Questa situazione di mancata sorveglianza appare tanto più strana e tale da far sorgere gravi sospetti se si considera lo stato di tensione e di pericolo in cui viveva Mattei in qui giorni; tensione e preoccupazione testimoniata dal fratello Italo al quale Mattei alla vigilia di quel suo ultimo tragico viaggio in Sicilia, aveva detto: «Se mi vogliono ammazzare facciano pure». Lo stesso Pacchetti, mettendo in risalto la stranezza dell’ordine di sospendere la sorveglianza proprio per il viaggio del 26 ottobre, dichiarerà: «Qualche pezzo grosso ha voluto minimizzare il pericolo che correva Mattei, riuscendo forse a convincerlo ad escludermi dal servizio d’ordine». Racconterà, poi, che Mattei aveva solo fiducia in lui e che un giorno gli disse: «Per la mia protezione hai carta bianca. Ricordati che io non mi fido né dei carabinieri, né della polizia, né dei servizi segreti: non mi fido di nessuno».

Oltre alla morte del giornalista De Mauro anche la fine di Marino e Irnerio Loretti sarebbe legata alla vicenda Mattei. Lo sostiene il p.m. Vincenzo Calia che ha chiesto l’apertura da parte dei giudici di Velletri del fascicolo relativo all’incidente aereo nel quale i due morirono. Marino Loretti era il motorista dell’aereo di Mattei ed era legato da antica amicizia al comandante Irnerio Bertuzzi insieme al quale aveva volato come secondo pilota per cinque anni. Una amicizia talmente profonda che lo aveva spinto a dare il nome di Irnerio al proprio figlio. Era uno dei migliori tecnici aeronautici della Snam e godeva della stima di Mattei che in lui aveva posto la sua piena fiducia. Nella primavera del 1962, qualcuno però ritenne necessario metterlo in cattiva luce e trasferirlo in altra sede privando così il presidente dell’Eni del suo miglior motorista e di uno scrupoloso controllore del proprio velivolo. Evidentemente, come sostiene il giudice Calia, c’era chi da tempo stava preparando l’attentato contro Mattei e volle allontanare il Loretti per sgombrare il campo da ogni difficoltà; nella fattispecie, da un tecnico fedele la cui presenza avrebbe reso difficile l’opera dei sabotatori. Morto Mattei, Marino Loretti, addolorato per quella tragica fine e non ravvisando motivi validi per continuare il suo rapporto con la Snam, decise di dimettersi. Era il 2 gennaio 1963.

Subito dopo acquistò in proprio un velivolo De Havilland, lo mise a posto e cominciò a operare nel settore del trasporto privato come servizio aerotaxi, coinvolgendo anche il figlio Irnerio. Intanto le inchieste sulla fine di Enrico Mattei continuavano a negare sistematicamente ogni verità rivelando l’esistenza di interessi e di forze occulte interessati a svolgere un evidente impegno depistante. A Marino Loretti non piaceva tutto questo. Avvertiva una sorta di forte risentimento nei confronti di chi lo aveva allontanato da Mattei per mettere in atto lo scellerato progetto criminale. Al risentimento s’era aggiunto il disagio che avvertiva per il silenzio sceso su quella tragedia che sentiva anche sua.

Il 14 agosto dello stesso anno, una giornata limpida di luce squillante e con un leggero zefiro che soffiava lungo la pista dell’aeroporto romano di Ciampino, Marino Loretti decollò, insieme al figlio Irnerio col suo De Havilland diretto all’aeroporto dell’Urbe. Alzatosi appena in volo, non passò un minuto che il motore di destra si bloccò sussultando. Un attimo e si bloccò anche quello di sinistra vanificando il disperato tentativo del pilota di ritornare in pista con la forza di un solo motore. Inevitabile fu la rovinosa caduta in località Sassone Acquacetosa di Marino, e la morte di entrambi. La commissione di inchiesta dell’aeronautica militare presentò quasi subito la sua relazione sostenendo che il velivolo era caduto per mancanza di carburante. Risultato questo che si rivelò chiaramente falso in quanto gli abitanti della zona dove l’aereo era precipitato avevano avvertito sul posto un intenso odore di gasolio. Riaperta l’inchiesta nel 1994 per il caso Mattei, i periti si sono interessati anche della fine di Marino e Irnerio Loretti, sostenendo l’ipotesi considerata ampiamente attendibile che nel serbatoio del De Havilland fosse stata introdotta una certa quantità d’acqua, causa del blocco immediato dei motori e della conseguente caduta del velivolo. Evidentemente qualcuno temeva che Marino Loretti, forte della sua profonda esperienza e conoscenza del bireattore di Mattei potesse chiarire quei «punti oscuri» che dovevano rimanere un impenetrabile mistero. Anche per questo crimine la Procura di Pavia ha sospettato l’intervento a tutto campo dei servizi segreti e della loro tragica regia.

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Era evidente che Mattei, forte del pieno riconoscimento politico statunitense, che sarebbe stato solennemente sancito con il previsto incontro con J.F. Kennedy, avrebbe accresciuto la sua influenza politica soprattutto in direzione di una svolta di centrosinistra in Italia, svolta fortemente contrastata da quegli stessi settori politici, anche all’interno della maggioranza del suo partito, che temevano e combattevano il suo «contropotere». L’accordo petrolifero di Algeri che egli avrebbe dovuto firmare con Ben Bella il 6 novembre 1962, rientrava in un vasto progetto energetico infrastrutturale per l’Europa occidentale, agganciato all’Africa del Nord e all’Est europeo. Un accordo di enorme importanza strategica la cui potenzialità era rafforzata dalla svolta impressa alla politica francese dal generale De Gaulle. Dal suo ritorno al potere, nel 1958, la Francia non svolgeva più un ruolo subalterno alla potenza coloniale britannica. De Gaulle era riuscito a dare uno sbocco pacifico alla guerra d’Algeria, voltando pagina sul passato coloniale della Repubblica e, con un’apertura storica verso la Germania del cancelliere Adenauer, aveva posto le basi per un futuro di cooperazione estensibile a tutta l’Europa, «dall’Atlantico agli Urali».

Questi sviluppi ponevano di fatto una minaccia strategica evidente e immediata anche al sistema di potere all’oligarchia britannica; non è un caso che De Gaulle fu oggetto di numerosi attacchi terroristici a opera del gruppo Oas, finanziati e sostenuti dalla stessa struttura, la Permindex, responsabile della morte di Kennedy. L’accordo algerino da un lato e l’incontro con Kennedy dall’altro rappresentarono secondo alcuni osservatori i motivi scatenanti dell’attentato contro Mattei che venne fatto tornare in Sicilia prima che prendessero corpo i due avvenimenti. Le compagnie petrolifere internazionali che temevano l’accordo di Algeri come un grave pericolo per la propria egemonia consideravano «nemici» sia Kennedy che Mattei. I nemici interni temevano l’ulteriore crescita del potere politico del presidente dell’Eni per gli effetti eversivi del loro sistema di potere. Un complesso di elementi farebbe ritenere possibile che il «personaggio» che passò l’ordine di eliminare Mattei possa essere stato l’uomo di raccordo con i grandi petrolieri, un uomo in grado manovrare i servizi segreti, la mafia e forse le «schegge impazzite» della Cia. In buona sostanza un uomo in grado di ordinare un «delitto di Stato». Una ipotesi questa che non escluderebbe anche una «pista italiana» seguita dalla procura di Pavia dopo la riapertura dell’inchiesta nel 1994.

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Sulla fine di Mattei, c’è un “personaggio” che per le sue relazioni potrebbe far risalire ad una cospirazione dove gli spezzoni dell’apparato d’intelligence “parallelo” americano operavano in combutta con il crimine organizzato e per conto e sotto controllo strategico dei servizi segreti e dell’oligarchia britannica. Una ipotesi questa, dibattuta nel corso della conferenza internazionale tenutasi a Milano il 27 novembre 1992, organizzata dallo Schiller Institut e dalla Executive Intelligence Review nel trentennale della scomparsa di Mattei, che porterebbe al famigerato Carlos Marcello, il potente capomafia italo-americano di New Orleans, che era stato visto a Catania nei due giorni precedenti quel tragico 26 ottobre 1962. Che faceva Carlos Marcello nella città siciliana in quel periodo? Solo una strana coincidenza? Un interrogativo questo che s’ingigantisce se si pensa che Marcello era uno dei maggiori azionisti della United Air Taxi dove lavorava il pilota David Ferrie. Ferrie e la United Air Taxi erano impegnati, tra le altre cose, in un traffico illegale d’armi per la International Trade Mark e la Permindex di Clay Shaw; si trattava delle stesse persone e della stessa struttura di spionaggio britannico responsabili dell’assassinio del presidente J. F. Kennedy. Frank Ragano nel suo libro The mob Lawyer (L’avvocato della mafia) uscito negli Usa nel maggio 1994, addebita a Carlos Marcello un coinvolgimento diretto in questo assassinio. Ragano, avvocato del boss mafioso della Florida Santo Trafficante, ha raccontato che il suo assistito, quattro giorni prima di morire, avrebbe ammesso il ruolo di Cosa Nostra nell’uccisione del presidente Kennedy. Secondo Ragano, il complotto contro il presidente americano fu ordito da Trafficante e da Carlos Marcello.

La rivista “Panorama” ha scritto che «nell’ottobre del 1962 Carlos Marcello prese parte a un convegno segreto a Tunisi, organizzato da petrolieri americani. Dopo il convegno, con un certo Badalamenti, passò da Tunisi ad Algeri, da qui a Madrid e quindi a Catania. Carlos Marcello era a Catania due giorni prima della morte di Mattei». L’ex colonnello dei servizi segreti americani Fletcher Prouty, il famoso “mister X” del film JFK di Oliver Stone sull’assassinio di Kennedy, rivolgendosi alla menzionata conferenza di Milano, ha indicato le stesse responsabilità strategiche per gli assassini di Kennedy e di Mattei. Kennedy aveva intrapreso sempre più decisamente una politica indipendente, al di fuori del controllo dell’oligarchia anglo-americana. Mattei era riuscito a scuotere in profondità il sistema imperialistico del cartello delle “Sette Sorelle” petrolifere, ossia uno dei centri di potere mondiale della medesima oligarchia. “Kennedy e Mattei – disse allora Prounty – non sono stati uccisi a casaccio”.

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Ora, a distanza di ben 46 anni, l’irrinunciabile esigenza di verità per un delitto che ha segnato la storia del nostro Paese, ci spinge a chiedere che venga tolto il “segreto di Stato” sul “Caso Mattei” allo scopo di arrivare ai veri mandanti occulti anche per quanto concerne la morte del giornalista Mauro De Mauro, rapito e ucciso mentre stava indagando sulla fine del Presidente dell’Eni.

2 commenti
  1. Pierangelo Sardi
    Pierangelo Sardi says:

    Nel website sopra indicato (non ancora dotato del Forum previsto) si ricercano i meccanismi psicologici che potrebbero spingere gli italiani a ritornare sulla morte di Mattei. In breve, sono gli stessi con cui San Paolo ha generato il cristianesimo. Ma molti altri movimenti sono ripartiti dall’ammirazione per il sacrificio volontario di un uomo molto potente e benefico. Scrivetemi alla mia mail personale

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