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Gentile e l’integralismo cattolico

Giovanni Gentile era partito bene, col suo ateismo implicito o criptico (quello non espressamente professo), nei due saggi giovanili dedicati alla Filosofia di Marx, apprezzati in due righe dallo stesso Lenin nella bibliografia alla voce “Marx” scritta nel 1914 per l’Enciclopedia Granat: “Il libro di un idealista hegeliano…, è degno di nota. L’autore tratta alcuni aspetti importanti della dialettica materialistica di Marx che di solito sfuggono all’attenzione dei kantiani, dei positivisti, ecc.”. In effetti, bisogna ammettere che la sua rilettura, in chiave laicistica, di Rosmini e Gioberti, al fine di trovare un accordo col materialismo marxiano era stata piuttosto originale.

Tuttavia proprio Gentile fu la dimostrazione più lampante che non basta essere “atei” per essere “democratici”. Cosa che già Marx aveva detto ai compagni della Sinistra hegeliana, che volevano portare il razionalismo hegeliano alla sua espressione ateistica più logica e consequenziale, indirizzando le loro critiche verso lo Stato confessionale prussiano e verso la Chiesa di stato luterana. La soluzione proposta da Marx era chiara: bisognava affrontare in maniera politico-rivoluzionaria le contraddizioni del sistema, mettendosi dalla parte del proletariato nullatenente, l’unico titolato a realizzare quegli ideali di giustizia e libertà che la filosofia tedesca era solo riuscita a teorizzare.

Quali conclusioni invece ha saputo trarre l’integralismo cattolico di Augusto del Noce e del suo principale discepolo, Rocco Buttiglione dal fallimento dell’attualismo ateistico gentiliano, in cui l’io si fa dio? Essi hanno approfittato del crollo del fascismo, cui la filosofia gentiliana s’era vincolata, per sostenere che le filosofie ateistiche, proprio perché tali, non possono che autodistruggersi. Portato alle sue estreme conseguenze il razionalismo ateistico (iniziato in un certo senso col cogito cartesiano) è una forma di antiumanismo, un vero e proprio suicidio.

Naturalmente, invece d’esser grati al socialismo per il suddetto crollo; invece di plaudire al fatto che il socialismo, per quanto limitate possano essere le sue realizzazioni storiche, resta sempre un’ideologia che vuole tenere strettamente unite la libertà personale con la giustizia sociale, quale altra conclusione hanno tratto? Che il cattolicesimo politico costituisce la “terza via” tra capitalismo e socialismo. Lo dicono come se le forme irrazionalistiche del fascismo non fossero state usate con l’appoggio, diretto o indiretto, delle Chiese cattolica e protestante, proprio al fine di distruggere ogni esperienza di “socialismo”! Lo dicono fingendo di non sapere che il suicidio del razionalismo ateistico del nazi-fascismo non fu affatto un processo endogeno a tale sistema dittatoriale, ma solo una conseguenza del fatto che di fronte alla sconfitta militare inflitta dal socialismo russo ci si comportò nella maniera più irrazionale possibile. Se il fascismo avesse vinto, come in Spagna per un quarantennio, sarebbe forse stato abbattuto da una maggiore coscienza religiosa? I cittadini democratici avrebbero fatto trionfare una Chiesa compromessa profondamente con una dittatura fascista? L’hanno forse fatto in Spagna o nei Paesi sudamericani?

Considerando che il razionalismo nazi-fascista era alleato, tramite intese e concordati, alle due suddette Chiese, vien da pensare che anche una coscienza religiosa può tranquillamente diventare irrazionale, e che non esiste alcun modo aprioristico per scongiurare questo “suicidio”, se non quello di vivere umanamente, conformemente alle leggi della natura. D’altra parte già il padre dell’esistenzialismo religioso, Soren Kierkegaard, aveva mostrato, con la sua filosofia e con la sua stessa vita, come l’irrazionalismo possa essere un rischio per chiunque, ateo o credente che sia.

In realtà il problema dell’attualismo gentiliano era un altro. Questa filosofia è una forma di soggettivismo piuttosto ingenuo. Beninteso non alla maniera stirneriana. Ciò che avvicina l’attualismo all’anarchismo è l’idea che l’io crea l’essere e lo fa anzitutto in maniera pratica: se c’è un pensiero dev’essere “pensante”, non “pensato”. La filosofia è un processo pratico in cui l’oggetto viene posto mentre si agisce e si pensa. Era forse questo l’aspetto gentiliano che più aveva interessato Lenin, il quale infatti nei suoi Quaderni filosofici affermava che l’unità degli opposti è sempre relativa, in quanto soggetta a continui mutamenti, per cui definirla una volta per tutte non avrebbe senso. Semmai assoluto è ciò che tiene distinti gli opposti.

A differenza di Stirner, che odiava qualunque forma di istituzione, Gentile aspirava a veder incarnato questo “ego onnipotente” in una struttura adeguata, ch’egli individuò nello Stato. In questo egli assomigliava di più a Fichte o forse all’ultimo Hegel, quello della Filosofia del diritto.

Gentile era un idealista soggettivo, che voleva creare da sé la propria oggettività, incarnando la propria idea in un ente pubblico. Vi è del paradosso in tale atteggiamento. Infatti lo Stato politico, come tutte le istituzioni, è statico per definizione: è soggetto a mille burocrazie e si caratterizza per la lentezza delle decisioni. Molto più dinamica è la società civile. Non solo, ma lo Stato fascista era anche caratterizzato da una direzione autoritaria, frutto di una delega in bianco da parte dei cittadini-sudditi. Il fascismo avrebbe potuto realizzare l’attualismo nel momento rivoluzionario della conquista del potere, ma già subito dopo sarebbe stato costretto a smentirlo, dovendo allacciare con le forze più reazionarie del Paese dei compromessi conservativi del sistema.

Per realizzare in maniera coerente l’attualismo, Gentile avrebbe dovuto porre le condizioni per un progressivo smantellamento di tutte le istituzioni statali, a vantaggio di uno sviluppo onnilaterale e decentrato della società. Solo all’interno di una comunità locale i cittadini possono avere l’impressione, previa la proprietà sociale dei loro mezzi produttivi, che in ogni momento tutto dipende dalla loro libera volontà.

Ma perché l’ateismo teorico gentiliano, una volta realizzato nell’ideologia fascista, non servì in alcun modo a migliorare le tesi del materialismo storico-dialettico o quelle politiche del socialismo democratico? Semplicemente perché Gentile difendeva gli interessi della piccola-borghesia, da cui lui stesso proveniva. Difendeva gli interessi non degli ultimi, ma dei penultimi. Il suo attualismo, nonostante ammirasse la filosofia marxiana della prassi, era arretrato rispetto agli sviluppi teorici del marxismo avvenuti in Germania, in Francia o in Russia alla fine dell’Ottocento.

Marx fu incontrato esclusivamente sul piano filosofico, quindi solo nella sua fase giovanilistica, quando era alle prese col materialismo naturalistico di Feuerbach e con la critica ateistica dei vangeli di Strauss e Bauer. Laddove Marx inizia a interessarsi di economia, il distacco di Gentile si fa netto, proprio perché egli non sopportava l’idea che esistesse un oggetto indipendente dalla volontà umana. Sostituire Dio con la Materia significava, per lui, fare di quest’ultima un nuovo Dio. Quanto era lontano, in questo, dal Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo!

Nel contrapporre la filosofia piccolo-borghese alla politica proletaria, Gentile mostrava un lato aristocratico del suo pensiero. Infatti rifiutava il marxismo su un aspetto d’importanza vitale: la realtà da trasformarsi qualitativamente nelle sue irriducibili contraddizioni economiche. La struttura produttiva ha leggi immanenti che chiedono d’essere rispettate a prescindere da ciò che l’uomo possa pensarne, altrimenti è la stessa convivenza umana a rendersi impossibile. L’uomo deve scoprire queste leggi e adeguarvisi con la propria volontà.

Non è vero che Marx faceva dell’individuo il creatore della storia. In natura vi sono leggi che non dipendono dalla volontà umana, e queste leggi hanno un riflesso nella società civile. Quando gli uomini se ne distaccano, creando società incompatibili coi processi riproduttivi della natura, gli effetti negativi non ricadono soltanto sulla natura ma anche sulla stessa società umana.

Non si diventa disumani quando si smette d’essere religiosi, ma quando si vuole contrapporre l’umanismo al naturalismo e quando, all’interno di questo umanismo, si vuol fare della proprietà privata dei mezzi produttivi un motivo di oppressione sociale e di discriminazione. Gentile capì soltanto che la filosofia doveva concretizzarsi in una politica (e in questo rifletteva un’esigenza tipica del socialismo), e che l’istanza ateistica doveva subissare quella religiosa, ma per il resto rimase un provinciale.

Fondamentalmente l’integralismo cattolico, quando rimpiange le teorie di Rosmini e di Gioberti, non comprende che a quel tempo gli ideali erano sentiti con maggior vigore, rispetto ad oggi, proprio perché il capitalismo era ancora nella sua fase piccolo-borghese, cioè in un momento in cui la religione popolare, nella fattispecie cattolico-romana, prevalentemente contadina, giocava ancora un ruolo significativo. Cosa che continuerà a fare sino al fallimento degli ideali degli anni Settanta del Novecento, quando il trionfo del neoliberismo (oggi chiamato globalismo) spazzerà via ogni residuo di illusione terzoforzista tra capitalismo e socialismo.

Che il cattolicesimo politico oggi non conti più nulla è attestato dalla sonora sconfitta della sua variante polacca, che il pontificato di Wojtyla volle incarnare in maniera nettamente anticomunista e velatamente anticapitalista. Il crollo del muro di Berlino e la fine del cosiddetto “socialismo reale” hanno fatto capire che l’unica alternativa possibile al socialismo resta il capitalismo, mentre il cattolicesimo può svolgere soltanto una mera funzione di supporto.

In tal senso è inutile sperare in un revival del cattolicesimo europeo grazia all’apporto di continenti come quello sudamericano o africano. Se da quelle aree geografiche verrà fuori qualcosa di positivo, in senso cristiano, potrà esserlo solo in rapporto a idee socialiste o anti-imperialistiche. Cosa che, attraverso la teologia della liberazione, è già avvenuta, ma con scarsi risultati pratici, in quanto questo tipo di teologia non ha mai radicalizzato la propria opzione preferenziale per i poveri in una scelta chiaramente rivoluzionaria; inoltre è sempre stata pesantemente osteggiata dalla curia vaticana, salvo il recente incontro, piuttosto formale, tra il papa Bergoglio e Gustavo Gutiérrez, padre di quella teologia, il cui meglio di sé oggi lo dà con l’interesse maturato da Leonardo Boff per le questioni ambientali o ecologiche.

A dir il vero oggi non è più neppure il caso di limitarsi a cercare un’alternativa tra capitalismo e socialismo, in quanto è scontato che gli antagonismi sociali del globalismo neoliberista possono solo peggiore, portando l’umanità a una catastrofe di proporzioni apocalittiche. Il vero problema è diventato quello di come realizzare un socialismo davvero democratico (tutto da costruire), che sappia andare oltre le esperienze di socialismo già realizzate e drammaticamente concluse (quelle “statali” del modello sovietico) e quelle in via di realizzazione, come sta avvenendo in Cina col cosiddetto “socialismo di mercato”.

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Quella brutta bestia dell’intolleranza in nome della religione

Basta la filosofia contro il fanatismo?

Scriveva Voltaire, ingenuamente, nel suo Dizionario filosofico (1764), alla voce “Fanatismo”: “Il più detestabile esempio di fanatismo fu quello dei borghesi di Parigi che si precipitarono ad assassinare, scannare, gettare dalle finestre, fare a pezzi, la notte di san Bartolomeo, tutti i loro concittadini che non credevano bene di assistere alla messa cattolica”.

Perché ingenuamente? Perché secondo lui contro la peste della religione l’unico rimedio era la filosofia. La sola religione ch’egli riteneva indenne dalla macchia del fanatismo era quella dei letterati cinesi.

In realtà contro il fanatismo non basta affatto la filosofia, anche perché la stessa filosofia non è detto che vada esente dal fanatismo (era forse democratica la filosofia degli irrazionalisti atei come Nietzsche o religiosi come Kierkegaard? o l’hegeliana Filosofia del diritto quando considerava lo Stato una divinità in terra e il singolo una mera astrazione?). Occorre soprattutto un affronto sociale del problema, tramite cui i presupposti che lo generano possano essere superati.

E al tempo in cui avvenne la strage dei calvinisti francesi da parte dei cattolici fanatici, il problema sociale stava anzitutto in questo: la transizione dal feudalesimo al capitalismo era necessaria? Se sì, poteva avvenire in maniera pacifica o implicava necessariamente una qualche forma di violenza?

Voltaire era lontanissimo dal poter rispondere a domande del genere, anche perché dava per scontato che la transizione fosse necessaria. Al massimo ammetteva che se nel XVI sec. poteva apparire normale che una tale transizione venisse gestita da una corrente ereticale del cristianesimo, chiamata “protestantesimo” (luterana o calvinista o anglicana che fosse), nel suo secolo, il XVIII, l’eredità di tale transizione poteva tranquillamente essere gestita da correnti filosofiche libertarie (economicamente mercantilistiche), le quali sul piano religioso accettavano al massimo un formale deismo. Tant’è che quando scoppiò la rivoluzione francese, la borghesia che si oppose con durezza all’aristocrazia, poteva tranquillamente essere cattolica o protestantica o deistica o persino ateistica. Di sicuro essa non avrebbe mai fatto una rivoluzione prendendo a pretesto delle questioni religiose. Semplicemente voleva un potere politico corrispondente alla sua forza economica.

Tuttavia, se nel XVIII sec. le questioni economiche erano diventate assolutamente prioritarie su quelle mistiche, anche in virtù del fatto che in nome del colonialismo extra-europeo, che garantiva un certo benessere, le rivalità religiose interne alle singole nazioni europee tendevano facilmente ad appianarsi, e la rivoluzione industriale stava iniziando a rendere l’uomo tecnologico sempre meno bisognoso di una protezione divina, viceversa nel XVI sec. le guerre di religione erano all’ordine del giorno. Nella sola Francia ve ne furono ben otto.

Le guerre di religione in Francia

Dopo la pace di Cateau-Cambresis (1559), che segnò la definitiva egemonia spagnola in Italia (i francesi vi rientreranno solo al tempo di Napoleone), e l’improvvisa morte accidentale del sovrano Enrico II (1547-59), era scoppiata in Francia una guerra civile i cui contrasti sociali tra nobiltà, borghesia e corona s’intersecavano con quelli di natura religiosa tra cattolici e calvinisti.

Il fatto d’aver perso la guerra con la Spagna per l’egemonia dell’Italia e delle Fiandre, aveva fatto piombare la Francia in una grave crisi interna, in cui emergevano le contraddizioni di una monarchia non sufficientemente centralizzata e autorevole, di una nobiltà cattolica che ancora pretendeva una propria indipendenza locale-regionale e che non si faceva scrupolo d’allearsi con gli spagnoli pur di averla, e di una borghesia sempre più calvinista, che aspirava ad avere un ruolo politico-nazionale anche in chiave ideologica, mirando a uno scontro diretto con la corona e la classe feudale.

Sul piano economico la situazione era drammatica: l’erario completamente vuoto, il debito pubblico enorme, le imposte sempre più alte, la miseria crescente, l’inflazione alle stelle, a causa del fatto che il colonialismo spagnolo sudamericano aveva introdotto in Europa un regime finanziario, basato sull’oro e l’argento, che non corrispondeva all’effettiva produzione materiale del continente.

I calvinisti (chiamati in Francia “ugonotti”) avevano organizzato il loro primo sinodo nazionale a Parigi nel 1558 e nel 1562 il loro numero complessivo si poteva stimare in almeno due milioni di persone. Nemici giurati della chiesa cattolica e del monachesimo, essi erano anche iconoclastici, in quanto distruggevano altari, immagini sacre e in qualche caso demolivano edifici di proprietà ecclesiastica. In genere appartenevano a classi sociali abbastanza agiate: commercianti di città e artigiani specializzati, ma vi erano anche molti esponenti della piccola nobiltà, che miravano alla secolarizzazione dei beni ecclesiastici per uscire dalla loro crisi economica, e vi erano anche vari esponenti del proletariato urbano e rurale, che vedevano nella lotta anti-fiscalista e nelle tendenze separatistiche una forma di emancipazione dalla dittatura della corona.

Il ruolo di Caterina dei Medici

Alla morte del re Enrico II, i figli Francesco II (1559-60) e Carlo IX (1560-74) erano ancora minorenni, sicché la reggenza passò alla loro madre, Caterina dei Medici (1519-89), avversata dai francesi per la sua origine straniera e per il suo esasperato gusto del lusso, dell’arte e dei costumi italiani. Nel complesso Caterina seppe difendere le posizioni principali dell’assolutismo, sia in politica interna che estera.

Le grandi famiglie aristocratiche feudali cercarono di approfittare della minorità dei figli di Enrico II per limitare i poteri della corona e, se protestanti, anche per ridurre lo statalismo della religione cattolica. Tra queste famiglie spiccavano i ricchissimi Guisa (cattolici), che non si accontentavano dei privilegi della Chiesa gallicana, legalizzati dal Concordato di Bologna del 1516, coi quali si assicurava alla Francia una notevole indipendenza dallo Stato pontificio, ma volevano anche ridurre di molto l’accentramento del potere regale, mettendo a rischio l’unità politica del paese, così faticosamente raggiunta dopo la guerra secolare contro gli inglesi, vinta al tempo di Giovanna d’Arco.

Poi vi erano i Borbone (calvinisti), largamente favorevoli all’accentramento del potere, ma a condizione che si desse carta bianca alla borghesia, in grado di assicurare grandi ricchezze al paese.

Nel 1560 il governo fu invece affidato temporaneamente al duca Francesco I di Guisa e a suo fratello, il cardinale di Lorena, zii della regina Maria Stuarda, entrambi cattolici intolleranti (la stessa Maria verrà fatta giustiziare dalla regina Elisabetta perché le tramava contro).

Di fronte a quest’aperta sfida, i protestanti, alla cui testa si pose allora il principe di Condé, tentarono un colpo di mano, che sfociò nella congiura di Amboise (1560), con cui gli ugonotti (chiamati così dai cattolici) cercarono, invano, d’impadronirsi del re Francesco II per sottrarlo alla tutela dei Guisa. La repressione del duca di Guisa fu molto dura, anche se il principe di Condé fu risparmiato.

Di fronte all’alleanza che gli ugonotti strinsero con la regina Elisabetta, i cattolici risposero alleandosi col peggior nemico della Francia, la Spagna di Filippo II, campione della Controriforma pontificia.

Dopo l’improvvisa morte di Francesco II, alla fine del 1560, Caterina dei Medici tenne la reggenza in nome dell’ancora troppo giovane Carlo IX e cercò un’intesa tra cattolici e protestanti, promulgando, nel 1562, l’Editto di Saint-Germain-en-Laye, che proclamava la libertà di culto pubblico per i protestanti, ma solo nei sobborghi e nelle periferie delle città o in zone di campagna, ponendo limiti al numero di partecipanti; inoltre essi dovevano restituire i luoghi di culto, già cattolici, di cui si erano precedentemente appropriati. I Guisa si dichiararono contrari a queste concessioni.

La prima guerra di religione

La prima guerra di religione (1562–63) scoppiò proprio perché i calvinisti non erano disposti ad accettare l’idea di un numero limitato di fedeli alle loro cerimonie. In una di queste i Guisa fecero fuori 63 ugonotti e, dopo aver visto che Caterina era intenzionata a revocare tutti gli incarichi di stato concessi alla loro famiglia, la indussero a mettersi completamente dalla loro parte.

Tuttavia, siccome Francesco I di Guisa morì nell’assedio della Orléans calvinista, Caterina dei Medici poté ristabilire la pace con l’Editto di Amboise, che autorizzava i borghesi protestanti a celebrare liberamente il loro culto in un solo luogo ben stabilito per ciascun distretto amministrativo.

Le città di Rouen, Orléans e Lione furono restituite ai cattolici, ma siccome le chiese prese dai protestanti erano state gravemente danneggiate, proprio in queste città riprese vigore l’intransigenza cattolica. Infatti si istruirono numerosi processi contro i protestanti, accusati di aver devastato le chiese e distrutto le reliquie e le immagini sacre.

La grande maggioranza dei cattolici non ammetteva che i protestanti potessero professare liberamente la loro confessione, mentre i protestanti, non avendo gli stessi diritti dei cattolici, si sentivano sudditi di seconda categoria, e miravano a rendere più puritano e borghese il Paese: avevano p.es. abolito la prostituzione (cacciando le prostitute), la moda dei vestiti colorati e sfarzosi (gli ugonotti tendenzialmente si vestivano di nero), le feste carnevalesche e “pagane”, l’elemosina ai mendicanti…

La notte di san Bartolomeo

A questa guerra di religione ne seguirono altre sette, sfruttando qualunque pretesto possibile. Il momento più cruento lo si ebbe durante la quarta (1572–73), con un terribile massacro di ugonotti avvenuto in quella che passò alla storia come la notte di san Bartolomeo. Per rinsaldare il mantenimento della pace tra i due partiti religiosi, Caterina aveva progettato il matrimonio tra la figlia Margherita di Valois e il principe protestante Enrico di Borbone, sovrano del regno pirenaico di Navarra (futuro re Enrico IV).

Papa Gregorio XIII (1572-85) non ne fu il promotore diretto della strage, ma il suo predecessore, Pio V (1566-72), vero uomo della Controriforma, poi canonizzato da Clemente XI nel 1712, odiava a morte i protestanti. Infatti al sovrano spagnolo Filippo II raccomandava di non avere per loro alcuna pietà. Lui stesso, quand’era cardinale e prefetto del Tribunale dell’Inquisizione, nel 1561, aveva organizzato il grande massacro dei Valdesi in Calabria, ove si erano rifugiati.

Il conte di Santa Fiora (Bosio II Sforza), messo da Pio V a capo delle milizie papali inviate in aiuto di re Carlo IX contro gli ugonotti, con l’ordine di uccidere qualunque eretico gli capitasse tra le mani, si distinse nella battaglia di Montcontour (3 ottobre 1569), ed ebbe in dono dal re le trentasette bandiere tolte ai nemici, che furono sospese nella basilica del Laterano.

Pio V esultò davanti alle stragi di calvinisti francesi compiute a Cahors, Tours, Amiens, Tolosa… Al duca d’Alba, Francesco Alvarez de Toledo, ch’era stato mandato dal sovrano spagnolo Filippo II nelle Fiandre per reprimere i calvinisti, fece omaggio di un cappello e di una spada benedetti per averne sterminati 17.000.

Quando Pio V fu sostituito da Gregorio XIII (un papa peraltro già sposato e con un figlio), famoso in tutto il mondo per la riforma del calendario, ormai il trend particolarmente violento della Controriforma non trovava ostacoli nel mondo cattolico, anche se in Italia la caccia agli eretici s’era praticamente conclusa.

Il suddetto matrimonio, previsto per il 18 agosto 1572, ovviamente non accettato dai cattolici intransigenti, aveva richiamato a Parigi una gran numero di nobili ugonotti. Sembra che Caterina, da tempo pressata dal papa che chiedeva l’intervento degli spagnoli per eliminare gli ugonotti dalla Francia, abbia cercato di sfruttare quest’occasione per porre termine alle continue guerre, eliminando in un colpo solo pressoché tutti i capi della fazione protestante, molto scontenti, peraltro, del fatto che Giovanna di Navarra, vedova di Antonio di Borbone, che nella Navarra aveva introdotto il calvinismo, era stata avvelenata da una congiura della corte francese e dei legati pontifici. Ma è difficile sapere fino a che punto la regina sia stata alla fonte di questo immane eccidio.

Di sicuro chi lo diresse personalmente fu Enrico di Guisa, col consenso del re Carlo IX: dalla notte del 23 agosto al mattino del 24 migliaia di ugonotti furono assassinati nelle loro case (Enrico di Borbone riuscì però a salvarsi). Poi la cosa si ripeté in altre città: Orléans, Troyes, Rouen, Bordeaux, Tolosa… (si parla di circa 15-20.000 morti), senza però ottenere i risultati sperati, poiché la guerra riprese ugualmente, concludendosi col fallimento, da parte delle forze cattoliche, dell’assedio di La Rochelle, dotata di un porto considerato inespugnabile.

I calvinisti misero in discussione l’autorità del potere reale, al punto che con la costituzione dell’Unione dei protestanti del Midi, si formò una sorta di repubblica di città e di nobili, con un proprio governo parallelo, che imponeva imposte, organizzava gli Stati generali, manteneva un proprio esercito e contestava il principio d’ereditarietà della monarchia e la legittimità della reggenza, particolarmente se tenuta da una donna straniera. Le città-fortezza di La Rochelle, Montpellier, Montauban ecc. fornivano i mezzi finanziari ed erano i punti d’appoggio fortificati; la numerosa piccola nobiltà costituiva le forze armate.

Intanto a Roma…

… il papa Gregorio XIII – “male informato sulla dinamica dei fatti”, cioè credendo che fosse stato sventato un attentato ai reali di Francia, secondo apologeti clericali come Vittorio Messori – fece celebrare un Te Deum di ringraziamento, con tanto di processione di 33 cardinali e di un folto seguito di sacerdoti e semplici fedeli (così narrato perfino sul sito ufficiale del Vaticano da Vittorino Grossi, Il Giubileo viaggio nella storia, www.vatican.va). Vi fu anche una funzione di ringraziamento in San Luigi dei Francesi, alla presenza del pontefice.

Non sembra però che in seguito, pur avendo avuto il tempo di prendere opportune informazioni, il papa abbia cambiato avviso, tant’è che, dopo aver festeggiato “con luminarie e tridui” lo scampato pericolo per la monarchia francese, “fece coniare una medaglia commemorativa dell’avvenimento, dando inoltre incarico al Vasari di affrescare nella sala Regia del Vaticano, insieme alla Battaglia di Lepanto, anche la notte di S. Bartolomeo”.

Inoltre, temendo una riconciliazione fra cattolici e ugonotti, scrisse una lettera al nunzio apostolico in Francia, cardinal Orsini, invitandolo a raccomandare al re di Francia Carlo IX, responsabile della strage di San Bartolomeo, “che insistesse fortemente perché la cura così bene cominciata co’ rimedi bruschi non guastasse con importuna umanità”.

D’altra parte egli avrebbe voluto far assassinare anche la regina Elisabetta, a motivo della scomunica già ricevuta da Pio V. Anzi, sarà proprio questa sua intenzione a indurre Filippo II a scatenare una guerra contro gli inglesi usando la sua potentissima flotta, che però nello stretto della Manica verrà clamorosamente sconfitta.

La Lega cattolica integralistica

Nello stesso periodo si costituì la Lega cattolica, per iniziativa dei Guisa, cui aderirono nobili e borghesi della Francia settentrionale (ma la funzione dirigente era esercitata dall’aristocrazia feudale, che mirava a indebolire il potere centrale e a restaurare le antiche autonomie delle province). Le enormi spese per finanziare le continue guerre, unite alle devastazioni portate dagli eserciti, avevano ancor più aumentato la pressione fiscale su una popolazione che, nella sua maggioranza, subiva da decenni un costante impoverimento. Il risultato fu una crescente ostilità contro la dinastia dei Valois. Il duca Enrico di Guisa stava seriamente cominciando a pensare di diventare successore di Enrico III (il quarto figlio di Enrico II e di Caterina de’ Medici), che non aveva avuto figli.

Dopo la separazione di fatto del sud, il territorio sotto il dominio del governo si era ridotto all’incirca della metà. Inevitabilmente il governo accentuò la pressione fiscale sulle città e la lealtà della borghesia settentrionale nei confronti della dinastia dei Valois cominciò a venir meno. Il governo era ormai screditato, tanto più che il partito dei cattolici moderati era ostile all’appoggio dato dal re agli estremisti del partito cattolico dei Guisa, e aveva persino intenzione di riconoscere le vittime del massacro di San Bartolomeo e di restituire i loro beni alle famiglie, esentandole da imposte per un periodo di sei anni.

L’accordo provvisorio tra cattolici e calvinisti

Si giunse infine a un accordo tra cattolici e calvinisti, ma nella maniera più assurda per una coscienza cristiana, a testimonianza che ormai la religione era palesemente al servizio di idee politiche ed economiche borghesi. Forse l’ultima esperienza di idealismo religioso era avvenuta nell’area bizantina, crollata nel 1453.

Quando la dinastia dei Valois rischiò di estinguersi per mancanza di eredi maschi, la corona sarebbe dovuta spettare proprio a Enrico di Borbone, re di Navarra, che discendeva direttamente e per linea maschile da Luigi IX di Francia. Senonché il fatto che il re di Navarra fosse protestante causava un grande problema per le coscienze cattoliche, per le quali era assolutamente impossibile che un calvinista potesse salire sul trono di Francia.

Ecco perché i fanatici Guisa tornarono alla riscossa. Sotto la spinta della Lega cattolica e del suo capo Enrico di Guisa, il re Enrico III firmò il Trattato di Nemours (1585) con cui s’impegnava a riconoscere ufficialmente la Lega e la sua organizzazione militare e a revocare gli editti di tolleranza nei confronti degli ugonotti. In particolare il re dichiarò guerra a Enrico di Navarra, suo potenziale successore. Iniziò così l’ottava e ultima guerra di religione, detta anche Guerra dei tre Enrichi (Enrico III re di Francia, Enrico di Navarra ed Enrico di Guisa).

Tuttavia, le ambizioni della Lega Cattolica e la sua vasta dimensione provocarono molta apprensione da parte del re. La Lega se ne accorse e lo cacciò da Parigi. Enrico III ormai non aveva più nulla da perdere: convocò gli Stati Generali a Blois e fece assassinare Enrico di Guisa (e anche il cardinale di Lorena). Privata del suo capo, la Francia della Lega destituì il re. Le truppe reali e quelle protestanti allora si unirono contro la Lega, che in quel momento non poteva contare sull’aiuto degli spagnoli, tragicamente sconfitti dagli inglesi nella grande battaglia navale della Manica.

I regicidi del fanatismo religioso

Il 2 agosto 1589 Enrico III morì assassinato da Jacques Clément, monaco domenicano, appartenente alla Lega. Suo cugino, Enrico di Navarra gli succedette con il nome di Enrico IV di Francia, pur essendo scomunicato dal papa Sisto V. Era stato lo stesso Enrico III che, in punto di morte, l’aveva designato come successore, a condizione che diventasse cattolico. Finiva così la dinastia dei Valois, che regnava in Francia dal 1328.

Divenuto re di Francia col nome di Enrico IV, il Navarra aveva il problema di rendere effettivo il suo regno, per metà controllato dalla Lega e dalla stessa Parigi, ch’egli strinse d’assedio, ma invano. La capitale s’era data un governo autonomo degli strati piccolo-borghesi, ostili non solo alla Corona ma anche ai Guisa, ch’erano non meno fiscalmente esosi.

Per risolvere la questione fu decisiva, nel 1592, la rivolta dei contadini scoppiata nel sud-ovest, il cui obiettivo era quello di eliminare gli esattori delle imposte e devastare le ville dei nobili. I contadini si univano in reparti armati di molte migliaia di uomini, eleggevano capi e funzionari, allacciavano rapporti con i poveri delle città, assediavano le case e i poderi dei nobili, punendoli severamente e dichiarando che non erano più disposti a sopportare le loro estorsioni, e nemmeno quelle degli appaltatori ed esattori delle imposte. In questo modo, i contadini prendevano posizione sia contro l’oppressione feudale dei loro signori, sia contro il gravame fiscale dello Stato.

Questa rivolta spaventò parecchio i nobili, che cominciarono a pensare di cambiare strategia di alleanze. Per loro infatti solo uno Stato forte e unito poteva ristabilire l’ordine minacciato all’interno, dai contadini e, all’esterno, dalle ingerenze spagnole.

L’atto di conversione al cattolicesimo di Enrico IV, avvenuto il 25 luglio 1593 gli aprì, l’anno dopo, le porte della capitale, i cui abitanti non sopportavano più l’intolleranza della Lega né i suoi rapporti con la Spagna. Famosa la frase che il Borbone in quell’occasione pare abbia detto: “Parigi val bene una messa”.

Negli ambienti istituzionali della Francia del Cinquecento l’atteggiamento esclusivamente politico nei confronti della religione porterà progressivamente i francesi a caratterizzare il loro Stato in maniera sempre più laica, mantenendolo equidistante nei confronti delle religioni; ma la spinta decisiva, in questa direzione, verrà data solo dalla rivoluzione del 1789.

L’Editto di Nantes

Dichiarata guerra alla Spagna, Enrico IV sconfisse definitivamente nel 1595 la Lega cattolica e nel 1597 gli spagnoli. Nel sud-ovest, intanto, le forze dei nobili, appoggiate dai mercenari del re, schiacciarono la rivolta dei contadini in due anni di lotta accanita.

Enrico IV emanò poi il 13 aprile 1598 l’Editto di Nantes col quale il cattolicesimo fu proclamato religione ufficiale (in quanto maggioritaria) dello Stato, ma i protestanti ottenevano la libertà di professare la loro confessione – tranne che a Parigi e in poche altre città – e il diritto di accedere alle cariche pubbliche (previo giuramento di fedeltà al sovrano), e di mantenere un proprio esercito di 25.000 uomini e un centinaio di fortezze a garanzia della loro sicurezza.

Nell’Editto tuttavia la parola “tolleranza” non compare mai: in quel tempo infatti essa era associata a un concetto negativo per entrambe le fedi. Ciascun credente si riteneva il detentore della verità assoluta e colui che praticava un altro credo pregiudicava così la propria vita eterna e quindi era un dovere impedire che “l’altro” permanesse nell’errore. Ciascuna fede pretendeva pertanto il diritto di salvare, anche con la costrizione fisica, gli appartenenti alla fede avversa.

In ogni caso l’Editto consolidò la monarchia assoluta, pienamente appoggiata dall’aristocrazia in funzione anticontadina, e dalla borghesia in funzione antinobiliare. Tale esito era favorevole allo sviluppo dei rapporti capitalistici nell’ambito dello Stato feudale e colonialistici nel Nuovo Mondo, almeno fino a quando Enrico IV non fu ucciso da un fanatico monaco cattolico nel 1610, che evidentemente rappresentava gli interessi di chi non sopportava i diritti concessi ai protestanti con l’Editto di Nantes.

La Francia cattolica e assolutistica

La Francia rischiò di piombare in una nuova guerra civile, ma questa volta la borghesia, schieratasi a favore del potere regio, riuscì a opporsi efficacemente alle mene separatistiche dell’aristocrazia. E i due cardinali che, in successione, dirigeranno la politica del re Luigi XIII (1601-43), cioè Richelieu (1585–1642) e Mazzarino (1602-61), lo dimostreranno eloquentemente. Sarà infatti proprio la guerra dei Trent’anni (1618-48), contro gli Asburgo d’Austria e di Spagna, a far diventare la Francia il più potente Stato dell’Europa continentale, anche se proprio questi “superpoteri” indurranno i sovrani francesi a revocare progressivamente l’Editto di Nantes, a partire dal 1685, con l’Editto di Fontainebleau di Luigi XIV, in quanto si vietarono le assemblee politiche protestanti e si pretese la cessione immediata di ogni città e fortezza militare da loro controllata.

Col tempo, almeno sino alla rivoluzione del 1789, i sovrani cattolici faranno di tutto, sul piano amministrativo, per svuotare di contenuto l’Editto di Nantes. Il che comporterà una forte emigrazione dei calvinisti verso l’Inghilterra e le sue colonie della Virginia e della Carolina del Sud, ma anche verso la Germania, la Svizzera e l’Olanda, e verso le colonie nordamericane degli attuali stati di New York e New Jersey. Si trattava prevalentemente di artigiani o di membri della borghesia (si parla di una cifra intorno ai 200.000), che andranno ad arricchire quei paesi a scapito della Francia, che non a caso nel confronto navale con gli inglesi risulterà sempre perdente.

La mistica della morte

Quando nel quarto vangelo viene fatto dire a Gesù, già entrato a Gerusalemme per compiere l’insurrezione nazionale anti-romana, che “il figlio dell’uomo deve essere glorificato” (12,23), con questo verbo, usato al passivo, come se la cosa non dipendesse completamente da lui ma da un’entità superiore (che ai vv. 27-8 viene identificata esplicitamente col “Padre”, il dio dei cieli), gli autori intendono non il fatto ch’egli sarebbe dovuto diventare un leader politico, riconosciuto a livello nazionale, per la liberazione dell’intero paese, bensì l’idea, del tutto mistica e quindi tendenziosa e falsificante, ch’egli avrebbe dovuto immolarsi, cioè sacrificare la propria vita per indurre gli uomini alla salvezza.

“Ora la mia anima è turbata” (di fronte alla propria auto-immolazione non può non esserlo, poiché deve per forza chiedersi se il gesto che sta per compiere servirà davvero a qualcosa); “e che dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma se è proprio per questo che ho atteso quest’ora!” (v. 27). Cioè non ha senso avere dei dubbi nel momento stesso in cui si ha la possibilità di dimostrare finalmente quel che si vale al mondo intero. La “determinazione in carattere” va considerata assolutamente decisiva, per usare una terminologia kierkegaardiana; anche se qui ovviamente non si può escludere che, in una concezione così irrazionalistica della vita, il martire non possa avvalersi di strumenti idonei per indurre il potere a eliminarlo. In fondo sta anche nella sua destrezza far passare il proprio suicidio religioso per un omicidio di stato. E, nel caso in oggetto, si potrebbe facilmente pensare che l’ingresso nella capitale, proprio in occasione della Pasqua, sarebbe stata un’occasione ottima per provocare le autorità costituite, occupanti e colluse.

Il “granello di frumento” – di cui si parla al v. 24 – deve “morire” per poter produrre “molto frutto”. Questa mistica della morte è stata elaborata per falsificare un progetto di liberazione politica (ovviamente anche sociale e culturale), di cui i discepoli più stretti (in primis Pietro) non hanno voluto ammettere il fallimento a causa della loro incapacità o inettitudine, non essendo stati sufficientemente risoluti per impedire che avvenisse o per proseguire quel progetto anche dopo l’esecuzione capitale del loro leader, che i Romani riservavano appunto ai sediziosi o rivoltosi.

La morte in croce di un capo politico è stata trasformata in una suggestione psicologica e morale per una salvezza esclusivamente religiosa. Qui infatti si è in presenza di una sorta di paradossale provocazione di tipo metafisico, non scevra da effetti scenico-teatrali, che ricordano le tragedie greche.

La morte accettata consapevolmente, da parte di chi avrebbe potuto evitarla, viene qui considerata come la prova suprema della verità di sé e dell’operato dei propri discepoli, di fronte alla quale il popolo non potrà rimanere indifferente. Il Cristo è “testimone di verità” proprio in quanto martire. Un’equivalenza, questa, la cui forzatura venne sottolineata dal primate danese Martensen al suddetto filosofo Kierkegaard, intento a cercare motivazioni per contestare la chiesa di stato. Un’equivalenza che ancora oggi troviamo in tante religioni fondamentalistiche.

La salvezza sta quindi nel fatto che ci si deve convertire solo interiormente, opponendo una forma di resistenza etico-religiosa ai poteri costituiti. La vittoria starà soltanto in una progressiva espansione pacifica della virtù, nei cui confronti il potere dovrà ad un certo punto cedere. Infatti, se i credenti seguiranno l’esempio del loro maestro, tutte le persecuzioni non faranno che allargare il consenso. Il seme dà frutto proprio quando muore, cioè quando, penetrando nella terra (nei cuori degli uomini), esplode e fa crescere la pianta, che dà molti frutti.

“Chi ama la sua vita”, cioè chi non è disposto ad accettare il martirio, “la perde”, cioè non si salva, non può diventare un seguace significativo dell’esempio che dovrebbe imitare, e non semplicemente ammirarlo sul piano etico o apprezzarlo su quello intellettuale; “e chi odia la sua vita in questo mondo”, ritenendola un nulla al cospetto del bene supremo, della verità che deve affermare, che vuole vedere affermarsi, “la conserverà in vita eterna”, cioè avrà un premio nell’aldilà (“il Padre l’onorerà”, v. 26).

Mistica della morte vuole appunto dire questo, che si deve accettare il martirio non tanto per realizzare la giustizia su questa Terra, quanto piuttosto per poter fruire di una salvezza personale nel regno dei cieli. Su questa Terra, infatti, se il modello originario non è riuscito a realizzare il bene assoluto, è impossibile che vi riesca la sua copia sbiadita, per usare un linguaggio platonico. Il peccato originale ha reso gli uomini incapaci del vero bene. L’unico che possono realizzare è quello di accettare una persecuzione sino alla morte, mostrando che di questo mondo non amano nulla, nemmeno se stessi. L’unica cosa che amano è la salvezza della loro anima, che non vuole contaminarsi spiritualmente con alcunché.

Il cristianesimo – direbbe Nietzsche – è la religione degli sconfitti, quelli che vogliono trasformare il fallimento del progetto politico di liberazione in una occasione di redenzione meramente spirituale, una liberazione dalle tentazioni del mondo, da tutte le sue forme di corruzione. “La nostra battaglia – dirà Paolo, il vero fondatore del cristianesimo – non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef. 6,11).

È quindi impossibile che gli autori di questo vangelo non appartengano a una comunità di tipo monastico: la scelta stessa dell’esempio del chicco di frumento lo dimostra. Un monaco agricoltore si accorge facilmente quando il seme non riesce a dar frutto, o perché beccato dagli uccelli o perché seccato dal sole o perché soffocato dalle erbacce.

Per essere coerenti con se stessi, il più possibile, dovevano necessariamente isolarsi dai contesti urbani, cercando di vivere esclusivamente di autoconsumo, di cui il pane era l’alimento principale. Essi finirono col riprodurre una forma di esistenza sociale simile a quella degli Esseni di Qûmran, con la differenza che mentre questi aspettavano un messia liberatore della Palestina, i redattori monaci del vangelo attribuito a Giovanni davano invece per scontato che tale messia era già arrivato e che non sarebbe più tornato sino alla fine dei tempi.

La scelta monastica quindi non sarebbe stata provvisoria, ma definitiva. Dalla comunità monastica non sarebbe più uscito un nuovo predicatore, come p.es. Giovanni Battista, il quale si era reso conto che occorreva rivolgersi più direttamente al proprio popolo, senza aspettare che fosse quello ad accorgersi del valore della comunità. La comunità cristiana monastica avrebbe dovuto soltanto attendere passivamente, con assoluta rassegnazione, la fine della storia, il ritorno glorioso del Cristo giudice, confidando nel fatto che la scomparsa misteriosa del suo cadavere dalla tomba concessa da Giuseppe d’Arimatea fosse un chiaro segno della sua “divina resurrezione”.

L’unica fatica da fare era quella di resistere alle tentazioni della vita mondana: le comodità, il benessere, i piaceri della carne, la ricerca di un potere personale. Il monaco cristiano doveva continuamente mortificare il proprio corpo, e persino il proprio spirito, se questo gli avesse impedito di vivere in armonia coi compagni di fede.

Quando il califfato si chiamava papato

Dal IV sec. in poi la storia della chiesa cristiana è stata la storia di differenti forme d’intolleranza, con tanto di violenza fisica, torture ed esecuzioni capitali, al solo scopo d’imporre una determinata fede.

A partire dall’editto di Teodosio del 380 le misure persecutorie cominciarono ad essere rivolte sia contro i pagani, sempre più costretti a riunirsi in case private, mentre i loro templi venivano demoliti; sia contro gli stessi eretici (p.es. in Spagna Priscilliano e i suoi seguaci). La filosofa neoplatonica Ipazia fu addirittura linciata da un gruppo di fanatici, istigati dal vescovo Cirillo di Alessandria.

La legittimazione dottrinale per qualunque tipo di persecuzione veniva presa dall’Antico Testamento, cioè da quella stessa fonte ch’era già servita agli ebrei per sterminare i cosiddetti “idolatri”. Loro stessi si videro perseguitati dai cristiani proprio in nome di un dio che aveva assunto sembianze veterotestamentarie. Sant’Ambrogio di Milano ammise molto tranquillamente d’aver dato lui l’ordine di bruciare la sinagoga della sua città.

L’intolleranza religiosa fu teorizzata da gran parte dei Padri della chiesa (Agostino, Girolamo ecc.), nonché da tutti i papi, a partire da Leone I Magno, che chiedeva all’imperatore bizantino di non fare differenza tra nemici della chiesa e nemici dello Stato. Fu proprio lui ad anticipare ciò che nel Medioevo diverrà l’idea-chiave dell’Inquisizione: il potere temporale va considerato come braccio secolare di quello spirituale. La chiesa cioè si limitava a condannare sul piano ideologico, mentre lo Stato eseguiva le sentenze.

Papa Gelasio I considerava gli eretici peggio delle devastazioni barbariche, mentre per Gregorio I se gli schiavi andavano convertiti con “botte e torture”, i liberi invece dovevano subire una “dura carcerazione”. Ovviamente i papi non erano sempre così espliciti nell’uso della violenza ai fini della conversione, però il ricorso a metodi autoritari veniva considerato legittimo in extrema ratio.

L’uso del rogo iniziò nel 1022, quando il re di Francia, Roberto II il Pio, fece bruciare una quindicina di monaci di Orléans, e divenne una prassi consueta con l’Inquisizione, le cui esecuzioni sono state circa mezzo milione (da 70 mila a 300 mila solo le streghe). Gli ultimi roghi per stregoneria in Europa avvennero tra il 1782 e il 1793 in Svizzera e in Polonia.

Tutti potevano essere sospettati, imprigionati, perdere le proprietà, privati di qualunque difesa, torturati (anche solo come misura precauzionale, per sincerarsi dell’affidabilità della confessione) e infine arsi vivi. Non si giudicavano i crimini ma le idee, e la presunzione non era quella d’innocenza (come oggi) ma di colpevolezza, per cui era a carico dell’accusato dimostrare il contrario.

Quando si parla di perseguitati dalla chiesa romana, si ricordano sempre i soliti nomi (Giordano Bruno, Galilei, Vanini, Jan Huss, Savonarola…), lasciando credere che, tutto sommato, non dovettero essere molti, ma quegli intellettuali, in realtà, erano soltanto la punta di un iceberg. Decine di migliaia sono stati gli illustri sconosciuti o i seguaci di leader religiosi significativi.

Federico Barbarossa non batté ciglio quando al Concilio di Verona papa Lucio III pretese la bolla Ad abolendam, poi integrata nelle Decretali di Gregorio IX. Sperava d’essere riconosciuto come imperatore nell’Italia comunale, ma il papato, dopo essersi servito di lui contro gli eretici (clamorosa fu l’esecuzione di Arnaldo da Brescia), si servì degli stessi Comuni contro di lui, e ne uscì vittorioso, anche se l’imperatore, poco prima di andare a morire in un’ennesima quanto inutile crociata anti-islamica, fece sposare suo figlio con l’erede dei Normanni d’Altavilla, che nel Mezzogiorno svolgevano la parte di feudatari della chiesa. Il papato andò su tutte le furie, perché voleva allargare a dismisura il proprio Stato, e alla morte di Federico II, nipote del Barbarossa, non ci pensò un attimo a far venire in Italia gli Angioini. Questa infatti è sempre stata un’altra caratteristica del papato italiano: servirsi di una potenza straniera per combattere i nemici interni.

Per la chiesa feudale l’eresia doveva essere equiparata al reato di “lesa maestà” (cosa molto contestata, p.es., da un grande teologo come Marsilio da Padova), per cui andava sempre punita con la morte, soprattutto in caso di recidiva. Si era così severi che la condanna si estendeva anche ai discendenti degli eretici: lo si faceva al solo scopo d’intimidire, oltre ovviamente a quello di privare l’eretico di ogni suo bene.

La crociata interna contro gli Albigesi fu una strage incredibile in Occitania. Papa Innocenzo III fu, in quell’occasione, un vero “macellaio”, poiché permise di far fuori un’intera comunità di duemila fedeli.

Oggi ci stupiamo molto che i membri dell’Isis taglino la testa o brucino vivo chi per loro è un eretico o un infedele. Ma questi trattamenti erano considerati del tutto legittimi dalla chiesa e dai sovrani cattolici in Europa. Catari arsi vivi vi furono a Colonia nel 1163, 80 eretici a Strasburgo nel 1212, e così via: l’elenco di casi del genere è lunghissimo.

Nel 1197 Pietro d’Aragona introdusse il rogo tra le forme di punizione espressamente previste per gli eretici che non avessero lasciato immediatamente il paese (spesso l’esecuzione era preceduta dal taglio della lingua, come punizione contro il reato di bestemmia).

I papi fondamentalisti non lesinavano citazioni ad hoc per giustificare i loro crimini. Disse, p.es., Gregorio IX nel 1233: “Dov’è lo zelo di un Mosè, che in un solo giorno annientò 23 mila idolatri? Dov’è lo zelo di un Elia, che uccise con la spada i 450 profeti di Baal?”.

Anche il teologo più importante della chiesa romana, Tommaso d’Aquino, se non aveva dubbi che i giudei o i pagani non potessero essere costretti a credere, di sicuro però dovevano esserlo gli eretici e gli apostati, con pene corporali e anche con quella capitale, se necessario.

La pena del rogo fu introdotta da Federico II in tutto il sacro romano-germanico impero; ufficialmente la Francia lo fece nel 1270; Venezia nel 1249; Alfonso X di Castiglia la prevedeva nel 1255 per chi si convertiva dal cristianesimo all’islam o all’ebraismo; nel 1401 entrò nella legislazione inglese.

Quando il papato era ad Avignone, i Templari, che si erano arricchiti enormemente con le crociate anti-islamiche, furono sterminati dal re di Francia con l’avallo di papa Clemente V, che autorizzò le più barbare torture al fine di privarli di tutti i loro beni: 500 di loro morirono persino prima ancora di finire sul rogo. Nel caso in oggetto non si trattava neppure di veri e propri “eretici” in senso teologico.

E neppure lo erano i fraticelli francescani, che contestavano il clero corrotto non sul piano ideologico ma solo dal punto di vista della pratica della fede. A Carcassonne papa Giovanni XXII ne fece bruciare 113. In Italia gli apostolici-dolciniani sterminati furono circa 3.000.

Quando papa Wojtyla disse che tali atti erano in contrasto con la dottrina della chiesa, mentiva sapendo di mentire. Gli inquisitori, i teologi, i papi erano tutti convinti che, uccidendo l’eretico, facevano il suo bene, in quanto gli impedivano di continuare a peccare.

La chiesa romana ha praticato esecuzioni capitali sino all’unificazione italiana (l’ultimo giustiziato è del 1870) e ha abolito giuridicamente la pena di morte solo nel 2001!

Innocenzo IV (1243-54) legittimò l’uso della tortura con la bolla Ad extirpanda, e i suoi successori, Alessandro IV e Urbano IV autorizzarono gli inquisitori ad essere presenti a tutte le torture. Il solo Bernardo Gui, domenicano francese e grande inquisitore di Tolosa, condannò 636 persone dal 1308 al 1322, di cui 40 finirono sul rogo, 300 imprigionate a vita, e le altre a pene minori. Papa Giovanni XXII lo premiò facendolo diventare vescovo.

Nel Manuale dell’inquisitore, scritto nel 1376 dal domenicano Eymerich, si può chiaramente leggere che persino gli eretici pentiti finivano male: come minimo infatti subivano l’ergastolo.

Non dimentichiamo che se si scopriva in ritardo che uno era stato eretico, si poteva anche riesumarlo dalla tomba, fargli il processo e mandarlo al rogo. Il primo a subire una procedura del genere, che a dir macabra è poco, ma che poi divenne prassi, fu addirittura un papa, di nome Formoso, nell’897. Lo si faceva per far capire all’eretico che non aveva scampo, né da vivo né da morto.

Di recente papa Bergoglio ha chiesto scusa ai Valdesi per le persecuzioni subite. Pochi infatti sanno che persino in epoca umanistica venivano messi al rogo (p.es. nel 1445 a Cuneo, ma anche nel 1560-61 in Calabria, allorché i gesuiti li mandavano a morire anche se pentiti).

Non c’è d’altra parte da stupirsi. Il papato ricorreva a metodi di oppressione tanto più terribili, quanto più si rendeva conto che il potere politico gli stava sfuggendo di mano. Ecco perché l’Inquisizione continuò, ancor più virulenta, finito il Medioevo, durante la Controriforma.

Mentre nella Spagna tardo-feudale, a partire dal 1478, si usò l’Inquisizione contro gli ebrei e gli islamici convertiti al cristianesimo, semplicemente perché di loro non ci si fidava, e si preferiva cacciarli dalla Spagna unificata per privarli di tutti i loro beni; nel resto dell’Europa invece il nemico da abbattere era il “protestante”, luterano o calvinista che fosse.

L’Inquisizione moderna se la prendeva contro ogni idea diversa da quella che doveva apparire “ufficiale”. Quella “romana” fu istituita nel 1542 da papa Paolo III, per inaugurare la Controriforma. Agli inquisitori si diede piena licenza di torturare e giustiziare, mirando a colpire non solo con gli eretici, ma anche i bestemmiatori in senso lato, gli omosessuali, i simoniaci, i celebranti senza ordinazione, chi violava i giorni festivi, i giudaizzanti, ecc. Nel 1556 ad Ancona furono condannati a morte 25 ebrei, previo il rogo di tutti i loro testi sacri.

Nella monumentale Storia della chiesa, curata da H. Jedin per i tipi della Jaca Book, appare abbastanza ridicolo che, di fronte a eccidi del genere, si dica che “nell’insieme tali provvedimenti repressivi erano ben superati dal positivo lavoro costruttivo della pubblicazione del catechismo, del breviario e del messale”.

È rimasto alla storia il Te Deum che papa Gregorio XIII fece celebrare a titolo di ringraziamento per l’orrenda strage di migliaia di ugonotti (tra 5.000 e 30.000) compiuta dai cattolici a Parigi nella notte di San Bartolomeo (1572).

Difficile sostenere la legittimità di comportamenti del genere e poi continuare a non negare l’assurdità di un dogma come quello dell’infallibilità pontificia. Probabilmente l’unico papa davvero “infallibile” è stato Celestino V, che si dimise dopo pochi mesi, prima ancora di compiere qualcosa di cui, in quanto benedettino eremitico, si sarebbe amaramente pentito.

Da notare, inoltre, che se le torture e le esecuzioni capitali dovevano sottostare in Europa a procedure formalmente “corrette”, nei paesi colonizzati tutte le remore venivano meno. Se aggiungiamo alle vittime europee quelle latinoamericane e di altre colonie, il numero diventa incalcolabile.

L’Inquisizione ha continuato a fare molta paura ancora nel Seicento e nel Settecento. La temettero o la subirono nomi famosi: da Giordano Bruno, a Galilei, a Cartesio, sino ai massoni (si pensi p.es. alla vicenda di Tommaso Crudeli). Il libro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, fu messo all’Indice, come tantissimi altri.

L’Inquisizione ebbe termine non grazie al senso del diritto dei cattolici, ma alle idee dell’Illuminismo, della rivoluzione francese e dell’espansione napoleonica in Europa. Si iniziò praticamente dalla metà del Settecento, anche se l’intolleranza della chiesa romana continuò imperterrita.

Nel 1832 papa Gregorio XVI condannava recisamente ogni affermazione della libertà di coscienza (Mirari vos); cosa che fu ribadita nel 1864 da papa Pio IX (Quanta cura), che farà approvare il dogma dell’infallibilità per difendere lo Stato della chiesa dalle minacce dei Savoia.

Nel 1910 papa Pio X condannò i cattolici progressisti francesi (anche in Italia il modernismo fu pesantemente represso); e il suo successore, Pio XI, pretese da Mussolini, per risolvere la “questione romana”, che lo Stato dichiarasse il cattolicesimo a “fondamento e coronamento” della propria istruzione scolastica. Cosa che è stata eliminata solo con la revisione concordataria del 1984, anche se permane intonso l’art. 7 nella Costituzione.

Ci vorrà il Concilio Vaticano II per ammorbidire le posizioni integralistiche della chiesa, che però torneranno in auge coi due pontificati nettamente anti-comunisti di Wojtyla e Ratzinger, i principali affossatori anche della teologia della liberazione.

Naturalmente cattolici

L’idea di eternità e infinità atterrisce qualunque credente, se a quell’idea si fa associare l’inesistenza di un dio creatore. I credenti sono così ideologici che piuttosto che accettare l’inesistenza di dio, negano che possa esistere un’idea di eternità e infinità. Per loro è anzitutto importante sostenere ciò in cui credono, anche nel caso in cui, smettendo di farlo, non ne riceverebbero alcun danno. Cosa c’è infatti di più grande dell’idea di eternità e infinità di tutte le cose? Cosa c’è di più bello di un universo illimitato nello spazio e nel tempo?

Il motivo di questa chiusura mentale probabilmente non appartiene al credente in quanto tale, ma proprio a quello che fa della sua fede una bandiera politica, cioè un modo d’imporsi sugli altri.

In effetti la fede dell’uomo primitivo doveva esser cosa del tutto naturale, da non utilizzarsi in maniera discriminante o strumentale. Viceversa la fede del cattolico sembra nascere da un’esperienza frustrata, alienata, intenzionata a rivendicare un proprio spazio di autonomia, che però non è quello di chi va a vivere in un posto isolato, lontano dalle tentazioni del mondo. Lo “spazio vitale” del cattolico è quello urbanizzato, cioè sociale politico culturale.

Il cattolico vuole affermare la propria fede contro quella di altre religioni e soprattutto contro le esperienze che non prevedono alcuna fede. La conseguenza è che se con un soggetto del genere si può parlare di qualunque cosa, alla fine ogni discorso deve arrivare sempre allo stesso risultato: produrre qualcosa di vantaggioso per la fede cattolica.

E’ difficile vedere un credente del genere fare dei discorsi o compiere delle azioni che non abbiano un secondo fine. Sono talmente abituati a dinamiche di potere o a logiche conflittuali che, per dei credenti del genere, l’importante, in definitiva, non è tanto “credere in dio” quanto “avere una fede”, perché è appunto con questa che si può rivendicare un potere.

Se a un credente del genere si desse la possibilità di acquisire un potere equivalente o anche superiore a quello che ha già, alla condizione faustiana di mutare la propria fede, opporrebbe un rifiuto solo per una semplice ragione: quella di non poter cambiare i connotati della propria faccia.

Infatti, in quanto cattolico, egli ha dovuto esporsi pubblicamente, lottando con tutte le sue forze per acquisire una posizione di prestigio. Passare da una religione all’altra o dalla fede all’ateismo sarebbe possibile solo se avvenisse un fatto epocale, uno sconvolgimento indipendente dalla propria volontà. Cioè il mutamento non sarebbe frutto di una metamorfosi spirituale, di un convincimento interiore.

Il cattolico non è un credente che ragiona con la propria testa o che va continuamente alla ricerca della verità e che non ha pace finché non la trova: è piuttosto un gregario, un intruppato, uno che vuole fare carriera obbedendo agli ordini e che quando finalmente arriva alla meta agognata, si ritiene autorizzato a fare qualunque cosa, come se avesse ricevuto un premio speciale per una faticosa fedeltà personale.

Di qui il dualismo tipico della chiesa romana, tra gerarchie sommamente corrotte, in quanto abituate a gestire politica e affari, e “popolo-bue”, abituato a obbedire, nella speranza che dall’alto qualcuno s’accorga che tra la “massa dannata” – come la chiamava sant’Agostino – può esservi qualcuno che merita di emergere.

Un atteggiamento del genere lo si vede anche nella politica, tra quei politici che hanno ereditato la cultura cattolica, persino tra quelli che, pur dicendosi “laici”, hanno introiettato le forme di questa cultura. Se ai tanti corrotti e corruttori del nostro paese, noi ponessimo la domanda su quale atteggiamento hanno nei confronti della religione, ci risponderebbero tutti che sono “naturalmente cattolici”.

Contro gli integralisti della fede

Chiunque creda in un dio, s’aspetta che i suoi problemi vengano risolti da qualcun altro, umano o divino che sia, o anche di entrambe le nature, come quando papa Pio XI disse che Mussolini, contro il pericolo del bolscevismo in Italia e l’inettitudine della democrazia liberale, era “l’uomo della provvidenza”.

Cioè il credente è colui che sente di non avere abbastanza forze per risolvere i problemi da solo, o comunque è colui che è abituato ad avere piena fiducia nelle “autorità forti”, quelle che, per chissà quale miracolo divino, vanno esenti dagli effetti negativi del cosiddetto “peccato originale”. Anche Hitler diceva – tutte le volte che gli attentati contro di lui fallivano – che quella era la prova della sua “missione divina”.

Ora, se tale sfiducia in se stessi dipende dalla precarietà di una situazione materiale, chi professa l’ateismo dovrebbe astenersi dal criticare i credenti. E’ evidente, infatti, che fino a quando quella indigenza resterà immutata, la fede continuerà a sopravvivere; anzi, di fronte agli attacchi del laicismo, si rafforzerà ancora di più e andrà persino a cercare forme estreme di resistenza, come p. es. il martirio o l’autoimmolazione.

Di per sé non ha alcun senso lottare per portare i credenti all’ateismo: queste sono forme di violazione della libertà di coscienza. Per un non credente deve risultare sufficiente l’affermazione di una laicità dello Stato, cioè la negazione del confessionalismo da parte delle istituzioni pubbliche.

Un non credente può anche opporsi alle superstizioni religiose, ma solo quando queste vogliono imporsi in maniera clericale, cioè rivendicando un potere politico. In coscienza uno deve restar libero di credere in ciò che vuole. Il modo migliore per cambiare atteggiamento nei confronti della religione, è quello di farlo in piena libertà, senza pressioni o forzature di alcun genere.

Gli atei devono persuadere i credenti a lottare contro le ingiustizie sociali e le violazioni dei diritti umani, e non devono farlo in quanto atei, né devono rivolgersi ai credenti in quanto credenti: entrambi devono convergere su posizioni comuni, su obiettivi condivisi, in quanto appunto cittadini di un medesimo Stato. Se i credenti vedono che oggi i loro problemi economici cominciano a risolversi, saranno meno portati ad attribuire adentità esterne la soluzione dei nuovi problemi che, un domani, dovranno affrontare.

D’altra parte non è neppure escluso che, se i tentativi fatti per risolvere determinati problemi vanno letteralmente in fumo, un ateo non possa diventare credente. Se guardiamo l’evoluzione dal movimento nazareno di Gesù Cristo a quello apostolico di Pietro e Paolo, dobbiamo dire che avvenne proprio così. E che dire di Mussolini, che da ateo professo, quand’era socialista, arrivò, da fascista, a firmare un Concordato col quale concesse alla chiesa romana enormi privilegi rispetto alle altre confessioni religiose, attenuando persino la sovranità dello Stato nazionale?

Detto questo, un ateo farebbe sempre bene a distinguere il credente con scarse possibilità materiali, ed eventualmente con limitata istruzione e cultura, dal credente benestante e intellettuale. Con quest’ultimo il confronto deve essere franco e aperto, proprio perché questa categoria di credenti tende a sfruttare la buona fede degli sprovveduti e approfitta della loro indigenza per arrivare a rivendicare il diritto al clericalismo.

Non si può transigere con chi vuol fare della fede una bandiera politica. L’oscurantismo medievale è finito da un pezzo. Se c’è qualcuno che vuol riportare la storia indietro, e vi riesce, i non credenti farebbero meglio a chiedersi se la responsabilità di ciò non ricada tutto su loro stessi.

Di quale degrado stiamo parlando?

Che dichiarazioni contraddittorie quelle di mons. Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, rilasciate in un’intervista a Maria Antonietta Calabrò su fattisentire.org.

Se la prende duramente con “Famiglia cristiana”, la cui recente denuncia del degrado politico del paese e soprattutto della corruzione della classe politica dirigente, viene qualificata come “giustizialista”. Come se la stampa cattolica, quando al potere è la destra, potesse esprimere giudizi solo in positivo, senza alcuna criticità.

Se si è permessa di criticare, l’ha fatto – secondo il prelato – “solo per vendere qualche copia in più” (sic!). Il problema infatti non sta nella denuncia che non costruisce, ma “nell’educare a una cultura diversa”, dice serafico il vescovo.

A quale cultura però lo sappiamo, quella della fede cattolica, che deve permeare di sé anche la politica. Dunque il degrado esiste – secondo questi illuminati cattolici – perché la politica si comporta in maniera a-religiosa: per superarlo ci vuole la politica della fede!

Sembra un discorso di altri tempi, un discorso del più retrivo fondamentalismo, quale si può constatare in un movimento come Comunione e liberazione, cui il prelato appartiene.

Invece è un discorso attualissimo, proprio perché si vuol prendere come esempio di come sia possibile superare il degrado, un fatto recente, accaduto in Afghanistan, stravolgendone del tutto il significato.

Alla Calabrò, che gli ricordava il cardinale Bagnasco, quando aveva indicato l’esempio di San Lorenzo martire quale via da seguire per risolvere il degrado attuale, mons. Negri aggiunge un altro esempio che ha a dir poco dell’incredibile: “Sì, i martiri esistono anche oggi, come gli otto medici uccisi in Afghanistan dai talebani, messi a morte non perché curavano i poveri ma perché erano cristiani. Sono i martiri che dimostrano che una vita positiva è possibile”.

Dunque i medici sono stati uccisi perché “cristiani”, cioè perché erano andati a esercitare la loro professione in quanto credenti, al seguito delle truppe dell’Onu.

Anche prescindendo dalle dichiarazioni dei talebani, secondo cui costoro erano in realtà delle spie al servizio degli americani e che i “missionari cristiani” facevano proselitismo, avendo “Bibbie in dari da distribuire alla gente”, qui si ha a che fare col peggiore irrazionalismo.

Non solo il prelato (come d’altra parte il suo collega Bagnasco e aggiungiamoci anche mons. Bertone) non intravede neppure lontanamente il nesso imperialistico tra “intervento armato” e “assistenza umanitaria”, non solo continua a ribadire che il cristianesimo è migliore dell’islam, che l’occidente è migliore dell’oriente, che l’Europa e gli Stati Uniti sono migliori dell’Asia, ma, quel che è peggio, fa del martirio una forma di garanzia assoluta di autenticità della fede (allo stesso modo, peraltro, dei fondamentalisti islamici!).

Ma come! Mons. Negri non aveva parlato prima di “educazione a una cultura diversa”? quindi di un processo lungo e faticoso? E ora se ne esce con questa infelice esaltazione del gesto estremo? Come se quei medici avessero voluto farsi ammazzare per tenere alta la fede che li ispirava!

Ma siamo davvero sicuri che da parte di questa chiesa possa venire qualche luce per indicarci in quale direzione dobbiamo andare per risolvere il problema del degrado della politica? Siamo davvero sicuri che il degrado sia il frutto della mancanza di religione e non invece di qualcos’altro? Questo appellarsi al martirio à tous prix non è già esso stesso una forma di “degrado”?

Fondamentalismo ed Evoluzionismo

Mi è capitato casualmente di leggere il n. di gennaio 2010 del mensile cattolico di “informazione e formazione apologetica”, “Il Timone” (www.iltimone.org), il cui dossier era dedicato all’evoluzionismo, e devo dire di aver condiviso quasi integralmente le critiche nei confronti di questa teoria cosiddetta “scientifica”. Tuttavia nel complesso il dossier è quanto di più reazionario si possa leggere sui rapporti tra fede e ragione: come si spiega questa contraddizione? Per quale motivo una valida obiezione scientifica può trasformarsi, nelle mani del fondamentalismo religioso, in uno strumento favorevole soltanto al clericalismo politico? Quali sono i criteri per capire il carattere strumentale di un’analisi che in apparenza non vuole essere apologetica? Vediamoli per punti.

  1. Quando il fondamentalismo religioso (in questo caso cattolico, ma il rilievo può valere anche per i geovisti, che sull’argomento dicono le stesse cose) usa argomentazioni di tipo scientifico, confutando altre argomentazioni analoghe, non lo fa per restare nell’ambito della scienza ma per dimostrare che l’unica verità possibile è di tipo religioso. Cioè usa la scienza per sostenere una verità non scientifica, che tale è in quanto i suoi presupposti sono indimostrabili (p.es. l’esistenza di un dio assoluto o la necessità di una specifica chiesa).
  2. Questo modo di procedere non solo è incompatibile con qualunque criterio di gestione del sapere scientifico, ma è, in un certo senso, contraddittorio con la stessa religione in generale, poiché questa, basandosi sulla fede, non dovrebbe servirsi di argomentazioni scientifiche per dimostrare la fondatezza dei propri assunti.
  3. La fede può aver ragione sulla scienza quando i suoi principi producono effetti migliori di quelli prodotti dalla scienza (p.es. perché più umani o più democratici). Un qualunque dialogo tra fede e ragione non può vertere su argomentazioni di tipo scientifico, ma, al massimo, sulle conseguenze etiche di tali argomentazioni.
  4. Se il fondamentalismo religioso vuole escludere qualunque valore al concetto di “scienza”, per sostenere che, in ultima istanza, tutto è “opinione”, dovrebbe però nel contempo rinunciare a tutte le proprie “verità di fede” (che, come tali, sono indiscutibili), ai propri dogmi, né dovrebbe credere in concetti come “infallibilità” (che i cattolici applicano al pontefice) o “indefettibilità” della propria chiesa.
  5. Ogniqualvolta la fede religiosa vuole usare una scienza “vera” contro una scienza “falsa”, non fa aumentare ma diminuire la propria verità, proprio perché un tale uso della scienza è meramente strumentale all’affermazione non di un “sapere scientifico” ma di un “potere politico”, quello clericale.
  6. Se la chiesa avesse basato la verità dei propri contenuti su fatti razionalmente dimostrabili, non avrebbe chiesto la fede per credervi ma la ragione. Nessun credente può sostenere la verità scientifica dei propri postulati religiosi e il fatto di pretendere che siano comunque più “logici” di altri assunti di tipo scientifico, non rende la fede più vera.
  7. Una chiesa che si serve della scienza per contestare gli assunti di un’altra scienza che non le piace (perché p.es. non parte da presupposti religiosi), è una chiesa non meno atea o razionalista della scienza che vuole combattere. In questa chiesa i presupposti religiosi risultano infatti del tutto astratti, formali, vuoti di contenuto, usati non solo per fare un discorso che non può oggettivamente essere scientifico, ma che anche sul piano soggettivo non ha nulla di edificante (in senso religioso).
  8. Quando si vuole sostenere che l’evoluzionismo non è scientifico come pretende, non si può dare per scontato, nelle proprie argomentazioni, che dio esiste e che la sua esistenza è la “prova ultima” dell’inconsistenza di qualunque teoria scientifica non religiosa. Se l’evoluzionismo è solo un’opinione infondata, al centro dell’universo resta comunque l’uomo. L’umano è l’unica realtà di cui possiamo fare esperienza, anche per confutare verità che credevamo acquisite. L’inesistenza di dio non rende impossibile l’esperienza dell’umano.
  9. Vi sono scienziati credenti (p.es. Zichichi, intervistato nel dossier) che sostengono che, siccome tutto l’universo è basato su leggi necessarie, su una logica stringente, allora deve per forza esserci da qualche parte un’intelligenza superiore, che loro chiamano “dio”. E quando vedono gli scienziati atei negare la necessità di questa conclusione, dicono che tali scienziati fanno solo una professione di fede (nell’ateismo), non avendo prove concrete per dimostrare alcunché. Zichichi afferma che è molto più “logico” un atto di fede nel “creatore” (cfr Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo, 2009, Tropea).
    In pratica Zichichi fa un ragionamento di questo genere, che è tutto meno che scientifico: siccome c’è un effetto di portata colossale (l’essere umano e l’universo che lo contiene), allora ci deve essere una causa equivalente, e questa causa – vista l’incredibile complessità e perfezione dell’effetto – non può essere che “dio”. Cioè proprio nel momento in cui egli dovrebbe dare una risposta scientifica ne dà una mistica.
    Invece di far coincidere la causa con l’effetto o invece di affermare la relatività e la limitatezza delle nostre conoscenze, propone una soluzione precostituita, fatta passare come “logica”.
    Questo modo di ragionare pare essere il frutto di un condizionamento sociale ritenuto inspiegabile. Gli scienziati credenti apologizzano non solo la loro fede ma anche il sistema sociale in cui essa si forma, in quanto sostengono che, siccome gli uomini, pur essendo unici nel cosmo, non riescono a risolvere i loro problemi, ciò è dovuto al fatto che si sono allontanati da dio. Gli uomini sono infelici perché atei, non perché basano la loro vita sulla proprietà privata.
    Singolare inoltre il fatto che uno scienziato credente, quando offre soluzioni di tipo mistico, si senta indotto a compiere anche una scelta di tipo confessionale: Zichichi infatti è dell’avviso che solo la chiesa romana abbia l’interpretazione più esatta del concetto di “dio”, la migliore esperibilità della fede.
  10. Una semplice posizione laica dovrebbe invece limitarsi a sostenere che quando l’essere umano si comporta in maniera non-umana, è sempre l’essere umano quello titolato a trovare una soluzione ai propri problemi. Al massimo si potrebbe sostenere che quando l’uomo è nemico dell’uomo e si comporta quindi in maniera innaturale, è la stessa natura che in qualche maniera gli ricorda i suoi limiti.
    La natura infatti subisce le conseguenze dei conflitti sociali, degli antagonismi tra classi e nazioni, e si modifica, spesso in maniera irreversibile, rendendo invivibile l’ambiente (desertificazioni, mutazioni climatiche, dissesti idrogeologici, avvelenamento del pianeta…).
  11. Evoluzione vuol dire “adattamento progressivo all’ambiente”. Ma per poterlo fare, occorre che questo sia vivibile, altrimenti c’è involuzione, scomparsa progressiva del genere umano, la cui esistenza futura non può essere data per scontata solo perché nell’universo siamo “unici”. Non possiamo cioè dare per scontata la nostra sopravvivenza come specie, a prescindere dalla tipologia dell’ambiente naturale in cui dobbiamo vivere, per quanto l’uomo sia in grado di trasformare in maniera artificiale qualunque ambiente.
    Quello che manca alla cultura occidentale (borghese) è la consapevolezza del limite oltre il quale una trasformazione antropica dell’ambiente non può andare, se lo stesso essere umano vuole tutelarsi. Il rapporto che abbiamo con l’ambiente naturale è così mediato dai nostri mezzi tecnologici che inevitabilmente ci accorgiamo della loro pericolosità solo dopo averli usati.
    Siamo così innaturali che non riusciamo a prevedere l’assurdità di ciò che noi chiamiamo “progresso”. Persino quando cerchiamo un rimedio ai nostri guai, siamo contraddittori. P.es. abbiamo imparato a riciclare la plastica, ma continuiamo a produrla senza pensare a sostituirla o a riutilizzarla fino al suo esaurimento. Abbiamo preferito la plastica al vetro, ma così abbiamo rinunciato al riutilizzo.
    Il problema dello smaltimento dei rifiuti (che comporta sempre un certo inquinamento) ci ha indotti a puntare sul riciclo della plastica. Ma il riciclo presuppone una trasformazione del prodotto, che comporta spese e ulteriore inquinamento. Riutilizzo invece vuol dire che una stessa cosa, che dovrebbe essere fabbricata per durare, viene usata fin quando è possibile.
    Il riutilizzo dovrebbe porre un freno alla pubblicità. La vera pubblicità da seguire dovrebbe essere quella educativa, che insegna come riutilizzare i beni durevoli e come riciclare quelli che non lo sono.
  12. La cultura occidentale ha creato solo un’immensa spazzatura. Con le prime civiltà schiavistiche si sono formati i deserti in seguito alla deforestazione; con la civiltà industriale si formeranno dei deserti superinquinati là dove si ammasseranno i nostri rifiuti.
    E’ il concetto in sé di “evoluzione” che va rimesso in discussione. Se guardiamo i rapporti sociali tra esseri umani e i rapporti tra gli uomini e la natura, dobbiamo dire di essere in presenza di una grande “involuzione”, che non potrà certo essere risolta né affidandosi alla misericordia di dio né ai miraggi della scienza.

Le radici delnociane di Comunione e Liberazione

Sia da destra che da sinistra Augusto Del Noce fu sempre considerato un filosofo “inattuale”, almeno finché le sue idee non vennero messe in pratica da Comunione e liberazione, grazie all’intermediazione del suo discepolo prediletto, Rocco Buttiglione.

Il motivo stava nel fatto ch’egli criticava sia il socialismo che il capitalismo, prospettando una terza via di tipo cattolico-integralista, simile a quella di Rosmini e Gioberti. Aveva una posizione a dir poco ottocentesca (da Concilio Vaticano I), per la quale la teologia andava strettamente unita alla politica e in maniera tale che questa, come una sorta di braccio secolare, si dovesse porre al servizio di quella.

Neppure la destra post-unitaria, neppure quella fascista avrebbero mai potuto riconoscersi in una posizione del genere, proprio perché esse volevano una chiesa al servizio dello Stato e non il contrario.

La tragedia – secondo Del Noce, che morì nel 1989 – stava proprio nel fatto che tutta la filosofia risorgimentale, avendo conservato, nel migliore dei casi, il principio di trascendenza soltanto in maniera formale, come un guscio vuoto, era destinata inevitabilmente al nichilismo, come già aveva dimostrato il fascismo e come – a suo parere – avrebbero presto dimostrato sia il consumismo americanista che il comunismo sovietico.

Dentro il concetto negativo di “immanenza” Del Noce metteva tutto quanto non fosse “sacro”, per cui ad es. non riusciva a vedere alcuna vera opposizione di Gramsci a Croce e Gentile: erano soltanto facce della stessa medaglia. Al massimo pensava, vedendo il crocianesimo come una forma di opposizione morale al fascismo, di poter far incontrare Croce con Rosmini.

Tutte le contraddizioni sociali del capitalismo le riassumeva nel conflitto ideologico di fede e ateismo, senza riuscire in alcun modo a intravedere né i limiti storici del nesso fede e politica, che in Europa avevano procurato immani disastri (corruzione a tutti i livelli, inquisizione, caccia alle streghe, crociate, guerre infinite di religione…), né i limiti oggettivi di un tale nesso, dovuti al fatto che nelle questioni di coscienza uno dev’essere lasciato libero di credere quel che vuole, senza forzature istituzionali di sorta.

Del Noce, nonostante la sua straordinaria cultura, non riuscì neppure a vedere il cattolicesimo come una forma di eresia rispetto alla chiesa indivisa dei primi sette secoli.

Aveva soltanto capito che Gentile era nettamente superiore a Croce, in quanto al principio di immanenza anticomunista aveva saputo dare una veste politica ben definita: lo Stato fascista, e tuttavia rifiutava Gentile proprio a motivo della pratica strumentale che quello Stato aveva nei confronti della chiesa.

Del Noce però ha sempre evitato di chiedersi che cosa sarebbe successo all’Italia (e alle proprie tesi integralistiche) se il fascismo avesse vinto la II guerra mondiale. Probabilmente un cattolico vetero-feudale come lui avrebbe accettato l’idea che uno Stato trionfatore del comunismo e una chiesa sottomessa per ragioni belliche avrebbero potuto trovare, in tempo di pace, una felice intesa attorno all’obiettivo comune dell’anticomunismo, così come oggi C.L. ha potuto fare con la destra berlusconiana e leghista, che di religioso han meno di un guscio vuoto.

Pur di non vedere l’ateismo comunista al potere, uno come Del Noce non avrebbe avuto scrupoli nell’allacciare un rapporto organico con un fascismo vincente, anche perché un fascismo del genere – come esattamente avvenne col franchismo – avrebbe sicuramente concesso alla chiesa molti più spazi di manovra.

Del Noce va dunque visto come uno degli anelli più recenti di quella lunga catena di fanatismo clericale che, partendo dalla teocrazia di papa Gregorio VII, è passata per tutta la fase controriformistica e anti-unitaria (a livello nazionale), trovando nel pontificato di Wojtyla-Ratzinger e in C.L. le sue conclusioni più retrive.

E con questo non si vuol affatto sostenere che l’ateismo debba avere l’avvallo di un qualsivoglia Stato politico (ché, in tal caso, si creerebbe un integralismo rovesciato), ma semplicemente che il cattolicesimo politico non è assolutamente in grado di garantire alcuna libertà di coscienza, né ai credenti non cattolici né ai non credenti.