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Uscire dallo Stato e dal mercato

Per uscire dal sistema in cui domina il primato del valore di scambio è sufficiente convincersi di due cose: non è l’individuo che ha bisogno del mercato, ma il contrario; non è l’individuo che ha bisogno dello Stato, ma il contrario.

Stato e mercato sono però due realtà sociali: per poterle eliminare o ridurre al minimo o trasformarle radicalmente occorrono esperienze sociali. L’individuo, al di fuori di un collettivo di riferimento, cui organicamente appartiene, è solo un’astrazione.

Si tratta quindi di costruire una realtà sociale democratica, egualitaria, da opporre a due realtà sociali la cui democraticità è solo apparente. Nell’ambito dello Stato la democrazia è indicata dalle elezioni, con cui si scelgono i parlamentari (poi vi sono i referendum, quando si tratta di scegliere tra due opzioni).

Nell’ambito del mercato la democrazia sta nello scambio di equivalenti, nell’uso del denaro come mezzo astratto di scambio universale. Nessuno è obbligato ad andare a comprare merci, ma se non lo fa, non riesce a vivere. Come nello Stato comandano i poteri forti (politici, burocratici e militari), così nel mercato comandano i monopoli, gli speculatori, gli affaristi, i mercanti.

Non c’è mercato senza Stato, poiché questo garantisce la difesa dei produttori, che vivono sulle spalle dei soggetti deboli (i consumatori). Non c’è Stato senza mercato, poiché il mercato garantisce ricchezza, di cui una parte significativa, attraverso le tasse e il plusvalore estorto ai lavoratori, serve a mantenere le classi parassitarie (politici, burocrati e militari), le quali devono assicurare l’ordine a favore dei ceti possidenti.

Uscire dal sistema significa saper dimostrare a se stessi, organizzati in maniera collettiva, che si può fare a meno sia dello Stato che del mercato. I modi per dimostrarlo sono due: democrazia diretta e autoconsumo. Questi due aspetti vanno considerati preliminari a tutto, cioè a qualunque dibattito, a qualunque lettura e scrittura. Ed essi non possono in alcun modo svilupparsi nell’ambito del capitalismo. Mentre la trasformazione dello schiavo in colono è potuta avvenire nell’ambito dello schiavismo, e quella da colono o servo della gleba a operaio salariato è potuta avvenire nell’ambito del feudalesimo, quella da operaio produttore libero non può avvenire nell’ambito del capitalismo, se non come eccezione che conferma la regola: lo sfruttamento del lavoro altrui.

Questa regola è così tassativa, nel capitalismo, che anche lo stesso lavoratore diventa a sua volta, di necessità, uno sfruttatore del lavoro altrui: è sufficiente infatti che depositi i suoi risparmi in una banca o che riceva uno stipendio statale o che produca una merce per il mercato. Perché tutti i lavoratori siano liberi occorre uscire dal sistema. Nell’ambito del capitalismo non c’è nulla che possa anticipare qualcosa del socialismo democratico. Se lo si pensa è perché ingenuamente si crede di poter fare a meno della responsabilità di una rivoluzione: non sono pochi i soggetti pseudo-rivoluzionari che non vogliono combattere politicamente il sistema, ma limitarsi semplicemente ad attendere ch’esso imploda da solo, a causa delle proprie interne contraddizioni, com’è successo in Russia.

L’abbattimento del sistema è preliminare a qualunque altra cosa. Si può farlo attraverso la cultura – come voleva l’impostazione gramsciana -, o entrando direttamente in politica, ma l’obiettivo deve restare la conquista del potere per il rovesciamento del sistema. E non si può far questo come se fosse un semplice colpo di stato: occorre un’autentica rivoluzione di popolo. Sono due cose completamente diverse, l’una opposta all’altra. Se si tenta di creare delle “isole di socialismo”, dove vige la democrazia diretta e l’autoconsumo, si ripeteranno gli stessi errori del “socialismo utopistico”, i cui esperimenti alternativi sono stati tutti riassorbiti dal sistema.

Il sistema infatti ha il potere di condizionare in tutti i modi, materiali e culturali, l’intera vita sociale, e dispone inoltre della forza militare per porre fine, come e quando vuole, a ciò che può ostacolarlo democraticamente. Ecco perché bisogna convincersi che, in ultima istanza, il sistema può essere abbattuto solo con la forza, cioè con una rivoluzione politica, capace di usare gli stessi strumenti coercitivi del sistema per fronteggiare l’eventuale reazione violenta delle classi che non vogliono lasciarsi espropriare di nulla.

Solo quando la controrivoluzione ha avuto termine, si possono porre le basi della progressiva estinzione dello Stato, a favore della democrazia diretta, e, in virtù del primato del valore d’uso, si può pensare a una progressiva eliminazione del mercato basato sul primato del valore di scambio. Bisogna porre le comunità locali in condizioni di difendersi da sole da chiunque possa minacciarle di distruzione.

Che ci voglia una dura e lunga transizione dal capitalismo al socialismo democratico e autogestito, è pacifico. Il capitalismo non ha solo sconvolto tutti i rapporti umani, ma anche i rapporti con l’ambiente, e l’ha fatto in un periodo lunghissimo, praticamente millenario. L’importante però è aver chiaro che l’alternativa al capitale deve essere radicale: qualunque concessione venga fatta anche a uno solo degli aspetti del sistema da abbattere, andrà a influire su tutto il resto. Il fallimento del cosiddetto “socialismo reale”, che pretendeva di poggiare su basi “scientifiche”, è un esempio da tenere sempre presente.

La moderna credulità

La credulità (o creduloneria) non è una prerogativa dei credenti, almeno non più di quanto oggi non lo sia per i non-credenti. Per capirci sul significato del termine, bisognerebbe anzitutto definirlo, ma la cosa non è facile.

Di regola, infatti, si è soliti applicare questo atteggiamento a una determinata categoria di persone: quelle che hanno una fede religiosa. Diciamo che chi crede in cose che vanno oltre la ragione umana è un ingenuo, e questo si verifica soprattutto tra i credenti, abituati per tradizione a considerare veri i miracoli, siano essi in forma di divina provvidenza, di inspiegabili mutazioni fisiche o di poteri sovrannaturali.

Oggi tuttavia, dopo mezzo millennio di secolarizzazione, non ha senso associare la credulità alla sola categoria dei credenti. Sono diventate troppe le persone non-credenti per rendere ancora legittima un’attribuzione così stretta.

Molti tra i non-credenti (agnostici o atei che siano) non si rendono conto di vivere, seppure in forma laicizzata, gli stessi atteggiamenti di credulità dei credenti. E questo è naturale. La religione ha una storia molto più lunga e per liberarsi dei suoi condizionamenti ci vorrà sicuramente molto tempo. Sicché può apparire del tutto normale che p.es. in luogo della “divina provvidenza” si creda nella “fortuna inaspettata”. Eventualmente, per costoro, saranno le vicende della vita a far capire che gli uomini devono appropriarsi del loro destino, per sentirsi davvero liberi.

Il problema però è un altro. Oggi la credulità non riguarda solo i credenti o i laici che si portano ancora dentro i condizionamenti della fede. Riguarda anche gli atei o gli agnostici convinti, quelli che pensano d’essersi emancipati definitivamente dalle chimere del passato. Li riguarda da vicino quando credono che determinate cose umane, create dagli uomini, possano funzionare da sole, come per magia o per incanto. P.es. le istituzioni o gli Stati, i quali, proprio a motivo della loro astrattezza, favoriscono gli atteggiamenti deresponsabilizzanti, quelli tipici di chi delega ad altri funzioni o poteri.

Sono istituzioni umane, messe in piedi contro forme clericali di autoritarismo del passato feudale, che però, in ultima istanza, riproducono, seppur laicamente, gli stessi difetti di quelle forme.

Una delle credulità più tipiche delle società borghesi è quella di ritenere che i mercati abbiano in sé la facoltà di risolvere ogni problema. Il valore di scambio è come un feticcio da adorare, un tabù inviolabile. Il valore d’uso, che implica l’autoconsumo, non si deve neppur nominare.

Gli Stati sono lo strumento principale di cui la borghesia si serve per dimostrare, a chi non vi crede, che la logica del mercato è l’unica in grado di garantire la democrazia. La stessa democrazia delegata o rappresentativa, che si esercita nei parlamenti nazionali, è la quintessenza della credulità politica. Ai cittadini vien fatto credere che, votando i loro rappresentanti, questi faranno davvero la volontà degli elettori.

Altri miraggi creati artificialmente dai poteri costituiti riguardano il nostro rapporto con la natura. Nonostante i periodici disastri causati da un uso dissennato delle risorse ambientali, ci viene sempre detto che il primato spetta all’uomo, alle sue esigenze (di lavoro, qualunque esso sia) e che la natura è soltanto uno strumento per soddisfarle al meglio.

E noi siamo convinti che questo ragionamento sia giusto, proprio perché ce ne fanno sempre un altro collaterale, e cioè che ad ogni problema si può facilmente trovare una soluzione con la nostra scienza e tecnologia, e che quando non la si trova non è per un limite oggettivo, ma per una mancanza di volontà politica.

Insomma noi viviamo come in una gigantesca bolla di sapone, nel mondo dei sogni. Siamo creduloni anche in quanto atei o agnostici convinti, proprio perché abbiamo uno strano culto del progresso e non ci piacciono i disfattisti, i catastrofisti. Vogliamo essere ottimisti ad oltranza, anche perché non vediamo all’orizzonte alternative davvero praticabili.

Ci piace credere che, in un modo o nell’altro, presto o tardi, le cose si aggiusteranno. E ci dispiace vedere che chi ci ha messo dentro questa bolla, ora stia approfittando della nostra buona fede, della nostra predisposizione alla credulità.

Ecco ora abbiamo forse trovato la definizione che prima cercavamo: credulità vuol dire essere indotti a credere che un potere a noi esterno abbia, nei confronti dei problemi da risolvere, più risorse di quante ne abbiamo noi.