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Tornare indietro per andare avanti

Dobbiamo tornare a vivere come l’uomo primitivo, se vogliamo sopravvivere come specie. Caccia e raccolta anzitutto. Se proprio vogliamo limitarci ad agricoltura e allevamento, avendo distrutto la gran parte delle foreste, dobbiamo farlo temporaneamente, in attesa che le foreste ricrescano grazie al nostro rimboschimento.

Dobbiamo tornare ad essere come eravamo all’inizio, in cui ci siamo conservati umani e naturali almeno sino alla nascita dell’agricoltura e dell’allevamento, allorché sono iniziate le ostilità tra agricoltori, che avevano bisogno di campi chiusi, e allevatori, che avevano bisogno di campi aperti.

I problemi sono sorti non tanto quando sono nate l’agricol­tura e l’allevamento, ma quando si è cominciato a separarle. Infatti, quando ci si specializza in un settore produttivo, si vede l’altro come un rivale, un concorrente, e lo si teme. Con la caccia e la raccolta non vi erano questi problemi, anche perché, generalmente, la prima veniva praticata dagli uomini e la seconda dalle donne. Non si andava oltre le differenze di sesso ed età. Non a caso si pensa che l’agricol­tura sia stata inventata dalle donne e l’allevamento dagli uomini.

Agricoltura e allevamento sono due forme di sedentarietà. Caccia e raccolta indicano invece il movimento, l’instabilità, l’itineranza, che meglio si addice alla natura umana, se vuole restare coerente con se stessa. La comunità tendeva a spostarsi là dove si trasferivano gli animali selvaggi, e le donne dovevano apprendere, in ambienti diversi, dove trovare il cibo sano e nutriente. Era la natura stessa che s’incaricava di formare gli esseri umani.

In origine, quando la Terra era completamente ricoperta di foreste, forse ci si spostava molto meno. Si viveva soprattutto di raccolta, in quanto il cibo vegetale era molto abbondante. La caccia è subentrata in un secondo momento, per integrare un cibo considerato non del tutto sufficiente.

Oggi quasi tutta la Terra è antropizzata negativamente. La catastrofe ambientale che ci attende pare inevitabile. Naturalmente ci saranno vari modi di affrontarla. Uno potrà essere quello di continuare a vivere in maniera disumana e innaturale, fingendo ch’essa non serva come monito per una inversione radicale di tendenza. Quindi è molto probabile che ai disastri ambientali andranno ad aggiungersi nuovi conflitti mondiali, scatenati da parte di quegli Stati che vorranno far pagare agli Stati più deboli il peso di quei disastri.

Il vero problema tuttavia non sarà soltanto quello di come prevenire la catastrofe ambientale, ma anche e soprattutto quello di che cosa fare quando verrà il momento di cercare un’alternativa alla nostra insensatezza. Fino ad oggi, infatti, nonostante 6000 anni di antagonismi epocali, non siamo riusciti a capire che l’unico modo per restare umani e naturali è quello di tornare all’epoca primitiva, quella in cui appunto si viveva di caccia e raccolta, e dove l’agricol­tura e l’allevamento non costituivano una fonte di irriducibili conflitti sociali all’interno della comunità tribale.

Fino ad oggi non abbiamo fatto altro che sostituire un antagonismo con un altro. In un primo momento il superamento di determinate contraddizioni sociali appare un fenomeno molto positivo, ma poi se ne formano altre che, per molti aspetti, diventano ancora più gravi, e il problema di come superarle si ripresenta, senza che mai si riesca a porre le condizioni perché una determinata contraddizione non si trasformi in un irriducibile conflitto.

Dobbiamo uscire da questa spirale perversa e, per farlo, c’è solo un modo: tornare alla preistoria. L’alternativa deve essere radicale: non possono esserci mezze misure. E l’alternativa non può essere che questa: praticare l’autoconsumo e il baratto, eliminare la proprietà privata dei mezzi produttivi e la dipendenza dai mercati, ridurre la tecnologia a quella compatibile con le esigenze riproduttive della natura e, per quanto riguarda la politica, affermare la democrazia diretta, sopprimendo gli Stati e i parlamenti della democrazia meramente rappresentativa.

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In ogni caso, anche se non vogliamo tornare spontaneamente alla preistoria, sarà la storia stessa che s’incaricherà d’imporcelo. Infatti quanto più sviluppiamo scienza, tecnica, mercati, economia finanziaria, armamenti, tanto più ci avviciniamo alla catastrofe, umana e ambientale. E quanto più grande sarà questo disastro, tanto più saremo costretti, per poter sopravvivere, a riportare in auge lo stile di vita dell’uomo primitivo.

Siamo liberi di muoverci, ma entro certi limiti: se li oltrepassiamo, l’inevitabile apocalisse ci riporterà in carreggiata. Una libertà senza limiti non ha senso. Certo la conoscenza può non aver limiti, e così il bisogno di amare e di essere amati, e anche l’esigenza di produrre qualcosa, ma se andiamo oltre i limiti dell’umano e del naturale, tutto quello che facciamo perde immediatamente di valore. Perdiamo tempo, perdiamo noi stessi. E quanto più uno si perde, tanta più fatica gli costerà ritrovarsi. Se davvero vogliamo essere responsabili, dobbiamo saper gestire il senso della illimitatezza, dell’incondizionato: dobbiamo arrivare a capire che l’infinito è possibile solo all’interno di determinate regole universali.

Avremmo dovuto vivere un percorso evolutivo senza traumi, cioè senza guasti irreparabili, ma per colpa delle nostre scelte scriteriate abbiamo finito col creare delle situazioni ingestibili. Abbiamo addirittura smarrito il criterio con cui stabilire quando una scelta può essere considerata giusta o sbagliata. Solo a posteriori ci accorgiamo dell’erroneità delle nostre scelte. E i rimedi che vi poniamo non sono mai sufficienti, mai risolutivi.

Tuttavia questo non impedisce alla natura di seguire il proprio corso. Vi è un’oggettività più potente della nostra soggettività (quanto meno è più ancestrale). Infatti quando vogliamo fare di questa soggettività una diversa oggettività, un nuovo criterio di valori, la pretesa non dura molto tempo: prima o poi ci si scontra con situazioni insostenibili. Quanto maggiore è la pretesa di dominare il mondo intero, tanto più breve è il tempo per rendersi conto dell’illusorietà di tale obiettivo, proprio perché gli effetti sono più devastanti.

C’è qualcosa che ci collega direttamente alla natura. È come se la natura avesse leggi universali e necessarie che tutti i suoi componenti, meno l’essere umano, vivono inconsapevolmente. L’unico però che potrebbe viverle secondo ragione, è anche quello che più le trasgredisce. E lo fa senza rendersi conto di perdere tempo prezioso per la crescita della propria autoconsapevolezza. Le conquiste dell’umanità, soprattutto quelle scientifiche e tecnologiche, il più delle volte le usiamo contro la natura e contro noi stessi. È impossibile dare una spiegazione razionale di questo comportamento. La libertà è un mistero assolutamente insondabile.

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Il socialismo si è illuso che vi potesse essere un progresso semplicemente limitandosi a socializzare la proprietà privata. Invece dobbiamo azzerare un’intera civiltà, quella basata sul macchinismo. L’unico vero socialismo è stato quello preistorico.

La domanda che, a questo punto, dobbiamo porci è soltanto una: dobbiamo attendere rassegnati la catastrofe, nella convinzione che le contraddizioni sono diventate talmente abnormi da risultare irrisolvibili all’interno dell’attuale sistema, oppure possiamo porre sin da adesso le condizioni (o almeno le pre-condizioni) in virtù delle quali si possa realizzare quanto prima una transizione verso il nostro più lontano passato, quello precedente alla nascita dello schiavismo?

In altre parole: com’è possibile realizzare la democrazia diretta e l’autoconsumo all’interno del sistema antagonistico? Vi è la possibilità di ritagliarsi uno spazio autonomo, oppure è prima necessario abbattere politicamente il sistema? Il socialismo democratico che vogliamo realizzare deve passare attraverso un riformismo graduale o attraverso una rivoluzione che inevitabilmente sarà violenta, in quanto il sistema non depone mai spontaneamente le armi?

Al giorno d’oggi è difficile pensare che esista una terza via, quella di trasferirsi in zone vergini del pianeta, non contaminate dallo stile di vita occidentale. Gli angoli rimasti puri sono talmente piccoli da risultare del tutto insufficienti per una transizione che coinvolga milioni e milioni di persone, intenzionate a realizzarla. Pensare di trasferirsi altrove per ricominciare da capo va considerata una soluzione impraticabile, del tutto utopistica. La via d’uscita va cercata là dove si vive, anche perché si ha il vantaggio di conoscere, più o meno bene, il proprio territorio.

Dunque il metodo da seguire per realizzare la transizione potrebbe essere il seguente: tentare delle esperienze innovative di autoconsumo e di democrazia diretta, cominciando a proporle alla collettività. Tutti i mass-media possono essere utilizzati per propagandare un’alternativa concreta al sistema. Poi da come il sistema reagirà, si deciderà il da farsi. L’importante è non escludere a priori l’idea di dover difendere le proprie esperienze innovative anche, se necessario, con l’uso delle armi. Bisogna cioè fare molta attenzione a che il concetto di non-violenza non venga usato dal sistema per impedire una vera transizione al socialismo democratico.

Bisogna semplicemente limitarsi a sfruttare il fatto che il sistema, per affermare se stesso, si avvale, formalmente, del concetto di democrazia, che implica quello di diritti umani, civili e politici. Dobbiamo mettere il sistema nelle condizioni di svelare che la sua difesa della democrazia è puramente formale. Dobbiamo dimostrare, con le armi della democrazia diretta e dell’autoconsumo, che il nostro stile di vita è più umano e naturale di quello che offre il sistema, e che siamo disposti a difenderlo, da chi vorrà distruggerlo, con ogni mezzo.

La democrazia greco-classica e contemporanea

Si può parlare di “democrazia diretta” nella polis ateniese dei secoli V e IV a.C.? Diciamo che un primo tentativo di scardinare gli antichi privilegi gentilizi, tipicamente aristocratici, fu compiuto alla fine del VI sec., quando Clistene creò dieci nuove tribù territoriali, aventi valenza anche militare, al posto delle vecchie quattro tribù gentilizie.

demi, che andarono a sovrapporsi alle trittie, erano piccole autonome comunità di villaggio, coi loro magistrati (politici e funzionari). Ora, con Clistene, diventavano un sistema di autogoverno che coinvolgeva circa 30.000 persone (cioè i cittadini maschi adulti e liberi, di legittima ascendenza ateniese, in quanto nati da genitori ateniesi legittimamente sposati, con esclusione quindi delle donne, degli schiavi e degli stranieri).

La base della democrazia era costituita, per ogni demo, dall’Assemblea popolare (ekklesìa), esclusiva fonte politica e normativa delle decisioni popolari. Essa si riuniva 40 volte l’anno, con una frequenza media di 6.000 persone. Vi intervenivano i leader del popolo (demagoghi e retori), i quali non rappresentavano gli interessi di determinati partiti politici, organizzati come oggi, ma semplicemente si facevano portavoce di istanze popolari.

Oltre all’ekklesìa vi era la bulê (il Consiglio dei Cinquecento: 50 per ognuna delle 10 tribù territoriali). I buleuti si occupavano degli affari correnti, assicurando la continuità del governo. Nessuna decisione dell’Assemblea poteva essere ratificata senza il parere preventivo del Consiglio. D’altra parte ogni discussione preliminare in Consiglio andava autorizzata dall’Assemblea. Quando il Consiglio aveva esaurito il dibattito interno, presentava all’Assemblea una proposta organica su cui bisogna prendere una decisione. Sotto questo aspetto si può sostenere che nella democrazia ateniese non è mai esistita una reale separazione dei poteri.

Vi era anche il corpo giudiziario dei cittadini, cioè 6.000 giudici del tribunale popolare e circa 700 funzionari pubblici di età non inferiore ai 30 anni. Fatto singolare di questo organo è che non si conosceva in anticipo la causa che si doveva giudicare.

Tutte le cariche venivano assegnate per sorteggio ed esercitate per un solo anno, a rotazione e ogni carica per non più di due volte nella vita. L’esercizio delle cariche richiedeva molto tempo e tendeva a escludere quanti non avevano sufficienti risorse, almeno finché non si deciderà, nel IV secolo, con Pericle, un livello adeguato di remunerazione, in grado di coprire le spese sostenute o i mancati introiti.

Si trattava di una democrazia esclusivamente politico-amministrativa e giudiziaria, che riguardava una minoranza di persone, non implicando l’estensione universale dei diritti umani e civili. Inoltre non andava a coinvolgere gli aspetti materiali e produttivi della popolazione, per una più equa redistribuzione delle ricchezze. Anzi, per il pagamento dei pubblici uffici Atene si avvaleva, in gran parte, delle risorse degli alleati (soprattutto dopo la battaglia di Salamina).

Il fatto stesso che obbligasse a una rotazione così frequente delle cariche, dimostra l’inesistenza di una vera e propria democrazia economica: non ci si fidava gli uni degli altri. Lo stesso diritto alla cittadinanza non era il conseguimento di un diritto naturale, in ambito politico, ma il godimento di un privilegio, che permetteva di esercitare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Insomma permanevano distinzioni di censo e di rango: cosa peraltro che non riguardava la sola Atene, ma tutte le poleis della Grecia.

Una differenza semmai stava tra la democrazia ateniese, dove la votazione abituale era per alzata di mano (e in taluni casi per voto segreto), e l’oligarchia spartana, dove la votazione era soltanto per acclamazione. Inoltre a Sparta non vi era un’uguale opportunità di parola nelle assemblee pubbliche. E’ evidente infatti che là dove esiste uguale diritto di parola e uguaglianza davanti alla legge, il cittadino si sente indotto a riflettere di più tra le diverse opzioni politiche che gli vengono proposte. Ad Atene gli stessi oratori dovevano sottostare a controlli preliminari e al rispetto di un rigoroso iter procedurale e di un certo codice deontologico. Non era certo facile presentare proposte illegali, anche se sarà proprio una democrazia del genere a decidere la morte di Socrate (cosa che avvenne anche perché Socrate si permise di giudicare i cittadini nella loro totalità, riuniti appunto in Assemblea).

Di singolare, in questo esperimento democratico, è che non vi fu alcuna teoria politica, almeno non nel senso in cui l’intendiamo oggi. Se ne trova assai di più nei testi di Platone e anche in quelli di Aristotele, quando però la democrazia politica era già in forte declino, finché scomparve del tutto sotto la dominazione macedone. (1) Per avere una teoria politica moderna, riguardante la democrazia diretta, si dovrà aspettare l’opera di Rousseau.

Ciononostante in quella fase storica il popolo ateniese di sentiva “sovrano” (kyrios). Gli bastava l’equa distribuzione dei diritti e delle cariche (un uomo un voto). Naturalmente pretendevano, da parte degli eletti, una rendicontazione generale, a fine mandato (soprattutto di tipo fiscale). Nel caso in cui vi fossero state denunce da parte dei cittadini, il magistrato poteva anche essere sottoposto a un processo davanti al tribunale popolare.

Quel che a noi oggi pare poco logico era la decisione di usare il sorteggio per svolgere cariche di una certa importanza. Evidentemente gli ateniesi erano convinti di avere tutti un merito equivalente. Solo gli ufficiali militari (strateghi) venivano eletti mediante il voto: la loro era l’unica carica che poteva assicurare una certa continuità, benché fosse di durata annuale. A dir il vero il popolo, quand’erano in corso dei conflitti armati, chiedeva una competenza specifica non solo in campo militare, ma anche in quello economico-finanziario.

Oggi invece tendiamo a considerare il sorteggio una pratica inerente alla sfera dei doveri più che a quella dei diritti. Nel mondo militare del passato i plotoni di esecuzione venivano sorteggiati, se non ci si offriva spontaneamente; in guerra si può essere sorteggiati quando si devono compiere delle operazioni che comportano un elevato rischio personale; si può ricorrere al sorteggio anche quando le persone che si offrono spontaneamente per compiere un’impresa rischiosa, sono superiori al necessario; ma si potrebbero fare molti altri esempi.

In genere, quando nessuno si offre spontaneamente per fare una determinata cosa, si procede al sorteggio, cui si può anche far seguire la periodica rotazione degli obblighi tra tutti gli appartenenti a un collettivo. Sorteggio, nella fase iniziale, e rotazione, in quella successiva, riguardano sempre la sfera degli obblighi o dei doveri. Chi può essere, di diritto, esentato da questa procedura è chi dalla comunità viene riconosciuto di un grado superiore rispetto a tutti gli altri, nel senso che si riconosce un merito o una capacità particolare. E’ anche vero però che se, in caso di necessità, questa persona si rifiutasse di accettare un dovere cui ogni altra persona si sente obbligata, facilmente verrebbe considerata poco meritevole d’essere riconfermata nel suo incarico.

Oggi quindi se, da un lato, ci pare assurdo affidare al caso la gestione di importanti compiti politici o amministrativi; dall’altro tendiamo a confermare l’idea della rotazione delle cariche, proprio per impedire gli abusi di potere.

Naturalmente nelle democrazie moderne, tutte meramente rappresentative, il riconoscimento del merito e la rotazione delle cariche hanno un valore molto relativo. Questo perché, per quanto riguarda il merito, è abbastanza consueto che venga riconosciuto, se lo si deve esercitare in ambiti amministrativi, con procedure piuttosto formali e meramente burocratiche, come p.es. i pubblici concorsi, dove il controllo effettivo delle capacità è sempre piuttosto teorico, basato su conoscenze nozionistiche. Quando poi si ottiene l’incarico, i controlli sull’effettiva capacità gestionale sono sempre piuttosto scarsi: in genere avvengono in seguito a denunce o segnalazioni da parte di alcuni cittadini, tra quelli che fruiscono dei servizi inerenti a quell’incarico. Tuttavia il diretto interessato raramente viene rimosso o licenziato: più facilmente verrà trasferito altrove, quando non sarà sufficiente limitarsi a redarguirlo o a sanzionarlo.

La democrazia rappresentativa di uno Stato nazionale può sempre avvalersi della vasta estensione geografica del proprio territorio, unitamente all’assenza di una vera e propria democrazia diretta (2), per celare i propri errori di valutazione, le proprie incapacità nella selezione del personale e nel controllo del suo operato.

Viceversa, per quanto riguarda l’attribuzione del merito in campo politico, i controlli devono per forza essere più stringenti, poiché ne va di mezzo il destino non dello Stato (o di una sua porzione), ma dell’intero partito politico, che garantisce un certo potere, che è piuttosto ristretto, riservato a pochi.

Nell’ambito dello Stato si possono acquisire poteri sul piano amministrativo, giudiziario e militare, ma tutti questi settori sotto sottomessi, almeno in via di principio, a quello politico, che è l’ambito di potere per eccellenza e che, non a caso, permette di fare carriera anche in altri ambiti, una volta che, per un motivo o per un altro, da esso si è usciti.

In ambito politico i meriti personali non vengono riconosciuti dagli elettori dei partiti e neppure da tutti i loro iscritti, ma soltanto dai loro dirigenti più influenti. Nei partiti si fa carriera solo per cooptazione, cioè solo se si viene scelti da un gruppo ristretto di persone, che devono fidarsi reciprocamente o dove comunque la minoranza deve sottostare alla volontà della maggioranza. Una volta eletto “dirigente” del partito (o di un suo qualche settore), si rimane in carica fino a quando le condizioni per cui si è stati scelti restano immutate. E’ praticamente impossibile che una scelta compiuta dai dirigenti di un partito possa essere contraddetta dalla volontà dei suoi aderenti, che costituiscono la base degli elettori, siano essi tesserati o no. Dovrebbero esserci motivazioni piuttosto gravi.

Il leader di un partito può pretendere la revoca di alcune nomine, che si sono rivelate sbagliate, ma perché prenda decisioni del genere, devono esserci forti contestazioni da parte di qualcuno, che è tenuto a documentarle o a motivarle con dovizia di particolari. A nessun leader piace far vedere d’aver compiuto scelte sbagliate. Di regola i partiti politici non amano né i sorteggi, né le rotazioni delle cariche, ma la stabilità, la continuità nell’esercizio del potere. E’ questo il motivo per cui rimangono del tutto impreparati, addirittura sconcertati, quando vengono sconfitti dai partiti avversari, soprattutto se lo sono platealmente nelle competizioni elettorali o nelle rivoluzioni o nei colpi di stato. Essi infatti sono convinti di poter vivere di rendita politica.

La democrazia rappresentativa degli Stati moderni è in realtà una forma di dittatura di pochi privilegiati, il cui tasso di moralità è spesso di levatura piuttosto modesta, in quanto, per conservare il potere acquisito, si deve essere disposti ad accettare molti compromessi, anche piuttosto vergognosi.

D’altra parte anche nella democrazia greca fu impossibile evitare che si formassero dei politici di professione o delle élite di potere, che andavano a convergere verso le élite di censo, di lignaggio e di superiore educazione e istruzione.

Note

(1) Platone, Aristotele e anche Senofonte ritenevano la democrazia ateniese una forma di anarchia, in cui i demagoghi manipolavano i partecipanti alle assemblee, i quali non riuscivano a difendersi proprio perché non avevano sufficiente preparazione per poter prendere decisioni oculate. La politica, come qualunque altra arte, richiedeva una certa dose di specializzazione, per cui non poteva essere posseduta da molti. Per Aristotele il popolo, al massimo, poteva eleggere i magistrati e chiamarli a rendicontazione, ma non doveva tenere i pubblici uffici. Viceversa, Protagora era convinto che il popolo poteva essere educato a praticare l’arte di governare tramite l’insegnamento dei sofisti e la pratica quotidiana della politica. Vi furono dei sofisti (come Callicle, Antifonte e Alcidamante) che sostenevano addirittura l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini, inclusi gli schiavi.

(2) Anche i Consigli comunali, pur essendo pubblici, rientrano nella mera democrazia rappresentativa. Per avere una democrazia diretta bisognerebbe dare tutti i poteri ai Consigli di quartiere, che invece oggi sono strumenti del tutto pletorici.

Uscire dallo Stato e dal mercato

Per uscire dal sistema in cui domina il primato del valore di scambio è sufficiente convincersi di due cose: non è l’individuo che ha bisogno del mercato, ma il contrario; non è l’individuo che ha bisogno dello Stato, ma il contrario.

Stato e mercato sono però due realtà sociali: per poterle eliminare o ridurre al minimo o trasformarle radicalmente occorrono esperienze sociali. L’individuo, al di fuori di un collettivo di riferimento, cui organicamente appartiene, è solo un’astrazione.

Si tratta quindi di costruire una realtà sociale democratica, egualitaria, da opporre a due realtà sociali la cui democraticità è solo apparente. Nell’ambito dello Stato la democrazia è indicata dalle elezioni, con cui si scelgono i parlamentari (poi vi sono i referendum, quando si tratta di scegliere tra due opzioni).

Nell’ambito del mercato la democrazia sta nello scambio di equivalenti, nell’uso del denaro come mezzo astratto di scambio universale. Nessuno è obbligato ad andare a comprare merci, ma se non lo fa, non riesce a vivere. Come nello Stato comandano i poteri forti (politici, burocratici e militari), così nel mercato comandano i monopoli, gli speculatori, gli affaristi, i mercanti.

Non c’è mercato senza Stato, poiché questo garantisce la difesa dei produttori, che vivono sulle spalle dei soggetti deboli (i consumatori). Non c’è Stato senza mercato, poiché il mercato garantisce ricchezza, di cui una parte significativa, attraverso le tasse e il plusvalore estorto ai lavoratori, serve a mantenere le classi parassitarie (politici, burocrati e militari), le quali devono assicurare l’ordine a favore dei ceti possidenti.

Uscire dal sistema significa saper dimostrare a se stessi, organizzati in maniera collettiva, che si può fare a meno sia dello Stato che del mercato. I modi per dimostrarlo sono due: democrazia diretta e autoconsumo. Questi due aspetti vanno considerati preliminari a tutto, cioè a qualunque dibattito, a qualunque lettura e scrittura. Ed essi non possono in alcun modo svilupparsi nell’ambito del capitalismo. Mentre la trasformazione dello schiavo in colono è potuta avvenire nell’ambito dello schiavismo, e quella da colono o servo della gleba a operaio salariato è potuta avvenire nell’ambito del feudalesimo, quella da operaio produttore libero non può avvenire nell’ambito del capitalismo, se non come eccezione che conferma la regola: lo sfruttamento del lavoro altrui.

Questa regola è così tassativa, nel capitalismo, che anche lo stesso lavoratore diventa a sua volta, di necessità, uno sfruttatore del lavoro altrui: è sufficiente infatti che depositi i suoi risparmi in una banca o che riceva uno stipendio statale o che produca una merce per il mercato. Perché tutti i lavoratori siano liberi occorre uscire dal sistema. Nell’ambito del capitalismo non c’è nulla che possa anticipare qualcosa del socialismo democratico. Se lo si pensa è perché ingenuamente si crede di poter fare a meno della responsabilità di una rivoluzione: non sono pochi i soggetti pseudo-rivoluzionari che non vogliono combattere politicamente il sistema, ma limitarsi semplicemente ad attendere ch’esso imploda da solo, a causa delle proprie interne contraddizioni, com’è successo in Russia.

L’abbattimento del sistema è preliminare a qualunque altra cosa. Si può farlo attraverso la cultura – come voleva l’impostazione gramsciana -, o entrando direttamente in politica, ma l’obiettivo deve restare la conquista del potere per il rovesciamento del sistema. E non si può far questo come se fosse un semplice colpo di stato: occorre un’autentica rivoluzione di popolo. Sono due cose completamente diverse, l’una opposta all’altra. Se si tenta di creare delle “isole di socialismo”, dove vige la democrazia diretta e l’autoconsumo, si ripeteranno gli stessi errori del “socialismo utopistico”, i cui esperimenti alternativi sono stati tutti riassorbiti dal sistema.

Il sistema infatti ha il potere di condizionare in tutti i modi, materiali e culturali, l’intera vita sociale, e dispone inoltre della forza militare per porre fine, come e quando vuole, a ciò che può ostacolarlo democraticamente. Ecco perché bisogna convincersi che, in ultima istanza, il sistema può essere abbattuto solo con la forza, cioè con una rivoluzione politica, capace di usare gli stessi strumenti coercitivi del sistema per fronteggiare l’eventuale reazione violenta delle classi che non vogliono lasciarsi espropriare di nulla.

Solo quando la controrivoluzione ha avuto termine, si possono porre le basi della progressiva estinzione dello Stato, a favore della democrazia diretta, e, in virtù del primato del valore d’uso, si può pensare a una progressiva eliminazione del mercato basato sul primato del valore di scambio. Bisogna porre le comunità locali in condizioni di difendersi da sole da chiunque possa minacciarle di distruzione.

Che ci voglia una dura e lunga transizione dal capitalismo al socialismo democratico e autogestito, è pacifico. Il capitalismo non ha solo sconvolto tutti i rapporti umani, ma anche i rapporti con l’ambiente, e l’ha fatto in un periodo lunghissimo, praticamente millenario. L’importante però è aver chiaro che l’alternativa al capitale deve essere radicale: qualunque concessione venga fatta anche a uno solo degli aspetti del sistema da abbattere, andrà a influire su tutto il resto. Il fallimento del cosiddetto “socialismo reale”, che pretendeva di poggiare su basi “scientifiche”, è un esempio da tenere sempre presente.

Come faremo a gestire l’universo?

In uno spazio e in un tempo infiniti non ci si può mai fermare. Cioè quando si ha consapevolezza dell’infinità delle cose, il rischio che si corre non può certo essere quello della rassegnazione. Sulla terra, se uno sbaglia, può anche pagare tutta la vita: dipende da ciò che ha fatto. Spesso anzi siamo così intolleranti che infliggiamo pene di molto superiori al torto compiuto. Ma nell’universo avremmo il problema opposto, quello cioè di capire e far capire che uno non può affrontare con superficialità i valori umani soltanto perché sa di avere sempre a disposizione la possibilità di ricominciare da capo.

Di fronte a un proprio errore, la pena va comunque avvertita, altrimenti non c’è maturazione e la pedagogia diventa una scienza inutile. Certo è che la pena non potrà essere la stessa. Avendo la consapevolezza dell’infinità, la pena dovrà per forza essere qualcosa in grado di toccare l’interiorità della coscienza. Se si approfondisce la consapevolezza dell’estensione, relativa a un tempo e a uno spazio infiniti, deve per forza aumentare di molto la consapevolezza della profondità della coscienza.

L’essenza umana dovrà potersi salvaguardare anche in un mutamento radicale delle forme della sua vivibilità. Tuttavia una qualunque forma di esperienza, nell’infinità dello spazio e del tempo, non potrà mai prescindere dalla responsabilità del qui ed ora. Anche perché il principale compito dell’essenza umana è quello di approfondire se stessa, e questo è possibile solo in uno stretto contatto con altre essenze umane. Vivere rapporti superficiali, nella dimensione dell’universo, sarà la cosa più stupida che potremo fare.

Noi siamo soltanto destinati ad approfondire le cose, cioè a trovare i modi e le forme in cui l’essenza umana possa esprimersi al meglio. Il vero problema da affrontare sarà quello di far sì che a ognuno venga data questa possibilità. La democrazia non potrà certo essere un valore formale, come lo è oggi sulla terra. Una democrazia che prescinde totalmente dalle condizioni effettive della sua realizzazione, non vale nulla. Noi abbiamo bisogno di porre le condizioni per le quali ognuno si senta investito di una certa responsabilità personale. E questo è possibile soltanto se uno può constatare coi propri occhi gli effetti di tale responsabilità.

Sulla terra la democrazia non è mai qualcosa di autogestito, ma qualcosa di imposto o di eterodiretto, cioè amministrato dall’alto. Questo perché non si riconosce alcuna autonomia all’ambito locale: tutto deve dipendere da qualcosa che gli è superiore. La democrazia è fagocitata, svuotata di contenuto, tant’è che nei momenti di crisi può facilmente trasformarsi in una dittatura, scatenando persino guerre mondiali, come già visto nel Novecento.

Dunque la prima regola della democrazia, da attuare già sul nostro pianeta, sarebbe quella di ridurre progressivamente e costantemente i poteri delle istituzioni centrali, trasferendoli alle realtà locali, in maniera tale che gli spazi dell’autonomia vengano gestiti non in maniera evasiva, ma con responsabilità, cioè non per sottrarsi il più possibile alle forme di controllo dall’alto, ma per realizzare nuove forme di controllo reciproco, in cui ognuno è responsabile di chi gli sta vicino. Se non riusciamo a capire questo principio elementare della convivenza umana, una gestione democratica dell’universo sarà impossibile.

Rovesciare la piramide

La differenza tra una politica “istituzionale” e una “popolare”, cioè tra una politica che vuole gestire il potere e un’altra che cerca di difendersi dai suoi privilegi e dalla sua arroganza, sta nel fatto che quella istituzionale associa la politica all’etica in maniera del tutto formale, cercando di abituare i cittadini a fare altrettanto. Ecco perché in un paese come il nostro la corruzione, vista dall’esterno, sembra essere diffusa a livello nazionale, e non solo in estensione ma anche in profondità.

La popolazione è cioè indotta a credere che, anche quando rivendica dei diritti, è sempre meglio non uscire dal “sistema”. Continuamente infatti ci viene detto che del sistema si possono cambiare singoli aspetti, ma non la struttura portante, proprio perché essa non ha alternative. In tal senso quando la politica istituzionale parla di “Repubblica parlamentare” o “presidenziale”, di Stato “centralista” o “federato”, sta parlando solo di forme, non di sostanza.

Quando lo scollamento tra forme e sostanza, ovvero tra politica ed etica, è molto forte, inevitabilmente si comincia a parlare di riforme. Ora, poiché il sistema offre un tipo di politica il cui legame con l’etica è solo apparente, le alternative che si presentano, quando si vogliono fare le riforme, sono soltanto due: o estendere i privilegi della casta politica ed economica a una fetta maggiore di popolazione, facendo pagare questo trasferimento di benefici agli strati sociali più deboli, interni e/o esterni ai confini di un determinato Stato; oppure fare dell’etica un motivo sufficiente per rovesciare il sistema, ponendo i presupposti per un nuovo stile di vita.

Nella storia degli ultimi 6000 anni si è scelta, in genere, la prima alternativa. Basta fare un esempio arcinoto: il passaggio dalla repubblica all’impero romano. Quella è stata una forma di presidenzialismo che, avvalendosi della democratizzazione degli eserciti e di una maggiore efficienza della burocrazia, voleva porre un argine allo strapotere dei senatori-latifondisti e che invece inaugurò un lunghissimo periodo di dittatura militare, che riuscì a crollare solo in seguito alle invasioni barbariche.

Dunque fino a che punto possono interessare alla popolazione le riforme istituzionali? È evidente infatti che una casta non può riformare se stessa. Quando la politica è sganciata dall’etica, qualunque riforma rischia solo di peggiorare le cose, anche se all’apparenza non sembra così. Il sistema infatti peggiorerà le cose proprio avvalendosi delle esigenze rivendicative di taluni ceti marginali, oppressi o discriminati. Sarebbe bene quindi sapere sin da adesso che cosa fare per ridurre al minimo il rischio d’essere beffati.

La società deve prepararsi a rovesciare la piramide. Cioè a far sì che sia pronta ad autogovernarsi, abolendo la separazione di etica e politica, eliminando progressivamente le strutture statali, a vantaggio delle autonomie locali, trasformando la proprietà dei mezzi produttivi da privata a pubblica, facendo della comunità locale il luogo fondamentale in cui far maturare la democrazia diretta.

La società deve riappropriarsi di se stessa, smettendo d’essere “eterodiretta”, cioè gestita da corpi estranei, il cui funzionamento essa non è in grado di controllare, come per esempio gli Stati e i mercati.

Per realizzare un obiettivo del genere ci vogliono virtù che il potere, abituato alla corruzione, non conosce assolutamente. Queste virtù o saranno tragiche circostanze a farcele maturare o dovremo darcele da soli, anticipando i tempi, cioè videndole come se i tempi della transizione fossero già maturi. Al momento di sicuro sappiamo che, senza di esse, non si potrà far nulla di decisivo.

Uscire dalla dittatura del sistema

Gli umani possono davvero fare quello che vogliono? Se un singolo cerca di opporsi a delle forze collettive, assolutamente no. E non dimostrerebbe d’essere più libero neppure se si desse fuoco, nella speranza di suscitare un generale risentimento verso i poteri costituiti.

Le proteste individuali possono valere appunto come proteste, ma valgono assai poco come proposte: sia perché vengono col tempo riassorbite dal sistema, sia perché tendono a sgonfiarsi da sole, in quanto il singolo, obiettivamente, più di tanto non può fare.

Quindi, se è lecito protestare da individui isolati, è inutile continuare a farlo senza associarsi ad altre persone. Le cose, se davvero si vuole che cambino, possono cambiare solo se si sta insieme. È l’unione fa la forza. E il numero rende l’unità ancora più forte. Quanto più si è, tanto più si ha la possibilità di cambiare le cose. L’unica differenza tra una riunione condominiale e uno sciopero generale nazionale sta soltanto nell’obiettivo che ci si pone.

Ma se queste cose le sappiamo, perché siamo così refrattari a organizzarci in partiti, movimenti e sindacati? Il motivo è semplice: gli italiani, per secoli, han vissuto in maniera frustrante e oppressiva la politica in senso lato, quella intesa come “partecipazione attiva al bene comune”. Sono stati per troppo tempo abituati a obbedire. E anche quando han cercato di alzare la testa, han pagato duramente questa pretesa.

Son duemila anni che andiamo avanti così. Abbiamo iniziato coi senatori romani latifondisti, poi con gli imperatori militari, poi coi re barbarici, poi coi papi teocratici, poi coi principati dinastici, infine con lo Stato centralizzato. Non abbiamo mai smesso di obbedire. L’unico modo di fare politica è sempre stato quello di conformarsi ai poteri dominanti, eventualmente fingendo di assecondarli. Tutte le varie forme di opposizione al sistema sono servite soltanto per passare da una dittatura all’altra: oggi, p. es., abbiamo la dittatura della democrazia parlamentare.

Sono cambiate le forme dell’oppressione, non la sostanza. E così gli italiani si trovano ad essere schierati in due campi relativamente avversi: i conformisti, che lottano per spartirsi fette sempre più grandi di potere, disposti a compiere qualunque abuso; e gli insofferenti, che non sopportano regole troppo rigide, non amano la burocrazia, non accettano la disciplina del partito o del sindacato, sopportano con un certo fastidio le riunioni formali o dovute e, al massimo, si riconoscono nel valore di una piccola comunità o della famiglia e di pochi amici e colleghi.

Gli insofferenti sono individualisti come i conformisti, solo che questi, per fare carriera, hanno messo la moralità sotto i piedi. Tuttavia in entrambi i casi è il sistema che vince. Cioè quello che manca agli insofferenti è la capacità di aggregarsi, ponendosi come obiettivo il superamento della logica dominante. Vivono rassegnati, illudendosi che basti firmare qualche petizione di protesta o votare un partito in luogo di un altro o non votare affatto.

Noi dobbiamo creare un sistema in cui la libertà di ognuno non si debba sentire coartata ma potenziata dalla libertà degli altri. Cioè un sistema in cui, pur sapendo di doversi esprimere entro determinati condizionamenti, si sia convinti di poter ottenere di più in questa maniera che agendo individualmente.

Ma un sistema del genere presume una cosa di fondamentale importanza: il controllo reciproco. Una qualunque democrazia non ha alcun senso se non è localmente autogestita, in cui i controlli siano effettivamente possibili e non puramente teorici.

I poteri che si conferiscono alle persone dovrebbero essere inversamente proporzionali alla distanza che le separa dalle comunità locali di riferimento o di appartenenza. Cioè tanto meno forti quanto più si è lontani.

L’unica strada per abbattere il sistema è quella di ampliare progressivamente le prerogative delle comunità locali, riducendo al minimo le forme di dipendenza dai poteri centralizzati, siano essi politici o economici. Dobbiamo trovare un’alternativa per cui valga la pena vivere e, se necessario, anche morire.

Dall’anima immortale alla democrazia diretta

Da tempo sappiamo che tutte le teorie relative all’anima immortale il cristianesimo le ha prese dal paganesimo, sia esso residente nell’Egitto dei faraoni o nelle poleis greche o nell’India dalle mille religioni. L’ebraismo non s’era mai interessato di un argomento così astratto e, certamente, non per mancanza di fantasia.

Gli orfici, Pitagora, Platone lo usavano non solo in chiave etica (bisogna purificarsi per essere moralmente migliori), ma anche in chiave politica (come minaccia per l’aldilà: sapere che le proprie azioni verranno giudicate da qualcuno doveva incutere un certo timore).

Ora, perché questa forma di deterrenza non ha mai prodotto alcun risultato politicamente significativo nei regimi dominati dallo schiavismo? Ovvero, per quale ragione i risultati significativi che tale purificazione morale può aver prodotto a titolo personale, non si sono mai tramutati in una altrettanto significativa esperienza politica? E, più in generale, perché per realizzare la democrazia, come pratica politica, non è sufficiente la virtù, come pratica morale?

Noi sappiamo benissimo che, senza democrazia, la virtù tende a spegnersi e che nelle dittature, politiche o economiche, è facile che prevalga la corruzione. Ma sappiamo anche che se uno si limita a cercare la virtù morale, non riuscirà mai a impedire le degenerazioni della politica e dell’economia.

Lo spauracchio del giudizio cui dovrà sottoporsi l’anima immortale, da tempo non funziona più. Quando papa Wojtyla lo usò contro la mafia siciliana, fu patetico: disse una cosa che avrebbe potuto impressionare la malavita di una Polonia feudale, certamente non quella di un paese che ha fatto nascere la borghesia mille anni fa.

Quando il virtuoso vede che gli sforzi personali su di sé, non ottengono risultati tangibili al di fuori di sé, nelle sfere istituzionali del potere, inevitabilmente tende a corrompersi. Se poi lui stesso entra in Parlamento o nelle gerarchie ecclesiastiche, il processo degenerativo della sua coscienza è quasi immediato. E’ illusorio pensare che l’ambiente non influenzi la coscienza. Nelle acque del Giordano, ai tempi del Battista, si entrava impuri per uscirne purificati; da noi, nel migliore dei casi, è il contrario.

Nei regimi antagonistici i virtuosi sono sempre stati come gli ingenui che permisero, in un lontano passato, la nascita di quegli stessi regimi, nella convinzione che non sarebbero stati così pericolosi. Rousseau ce lo ricordiamo tutti quando scrisse: “Il primo che recintò un pezzo di terra e disse: Questo è mio, e incontrò tanti altri disposti a credergli, fece nascere la proprietà privata”.

Tuttavia è bene che i politici impegnati a realizzare la democrazia, sappiano che, senza la virtù, la democrazia è solo un guscio vuoto, una parola sofistica. Ragionare soltanto in termini politici, senza fare valutazioni di tipo etico, senza preoccuparsi di avere un comportamento morale adeguato, nella convinzione che il possesso teorico di una verità renda moralmente più liberi, è segno di grande immaturità.

Non ha alcun senso pensare di poter dedurre il tasso di moralità di una persona dall’impegno che dimostra nel cercare di realizzare la democrazia politica. Una valutazione del genere potrebbe acquistare un qualche senso se tale democrazia fosse non delegata ma diretta, cioè se i politici fossero tenuti costantemente controllati dalle comunità locali.

Ma in una democrazia parlamentare nazionale, ciò non ha alcun senso. In Parlamento non abbiamo solo persone chiaramente prive di alcun ritegno morale (in quanto penalmente inquisite o colluse con ambienti criminali o con lobby di potere), ma abbiamo anche persone che, solo per lo stile di vita lussuoso consentito dalla stessa vita parlamentare, impensabile per la stragrande maggioranza della popolazione, non possono godere di alcuna credibilità.

Qualunque cosa dica un parlamentare, anche la più democratica di questo mondo, è sempre una falsità. E quando si sente un parlamentare dire che è comunque preferibile ascoltare tante voci piuttosto che una sola, bisognerebbe ricordargli che anche i sacerdoti predicavano il giudizio per l’anima immortale e che, in attesa di quel giorno, sulla terra conducevano una vita da grandi privilegiati.

Per la gente comune avere a che fare con una democrazia formale o una dittatura reale, non fa molta differenza, anche se, già da adesso, purtroppo, possiamo prevedere che, quanti vorranno la dittatura, si illuderanno di poter risolvere i guasti della democrazia. Fascismo e nazismo non sono forse nati così?

Quanto a coloro che credono in un aldilà, bisogna che si convincano che se su questa terra non fanno nulla per impedire ai corrotti di governare, continueranno a subirli anche nel regno dei cieli. Infatti non possono pensare che ci sia qualcuno che obblighi a essere virtuosi o che punisca i reprobi incalliti alle pene eterne dell’inferno, perché anche questa sarebbe una forma di dittatura.

Contro ogni forma di suicidio

Forse quando si dice che solo con la morte si può trovar pace, c’illudiamo senza volerlo. Pensiamo che la pace sia un sottrarsi a dei problemi ritenuti irrisolvibili. Come quando qualcuno decide di andare a vivere in un paese lontano, dove crede che i rapporti siano più semplici.

Oggi però questi luoghi remoti non esistono da nessuna parte: noi occidentali abbiamo contaminato l’intero pianeta e tutti soffrono delle nostre contraddizioni.

E’ illusorio pensare di poter vivere diversamente altrove, quando non riusciamo a farlo lì dove ci troviamo. Il virus ce lo portiamo dentro e lo diffonderemo ovunque andremo.

Noi dobbiamo curarci da una malattia altamente contagiosa, chiamata “antagonismo” e dobbiamo farlo insieme, lì dove siamo. Qualunque soluzione uno cerchi da solo, non funzionerà. Qualunque gesto estremo che ci porti a desiderare, in un modo o nell’altro, la fuga dalla realtà, non spezzerà la catena che ci obbliga a una vita senza senso.

Chi si uccide pensando che questo sia l’unico modo per risolvere i propri problemi, è bene che sappia che la vita è eterna, che la morte è solo un momento di passaggio da una condizione a un’altra, simile a quello che abbiamo vissuto quando eravamo nel ventre di nostra madre, e che nel cosiddetto “aldilà” non c’è alcun dio in grado di risolvere i problemi al posto nostro.

Nell’universo esistiamo solo noi (i cosiddetti “extraterrestri” sono soltanto i nostri avi) e dobbiamo smetterla di chiedere ad altri di sostituirci nel compito che abbiamo di essere noi stessi, umani come dovremmo.

Non solo non c’è nessun dio, a dispetto di quanti vi credono, ma la vita inesorabilmente continua, a dispetto di quell’altra religione rovesciata chiamata “ateismo”. Il genere umano è destinato a vivere e, se non affronta con decisione e lungimiranza i propri problemi, è anche destinato a soffrire, qui e di là, ora e sempre.

Prima che la natura ci ricordi che andando avanti di questo passo, c’è solo autodistruzione, dovremmo riflettere seriamente su almeno tre aspetti fondamentali intorno ai quali costruire il nostro prossimo futuro:

  1. la democrazia parlamentare (basata sul principio della delega) è diventata una dittatura, e dobbiamo opporle la democrazia diretta, circoscritta in un territorio locale, controllabile dai cittadini;
  2. il mercato ci obbliga a una dipendenza assolutamente insostenibile, e dobbiamo opporgli forme di autogestione dei bisogni sociali, in cui sia previsto l’autoconsumo;
  3. il lavoro non può più essere considerato una priorità quando il suo esercizio minaccia la sopravvivenza della natura, la sua riproducibilità, diventando così un grave pericolo per la salute e la sicurezza di tutti. La scienza e la tecnica non sono degli idoli da adorare, anzi il loro sviluppo va tanto più evitato quanto più si pongono al servizio di interessi privati basati sul profitto.

Questi sono tre motivi fondamentali per i quali vale ancora la pena vivere e lottare.

Armi e Mercato. Uscire dal globalismo

Le armi che abbiamo creato sfuggono al nostro controllo nella stessa misura in cui ci sfugge il controllo del mercato. Abbiamo creato un sistema totalmente in mano ai poteri forti, autoritari, che non solo non sono controllati da nessuno, ma non sono neppure in grado di controllare se stessi.
Chiunque presume di non dover essere controllato, è potenzialmente un nemico pericoloso per la società, anzi, considerando l’attuale consistenza del globalismo economico e militare, per l’intera umanità.
La stessa tipologia di armi di cui questi potentati sono in grado di disporre si presta all’impossibilità di un controllo effettivo del loro impiego, come già dimostrato sin dalla prima guerra mondiale con l’uso dei gas, benché si parli oggi di “obiettivi chirurgici”. Il valore personale dei militari è diventato inversamente proporzionale alla potenza delle loro armi.
La reazione che questi poteri possono avere a quel che ritengono una minaccia per la loro sicurezza o per la loro autorità, reale o presunta che la minaccia sia, può anche esprimersi secondo criteri estranei a qualunque ragionevolezza umana. Infatti l’abitudine reiterata a gestire un potere assoluto, può indurre a compiere azioni il cui effetto può diventare inconsulto, imprevedibile, del tutto sproporzionato rispetto al rischio effettivo che si crede di subire o a qualunque intenzione o volontà di difesa si voglia manifestare. Tant’è che lo scoppio delle due ultime guerre mondiali è avvenuto cogliendo di sorpresa il mondo intero.
L’esercizio del potere assoluto deforma la percezione della realtà, esaspera i problemi, ingigantisce i pericoli, sottovaluta le conseguenze delle proprie azioni, rende incapaci di mediazioni. La tragedia del mondo contemporaneo è che la mancanza di esercizio della vera democrazia si verifica proprio nel momento in cui si crede di usarla (come quando p.es. si va a votare). L’occidente considera addirittura la propria esperienza di democrazia un prodotto di esportazione, da far valere anche con l’uso delle armi, legittimato da risoluzioni di organismi internazionali, in cui solo le cinque nazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dispongono di effettivi poteri.
Oggi la dittatura più pericolosa non è quella del terrorismo internazionale, ma quella che porta a compiere dei crimini contro l’umanità proprio in nome di un’idea distorta di democrazia: un’idea che l’economia borghese divulga attraverso la democrazia delegata e questa la trasmette alla società attraverso il monopolio dell’informazione.
L’economia di mercato ha fatto perdere il controllo sulla produzione, la quale produzione implica anche quella delle armi di distruzione di massa, che, nonostante la fine della guerra fredda, non sono state smantellate, ma, anzi, tendono sempre più a diffondersi. E tutto ciò è avvenuto proprio in nome della formale democrazia borghese, che non è sociale ma semplicemente parlamentare, e si vanta di rappresentare la volontà popolare anche quando i governi in carica sono votati da una minoranza, rispetto a tutti gli elettori aventi diritto di voto (come succede p.es. negli Usa, definiti la più grande democrazia del mondo, dove solo la metà dell’elettorato si reca alle urne).
Se non recuperiamo il concetto di autoproduzione, se non ci liberiamo dal dominio del mercato, dagli indici quantitativi del prodotto interno lordo, da uno sviluppo meramente economico e non sociale, se la democrazia non smette d’essere delegata e non diventa diretta, non solo non saremo mai in grado di controllare le azioni dei poteri forti, economici e militari, ma rischieremo anche di dover ripetere i meccanismi della stessa formale democrazia borghese persino dopo aver subito catastrofi mondiali, belliche o ambientali che siano.
Se non comprendiamo la necessità vitale dell’autogestione delle risorse produttive, rischiamo soltanto di perfezionare gli strumenti e gli inganni per una successiva catastrofe mondiale. Dobbiamo uscire da questo tragico destino e perverso circolo vizioso, riducendo al minimo la forza del mercato, puntando decisamente sulla decrescita e tornando progressivamente all’autoconsumo.
E in questo ritorno dovremmo paradossalmente difenderci con le armi da chi vorrà impedircelo: armi proporzionate a un uso meramente difensivo. Nell’ambito del mercato non c’è alcuna possibilità di sopravvivenza per chi non dispone di potere d’acquisto, meno che mai in maniera dignitosa, proprio perché chi è abituato al potere assoluto, non vuole perderlo, non vuole vederlo diminuire, anzi, lavora ogni giorno per aumentarlo, costruendo monopoli sempre più vasti e complessi, in grado di dominare la scena internazionale.
L’unico modo per poter controllare la gestione delle armi è quello di usarle per difendere il proprio territorio, in cui i cittadini decidono liberamente di praticare la gestione collettiva dei mezzi produttivi. Non abbiamo bisogno di un mercato mondiale per sentirci parte di uno stesso pianeta. Non ha alcun senso democratico uniformare i consumi per far sentire l’umanità una cosa sola.
Nel capitalismo non c’è alcuna possibilità che la politica controlli l’economia. E là dove si è tentato di farlo, usando gli stessi strumenti che la borghesia, sin dal suo nascere, si è data (lo Stato, la burocrazia, il parlamento, il partito politico ecc.), come nel cosiddetto “socialismo reale”, il fallimento è stato totale. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’autoconsumo, è destinata a trasformarsi in una dittatura. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’uso della democrazia diretta a livello locale, è destinata a svolgersi in maniera opposta ai propri fini, e quindi a porsi contro gli interessi di esistenza del genere umano.
Le comunità locali potranno sentirsi parte di un unico pianeta soltanto quando non ci sarà nessuno che farà loro perdere l’autonomia.

L’anticapitalismo dei GAS

Dal 2004 ad oggi i cosiddetti “Gruppi di Acquisto Solidale” (GAS) sono passati da un centinaio di unità a circa ottocento, tra quelli nazionali ufficialmente recensiti, dimostrando di saper recepire in maniera efficace non solo le preoccupazioni ambientaliste dei Verdi, e quindi anzitutto la necessità di promuovere un’agricoltura biologica o comunque ecologica, ma anche le esigenze sociali di un maggior controllo del territorio, delle sue risorse, al fine di valorizzare tutte quelle opportunità che possono favorire la “democrazia diretta”, autogestita.

Risultando da tempo assodato lo stato di crisi in cui versano le istituzioni della democrazia rappresentativa (al punto che oggi c’è chi parla di “dittatura della democrazia parlamentare”), le esperienze di coinvolgimento di cittadini nelle scelte pubbliche locali, in questo caso eminentemente economiche, costituiscono un tentativo di dare una risposta strutturata, regolamentata, alla crisi della democrazia dei partiti e delle istituzioni.

Quando i Gas parlano di realizzare una concezione più umana dell’economia non pensano soltanto a riformulare un’etica del consumo critico, ma anche a ripensare i meccanismi su cui si fonda la gestione dell’economia in generale. Cosa che non riescono a fare né le istituzioni né i partiti politici, anche se l’istanza comunale è inevitabilmente quella maggiormente coinvolta in queste iniziative dal basso.

I Gas infatti non parlano soltanto di “sostenibilità ambientale”, ma anche di “decrescita”, mettendo in dubbio la necessità di aumentare a tutti i costi il prodotto interno lordo, ovvero l’ovvietà di dar maggiore spazio agli indici quantitativi, l’inevitabilità dello stress da competizione, in una parola molte delle regole su cui si regge l’attuale capitalismo. Occorre cioè cominciare a subordinare l’economico al sociale.

Queste associazioni informali di persone e famiglie comprano direttamente da produttori selezionati facendo ordinazioni collettive; per la ricerca dei prodotti migliori, la raccolta degli ordini, il ritiro della merce e la sua distribuzione ci si avvale di personale volontario. La distribuzione, p.es., avviene a basso impatto ambientale, tramite consegne multiple in aziende, condomini, sedi di associazioni e parrocchie.

I criteri di selezione dei produttori sono alquanto rigorosi:

  1. devono essere tutti locali (non solo perché così è più facile controllare la qualità della produzione, ma anche per diminuire lo spreco di energia nei trasporti);
  2. tendenzialmente sono preferibili quelli piccoli, perché è più semplice controllarne e/o orientarne la produzione e poi perché favoriscono l’occupazione (essendo la loro produzione a più alta intensità di manodopera che di capitale);
  3. il loro prodotto dev’essere biologico o ecologico;
  4. il lavoro con cui lo si ottiene non deve essere lesivo della dignità umana e animale (p.es. non è ammesso il lavoro nero o la discriminazione per motivi di nazionalità, sesso, religione ecc.);
  5. dev’essere chiaro l’impatto che ogni prodotto ha sull’ambiente in termini di inquinamento, imballaggio, trasporto;
  6. dev’essere esplicitato quanto del costo finale di un prodotto serve a pagare il lavoro e quanto invece la pubblicità e la distribuzione (questo perché il costo reale di produzione non corrisponde mai al prezzo di mercato).

I produttori, inizialmente, vengono visitati senza preavviso, per vedere come lavorano e per chiedere loro se sono disposti ad accettare nuove condizioni di produttività e di smercio, anche perché i Gas vogliono premiare i produttori virtuosi, emancipandosi totalmente dalla grande distribuzione.

I Gas si preoccupano inoltre, ben sapendo che la logica del mero profitto è del tutto irresponsabile, di risparmiare sui consumi, recuperando o riciclando tutto quanto viene acquistato. Il consumatore vuole diventare un soggetto attivo dell’economia, pretendendo dal produttore il rispetto dell’ambiente e della salute umana.

Risparmiare sui consumi vuol dire tante cose, p.es. mangiare meno carne. La trasmissione “Report” del 17 maggio 2009 arrivò a dire che per 60 milioni di italiani non è sufficiente macellare 500 milioni di polli l’anno, 4 milioni di bovini e 13 milioni di suini: il resto dobbiamo importarlo.

Mangiando meno carne si fa un favore agli animali che vivono negli allevamenti intensivi, i cui spazi risicatissimi hanno termine solo il giorno della macellazione. A causa dei nostri appetiti, che difficilmente potremmo definire “salutistici”, visto che le carni sono spesso piene di ormoni per la crescita e di antibiotici, enormi estensioni di terreno fertile, nel Terzo mondo, vengono destinati alla coltivazione di foraggi e quindi sottratti a quegli alimenti che potrebbero nutrire le già povere popolazioni locali. Per non parlare del fatto che questi allevamenti industrializzati emettono più gas serra (18%) di tutto il settore dei trasporti mondiali (14%).

A dir il vero la prospettiva dei Gas è quella di sperimentare un modello replicabile in contesti diversi da quelli della pura e semplice alimentazione: p.es. la finanza etica, il turismo responsabile, il software libero, ma anche la telefonia, l’energia… Questo per avere col territorio un approccio non più esclusivamente consumocentrico ma globale. Non per nulla essi cominciano a organizzarsi come Reti (o Distretti) di Economia Solidale (RES e DES).

E già affiorano le polemiche con chi sponsorizza il cosiddetto “commercio equo e solidale”, poiché si ritiene sia meglio favorire i produttori locali che non quelli lontani, la conoscenza diretta della produzione che non quella indiretta, anche perché per l’ambiente è decisamente preferibile una filiera corta (a km0), in grado di garantire più freschezza e meno conservanti.

Insomma l’agricoltura biologica, basata su un rapporto molto stretto tra produttore e consumatore, sta diventando un’opportunità di recupero, nei nostri territori, di pratiche agricole sostenibili (un tempo tradizionali) e anche, se vogliamo, di relazioni sociali, con cui si cerca di trasformare qualitativamente la gestione dello spazio rurale, dell’ambiente e del territorio.