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Gli esiti delle guerre civili

La Francia e l’Inghilterra sono diventate due grandi nazioni (coi rispettivi imperi mondiali) solo dopo cocenti sconfitte in politica estera e sanguinose guerre civili, che la politica interna, fosse essa autoritaria o diplomatica, non seppe in alcun modo impedire.

Delle due nazioni, quella che subì più sconvolgimenti interni, di più lunga durata e di più forte intensità fu l’Inghilterra, che, non per nulla, diventò la prima nazione al mondo sino alla fine della seconda guerra mondiale.

L’inizio della catastrofe inglese porta la data della battaglia di Bouvines (1214), con cui la Francia, appoggiata dal papato, ebbe la meglio sul sovrano inglese Giovanni Senza Terra e sull’imperatore tedesco Ottone IV di Brunswick, iniziando seriamente a pensare alla propria unificazione nazionale.

Quella fu una battaglia storica, la prima tra monarchie cattoliche. La sconfitta inglese comportò addirittura che la corona dovette accettare la prima Costituzione democratica del mondo moderno: la Magna Charta Libertatum (1215) e nel 1258, con le Provvisioni di Oxford, il primo Parlamento europeo, diviso in Camera Alta (nobiliare) e Camera Bassa (borghese).

La dinastia Lancaster cercò di trasformare l’Inghilterra da paese agricolo-feudale a borghese, senza però riuscirvi, anche perché proprio sotto questa dinastia scoppiò, per motivi formalmente dinastici, la guerra dei Cent’anni (1337-1453) contro la Francia, la quale ebbe la meglio, cacciando definitivamente gli inglesi dal proprio territorio.

Dopo questa guerra la Francia cercò, a partire dal 1494, di occupare il nostro Mezzogiorno, che nel 1246 il papato aveva concesso in feudo agli Angioini per eliminare gli Svevi, e che era stato loro sottratto dagli Aragonesi, chiamati dai siciliani durante la guerra del Vespro (1282-1302), e poi dilagati in tutto il Mezzogiorno sino alla vittoria definitiva a Napoli nel 1442.

Tuttavia dal confronto con la Spagna, enormemente arricchitasi dopo il 1492, la Francia uscì sconfitta (pace di Cateau-Cambresis del 1559) e dovette rassegnarsi a non occupare più l’Italia sino ai tempi di Napoleone.

Dal canto suo l’Inghilterra, distrutta dalla guerra dei Cent’anni, si trovò immersa in una durissima guerra civile, detta delle Due Rose (bianca e rossa), in cui due Casati nobiliari, York e Lancaster, si distrussero a vicenda per trent’anni (1455-85), sino a quando vennero sostituiti dalla dinastia dei Tudor, la quale però, avendo scelto la riforma anglicana come ideologia e la borghesia come classe di riferimento, si trovò ben presto a scontrarsi con la resistenza dei cattolici e dei feudatari, capeggiati dagli Stuart.

La rivoluzione inglese fu durissima e lunghissima: dal 1603 al 1688, nel corso della quale i puritani calvinisti, perseguitati dai cattolici e dagli anglicani, fuggirono nell’America del Nord, ponendo le basi di quello che sarebbe diventato, dopo la seconda guerra mondiale, lo Stato più forte del mondo.

La Francia comunque non restò con le mani in mano, poiché, dopo quarant’anni di guerra civile (1559-98), immediatamente successiva alla sconfitta in Italia contro la Spagna, e che si concluse con l’Editto di Nantes, che assegnò piena libertà agli ugonotti calvinisti, decise di far scoppiare una nuova guerra, questa volta contro una Spagna strettamente alleata all’impero asburgico. È la famosa guerra dei Trent’anni (1618-48), in cui la Francia ebbe la meglio, riuscendo persino a insediare un proprio ramo, quello Borbone, sul trono spagnolo, ancora oggi esistente.

La Spagna, che aveva conquistato le terre americane in veste di paese feudale, ad un certo punto s’era accorta di non avere sufficienti mezzi contro nazioni di tipo borghese: la sua stessa flotta navale era già stata interamente distrutta da quella inglese nel 1588.

Quindi praticamente nel corso del XVII sec. si formarono in Europa due nazioni molto potenti: una sul continente, l’altra sui mari. E mentre l’Inghilterra non riuscirà mai più a conquistare militarmente l’Europa, la Francia invece riuscirà, seppur in ritardo rispetto agli inglesi, a farsi un impero coloniale di non poco conto: il ritardo peraltro venne recuperato proprio dopo la rivoluzione di fine Settecento, con cui si eliminò l’intera classe feudale.

Tutto questo per dire che le sconfitte che un paese subisce all’estero e le devastazioni procurate all’interno dalle guerre civili, di per sé non determinano affatto uno svolgimento negativo degli eventi. Anzi, i fatti hanno dimostrato che quanto più forti sono gli sconvolgimenti, tanto più è facile la transizione verso nuovi sistemi sociali. Questo perché le vecchie classi sociali subiscono un trauma da cui non riescono più a riprendersi, se non modificando radicalmente i propri comportamenti. Probabilmente la Francia ebbe bisogno di una propria cruenta rivoluzione un secolo dopo quella inglese proprio perché lo scontro tra aristocrazia e borghesia non era stato così risoluto nei secoli precedenti.

Da noi invece le guerre civili sono state molto rare e ci si è affidati di più al compromesso tra forze progressive e forze retrive. Le abbiamo avute ai tempi di Mario e Silla, che portarono all’istituzione del principato imperiale, e di nuovo nell’Ottocento per formare una nazione unita, che non a caso iniziò il proprio colonialismo in Africa, avendo creato più problemi di quanti ne aveva risolti; e poi ancora sotto il fascismo, che, non avendo risolto alcun vero problema economico, di nuovo portò all’avventura coloniale in Africa e nei Balcani;e poi ancora con la Resistenza, che portò l’Italia, tradendo se stessa, nell’alveo della democrazia formale borghese, all’americana; e poi infine nel decennio 1968-78, ove si contestò il formalismo della democrazia parlamentare, eliminando gli ultimi residui dell’autoritarismo fascista, senza però costituire alcuna valida alternativa alle contraddizioni del capitale.

Quanto più forti sono state le guerre civili in favore della borghesia, tanto più gli Stati han cercato di espandersi all’estero, a spese di altre popolazioni e di altri Stati. Oggi una guerra civile, se davvero vuole raggiungere la democrazia, non può più sperare di risolvere con la politica estera i problemi che non riesce a risolvere con la politica interna: scoppierebbe immediatamente una guerra mondiale.

Democrazia può soltanto voler dire una cosa: abbattere lo Stato e le sue istituzioni centralizzate. L’unico modo di realizzare la democrazia è quello di eliminare le istituzioni che la rendono formale e che presumono di rappresentarne l’idea stessa. L’unica alternativa possibile allo Stato centralista è la comunità locale, in cui vige la democrazia diretta, i bisogni della collettività vengono autogestiti e la proprietà dei mezzi produttivi è socializzata. Stato e mercato sono due obiettivi da abbattere, perché principali responsabili della dipendenza dei cittadini da realtà esterne alla loro volontà.

Come uscire dalla corruzione

Quando la società arriva a un punto in cui ciò che fa un delinquente per poter vivere non è molto diverso da ciò che fa un uomo di potere, legalmente riconosciuto, si può tranquillamente dire – guardando le cose dall’esterno – che la corruzione è al 100%.

Infatti, se queste due categorie di persone, formalmente così distanti ma sostanzialmente così vicine, possono coesistere senza particolari problemi, allora vuol dire che tutte le persone oneste non hanno sufficiente potere per impedirlo e che qualunque persona onesta può anche diventare, a seconda delle situazioni, un delinquente legale o illegale.

Quando si dice: “è solo questione di prezzo” o “a ciascuno il suo prezzo”, si ha ragione, ma solo in parte; occorrono infatti anche occasioni in grado di influenzare le coscienze, persone capaci di indurre a compiere determinate azioni.

In tal senso le persone oneste più fragili (in senso materiale o morale) sono quelle indigenti o indebitate, o quelle meno acculturate o meno competenti o poco capaci a svolgere mansioni davvero produttive, spendibili sul mercato, o, più in generale, quelle che non si accontentano, quelle che vogliono avere uno stile di vita al di sopra delle loro possibilità, quelle che vogliono fare carriera… Si nasce onesti, ma facilmente si smette di esserlo in una società dominata dalla corruzione.

Generalmente i criminali illegali sono quelli che non hanno avuto le condizioni sufficienti (morali o materiali) per restare onesti, e neppure le condizioni sufficienti (morali o materiali) per diventare dei delinquenti legali.

Una qualunque resistenza individuale a una corruzione di tal genere non serve certo a modificare le cose. Al massimo può servire per continuare a restare individualmente puliti.

Tuttavia per organizzare una resistenza collettiva occorre che gli effetti della corruzione si siano ampiamente diffusi nel tessuto urbano, al punto da renderlo invivibile. Una soluzione individuale a questo problema è l’emigrazione verso altri paesi, in cui si spera che la corruzione non sia così forte.

Una soluzione governativa è la dichiarazione di guerra a un governo straniero, semplicemente per distogliere l’attenzione delle masse dai problemi interni.

Una soluzione popolare è la guerra civile, che però deve arrivare a una rivoluzione vera e propria, altrimenti si trasforma in un inutile bagno di sangue. Scegliere una soluzione o l’altra dipende solo da una cosa: il livello di maturità politica delle masse.

Il momento giusto per cambiare

Nei vangeli esistono parabole molto suggestive per indicare i comportamenti da tenere nei casi di transizione politica. P.es. quella delle dieci vergini, cinque delle quali si preoccupano di tenere accesa la lampada della speranza, nell’attesa dello sposo.

Ma esistono anche affermazioni di tipo profetico che i sinottici han voluto attribuire al Cristo, per quanto il loro contenuto non sia in sé anti-rivoluzionario: “Vegliate perché non sapete in quale giorno il messia verrà”(Mt 24,42) e simili.

In tutte le piccole apocalissi evangeliche la necessità di compiere una insurrezione anti-romana viene sostituita col dovere di attendere fiduciosi il giorno del giudizio universale.

Forse l’argomentazione più significativa, in tal senso, è offerta dal vangelo di Giovanni, allorché il Cristo, rivolto ai suoi parenti, che gli chiedevano di esporsi in Giudea, risponde: “Per voi che vivete secondo il principio del tanto peggio tanto meglio, ogni occasione è buona”(Gv 7,6).

Per un essere umano è molto difficile stabilire il momento in cui è possibile che avvenga un cambiamento significativo delle cose, che non vuol dire ovviamente “saper sfruttare l’occasione della propria vita”, ma saper vedere questa occasione come un’opportunità generale, che non riguarda solo una vita individuale, anche perché nelle società basate sui conflitti di classe, sugli antagonismi sociali, spesso le occasioni individuali vengono usate a titolo di rivalsa personale, senza tener conto degli interessi altrui.

Noi misuriamo lo scorrere del tempo sulla base della nostra esperienza, ma per poter avere una percezione obiettiva del tempo, bisognerebbe che l’esperienza fosse la più possibile condivisa. Un’esperienza individuale o familiare o di piccolo gruppo non è di molta utilità per avere il polso della situazione.

Il tempo ha delle pretese che solo un popolo può soddisfare, anche perché i tempi sono sempre incredibilmente lunghi, in grado di andare ben oltre l’esistenza di individui singoli.

Le masse si muovono solo quando convinte che un certo modo di vivere la vita ha concluso il suo tempo. Occorre una percezione collettiva del problema, un sentire comune.

Le masse si muovono quando smettono d’illudersi che un determinato tipo di esistenza possa continuare a essere sopportato. Ma perché sorga questa convinzione occorrono situazioni disperate, di gravissima crisi. Non bastano le contraddizioni, i conflitti, gli antagonismi: ci vuole la disillusione, cioè la convinzione che se non si fa qualcosa di completamente diverso, si perde solo tempo, si rende il problema ancora più irrisolvibile.

Quelli sono i momenti in cui le masse, per prendere decisioni epocali, hanno bisogno di essere guidate da leader intelligenti e coraggiosi, dotati di senso tattico e strategico, capaci di organizzazione politica e persino militare (poiché bisogna sempre tenersi pronti a difendere le conquiste rivoluzionarie), insomma leader all’altezza della situazione, consapevoli del momento cruciale.

E’ così che nascono le svolte epocali. Per questo la storia potrebbe essere studiata solo a partire dalle rivoluzioni, che sono un concentrato di tutti i problemi di un’epoca e dei tentativi messi in atto per risolverli.

Tra una rivoluzione e l’altra il compito è soltanto quello di porre le condizioni perché la transizione avvenga nel miglior modo possibile, cioè rispettando le esigenze più vere, quelle più generali, possibilmente senza spargimento di sangue.

La lotta diventa tra speranza e disperazione, in attesa che giunga il momento decisivo: la speranza di chi vuole uscire dalla disperazione, la disperazione di chi non vuole uscire dai propri privilegi.

Siamo noi che diamo alle cose il loro senso e il loro tempo, e quando il tempo non dà più senso alle nostre cose, è ora di cambiarlo.

L’IDEA DI MARTIRIO E I SUOI INTERPRETI

Quand’è che uno comincia ad avvertire il bisogno di usare la propria sofferenza e persino la propria vita come occasione di riscatto personale? La risposta non è semplice. Non basta dire: “Quando non ne può più delle contraddizioni della vita”. Non tutti quelli che ritengono insopportabili le contraddizioni della vita scelgono la strada del martirio. Molti si danno all’alcol, alla droga, a una vita randagia o si rifugiano nella criminalità. La natura umana è molto complicata. Anche i bulimici e gli anoressici compiono una forma di autoimmolazione.

L’idea di martirio, propriamente parlando, è un’altra cosa. Qui non si ha a che fare con una scelta di vita istintiva, irriflessa, spontaneistica. C’è di mezzo l’ideologia, e quindi una qualche forma di consapevolezza di sé. Il martire non è solo un esasperato, ma anche uno che crede fermamente o, se si preferisce, ciecamente in qualcosa di vitale, che vorrebbe veder realizzato a tutti i costi.

Il martire può sacrificare la propria vita per un’idea, evitando scrupolosamente di scegliere soluzioni di individualistica rassegnazione come l’alcol, la droga, la criminalità ecc. Siccome ritiene giusta la propria idea, rifiuta di poterlo dimostrare scegliendo soluzioni che inevitabilmente lo metterebbero dalla parte del torto. Il martire ci tiene a mostrare che la causa del suo sacrificio sta nel carnefice. Sceglie sì una soluzione estrema, ma nel rispetto di un proprio codice etico, che è un insieme di idee, principi, valori, la cui superiorità rispetto ai codici dominanti egli cerca di palesare proprio col sacrificio di sé.

Ora, in una società pienamente democratica sarebbe facile giudicare queste persone come affette da manie di persecuzione o da manie di grandezza o da altri fissazioni psicologiche. Ammesso e non concesso che in una società del genere verrebbero fuori persone così squilibrate. Tuttavia le società in cui siamo soliti vivere non sono affatto democratiche, e questo comporta una certa difficoltà nell’interpretare un fenomeno del genere.

Quando una società è obiettivamente oppressiva e chi subisce maggiormente il peso delle contraddizioni non trova vie d’uscita usando i mezzi che gli vengono ufficialmente o legalmente consentiti, appare del tutto naturale il ricorso a mezzi extralegali, non convenzionali. Prima di autodichiararsi del tutto impotente a cambiare le cose, uno tenta l’ultima strada, quella dell’opposizione radicale, irriducibile, sino al sacrificio di sé.

Ecco, a questo punto l’interprete del fenomeno in oggetto non sa più bene come comportarsi. Inevitabilmente si chiede se in questo atteggiamento estremista non vi siano delle reali giustificazioni. Si chiede cioè quale sia il criterio per sostenere che, pur in presenza di contraddizioni insopportabili, la scelta delle soluzioni estreme resta comunque sbagliata. Non è forse vero il detto popolare: “A mali estremi, estremi rimedi”?

Qual è dunque il criterio interpretativo da usare per stabilire quando una soluzione estrema è quella giusta? Perché la storia s’è sempre preoccupata di dimostrare che, in occasione dei grandi rivolgimenti politici, il terrorismo individuale o di piccoli gruppi è una scelta sbagliata? Il motivo è semplice: perché è il popolo che deve capire quando è giunto il momento di compiere la rivoluzione. Quando comprende questo, il lato inevitabilmente doloroso della rivoluzione sarà ridotto al minimo, poiché a soffrire sarà soltanto un’esigua minoranza abituata a godere dei propri privilegi.

Per portare il popolo a questa convinzione è meglio usare lo strumento del martirio personale che non quello del terrore, quando si è costretti a scegliere fra queste due alternative. Una vittima ingiusta rende il popolo ancor più insofferente, ancor più disposto a combattere.

Tuttavia sarebbe ingenuo pensare che tante vittime ingiustamente sacrificate possano portare il popolo alla rivoluzione. Il popolo va educato a ribellarsi, facendogli capire tutti i modi per farlo, addestrandolo a usare tutti i mezzi possibili contro il tiranno, i primi dei quali sono proprio quelli che dimostrano che è il tiranno ad aver torto.

Non si può chiedere a qualcuno di autoimmolarsi cospargendosi di benzina o facendo saltare una caserma dopo essersi imbottito di tritolo. I mezzi di comunicazione a disposizione del tiranno di turno, si serviranno di quel gesto per aumentare la repressione, per giustificare ulteriori vessazioni. Occorre dunque che la resistenza alla tirannia venga compiuta in modo tale che tutta la colpa ricada sulle spalle del despota. E di ciò devono convincersi persino le forze dell’ordine, che non sono extraterrestri insensibili alle sofferenze sociali.

Ma per fare questo ci vuole senso della democrazia, ci vuole il consenso da parte del popolo. E’ il popolo che si deve convincere a scendere in piazza per abbattere la dittatura. Senza organizzazione del consenso popolare, qualunque tentativo di autoimmolazione non sortirà alcun effetto pratico a favore della rivoluzione. Anzi, quando c’è il consenso, quando è una gran parte della popolazione disposta ad autoimmolarsi, pur di realizzare la libertà, i sacrifici meramente personali han già raggiunto il loro obiettivo.

Bisogna però fare attenzione, poiché persino di fronte a un consenso popolare l’interprete deve chiedersi se esso vada considerato effettivamente come una soluzione al problema della dittatura o non invece come una riproposizione di essa in altre forme e modi. Anche il nazismo e il fascismo furono movimenti popolari; anche il bolscevismo, agli inizi, fu un movimento di massa, ma poi divennero feroci dittature, peggiori delle precedenti.

Questo per dire che non solo bisogna stare attenti a valutare le soluzioni individualistiche dettate dalla esasperazione, ma ancor più bisogna stare attenti a valutare quelle collettivistiche, poiché queste ingannano maggiormente l’opinione pubblica e i suoi interpreti.