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Il rapporto tra follia e religione

La religione cristiana può costituire un motivo di follia perché non è una semplice credenza mitologica. Per gli antichi i riti dedicati alle divinità erano più che altro formali, un modo per mostrare che si rispettavano le leggi e si apparteneva a una comunità divisa in classi sociali tra loro opposte.

Il vero culto era semmai rivolto ai propri parenti defunti, in mezzo a tante superstizioni. E poi naturalmente vi erano quei culti eversivi (il primo dei quali era a Dioniso) in cui si concentravano le insofferenze degli strati popolari nei confronti dello schiavismo. In tali culti la trasgressione si riduceva all’uso di sostanze inebrianti e a una sessualità senza freni.

Difficilmente però si diventava “folli” per motivi religiosi; semmai si appariva folli in occasione di qualche rito o particolare festività, dopodiché si tornava alla normalità. Nell’antichità si aveva un rapporto più docile nei confronti della natura e ci si rassegnava abbastanza facilmente alla condizione sociale che il destino riservava. Soltanto quando le condizioni dello schiavismo risultavano insopportabili, ci potevano essere sommosse o tentativi di non resistenza al nemico che attaccava la comunità dall’esterno.

Nelle grandi tragedie greche la follia è più che altro connessa a una rappresentazione intellettualistica del fato, che sembra divertirsi a creare situazioni a dir poco incredibili o inspiegabili. L’eroe è indotto a compiere qualcosa che non avrebbe voluto fare. Alcune volte la cosa appare soltanto come una prova da superare (tipico in Ulisse), altre volte invece si soccombe (come in Edipo re).

Con la religione cristiana invece il credente sembra aver acquisito più padronanza di sé, maggiore disincanto, minore ingenuità. Egli infatti ha sempre davanti a sé un modello ben preciso da imitare: Gesù Cristo, che la chiesa impone di considerare come “vero uomo e vero dio”.

L’identificazione con questo soggetto, abilmente costruito da redattori cristiani di origine ebraica, può portare alla follia, proprio perché qui viene richiesta una partecipazione attiva, con tanto di spirito missionario: il cristiano è il credente che deve dimostrare qualcosa all’umanità. Il cristiano non può essere un buddista rassegnato o un induista che relativa la propria fede in mezzo a mille fedi.

Il cristianesimo ha voluto dare all’umanità la coscienza personale del peccato, nel senso che, a partire da esso, la responsabilità della propria condizione umana (schiavile o servile) non può più essere attribuita al caso, al destino, ma deve essere attribuita a se stessi. Gli uomini sono la causa della loro stessa infelicità. Questa infelicità, che impedisce di compiere il bene pur volendolo, ha origini remote, che la Bibbia fa risalire alla creazione di Adamo ed Eva.

Per i cristiani non c’è modo di uscire da questa condanna che affidandosi alla chiesa. Ma è proprio a questo punto che le strade si divergono. Infatti nell’ambito della chiesa ortodossa si è preferito assumere una posizione di rassegnazione buddista, confidando in una liberazione esclusivamente ultraterrena.

Nell’ambito della chiesa romana si è invece pensato di risolvere già su questa terra una parte della propria sofferenza, semplicemente facendola scontare ai più deboli: detta chiesa è infatti, per eccellenza, la chiesa del potere politico, quella che vuole dominare su tutti.

Viceversa, nell’ambito della chiesa protestante, persa la dimensione comunitaria (feudale) della fede (e quindi il rispetto della gerarchia, della tradizione ecc.), il credente si affida alla violenza dello Stato, che impone se stesso su quella parte di mondo meno attrezzata. Il protestantesimo non è che un cattolicesimo laicizzato dalla borghesia.

La follia, a sfondo mistico, di famosi artisti e intellettuali della storia, come Nietzsche, Kierkegaard, Van Gogh, E. A. Poe ecc., è tutta interna al protestantesimo. E’ una follia individualistica, mentre quella cattolica non potrebbe essere che collettivistica (ben visibile p.es. nell’idea di “crociata”).

Nella nostra epoca, quando un paese come gli Stati Uniti, lancia l’idea di “crociata” (nascosta sotto l’idea di democrazia o di diritti umani), contro taluni paesi islamici, lo fa appunto in quanto “Stato protestante”. Lo stesso fecero i nazisti quando attaccarono il mondo slavo (da civilizzare). Le varie congreghe protestanti in genere si adeguano supinamente a questa volontà. Nei paesi cattolici invece accade il contrario: è lo Stato che si deve adeguare alla chiesa, poiché questa pretende di porsi politicamente come l’espressione più adeguata del valore umano. In tal senso il fascismo fu, per l’Italia, un’esperienza a sfondo più protestantico che cattolico.

Ma perché la follia mistica, individualistica, è un fenomeno tipico dei paesi protestanti? Il motivo sta appunto nel fatto che qui il cristianesimo è rimasto come un contenitore vuoto. Tutti vedono questa enorme scatola nera, mostrandole ancora un certo rispetto formale, ma chi vuole entrarci, per verificarne il contenuto, non sa come aprire la porta, anzi, ha addirittura il timore che, se anche riuscisse ad entrarvi, la troverebbe completamente vuota.

La follia subentra proprio in questa discrepanza tra angoscia della colpa e incapacità di liberarsene. L’individuo singolo si sente impotente e preferisce ridurre al minimo i propri sensi di colpa (sotto il nazismo Hitler non appariva forse come una sorta di Gesù Cristo cui prestare assoluta obbedienza?).

L’obbedienza cieca nel compiere i delitti più orrendi (che troviamo non solo nei lager ma anche nelle due bombe su Hiroshima e Nagasaki) viene percepita come rimedio alla propria impotenza. Si scaricano su altri le proprie tensioni irrisolte.

Chi rifiuta questa obbedienza ai propri superiori e vuole conservare la propria coscienza di colpa, inevitabilmente diventa folle, poiché antepone a una necessità ritenuta ineluttabile, indipendente da qualunque volontà, le proprie lacerazioni interiori. Preferisce diventare folle accusando il sistema d’essere il suo carnefice, piuttosto che diventarlo come cittadino organico a questo sistema.

Il folle ritrova il proprio appagamento attribuendo ad altri le cause della propria sconfitta, la quale però viene trasformata in vittoria proprio nel momento magico e insieme tragico della morte, che generalmente si pone come suicidio. Sotto questo aspetto non fa alcuna differenza che il folle si dichiari ateo come Nietzsche o credente come Kierkegaard. Fa invece differenza il diverso modo di vivere la follia: tra i propri incubi o come pedina di una superiore volontà.