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Gli storici e la religione cristiana (III)

3. L’ORTODOSSIA BIZANTINA

In un qualunque manuale scolastico di storia medievale, il tema principale dedicato al regno millenario dei bizantini è quello dell’epoca giustinianea. Tutto il resto viene generalmente liquidato in qualche paragrafo sparso qua e là.

Perché si accentua l’importanza di Giustiniano? Il motivo è semplice: perché sino a questo imperatore non vi è stata una sostanziale differenza tra cattolici e ortodossi. Sicuramente non ve n’era sul piano dogmatico, e anche su quello politico l’intera cristianità riconosceva un’unica realtà imperiale: tutti gli altri sovrani o erano re delle proprie genti o erano “patrizi romani” (titolo che indicava una sorta di vassallaggio nei confronti del basileus).

Le differenze tra cattolici e ortodossi han cominciato a farsi sentire sul piano politico con l’incoronazione di Carlo Magno, preceduta dalla rottura ideologica del Filioque nel Credo (rottura che i cattolici curiosamente definiscono col termine di “scisma di Fozio”).

Prima di allora la chiesa romana s’era limitata a ostacolare, in varie maniere, il progetto di riunificazione dell’ex impero romano sotto l’egida bizantina, anche a costo di favorire la penetrazione barbarica in occidente. Questo perché il papato non aveva mai accettato il trasferimento costantiniano della capitale da Roma a Bisanzio.

In tale resistenza ad oltranza, il papato aveva cercato non solo di prevalere su ogni altra cattedra episcopale della civitas cristiana, ma anche di acquisire quanti più beni possibili. Infatti, quando si sentì sufficientemente forte sul piano economico, al fine di poter rivendicare anche un potere politico, scelse di incoronare imperatore Carlo Magno, in totale dispregio del fatto che un imperatore esisteva già.

Ma come viene presentato Giustiniano? Bisogna prima fare un passo indietro e parlare dei due imperatori che l’hanno preceduto: Zenone e Giustino.

Del primo i manuali dicono che mandò in Italia gli Ostrogoti per liberarsi degli Eruli di Odoacre, di religione ariana. In realtà, si precisa, Zenone lo fece perché gli Ostrogoti premevano sui confini orientali (anche i Goti infatti erano ariani, per cui non vi sarebbe stata alcuna differenza di principio). Con ciò quindi si fa capire che l’Italia, per Zenone, non valeva nulla.

Tuttavia con gli Ostrogoti l’Italia ebbe 30 anni di pace. Dunque perché con Giustino l’impero volle disfarsi anche di questa popolazione? Forse perché era anch’essa ariana? No, il motivo era che Bisanzio voleva annettersi l’intera Italia.

Cioè lo storico vuol far credere che mentre Bisanzio aveva motivi ideali sul piano formale, sul quello sostanziale invece aveva i sordidi motivi dell’interesse di potere. Lo dimostra il fatto (storiografico) che il basileus viene sempre dipinto come un uomo senza scrupoli, continuamente ansioso d’intromettersi nelle questioni teologiche e di sottomettere politicamente la chiesa (cesaropapismo).

Per converso, la chiesa romana viene presentata come la paladina della libertà dell’occidente: libertà religiosa (cattolici contro ortodossi e contro impero), culturale (latino contro greco), economica (potere spirituale poggiante su quello temporale) e politica (autorità imperiale non indipendente ma riconosciuta dal papato).

Quando si inizia a parlare di Giustiniano, lo si definisce addirittura come “l’ultimo grande imperatore romano”! Tutti gli altri imperatori che si sono succeduti, dalla sua morte sino al 1453, cioè per altri 888 anni, è come se non fossero mai esistiti: non vengono neppure ricordati per nome.

Ma perché Giustiniano fu grande?

1. Perché cercò di riunificare tutto l’impero cacciando i barbari dall’Africa, dalla Spagna, dall’Italia, anche se, a causa della forte resistenza ostrogota, ridusse l’Italia a un cumulo di macerie;
2. perché riprese il controllo commerciale del Mediterraneo;
3. perché riorganizzò l’amministrazione dello Stato, sviluppò il commercio, l’artigianato, l’architettura ecc., e produsse quel capolavoro giuridico chiamato Corpus iuris civilis.

Insomma Giustiniano in tanto fu grande in quanto assomigliava ai migliori imperatori pagani del passato mondo romano. Tuttavia la sua idea di ricostruire il vecchio impero in nome del cristianesimo morì con lui. Si parla della sua “utopia” come se fosse stato un suo problema personale e non un’esigenza dell’intera cristianità.

Quando infatti si comincia a dire che il progetto fallì perché i Visigoti si ripresero la Spagna, i Longobardi entrarono in Italia, i Berberi e i Mauritani si ribellavano continuamente in Africa e i Persiani premevano a oriente, si tralascia del tutto di dire che la chiesa romana non fece assolutamente nulla in occidente per favorire la realizzazione di quel piano. Anzi lo ostacolò in tutte le maniere: dapprima con una forma di resistenza passiva, che impediva ai bizantini di concertare le forze in funzione anti-gota; poi col favorire l’ostilità monofisita delle forze copte dell’Egitto e siriane nei confronti del potere centrale dell’impero; infine con l’avvallo all’ingresso longobardo in Italia, onde impedire a Bisanzio, dopo la vittoria sui Goti, di potersi insediare in tutta tranquillità nella penisola (cfr la controversia dei Tre capitoli).

Il papato infatti aveva bisogno di un’Italia divisa sul piano territoriale, per meglio esercitare i propri tentativi egemonici; e a partire dall’ingresso dei Longobardi, essa resterà divisa sino all’unificazione di fine Ottocento.

Detto questo, si aggiunge che, avendo dovuto sostenere ingenti spese per le numerose e faticosissime guerre su più fronti, Giustiniano aveva prosciugato le casse dello Stato, sicché i suoi successori dovettero privilegiare gli aspetti del risanamento interno, interessandosi dell’Italia solo per motivi fiscali.

La questione delle tasse diverrà cruciale per sostenere le finanze dello Stato, ma anche per sostenere la tesi, propria degli storici papisti, secondo cui la chiesa romana aveva tutto l’interesse a staccarsi dal dominio di Bisanzio.

I bizantini saranno sempre odiati a causa del loro rapace fiscalismo e del loro cesaropapismo. Di fronte a una situazione del genere era dunque giusto che in occidente fosse la chiesa romana a porsi a capo della cristianità.

Ovviamente si tace del tutto sia il fatto che in occidente la chiesa esercitava quello che poi venne definito col termine di “papocesarismo” (l’imperatore come braccio secolare del papato), sia il fatto che in oriente il fiscalismo bizantino era una prerogativa dello Stato, esercitata nei confronti di qualunque cittadino, anche di quello possidente, cosa che nell’Europa feudale occidentale non è mai avvenuto, proprio perché la gestione del potere politico era personalistica (basata sul vassallaggio) e non istituzionale.

L’adozione obbligatoria dei libri di testo

L’impostazione dei manuali scolastici di storia, che sostanzialmente è di tipo enciclopedico, in cui ogni argomento è già compiutamente svolto, nelle sue linee essenziali, risulta quanto mai sfavorevole all’idea di poter fare in classe un qualunque lavoro di “ricerca storica” (sotto questo aspetto si trovano meglio i maestri delle scuole elementari).

I manuali di storia, pur essendo notevolmente migliorati negli apparati iconici, cartografici, didattici, raramente riescono a proporre temi su cui riflettere, ovvero una serie di domande aperte che attendono di trovare, grazie a un lavoro di ricerca, una qualche risposta; non ci sono piste di lavoro su cui fare indagini, strumenti da analizzare (p.es. le fonti originali di un’epoca sono a discrezione dell’autore del manuale) per esercitarsi nell’interpretazione storiografica (salvo acquistare ulteriori e più specifici “quaderni di laboratorio”).

Generalmente detti manuali offrono soltanto svolgimenti in sé conclusi, incatenati da una ferrea logica di cause ed effetti, la cui interpretazione è sempre univoca, senza se e senza ma. Il manuale non appare come uno strumento tra altri, ma come una sorta di “bibbia”, le cui tesi hanno dovuto subire un iter processuale non molto diverso da quelle che appaiono, con tanto di imprimatur esplicito, nei manuali di religione cattolica. L’autore è come una sorta di “Mosé” che deve traghettare lo studente dall’ignoranza alla conoscenza e, in questo compito, il ruolo del docente non va oltre quello del luogotenente.

All’interno di tale impostazione didattica non c’è tempo per mettere a confronto strumenti diversi, non c’è modo per costruirsi, in itinere, un proprio “manuale”, meno che mai partendo da situazioni storiche locali; è inoltre da escludere a priori l’idea che, dopo aver pagato a caro prezzo un determinato manuale, gli alunni possano non considerarlo come il loro principale strumento di apprendimento della storia.

Il che, se ci pensiamo (ma preferiamo non farlo), è davvero assurdo, in quanto la stragrande maggioranza dei ragazzi oggi è in grado di disporre di cd enciclopedici e di navigare in rete, per cercare tutte le informazioni che vuole. Il libro di testo è ormai diventato uno strumento non solo del tutto inutile, ma anche terribilmente controproducente, sommamente anti-pedagogico.

Nessuno autore di testo infatti parte mai dal vissuto dei ragazzi, neppure in astratto o simulando dei casi (p.es. parlando di una qualunque guerra bisognerebbe partire dai conflitti interni a una classe); questo è un lavoro che deve fare il docente, il quale però deve anche fare la fatica di trovare le giuste mediazioni tra un manuale che non ha prodotto lui e le capacità ricettive e metaboliche di chi gli sta di fronte.

La fatica è doppia, anzi tripla, poiché gli autori dei due manuali, di storia e di italiano (antologia), non pensano mai di integrare le due discipline, fornendo p.es. ai fatti storici una documentazione culturale dell’epoca (qualcosina, in tal senso, si vede soltanto nell’ultimo anno delle medie). Italiano, storia e geografia viaggiano su binari completamente separati.

A questo punto sarebbe quasi meglio non adottare alcun libro di testo, ma limitarsi a partire dal vissuto dei ragazzi e sulla base di questo costruire vari percorsi storici, che devono necessariamente lasciarsi stimolare anche dal contesto locale, dal territorio comunale o provinciale in cui la classe vive. Scrive Laurana Lajolo, in I giovani e il senso del tempo. La storia del ‘900 a scuola: “L’approccio allo studio della storia dovrebbe partire dal vissuto dei soggetti della formazione, gli studenti, dalle domande sul presente per risalire al contesto storico passato”(art. trovato nel sito www.israt.it).

Bisogna partire non solo dal basso ma anche dal concreto, recuperando un vissuto e la sua memoria, procedendo insomma dal presente al passato, dal vicino al lontano. L’approccio testuale che offre il manuale è inevitabilmente astratto e intellettualistico, non solo perché non ha alcun riferimento alla realtà degli studenti, ma anche perché offre un sapere precostituito, che va semplicemente memorizzato e ripetuto, previa semplificazione da parte del docente.

Si pensi p.es. all’enorme importanza che può avere per uno studente di una piccola località rurale, la valorizzazione di esperienze come quelle della canapa, della tessitura, del riciclo dei materiali usati e in genere delle tradizioni del mondo contadino: tutte cose che andrebbero affrontate con ricerche specifiche e che assai difficilmente troverebbero supporti adeguati negli attuali manuali di storia (forse un piccolo aiuto si potrebbe trovare in quelli di educazione tecnica).