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Per un socialismo autogestito

Se fosse chiaro a tutti che nessuno può essere o sentirsi obbligato a “vendersi”, cioè a vendere la propria capacità lavorativa, fisica o intellettuale, per poter vivere, indipendentemente dalla forma o entità del corrispettivo che si ottiene; se a tutti fosse chiaro che questa forma di “prostituzione” è indegna per qualunque persona, è immorale sotto ogni punto di vista (anche se ovviamente non per quello economico della borghesia) e che, per il bene complessivo della società, andrebbe aspramente combattuta, anzi, assolutamente vietata, nulla potrebbe impedire l’esistenza della proprietà privata dei mezzi produttivi.

Infatti non è la proprietà “in sé” (pubblica o privata) che fa nascere o che impedisce l’antagonismo sociale, proprio perché tale antagonismo sorge quando uno si serve dei propri mezzi produttivi per sfruttare il lavoro altrui. Non serve a niente costruire una comunità in cui, pur essendo vietata la proprietà privata dei singoli suoi componenti, la comunità, nel suo insieme, può assumere un personale lavorativo privo di proprietà, che viene pagato, in qualsivoglia forma, per il lavoro che svolge, e che può essere licenziato quando tale lavoro è ultimato. Non ha senso vietare la “prostituzione lavorativa” all’interno di una comunità, e legalizzarla nei rapporti col mondo esterno.

Non solo quindi tutti devono avere la proprietà dei mezzi lavorativi, ma nessuno dovrebbe impiegarli per sfruttare il lavoro di chi non ha proprietà, cioè il lavoro di chi ha perduto, per qualche motivo, tale proprietà o, per qualche motivo, non è in grado di metterla a frutto in maniera sufficiente per la propria esistenza. Questo vuol dire che, in presenza di una proprietà privata, tutti dovrebbero accontentarsi di ciò che serve per riprodursi, per avere quanto è necessario per vivere.

In presenza di proprietà privata ci si dovrebbe accontentare di una società basata sull’autoconsumo e sul baratto delle eccedenze (compiuto solo tra persone ugualmente proprietarie e quindi libere). Parlare di “libertà” senza “proprietà” è un controsenso, ma anche parlare di “proprietà” e di “libertà giuridica”, cioè quella libertà formale, inventata dalla borghesia, che non implica, di necessità, il possesso di una proprietà. Non ha senso che una libertà giuridica implichi il libero possesso del proprio corpo, per poi essere costretti a vederlo, subito dopo, rendendolo schiavo per mancanza di proprietà. Non conta niente, quindi, ai fini della libertà personale, che una proprietà sia sociale o privata: conta che non venga usata per sfruttare il lavoro altrui o per togliere agli altri la legittima proprietà.

Semmai è un’altra cosa che ci si deve chiedere: in presenza di proprietà privata, equamente distribuita in base alle necessità dei soggetti che la lavorano, quali sono le garanzie che permettono a un sistema del genere di funzionare nel tempo? Purtroppo non esistono garanzie “assolute”. La storia ha dimostrato che laddove si afferma la proprietà privata, pur in assenza di sfruttamento del lavoro altrui, possono sempre accadere eventi imprevedibili, come p.es. la morte per malattia di un componente (animale o umano) della comunità, oppure un disastro ambientale. In casi del genere, se la comunità è piccola e quindi debole, facilmente si finisce nella tragedia. Un evento fortuito può portare qualunque persona, che fino a un momento prima stava bene, ad essere costretta a chiedere un lavoro dietro compenso.

Questo spiega il motivo per cui la concessione dei mezzi produttivi in proprietà privata a nuclei troppo ristretti di persone, non è conveniente. Il concetto di “famiglia” è un’astrazione priva di senso. Quanto meno si deve parlare di una comunità composta almeno da 50-100 elementi. Molte famiglie, poste di fronte ai principali mezzi produttivi, gestiti collettivamente, possono garantire a tutti la sopravvivenza, previa rinuncia a qualunque proprietà privata (al massimo è possibile tollerare una proprietà “personale”, relativa a mezzi che non sono di uso comune o che comunque non incidono ai fini della sopravvivenza dell’intera comunità).

Cerchiamo ora di spiegare bene questo punto, poiché la differenza da questa forma di socialismo autogestito a quella del socialismo industriale o mercantile o statale o “scientifico”, è netta.

L’assenza totale di proprietà privata nell’ambito di una vasta comunità di famiglie, in relazione esclusiva ai mezzi produttivi che garantiscono la sussistenza, va vista come una questione interna a tale collettivo, che solo quest’ultimo è titolato ad affrontare. Non possono esserci direttive piovute dall’alto, siano esse politiche o economiche. La coordinazione degli interessi trasversali alle varie comunità va affrontata autonomamente dalle stesse comunità, che si terranno in rapporto tra loro. Quindi lo Stato va eliminato, come pure tutte le istituzioni che lo rappresentano, per non parlare dei Mercati, che ci condizionano sin nei più piccoli particolari.

Non solo, ma le comunità rurali non possono sentirsi vincolate al mantenimento delle comunità urbane, neppure se queste offrissero in cambio mezzi tecnici sofisticati con cui sfruttare la natura. L’idea di avere mezzi e strumenti tecnici del genere, da usare nel nostro rapporto di dominio con la natura, è completamente sbagliata: è nata nell’ambito delle civiltà antagonistiche e, come tale, va rimossa. L’esigenza riproduttiva della natura va considerata superiore a quella produttiva degli esseri umani, proprio perché noi siamo “enti di natura” e non è la natura che appartiene a noi, ma il contrario.

Un altro aspetto di fondamentale importanza è che la vita urbana, priva di riferimenti alla natura, va considerata come una forma di “alienazione”. Bisogna pertanto pensare a come chiudere le città, a come trasferire i suoi abitanti nelle campagne, a come far di nuovo crescere i boschi e le foreste, a come proteggere da qualunque forma d’inquinamento l’aria e l’acqua. L’industria va ridotta al minimo indispensabile, anzi, possibilmente va ricondotta ai limiti dell’artigianato. Dobbiamo recuperare tutte le aree agricole abbandonate da uno sviluppo scriteriato dell’industrializzazione. Dobbiamo smantellare progressivamente il macchinismo applicato all’industria, poiché esso è la fonte principale dell’inquinamento del pianeta, ed è illusorio pensare che si possa risolvere un problema tecnologico con una nuova tecnologia, ancora più sofisticata della precedente. Il vero problema è come ripensare completamente le categorie tipiche della nostra attuale forma mentis: “benessere”, “comodità”, “agio”, “sviluppo”, “crescita”, “sicurezza materiale”…

Ci vorrà un tempo lunghissimo per tornare a un tipo di esistenza simile a quella del “comunismo primitivo”, ma se non facciamo partire la transizione, se non cominciamo a pensarci da adesso, ci vorrà un tempo molto più breve per arrivare a un’apocalisse di immani proporzioni. Ed è evidente che per pensare a una transizione del genere, inconcepibile ai più, occorre rovesciare con la forza qualunque forma di potere che rende schiavi gli esseri umani.

A che serve l’antropologia?

È assurdo che un antropologo debba limitarsi ad andare presso una comunità primitiva per poi tornare a riferire qualcosa alla società da cui è partito. Ciò avrebbe un senso se quella comunità soffrisse di un dramma per colpa di chi la vuole distruggere o comunque espropriare delle risorse del territorio in cui vive. Diversamente si tratterebbe soltanto di un rapporto meramente intellettuale o di semplice mediazione culturale tra due realtà opposte, di cui il ricercatore sa già quanto sia profonda la loro differenza.

Non serve a nulla soddisfare la nostra (di noi occidentali) “curiosità esotica”, anche perché, comportandosi così, solo per dare un senso alla sua attività accademica, l’antropologo non farà che aumentare la diffidenza che quelle comunità provano già, e giustamente, nei nostri confronti.

Se uno vuol fare un mestiere del genere, dovrebbe aver chiaro, in via preliminare, che la società da cui parte non è un modello per le comunità primitive che vorrà incontrare. È anzi impossibile che al giorno d’oggi un ricercatore non sappia che le differenze tra noi e loro, causate da lunghi e drammatici processi storici, sono abissali, al punto che i nostri sistemi di vita non sono assolutamente titolati a insegnare a quelle comunità il modo migliore per vivere in maniera sociale e rapportarsi alla natura.

È inoltre impossibile che non sappia – se è intellettualmente onesto – che oggi la società da cui egli proviene (sia essa fondata sul capitalismo o sul socialismo) tende ad essere un pericolo per la comunità che vuole incontrare. Qualunque società contemporanea che non metta in discussione il rapporto di “dominio” che ha nei confronti della natura, per non parlare dei rapporti antagonistici tra ceti sociali economicamente forti e ceti deboli, è una sicura minaccia per la sopravvivenza di una comunità che definiamo, dal nostro punto di vista, come “arcaica”. Siamo troppo diversi per poterci capire. Non è una semplice questione di linguaggio o di cultura.

Ecco perché la funzione dell’antropologo non dovrebbe essere, in prima e ultima istanza, quella di “capire” razionalmente tale diversità, ma anche quella d’introdurre il concetto di “alternativa” o di “transizione” all’interno della propria società, eventualmente servendosi di esperienze “arcaiche” o “primitive” (ma sarebbe meglio usare il termine “primordiali” o “native”, “autoctone” o “etniche”, onde evitare il rischio di paragonarle a qualcosa di “selvaggio”).

L’antropologo deve saper proporre alla propria società una discussione sulle condizioni irrinunciabili per non nuocere alle esperienze completamente diverse da quelle della stessa società da cui lui proviene e in cui vuole continuare a esistere. S’egli decidesse di andare a vivere nella comunità indigena che vuole conoscere, il discorso sarebbe diverso, ma quando mai viene fatta (o nel passato è stata fatta) una scelta del genere? Al massimo la si fa per un certo periodo di tempo, e sempre per motivi di studio o di carriera accademica. E in ogni caso, se davvero la si facesse come scelta di vita, non avrebbe più senso definirsi “antropologi”. Si diventerebbe membri effettivi di quella comunità, dando in un certo senso per scontato che la società da cui si proviene non abbia alcuna possibilità di migliorare qualitativamente se stessa. Il che sarebbe un errore.

Se l’antropologo vuol prendere le difese delle cosiddette “comunità arcaiche”, dovrebbe chiarire esplicitamente, là dove vive, che la società da cui proviene rappresenta una minaccia per la loro sopravvivenza. Dovrebbe cioè assumersi la responsabilità di dire che il suo compito di ricercatore non è tanto quello di “andare” dagli indigeni, come se avesse da insegnare a loro qualcosa che non sanno, quanto piuttosto quello di permettere agli indigeni di dire qualcosa a noi, di far presente a noi le incredibili difficoltà che devono superare per far fronte alla continua espansione planetaria delle nostre società.

Loro” dovrebbero venire da “noi” per dire a “noi” come dovremmo vivere, permettendo a “loro” di continuare a esistere. Il problema n. 1 infatti è che la nostra esistenza sembra essere del tutto incompatibile con la loro. È come se chiedessimo a un neonato di guidare un’automobile: sarebbe una richiesta stupida non tanto perché, prima di poterlo fare, gli occorrerebbe un certo tempo, quanto perché oggi siamo noi che dobbiamo chiederci se davvero abbia ancora un senso usare delle automobili per spostarsi.

Lo vediamo tutti i giorni che le auto sono una delle principali fonti dell’inquinamento del pianeta. Mentre noi guidiamo un qualunque mezzo motorizzato, stiamo procurando un problema alle comunità arcaiche che non lo usano.1 Il mondo è interconnesso, che ci si creda o no, che lo si voglia o no. Lo sanno bene le multinazionali, gli istituti finanziari, i broker delle borse di titoli e valori, gli ecologisti… Ormai lo sanno tutti che non ci si può più approcciare alle suddette comunità come se fossero un fenomeno locale, geograficamente circoscritto, soggetto a specifiche problematiche.

Anche gli antropologi lo sanno e sanno anche che le contraddizioni del sistema capitalistico si stanno acutizzando. Non è più possibile pensare che con la scienza e la tecnica si possano risolvere i problemi che sono stati creati proprio dalla rivoluzione industriale. O che tali problemi possano essere risolti trasferendo gli impianti industriali, soprattutto quelli più inquinanti, nei paesi del Terzo Mondo (o trasferendo qui le scorie che quegli impianti producono o i relitti inutilizzabili per essere smantellati).

Oggi non è neppure questione di “proprietà privata” capitalistica o di “proprietà statale” socialistica, per quanto sia fuor di dubbio che, al fine di ridurre gli effetti nocivi sui nostri ambienti, la proprietà dei mezzi produttivi vada “socializzata”, essendo questo l’unico modo per responsabilizzare le comunità locali.

Oggi bisogna porre all’ordine del giorno il problema di come uscire dal concetto di “civiltà”, intesa in senso “industriale”. L’antropologo deve poter mostrare ai propri concittadini che esiste la possibilità di vivere un’esistenza molto diversa. E l’indigeno, dal canto suo, può farci capire che questa possibilità non è utopica ma reale.

Tuttavia, affinché venga percepita come “reale”, noi occidentali dobbiamo rovesciare i criteri di fondo con cui viviamo nelle nostre società. Il discorso antropologico deve per forza associarsi a una critica dell’economia politica liberistica (o di derivazione borghese), e diventare, esso stesso, un discorso politico-eversivo.

L’antropologo deve impegnarsi non solo a favore della sopravvivenza delle comunità arcaiche, ma deve anche saper porre le basi per un mutamento radicale della società in cui lui stesso vive. Senza questo mutamento, la sopravvivenza di una qualunque comunità indigena è a rischio. Ed è a rischio anche la nostra.

Se l’antropologo si limita a voler “conoscere” tali comunità e non si preoccupa di fare altro, involontariamente fornisce informazioni utili ai nostri sistemi sociali per eliminare, in qualche maniera, quelle stesse comunità. Diventa, anche contro le sue migliori intenzioni, “una spia del sistema” e un imbonitore per gli indigeni, capace solo di vendere nuove illusioni.

Ai tempi della prima rivoluzione industriale erano gli economisti borghesi che svolgevano questo ruolo mistificatorio nei confronti dei contadini infeudati. Sarebbe triste che oggi venisse ereditato dagli antropologi nei confronti delle ultime comunità arcaiche rimaste in vita. È bene quindi guardare con molto sospetto qualunque teoria antropologica che non metta sul tappeto le questioni più urgenti dell’umanità.

Nota

1 Si potrebbe anche aggiungere che la potenza (espressa in cavalli fiscali) delle auto diventa sempre più irrilevante, a causa del fatto che, essendo state prodotte in gran numero sin dalla loro nascita, esse provocano nelle città degli ingorghi insopportabili, sicché ciò ch’era stato progettato per accorciare le distanze, oggi inevitabilmente le allunga.

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Il superamento della religione nell’Anti-Dühring di Engels

L’ateismo del comunismo primitivo

È impossibile dar torto a Engels quando considera ridicola l’idea di Dühring di “abolire” la religione nella società socialista. Infatti il socialismo scientifico ha sempre detto ch’essa è soltanto un epifenomeno, una sovrastruttura che si estinguerà da sé, insieme allo Stato politico, quando il socialismo sarà realizzato.

Ciò che non piace, nella sintesi engelsiana sulla posizione del socialismo in merito al fenomeno religioso, è un’altra cosa. Scrive nel suo Anti-Dühring: “Agli inizi della storia sono anzitutto le potenze della natura quelle che subiscono questo riflesso…”, assumendo col tempo “svariate e variopinte personificazioni”. Quale riflesso? “Ogni religione non è altro che il fantastico riflesso nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la sua esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene assumono la forma di potenze ultraterrene”.

Molto feuerbachiana questa definizione della religione. Cerchiamo di capir bene cosa Engels voleva dire. Anzitutto non si sta riferendo alle religioni politeistiche, tipiche dello schiavismo, poiché subito dopo parla di “mitologia comparata” dei popoli indoeuropei, di cui i Veda induistici costituiscono l’origine ancestrale. Egli si sta riferendo alle religioni più primitive, quelle clanico-tribali, cioè quelle passate alla storia col nome di “totemico-animistiche”.

Queste però non erano religioni che riflettevano rapporti sociali di tipo antagonistico. Erano dunque così alienanti? così predisposte a fuorviare gli uomini dall’idea di doversi liberare da rapporti sociali frustrati? Assolutamente no, anche perché appunto non esisteva ancora lo schiavismo.

Ma facciamo ora mente locale e cerchiamo di ricordare come sono fatte le tante pitture rupestri dell’uomo preistorico trovate in vari luoghi del pianeta. Presentano forse una simbologia magico-religiosa o animistico-totemica? Purtroppo per Engels dobbiamo dire che appaiono molto realistiche e naturalistiche, per quanto le figure siano stilizzate, appena abbozzate. Esse dovevano soltanto rimandare ad altro, non avevano la pretesa d’aver un significato in sé. Il pittore preistorico non voleva rappresentare tutto se stesso, né faceva della sua arte una forma di consolazione o di evasione o di protesta in rapporto alle contraddizioni della sua vita. Picasso rimase molto stupito di questo realismo ingenuo e cercò d’imitarlo nelle sue raffigurazioni dei tori.

Ora, perché questa assenza di riferimenti religiosi? Il motivo è molto semplice: nel comunismo primitivo non esisteva alcuna religione. Il fatto che seppellissero i loro morti con tutto ciò che d’importante avevano usato in vita, non voleva affatto dire che basassero la loro esistenza in funzione di una credenza religiosa. Non c’erano sacerdoti che si distinguevano dal resto della comunità, rivendicando un potere particolare. Se c’erano sciamani o stregoni, non svolgevano riti non compatibili con le funzioni attribuite alla natura. Alcuni eminenti studiosi han detto che non c’era la religione perché il cervello degli uomini primitivi non era sufficientemente sviluppato. Allora non lo è neppure quello dei socialisti! Ancora oggi ci si imbatte in qualche studioso di mentalità borghese che legge il passato con gli occhi del presente o che ritiene sia impossibile non credere in un’entità superiore.

Gli uomini primitivi erano forse religiosi perché mancava la scienza? Ma la fede cieca nella scienza non rende forse altrettanto superstiziosi? L’unica vera scienza è forse quella occidentale? La conoscenza diretta della natura, trasmessa per prove ed errori attraverso le generazioni, va considerata non scientifica? La scienza è davvero “scientifica” solo quando fa esperimenti in laboratori asettici, neutrali, non influenzati dall’ambiente esterno? La vera scienza è soltanto quella che sa “dominare” la natura perché ne conosce a fondo tutte le sue leggi?

Sono tutte domande le cui risposte, oggi, dovrebbero essere scontate, anche perché l’uomo primitivo, avendo una visione olistica delle cose, era inevitabilmente molto più scientifico degli odierni scienziati, sempre molto settoriali e privi di senso etico, in quanto, se sono idealisti, non si ritengono responsabili quando le loro ricerche vengono usate dalla politica o dall’economia in maniera negativa, oppure, se sono venali, si chiedono come ricavare dalle loro ricerche un utile economico. Quando parliamo di medicina non stiamo forse lì a chiederci perché in occidente si curi soltanto l’organo malato e non si abbia un vero rapporto col paziente?

Vivendo rapporti sociali naturali, l’uomo primitivo non poteva avere alcuna religione, e se aveva delle credenze che oggi qualifichiamo, sbagliando, col termine di “religiose”, esse non lo facevano sentire in balìa delle forze della natura, non provenivano da un senso d’impotenza nei confronti di tali forze, poiché la natura era considerata “madre”, non “matrigna”. Semmai è sotto lo schiavismo che si inizia ad attribuire a forze innaturali o sovrannaturali la causa e, insieme, il rimedio delle proprie frustrazioni. È così che si creano delle personificazioni simboliche, astratte, di ciò che si vive (il male) e che si vorrebbe vivere (il bene) nella realtà.

Gli uomini primitivi non si sentivano “dominati” dalla natura, né avvertivano il desiderio di “dominarla”. Per loro la natura era una partner dotata di personalità autonoma (che, p.es., non si poteva ferire con l’uso dell’aratro, per non devastarne il ventre, come dicevano tante popolazioni antiche). Era considerata una madre severa, esigente, ma anche protettiva, rassicurante, con cui misurarsi alla pari, man mano che si diventava adulti, senza mai scordarsi che gli esseri umani sono tutti “figli della natura”. Concepivano la natura come fonte esclusiva1 delle loro risorse, della loro stessa vita. Se per il fatto di ritenerla una sorta di “divinità” è necessario definirli “religiosi”, indubbiamente lo erano. Ma allora dovremmo considerare tali anche gli antichi filosofi ilozoisti o panpsichisti, quando invece erano fondamentalmente atei.

Credere che esista un aldilà o che la morte sia una forma di passaggio da un’esistenza a un’altra non significa essere “religiosi”, poiché anche la scienza parla di eternità e infinità della materia e dell’universo che la contiene, e della sua perenne trasformazione. Per non essere “religiosi” è sufficiente non credere in un dio onnipotente, onnisciente, onnipresente, preveggente…, in grado di leggere il pensiero umano, di anticiparne le decisioni, di condizionarne le scelte, di indurlo in tentazione e altre amenità del genere, che fanno sentire l’uomo una marionetta nelle mani di dio. Chi crede nell’eternità della natura, non ha bisogno di credere in dio, oppure crederà in un dio che sostanzialmente avrà caratteristiche umane. Il livello massimo di religione che potevano avere gli uomini preistorici era il culto degli antenati, che è quanto di più umano vi possa essere.

Schiavismo e paganesimo

Il secondo aspetto sbagliato nella sintesi di Engels, sullo sviluppo del fenomeno religioso, è che non mette in relazione il paganesimo con lo schiavismo. Eppure avrebbe dovuto essere scontato. Tutte le religione cosiddette “pagane” o politeistiche sono nate quando già esisteva la fine del comunismo primitivo. Tali religioni avvertivano la natura come un pericolo o una minaccia, in quanto gli uomini vivevano così i loro rapporti sociali. Cioè consideravano la natura uno strumento nelle mani degli dèi, che lo usavano a loro discrezione, il più delle volte per punire gli uomini di qualche mancanza; oppure veniva invocato l’aiuto degli dèi per nuocere al nemico.

Non è mai esistito – come invece dice Engels – un periodo in cui gli uomini temevano le forze della natura, antecedente a un secondo periodo in cui hanno iniziato a temere le forze sociali antagonistiche. Dopo la fine del comunismo primitivo l’uomo ha subito avvertito il proprio simile come un nemico, e là dove non riusciva a sconfiggerlo, a sottometterlo, s’inventava delle forze supplementari astratte che potessero aiutarlo. Oppure chi era in grado d’imporsi con la forza o l’astuzia, escogitava delle entità simboliche per giustificare la propria superiorità.

Che poi sotto il paganesimo ci fossero tante divinità, mentre sotto le cosiddette “religioni del libro” ve ne fosse una sola, non ha molta importanza. Forse le religioni monoteistiche sono emerse quando il peso dei condizionamenti sociali antagonistici era troppo forte per essere sopportato. Esse infatti appaiono come una forma d’illusione a un livello superiore, più astratto e sofisticato: hanno sostituito qualcosa che aveva fatto il suo tempo, nella convinzione che occorressero ideali più elevati, da realizzarsi a tutti i costi. Le religioni monoteistiche sono legate più alla storia che non alla natura, più all’azione che non alla contemplazione, più a una organizzazione collettivistica con addentellati politici che non a un approccio alla divinità di tipo clanico-parentale o individuale, più a una sensibilità universale che non a un riferimento urbano o locale, più a rigidi dogmi che non a riti conformi ai ritmi della natura. Il passaggio da tante divinità che si possono rappresentare visivamente a un unico dio non rappresentabile o, come nel cristianesimo, a un personaggio che insieme è umano e divino, potrebbe anche essere visto come una forma di cripto-ateismo, di disincantamento da una certa ingenuità di fondo.

Insomma la formazione e lo sviluppo delle religioni sono stati molto sfaccettati nei secoli e nei diversi luoghi geografici, per cui non è possibile stabilire un “prima” e un “dopo” tra una forma e l’altra. L’unica cosa che si può dire è che, se si escludono le religioni animistico-totemiche, tutte le altre riflettono rapporti sociali conflittuali, cui s’è cercato di trovare una spiegazione fantastica a seconda delle circostanze. Tutti gli dèi servono per giustificare la posizione delle classi dominanti, o possono essere inventati per contrastare tale posizione. Le divinità possono assumere col tempo nomi, funzioni, caratteristiche, modalità d’azione… incredibilmente diversi, a seconda della fantasia umana: quello che non cambia è che esse vengono sempre usate in rapporto agli antagonismi sociali.

Anche oggi esistono divinità laicizzate che chiamiamo Stato politico, Libero mercato, Scienza laboratoriale, Diritti umani universali, Democrazia parlamentare… Persino la Scrittura, rispetto alla semplice Oralità, è considerata una divinità. Siamo in grado di “deificare” qualunque cosa, vivendo in sua funzione, sottomettendoci come servi: il denaro da accumulare, lo shopping per spendere il denaro accumulato, il sesso da godere, la droga per evadere, lo sport della squadra del cuore, l’attività ginnica che tiene sempre in forma, la medicina che risolve ogni problema fisico, l’alimentazione che rende sani, giovani e belli, i film che fanno sognare, la musica che distrae, le chat che coinvolgono, il gioco d’azzardo che ipnotizza, l’analista cui confidare i nostri problemi… Quando dominano i rapporti antagonistici, tutto può essere trasformato in una “religione”, persino l’ideologia con cui vengono criticati questi rapporti.

La religione è una fissazione da cui è molto difficile liberarsi, se non ci si libera di ciò che la origina. Con uno sforzo di volontà personale al massimo si può passare da una fissazione a un’altra. Tutto può diventare una forma di dipendenza, esattamente come le classiche religioni. L’oppio dei popoli oggi è il capitalismo, ma, in alcuni Paesi del mondo, per 70 anni è stato il cosiddetto “socialismo reale”. Gli stessi Marx ed Engels avevano il culto per la scienza e la tecnica e avevano concepito una transizione socialista che non prescindesse minimamente da ciò che la borghesia aveva realizzato sul piano tecnologico.

Ecco perché oggi, se davvero vogliamo realizzare un socialismo democratico, dobbiamo rimettere tutto in discussione. Oggi ci vantiamo di conoscere la natura molto meglio di quanto potessero fare gli uomini prima della rivoluzione tecnico-scientifica del Settecento. Ma chiediamoci: forse per questo abbiamo eliminato il concetto di “religione”? O non l’abbiamo piuttosto trasformato in qualcosa di più laico, conseguente al fatto che la società borghese ha aumentato, col consumismo, gli oggetti di cui possiamo disporre per illuderci di superare le nostre alienazioni?

Tutte queste opinioni limitate di Engels non dipendono solo dal fatto che risalgono a 150 anni fa, ma anche e soprattutto da una visione piuttosto terribile della preistoria. Scrive a tale proposito: “Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia: ancora mezzo animali, rozzi, ancora impotenti di fronte alle forze della natura, ancora ignari delle proprie; perciò poveri come gli animali e di poco più produttivi di essi”. In queste condizioni verrebbe da chiedersi come sia stata possibile un qualunque forma di progresso.

Se osserviamo che talune comunità primitive, ancora oggi esistenti, sono rimaste ferme al neolitico, pur essendo consapevoli, almeno a grandi linee, di un certo progresso tecnico-scientifico e urbanistico, avvenuto non molto lontano dai loro villaggi, verrebbe quasi da pensare che i membri di tali comunità non appartengano affatto alla specie “homo sapiens”. A Engels sarebbe parso del tutto incredibile che, pur consapevoli di un certo progresso tecnologico al di fuori del loro habitat, tali comunità abbiano preferito rinunciarvi altrettanto consapevolmente, nella convinzione che, così facendo, avrebbero potuto conservare meglio le caratteristiche della loro identità, le proprietà del loro ambiente vitale.

Purtroppo gli stessi etnologi che visitano tali comunità spesso non sono in grado di capire ch’esse, a causa dei condizionamenti esterni che subiscono, non sono più come vorrebbero essere. Esse sanno benissimo che il cosiddetto “mondo civilizzato” non vede l’ora di espropriarle delle loro risorse naturali. Il fatto stesso che vi siano degli studiosi che vanno a conoscerle come se fossero animali in via di estinzione, è indicativo del profondo abisso che ci separa da loro. Per Engels il criterio fondamentale che spiega la differenza tra “loro” e “noi” è il rapporto con la natura, che per loro sarebbe di “dipendenza”, mentre per noi è di “dominio”, come se il concetto di “dominio” ci caratterizzasse, nei confronti della natura, come “esseri umani”.

Dunque a che serve il sedicente “socialismo scientifico” se nei confronti della natura ha lo stesso atteggiamento “imperialistico” del liberismo borghese? Abbiamo davvero bisogno di “razionalizzare” un atteggiamento che è sbagliato nei suoi presupposti di fondo? Finché per noi il rapporto con la natura si configura solo come dominio, che possibilità abbiamo di diventare noi stessi, cioè “enti di natura”? È forse giusto ritenere che nel mondo primitivo l’uguaglianza fosse soltanto un prodotto inevitabile della loro impotenza nei confronti della natura? un effetto della loro povertà materiale? della loro incapacità produttiva? Per quale motivo è così difficile capire che una qualunque produzione umana deve essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura?

Addendum riepilogativo

Là dove c’è paganesimo, c’è sempre schiavismo. E lo schiavismo è sempre basato sui rapporti di forza, in cui p.es., sul piano personale/sessuale, l’uomo domina la donna. Se esistono riferimenti ancestrali al primato della natura, all’eternità-infinità dell’universo ecc., ciò va considerato un retaggio del comunismo primitivo, che ha caratterizzato la vita del genere umano in tutto il pianeta per almeno un milione di anni (in genere si fa partire lo schiavismo a circa 6000 anni fa).

Là dove c’è schiavismo, non è possibile considerare il paganesimo migliore del cristianesimo: semmai si possono fare differenze tra ortodossia religiosa (di derivazione greco-bizantina) e cattolicesimo-romano, in cui il papato si considerava politicamente superiore agli imperatori.

Il cristianesimo è quella religione che favorisce il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in quanto ha un maggior senso dell’etica, proveniente dall’ebraismo. Questo almeno fino a quando, assumendo atteggiamenti neopagani, desunti dalla passata civiltà greco-romana, il cristianesimo non arriverà a trasformare la dipendenza personale del servaggio in dipendenza contrattuale del lavoro salariato. Un processo, quest’ultimo, iniziato in Italia, con la formazione dei Comuni borghesi e sviluppatosi enormemente con la Riforma protestante, specie nella variante calvinistica. Criticando il cattolicesimo borghese del papato, la Riforma sembrava voler riprendere la severità del cristianesimo primitivo; invece estese soltanto la corruzione a tutta la società civile, facendo di ogni credente il pontefice di se stesso.

Tutte queste cose: schiavismo/paganesimo, servaggio/ortodossia-cattolicesimo, capitalismo/protestantesimo vanno superate con una forma di socialismo democratico e ateistico (umano-naturalistico), che riprenda lo stile di vita del comunismo primitivo, l’unico in cui vigeva l’uguaglianza sociale e quindi quella di genere. Questo per dire che non potremo ereditare nulla di significativo né dallo schiavismo pagano, né dal servaggio cristiano, né dal capitalismo borghese, e neppure dal socialismo statale (di matrice russa) o mercantilistico (di matrice cinese).

Nota

1 Oggi non usiamo più il termine “esclusiva” ma “prioritaria”, in quanto ci vantiamo di poter costruire artificialmente ciò di cui abbiamo bisogno.

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Il senso della storia

Qual è il senso della storia? Di sicuro non quello di Nikolaj Berdjaev, che vedeva nella storia terrena una ripetizione di qualcosa già avvenuto nei cieli. Diciamo che se una qualche “ripetizione” deve esserci o, per dirla con Nietzsche, un qualche “eterno ritorno”, allora potremmo dire che il senso della storia sta nel tornare all’esistenza dell’uomo primitivo, ovviamente con la consapevolezza di tutti gli errori compiuti. È una specie di “ritorno alla terra” – per restare alla terminologia nicciana -, con un movimento però non lineare, che sarebbe troppo ottimistico, troppo illusorio: il movimento è a spirale, dove i cerchi concentrici si restringono sempre più, fino a diventare un punto solo. Nel suo Anti-Dühring, a proposito di questi cerchi, F. Engels diceva ch’essi avrebbero raggiunto la loro fine collidendo col centro.

L’essere umano e naturale è soltanto quello preistorico. La storia, infatti, è una successione di eventi che di umano e naturale hanno ben poco. Gli unici aspetti meritevoli d’essere ricordati sono quelli in cui gli uomini han fatto il possibile, anche sacrificando la loro vita, per recuperare ciò che hanno perduto, di cui la prima cosa in assoluto è l’innocenza, quella condizione che si viveva quando non esistevano rapporti antagonistici irriducibili, quando le contraddizioni non erano insormontabili.

Il senso della storia è tutto racchiuso nella parabola lucana del figliol prodigo, salvo in un punto: l’atteggiamento invidioso o addirittura rancoroso dell’altro figlio, che sembra essere rimasto col padre solo per interesse o perché non aveva il coraggio di vivere una propria vita, non aveva sufficiente “spirito imprenditoriale”.

Perché si possa giungere a una condizione innocente di vita, valida per tutto il pianeta, oggi occorrerebbe un evento catastrofico, apocalittico, che rendesse equivalenti i diversi livelli di consapevolezza, che dipendono dalle diverse tipologie di vita. Ci vorrebbe però un evento epocale, che azzerasse quasi tutta l’umanità, lasciando in vita una sorta di “piccolo resto d’Israele”. Questo perché il capitalismo ha infettato il mondo intero, ha corrotto anche gli angoli più remoti della Terra. Persino quando si crea il socialismo di stato, se ne resta profondamente condizionati.

Certo, queste son cose che non si dovrebbero dire, ma purtroppo è la stessa storia – questo mattatoio a cielo aperto – che ci costringe a farlo. Si deve fare eticamente di tutto per scongiurare i cataclismi, ma se sarà del tutto vano, s’imporranno da soli altri mezzi e metodi. La stessa natura non ci sarà sempre benigna, come vuole il Pascoli. E, in ogni caso, già oggi si dispongono di armi nucleari in grado di distruggere l’umanità non una ma più volte.

È probabile che tutti gli esseri umani che hanno già lasciato questo pianeta e che si trovano a vivere in qualche luogo dell’universo (che – ci piace ricordarlo – è eterno nel tempo e infinito nello spazio), siano impegnati nel rendere uniformi o allineati gli eterogenei livelli di consapevolezza storica, che riguardano l’etica e la democrazia. “La discesa di Cristo agli inferi”, così come viene raffigurata nelle icone bizantine, non può non avere questo significato. L’omogeneità assiologica dovrebbe essere facilitata dal fatto che un’esistenza secondo natura è più democratica, più egualitaria, più umana.

Su questa Terra i livelli di consapevolezza sono tra i più vari proprio perché ci siamo allontanati tantissimo, in tempi e modi diversi, dall’esistenza naturale dell’uomo primitivo. È vero che oggi il globalismo del capitale tende a omogeneizzare le menti a livello mondiale. Ma lo fa con la forzatura dei mercati, che impongono i loro valori di scambio, a prescindere da quelli d’uso. Il risultato è che non sappiamo più chi siamo e facciamo cose senza senso, senza volerlo, pur sapendo che non dovremmo farle.

Negli stessi vangeli i redattori han messo in bocca al Gesù crocifisso le parole: “Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”. Peccato però che anche i redattori non sapessero quel che scrivevano: Gesù Cristo, infatti, era ateo. Per lui non c’era nessun “Padre” dai poteri sovrumani. Lo disse chiaramente agli ebrei nel quarto vangelo: “Voi siete dèi”.

Ritornare al punto di partenza con la consapevolezza di tutto il male compiuto significa, sul piano scientifico, che la materia deve tornare allo stato energetico iniziale, come se non vi fosse stata alcuna vera dissipazione. Nella storia la materia si è sviluppata in varie forme, prendendo strade diverse, ma l’energia è rimasta intatta, poiché non può essere violata al punto da mutare la propria natura. La coscienza, su cui si basano le intenzioni, può sempre tornare ad essere quel che era. E la nostra vera “energia” è l’autoconsapevolezza di sé.

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Un’anticipazione di questo fenomeno possiamo constatarlo nella Sindone: lì un corpo in carne ed ossa s’è trasformato in energia, rendendosi invisibile all’occhio umano. Come ciò sia potuto accadere è impossibile saperlo. Di sicuro sappiamo che su questa strana trasformazione o trasmutazione non si doveva costruire una nuova religione. Interpretare la tomba vuota come resurrezione è stata una forzatura, del tutto arbitraria, di Pietro, in quanto il concetto di “resurrezione” presume che un corpo ricompaia integro dopo morto e che sia facilmente riconoscibile. Il che non è mai avvenuto: tutti i racconti evangelici di riapparizione del Cristo sono stati chiaramente inventati. Né la cosa sarebbe potuta avvenire senza violare la libertà di coscienza degli uomini, che vanno appunto lasciati liberi di credere nelle condizioni spazio-temporali del loro pianeta.

Finché restò in vita, Gesù non mostrò d’aver nulla che non fosse “umano”. Un sospetto subentrò quando si trovò il sepolcro vuoto. Ma nessuno era in grado di dire che cosa era cambiato, e tanto meno in che maniera. La materia era tornata ad essere energia, ma senza poterlo far vedere agli uomini, ai quali è interdetta la possibilità d’aver di fronte a loro, sulle questioni cosiddette “sensibili” (quelle implicanti una decisione di coscienza), un’evidenza che s’imponga da sé. La verità autoevidente è un’ingenuità degli antichi filosofi greci e dei teologi medievali, una pigrizia del pensiero.

Ognuno di noi, tuttavia, è destinato a sperimentare su di sé lo stesso fenomeno. Per entrare su questa Terra siamo usciti da un tunnel e non senza fatica; per entrare in una nuova dimensione, dovremo uscire da un altro tunnel, e con una fatica ancora più grande, poiché ci porteremo dietro tutti i nostri pregiudizi.

Poiché la morte è solo una forma di passaggio da una condizione di vita a un’altra (come il bruco e la farfalla o il seme e il frutto), noi ci vedremo trasformati in una sostanza energetica, la cui natura ci sfugge. Paolo di Tarso parlava di “corpo glorioso”, ma lo diceva come se gli interessasse la lotta contro “le potenze dell’aria” e non contro “la carne e il sangue”. Il suo era solo un delirio mistico.

Dove sta la differenza tra noi e il Cristo sepolto? Nel corpo. Il nostro imputridisce. Noi non vorremmo che fosse così. I ricchi Egizi imbalsamavano i loro corpi nella convinzione che quello era il modo migliore per giungere nell’aldilà: avevano bisogno delle fattezze del loro corpo, al quale però dovevano togliere gli organi interni. Era anche questa una forma d’ingenuità, peraltro abbastanza classista, in quanto i poveri non si potevano permettere un trattamento così costoso e meno ancora una piramide.

Anche oggi riusciamo a imbalsamare perfettamente i cadaveri: i russi l’han fatto col rivoluzionario Lenin, i cinesi con Mao Zedong, i vietnamiti con Ho Chi Minh. È un modo, un po’ patetico, di trasformare gli eroi in icone. Negli Stati Uniti, pagando cifre astronomiche, ci si può far ibernare, anche se ancora non esiste una tecnica per farsi “risvegliare”.

Si vuol far durare la vita in eterno, fingendo di non sapere che su questa Terra non è possibile farlo in alcuna maniera. A dir il vero la Bibbia dice che Adamo ed Eva, prima del peccato, non conoscevano la morte, e che Dio, a causa dell’iniquità degli uomini, si vide costretto ad accorciare di molto la durata della loro vita. Forse per questo siamo convinti che la morte non sia la fine di tutto.

Solo le idee di una persona possono sopravvivere al suo corpo. Ma occorre che siano conosciute e che qualcuno le erediti e le sviluppi, in base alle nuove condizioni di vita che la storia ci obbliga a vivere. Non c’è niente di peggio di un’idea statica, sempre uguale a se stessa. Eraclito diceva che non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume.

Può anche sopravvivere qualcosa nell’immaginario popolare, a prescindere dalle idee del proprio mito. La persona viene eternizzata per qualcosa che ha fatto. Ci ricordiamo, p.es., di Che Guevara perché morì in un agguato in Bolivia, dopo aver fatto la rivoluzione cubana; ma chi si ricorda di cosa egli abbia mai detto?

Tutto ciò lascia pensare che la morte ci stia stretta, cioè che non faccia parte del nostro senso della vita. Infatti, anche quando diciamo che è naturale morire, la morte l’avvertiamo sempre con dolore, come se qualcosa d’importante venisse meno o ci venisse a mancare. Non siamo affatto contenti quando muore qualcosa o qualcuno che ci piace o che amiamo o che stimiamo e ammiriamo. Anche quando abbiamo a che fare con soggetti particolarmente sgradevoli, speriamo sempre che cambino carattere o atteggiamento. Non ci piace augurare la morte a qualcuno. I sentimenti negativi ci fanno star male.

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Ma torniamo alla domanda di prima: perché il nostro corpo imputridisce, mentre quello del Cristo non ha conosciuto corruzione? Cosa c’è che ci differenzia da lui?

La sua morte è stata reale, non apparente: l’attesta il colpo di lancia che gli trafisse il cuore. E nella trasformazione l’energia non ha abbandonato il proprio corpo, ma se l’è ripreso integralmente e immediatamente. Sepolto di venerdì pomeriggio, sarà scomparso la notte stessa, quando nessuno poteva vederlo. Poi la Chiesa s’è inventata la storia dei tre giorni. Per uscire dal sepolcro ha dovuto spostare la pietra che lo chiudeva. Quindi il suo corpo aveva mantenuto le caratteristiche della fisicità.

Nel racconto inventato sull’apostolo Tommaso che non crede in ciò che non vede, i redattori fanno dire a Gesù: “Metti il dito nelle mie piaghe”. Pur mentendo poeticamente, avevano capito che non si poteva parlare di “puro spirito” (cosa che nessun ebreo, peraltro, avrebbe mai fatto per tutto l’oro del mondo).

In quell’uomo materia ed energia potevano tranquillamente coesistere anche dopo morto. Per dimostrare la fondatezza di tale asserzione, la Chiesa arrivò a escogitare il sacramento dell’eucaristia, in cui si consuma una sorta di pasto totemico simbolizzato. Si era trasformata l’idea di comunismo primordiale in qualcosa di assolutamente fantastico.

Come mai in noi materia ed energia sono disgiunte? Per quale motivo la Chiesa parla di “resurrezione dei corpi” solo al momento del cosiddetto “giudizio universale”? E come mai sentiamo il desiderio di una loro indissolubile unità? Noi non vorremmo morire mai. O meglio, vorremmo poter rivivere, dopo morti, con un corpo perfetto, privo di difetti, sempre giovane e forte.

Chi davvero desidera morire è perché è disperato. Ha una visione falsata della realtà, con cui p.es. s’immagina di poter ottenere un premio nell’aldilà. A meno che uno non desideri liberarsi di una sofferenza assolutamente insopportabile, o che comunque giudica tale. Non dobbiamo infatti dimenticare che per un altro la medesima sofferenza potrebbe essere giudicata “relativamente” sopportabile. La soglia della sofferenza varia da persona a persona. Variano anche le motivazioni con cui si giustifica la sofferenza. Siamo animali molto complessi.

In ogni caso è da ottusi non capire che la morte può anche essere vista come liberazione da un male incurabile o da sofferenze indicibili. Dire che non possiamo toglierci la vita perché ce l’ha data Dio, significa essere “ideologici”, cioè schematici. Uno deve essere padrone del proprio corpo, se vogliamo che eserciti una responsabilità personale. Dobbiamo smetterla di sentirci sotto tutela di qualcuno.

Il suicidio può essere visto anche come una forma di protesta. A dir il vero ci si può uccidere per tanti motivi: una delusione d’amore o un senso di abbandono, un tradimento subìto o una clamorosa sconfitta, un atto vergognoso che s’è compiuto… Non ci sono solo le malattie incurabili e le sofferenze indicibili.

Catone lo fece perché non tollerava il passaggio dalla Repubblica all’Impero; Jan Palach perché rifiutava la presenza dei sovietici a Praga; i monaci tibetani si bruciano perché non sopportano l’occupazione cinese… Kierkegaard volle far credere che il suo suicidio era stato una sorta di “omicidio” da parte della Chiesa di stato danese.

Oggi non pochi fanatici musulmani si fanno saltare in aria come forma di protesta contro l’Occidente. Non sanno che anche il capitalismo potrebbe comportarsi nella stessa maniera se si sentisse profondamente minacciato nella propria incolumità. Cosa si saranno detti i Romani quando a Masada videro che oltre novecento ebrei si erano suicidati pur di non essere schiavizzati? Abbiamo sentito parlare di suicidi di massa anche in talune sette religiose fanatiche, come segno di devozione (o di plagio?), da parte degli adepti, nei confronti dei loro leader.

Hitler l’ha fatto perché non voleva essere giudicato dalla storia: tanto coraggioso quanto vigliacco. È che quando il coraggio si esprime nelle forme della spietatezza, l’etica scompare. Il suicidio, in tal caso, appare come una forma di ingiustificata debolezza. Si capisce di più chi si uccide perché, posto sotto tortura, teme di tradire i compagni.

Tuttavia uno dovrebbe mettere alla prova se stesso. “Fin dove siamo in grado di resistere?” – questo dovremmo chiederci. Non si può aspirare all’eroismo senza dimostrare un minimo di coraggio. In fondo le sofferenze, oltre un certo limite, non possono andare: il corpo non le regge.

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Ma torniamo alla domanda di partenza: perché in Cristo materia ed energia non potevano restare separate? Nell’universo le stelle sono energia che si trasforma in materia, e questa, a sua volta, si ritrasforma in energia. Il processo può durare miliardi di anni, anche se prima o poi finirà, poiché tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine, come disse il giudice G. Falcone in riferimento al destino della mafia (avrebbe però dovuto aggiungere che solo il popolo potrà eliminarla: certamente non lo Stato, di cui lui si sentiva un fedele servitore).

Con sicurezza possiamo dire che anche il nostro pianeta è destinato a finire, e non in concomitanza alla fine del Sole, ma molto prima. Anzi, se andiamo avanti con questa devastazione ambientale, il tempo che ci resta è davvero poco. Con le nostre capacità autodistruttive possiamo soltanto affrettarne il decesso.

La Terra è figlia del Sole: nell’Universo siamo tutti “figli delle stelle”, come diceva quella bella canzone di Alan Sorrenti. Ma se le stelle prima o poi esplodono o implodono, davvero noi umani siamo destinati all’eternità? Oppure dobbiamo soltanto accontentarci di vivere qualche miliardo di anni? Perché diciamo che l’universo è eterno e infinito quando al suo interno tutte le cose hanno, almeno all’apparenza, un tempo limitato? Più che le cose in sé, sembra essere eterno il processo rigenerativo, quello che le riproduce. Le cose muoiono, ma per rinascere in forme diverse. La dialettica hegeliana di tesi – antitesi – sintesi, con la sua negazione della negazione, pare davvero essere la legge dell’intero universo.

Forse i cosiddetti “buchi neri” sono in qualche modo responsabili di questa perenne trasfigurazione della materia, in cui nulla si crea e nulla si distrugge in maniera irreversibile. Esiste una sorta di “antimateria” che ci è del tutto ignota. Non ci è però ignoto il fatto che dentro di noi esiste qualcosa che sfugge a una nostra esaustiva comprensione: è la coscienza. La coscienza è qualcosa di così vasto e profondo che sembra essere il contenuto più adeguato dell’universo che la contiene.

Nella nostra coscienza vi è qualcosa di eterno e di infinito che fa sembrare gli esseri umani più grandi di qualsiasi altra cosa dell’universo. In un certo senso siamo o possiamo diventare l’autoconsapevolezza dell’universo. Sembriamo essere destinati a popolarlo in lungo e in largo. La Terra è come un banco di prova delle nostre possibilità. È una specie di esperimento in laboratorio per saggiare le nostre capacità umane e naturali. E finché non abbiamo imparato a comportarci in maniera degna, non possiamo pensare di meritarci l’universo.

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Sì, ma la domanda resta: perché nel Cristo materia ed energia coincidono perfettamente, mentre in noi non avviene? Se siamo stati creati “a immagine e somiglianza” della divinità, anche noi dovremmo avere questa straordinaria caratteristica.

Qui è difficile rispondere. Non riusciamo infatti a capire se questa dicotomia è avvenuta in un particolare momento della storia o se sia invece una nostra caratteristica naturale. Siamo un prodotto malriuscito della divinità, che potrebbe farci fuori in qualunque momento, come ai tempi di Noè; oppure, una volta creati, godiamo del privilegio dell’immortalità?

È indubbio che se noi siamo la copia di un modello originario, cioè il prodotto derivato di un prototipo ancestrale, non fatto da mano umana, qualcosa ci deve mancare, altrimenti non esisterebbe un “prima” e un “dopo”. Un qualche primato ontologico dovrà pur esserci nell’universo. Non siamo “divini” per “essenza” ma solo per “partecipazione”, diceva l’Aquinate. I figli che mettiamo al mondo sono un nostro prodotto, ma non sono copie identiche di noi, non foss’altro perché sono il risultato di un rapporto di coppia.

Se il Cristo è il modello originario dell’umanità, qualcosa di diverso deve averlo. E poi di quale umanità sarebbe il modello? Certamente non di quella femminile. Devono per forza esistere due modelli eterni, divisi per genere. Lo si intuisce in quel “facciamo l’uomo” (cioè l’essere umano bisessuato) nel racconto della creazione. In principio era il due, non l’uno solitario. C’è una relazione che fa l’identità: non c’è prima l’identità e poi la relazione, ma il contrario.

La differenza tra il modello e la copia non è però così grande da metterci in imbarazzo. Non esiste alcun dio che non abbia caratteristiche umane, per cui possiamo star tranquilli che nessuno ci leggerà mai nel pensiero, né sarà in grado di anticipare le nostre mosse o di prevedere le decisioni che prenderemo. Noi siamo destinati a esistere, che lo si voglia o no, ma nelle forme che riterremo opportune, e senza poter violare la libertà di coscienza degli altri. Non potrai fare lo schiavista se nessuno vorrà fare lo schiavo.

Il suicidio non sarà altro che una forma di disperazione, un non voler essere se stessi, umani e naturali. Ma avremo tutto il tempo per pentirci delle nostre colpe. E per essere perdonati. Il problema infatti non sarà soltanto quello di pentirsi del male che si è fatto, direttamente o indirettamente, ma anche quello di convincere chi l’ha subìto che il pentimento è sincero. E quando vi sono di mezzo le questioni sensibili della coscienza, tutto è maledettamente complicato. Dicono che il tempo sia la migliore medicina, ma occorre anche una certa disposizione d’animo.

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E con ciò non abbiamo affatto risposto alla domanda iniziale: se nel Cristo materia ed energia coincidono strettamente, dobbiamo considerarlo davvero umano? O era una specie di extraterrestre di cui ci sfugge la vera identità? Finché è rimasto vivo, nessuno ha potuto dubitare della sua umanità (evitiamo qui di considerare le amenità dei vangeli, i cui redattori mirano a presentare come reali cose assolutamente fantastiche).

Le falsificazioni e le mistificazioni su di lui sono subentrate subito dopo la sua morte. Certo, lo misconoscevano anche quando era vivo, ma nessuno pensava che fosse una divinità. La fantasia poetica a sfondo religioso subentrò solo dopo aver visto vuota la tomba, che poi tanto vuota non era, visto che trovarono la Sindone, il lenzuolo di lino che aveva avvolto frettolosamente il cadavere. Il fatto che fosse stata ripiegata e posta da una parte, escludeva l’ipotesi del trafugamento della salma. Fu così che cominciarono ad attribuirgli cose che non aveva mai detto e mai fatto. Ecco perché se la Sindone è vera, tutto il resto, nel Nuovo Testamento, è falso.

La stranezza tuttavia rimaneva. Se la sua morte era stata reale e nessuno aveva rubato il corpo, seppellendolo da qualche altra parte (magari per far credere ch’era risorto), come aveva fatto a scomparire? L’aveva fatto da solo o era stato aiutato da un’entità esterna? Per i credenti ciò è del tutto irrilevante. Invece noi pensiamo che l’ha fatto da solo proprio perché non esiste alcun dio che non sia umano. E questo dio è fatto di materia ed energia, legate indissolubilmente, altrimenti avrebbe potuto lasciare il suo corpo e andarsene con la sua anima.

Finché rimase in vita, il suo messaggio, nettamente travisato dai vangeli, era chiaro: liberare la Palestina dall’occupante romano e dalla classe sacerdotale corrotta e collusa col nemico. L’obiettivo finale era quello di tornare al comunismo primordiale, quello abbandonato col peccato originale.

Tuttavia in quella tomba diede un messaggio ulteriore, la cui importanza fu dai cristiani esagerata proprio per trascurare l’obiettivo politico: dopo la vita terrena ne esiste un’altra, extra o ultraterrena. La Terra è solo un ovulo fecondato, da cui dobbiamo uscire per popolare l’intero universo. E dobbiamo farlo secondo natura, conformemente alla nostra natura umana.

Avere eliminato la sua proposta di vita non è servito a nulla. Abbiamo soltanto aumentata, in intensità e durata, la nostra sofferenza. Il compito che abbiamo è rimasto sempre quello: come essere se stessi. Se avessimo seguito le sue direttive, ci saremmo risparmiati le sofferenze dello schiavismo, del servaggio feudale, del capitalismo e del socialismo statale.

Vorrà dire che dovremo imparare dai nostri errori. Lui ha soltanto voluto dimostrare che per essere se stessi occorre umanità sul piano etico e democrazia su quello politico. La Chiesa, che ha preteso di rappresentarlo, non ha realizzato né l’una né l’altra: non sa proprio che cosa siano, anche se la Chiesa ortodossa appare più umana e democratica di quella cattolica e di quella protestante.

Forse, con l’ingresso nel terzo millennio, si è aperta una nuova fase per l’umanità. Ci troviamo a vivere completamente atei, ma ancora non siamo capaci di vera democrazia. Non riusciamo a superare i rapporti antagonistici che ci affliggono quotidianamente. Non siamo capaci di rivoluzionare la società, di trasformare il sistema in un qualcosa di completamente diverso. La paura ci frena. L’illusione ci condiziona. Pensiamo sempre che chi ci comanda possa attenuare le sue pretese. O che le cose si possano risolvere da sole. Abbiamo trasformato la scienza in una nuova religione e facciamo dei nostri fondamenti politici ed economici (il diritto internazionale, la democrazia parlamentare e il libero mercato) degli idoli da adorare.

Siamo ancora molto immaturi, lontani dal Sapere aude kantiano. E quando dimostriamo coraggio, non siamo capaci di coerenza. “Non faccio quello che voglio ma quello che non voglio”, diceva san Paolo duemila anni fa. Facciamo le cose a metà. Il servo della gleba non era uno schiavo, ma non era neppure libero. L’operaio salariato è giuridicamente libero, ma è socialmente schiavo. L’Occidente è ricco, ma vive sulle spalle del Terzo mondo. Le cose sono sì paradossali – come è giusto che siano -, ma al negativo. Qualcosa va sempre storto e qualcuno ci rimette sempre.

Il falso benessere su cui poggia la nostra pseudo-democrazia è in attesa di uno sconquasso internazionale che ne riveli la vera natura. E noi non siamo capaci di innescare la miccia propositiva. “Non sono venuto a portare la pace ma il fuoco, e quanto vorrei fosse già acceso”, diceva Joshua nei vangeli.

Quand’anche fossimo capaci di accendere questo fuoco purificatore, sapremo poi impedire che si ricada nel male di sempre? Il problema, infatti, non sta solo nel saper porre le premesse della transizione, ma anche nel saperle gestire “dopo” averla avviata. Gli uomini sembrano non aver mai le idee chiare. Dopo aver fatto un passo avanti, con la rivoluzione d’Ottobre, ne hanno fatti due indietro con lo stalinismo industriale e il maoismo agricolo.

Sembra che tornare al comunismo primordiale sia diventata la cosa più difficile di questo mondo. Ci siamo complicati inutilmente la vita, e ora tutto quello che ci diciamo sul piano teorico, lo smentiamo puntualmente su quello pratico. Forse prima di dimostrare che sappiamo essere coerenti, dovremmo recarci in un deserto e stare a digiuno per quaranta giorni e quaranta notti.

L’ultimo socialismo possibile: quello di mercato

Il marxismo è sempre stato visto dalla borghesia come un proprio irriducibile nemico a motivo del suo concetto di “proprietà comune dei mezzi produttivi”. In realtà la vera proprietà “sociale” di tali mezzi si è verificata, da quando l’uomo esiste, solo in epoca preistorica, o quanto meno soltanto presso quelle popolazioni che non hanno mai conosciuto alcuna rivoluzione né verso la proprietà “statale” dei mezzi produttivi, né verso quella “privata”.

La borghesia dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti è lontanissima dall’accettare l’idea di una proprietà collettiva dei mezzi produttivi, proprio perché la proprietà in generale è nata e si è sviluppata, soprattutto in queste aree geografiche, in maniera fortemente individualistica, almeno a partire dallo schiavismo. Gli europei sono talmente portati a identificare la proprietà privata dei mezzi produttivi con lo schiavismo che non ebbero alcuna difficoltà a ripristinarlo nelle Americhe, dopo averlo abbandonato nell’Europa feudale da almeno un millennio.

Il capitalismo è stato fatto nascere da una borghesia che si concepiva come classe antagonistica nei confronti delle istituzioni dominanti (chiesa romana e impero feudale); poi, quand’essa è riuscita a imporsi anche politicamente, gli Stati che ha costruito dovevano semplicemente servire a difendere gli interessi privati di una classe particolare.

Il marxismo ha cercato di porre un argine ai guasti di questo marcato individualismo, ma, sul piano pratico, è riuscito soltanto a realizzare un “socialismo burocratico di stato”, sostanzialmente privo di borghesia e quindi di proprietà privata. Il risultato è stato del tutto fallimentare. Il marxismo ha fallito proprio là dove appariva più alternativo al capitale.

Ora il testimone sembra essere passato alla Cina, dove si sta sperimentando un socialismo di tipo “borghese”, dove cioè l’individualismo sul piano economico viene controllato da una gestione autoritaria del potere politico. Come possono conciliarsi questi due aspetti è per noi occidentali inspiegabile, proprio per le due opposte ragioni dette sopra: o si dà un individualismo borghese in cui il ruolo dello Stato è marginale, in cui cioè la politica è subordinata all’economia; oppure si permette allo Stato di prevalere nettamente e, in tal caso, l’uguaglianza imposta con la forza finisce col negare la libertà di coscienza, l’iniziativa individuale, gli interessi soggettivi. La via di mezzo sembra essere stata trovata, magicamente, dalla Cina, ed è probabile che, col passare degli anni, il suo esempio verrà imitato da altre realtà geo-politiche, tradizionalmente insofferenti a una gestione troppo individualistica delle risorse umane e naturali.

Tuttavia, comunque vadano le cose, l’umanità è ancora molto lontana dal vivere un’esperienza davvero “sociale” nella gestione dei mezzi produttivi. Una qualche idea, in merito, potrebbero darcela le ultime comunità primitive ancora esistenti sul pianeta, ma il loro destino sembra essere segnato: quello d’essere integrate nel nostro sistema sociale. Integrarsi, beninteso, per scomparire, o con le buone o con le cattive. Con realtà del genere, infatti, noi non riusciamo assolutamente a convivere: le loro risorse naturali ci fanno gola, ovunque esse siano. Se proprio non vogliono lasciarsi assorbire o sradicare, queste realtà possono ritirarsi nei deserti, nelle riserve predisposte per loro, nelle zone più aride e desolate del mondo, e se proprio vogliono opporsi con la forza, sappiano che non avranno scampo.

Noi siamo fatti così: la natura ci è soltanto serva. Abbiamo questa pretesa dai tempi dello schiavismo e abbiamo continuato ad averla anche sotto il feudalesimo, sotto il capitalismo e il socialismo statale, e ora l’abbiamo anche sotto il socialismo di mercato, in stile “asiatico”.

Sotto questo aspetto appare del tutto naturale che il socialismo scientifico, contestando il capitalismo, non abbia capito che la vera alternativa a quest’ultimo poteva essere soltanto un ritorno all’epoca preistorica. Non avendo capito l’importanza del comunismo primitivo, tutta la critica marxista del capitale rischia d’avere un valore molto approssimativo. Il fatto stesso che le idee dei classici del marxismo abbiano fino ad oggi trovato una realizzazione solo nella forma del socialismo statale e ora in quella del socialismo di mercato, la dice lunga.

Dopo il fallimento del socialismo burocratico avremmo dovuto smettere di criticare il capitalismo in nome dello stesso marx-leninismo. Non perché l’ideologia borghese sia migliore di quella marxista, ma proprio perché quest’ultima, così come è, non può costituire un’efficace alternativa a quella, in quanto necessita di una profonda revisione.

Ora, è noto che tutte le volte che si parla di “revisionare” il marxismo, si finisce col fare gli interessi privati della borghesia. Fino ad oggi tutte le revisioni del marxismo sono state revisioni borghesi o socialdemocratiche.

Guardando quella attuale della Cina, dovremmo dire che anch’essa rientra nelle revisioni borghesi. Tuttavia non è esattamente così. Se è una revisione borghese, non lo è alla maniera occidentale. In Cina il partito comunista e il suo principale strumento di controllo, lo Stato, giocano un ruolo di primo piano, come mai nessuna borghesia occidentale permetterebbe. Questo significa che nei prossimi decenni o forse nei prossimi secoli sarà facile che chi si sente ispirato dal marxismo s’illuda di poter trovare nell’esperienza cinese una vera alternativa al capitalismo occidentale.

Elogio della precarietà

La precarietà è il segreto della vita che voglia restare umana. Dire una cosa del genere quando la gran parte dei lavoratori vive nella precarietà e fa di tutto per uscirne, può apparire offensivo.

In realtà oggi esiste, nell’ambito del lavoro, la precarietà delle mansioni o delle funzioni proprio perché alcuni han cercato di superarla a spese altrui, sfruttando risorse umane e naturali che storicamente non gli appartenevano.

Molti sono precari perché pochi, coi loro atteggiamenti autoritari, son voluti diventare dei privilegiati e han voluto conservare a tutti i costi questa loro prerogativa. La precarietà è di molti perché qualcuno l’ha arbitrariamente rifiutata e si è servito della precarietà altrui per vivere una vita da privilegiato. Così gli uni non sono umani perché miseri, gli altri perché benestanti.

Un tempo non era così. La precarietà era di tutti, era quella che la natura imponeva a tutti, senza esclusione.

La natura non può rendere facile la vita, proprio perché sa che gli esseri viventi sono in evoluzione continua, devono crescere, svilupparsi. E sa anche che nella sicurezza, negli agi, nelle comodità uno smette di crescere, si atrofizza.

Oggi nella precarietà ci si odia, si avverte l’altro come un rivale, un nemico, un concorrente da eliminare. Un tempo, essendo la precarietà una comune condizione, ci si aiutava per meglio sopportarla. Non la si fuggiva, la si dava per scontata. Al massimo si cercava di attenuarne il peso nei limiti che la stessa natura imponeva.

La natura infatti da un lato offre le condizioni per vivere, dall’altro chiede uno sforzo collettivo per attingere alle sue risorse. E’ lei che indica il livello delle comodità oltre il quale si rischia di perdere la nostra caratteristica umana.

La natura non è cosa che possa essere affrontata in maniera individuale. Chi ha voluto farlo, usando la forza, ha sconvolto dei meccanismi che per millenni avevano garantito a tutti la sopravvivenza.

Tuttavia, siccome l’esistenza della natura, con le sue leggi, è anteriore a quella dell’uomo, essa non può lasciarsi sconvolgere senza reagire. Di tanto in tanto ci fa ricordare, spesso dolorosamente, le sue prerogative e soprattutto il fatto che la sua esistenza non dipende da quella dell’uomo.

Quando la natura non ha sufficienti forze per resistere alle umane devastazioni, si trasforma in deserto, rendendo a tutti impossibile la vita. Per poter vivere nel deserto, che è la precarietà assoluta, bisogna essere uomini assolutamente speciali, quali non si potrebbero mai incontrare nelle grandi città, dove la ricerca delle comodità è l’obiettivo n. 1 per tutti.

E’ stata infatti proprio l’idea di comodità che ha distrutto il comunismo primordiale. E’ stata l’idea di surplus o di eccedenza che ha minato il principio della precarietà collettiva.

Alcuni han voluto far credere ai molti (usando miti e religioni) che si sarebbe potuto raggiungere il benessere accumulando riserve per i momenti più difficili. E’ stato così che è nato il problema di come controllare queste riserve e di come ripartirle.

Si è voluto por fine alla precarietà aumentando i tempi del lavoro, obbligando la natura a uno stress produttivo, diversificando in modo arbitrario le funzioni, i ruoli all’interno del collettivo.

La precarietà ha cominciato a essere vista non come una condizione naturale dell’esistenza, ma come un limite da superare con tutti i mezzi e i modi, senza neppur distinguere tra lecito e illecito, se non con la retorica delle parole. Chi superava prima e meglio degli altri la precarietà, difendeva con maggior forza le comodità acquisite; anzi, quando vedeva che queste diminuivano o non rispondevano più alle aumentate esigenze di comodità, diventava sempre più bellicoso, non essendo più abituato a sopportare la precarietà.

Dopo aver creato discriminazioni sociali all’interno del loro collettivo, gli strati privilegiati, preoccupati di conservare le acquisite posizioni di rendita, sono andati a cercare al di fuori delle loro comunità le risorse da integrare alle proprie. Chi si sentiva minacciato nel proprio lusso, nel proprio sfarzo, ha esportato all’esterno il malessere che viveva all’interno.

Si sono cominciate a condizionare, a minacciare, a conquistare le comunità altrui. L’antagonismo è diventato progressivamente un male di vivere che si è diffuso sull’intero pianeta. A volte il nomadismo, cioè la precarietà come stile di vita, è riuscita a porre un argine alla stanzialità, che è la comodità per eccellenza, ma nel complesso bisogna dire che la stanzialità ha vinto, al punto che oggi, chiunque scelga di emigrare dal luogo in cui la vita gli sembra impossibile, lo fa per diventare stanziale.

Tutti vogliono vivere in maniera urbanizzata, senza rendersi conto che le città sono nate solo dopo aver sottomesso a sé tutto il mondo rurale.

Umanesimo e socialismo tra uomini primitivi e contemporanei

Su sei miliardi di abitanti è forse possibile ipotizzare che circa 200 milioni di abitanti vivano ancora in forme primitive, in forme cioè non solo pre-borghesi e pre-feudali, ma anche pre-schiavistiche. Gli ebrei avrebbero detto di se stessi, nei loro momenti più tragici, ch’era rimasto “l’ultimo resto di Israele”.

Queste popolazioni tribali praticano delle religioni che gli occidentali hanno definito di tipo animistico-totemico, mentre sul piano più propriamente socioeconomico si avvicinano a uno stile di vita che in qualche maniera ricorda quello del cosiddetto “comunismo primordiale”.

Molte tradizioni di queste popolazioni si possono riscontrare anche là dove esse hanno accettato il cristianesimo conosciuto attraverso i colonizzatori europei. Nella sola Africa p.es. esistono almeno seimila chiese che, pur richiamandosi al cristianesimo, si considerano “separatiste”, in quanto contestatrici del cristianesimo ufficiale, sia esso cattolico o protestante. Tra queste chiese le più significative sono quelle raggruppate entro le denominazioni di “messianiche” (Africa centrale e orientale), di “etiopiche” e “sionistiche” (Africa australe) e di “oranti” (Africa occidentale).

Una parte di questi culti africani si ritrova, grazie alla stessa colonizzazione, anche in Sudamerica (p.es. ad Haiti il vudu, o in Brasile il candomblé e l’umbanda, dove il cristianesimo è sopportato soltanto come una facciata priva di vero significato). Ma le forme di contestazione nei confronti della cultura occidentale si ritrovano anche in altre religioni primitive non influenzate dall’africanismo, come p.es. nel peyotismo del Nordamerica, erede della “ghost-dance”, con cui s’invoca il ritorno dei morti per difendere gli ultimi indiani rimasti, oppure nei culti cosiddetti “cargo-cults” dell’Oceania (Nuova Guinea, Polinesia, Malesia).

Molti studiosi han cercato dei punti di contatto con queste popolazioni e con le loro religioni, ma con scarsi risultati scientifici, anche perché le prime teorie etno-antropologiche cominciarono a essere elaborate e sviluppate quando il colonialismo prima e l’imperialismo dopo avevano ridotto ai minimi termini le stesse popolazioni che i ricercatori andavano a studiare.

L’opera che fa da capostipite a queste indagini fu quella di E. B. Tylor, uno dei più importanti antropologi della scuola evoluzionista britannica: Primitive Culture, del 1871. In essa si cercò di applicare una teoria presa dalla psicologia associazionista alle credenze dell’uomo primitivo. La tesi in sostanza era questa: supposto che la natura umana sia uniforme, cioè abbia un meccanismo mentale universale, che prescinda dal tempo e dallo spazio, qual è quella esperienza appartenente a ogni essere umano, che gli offre la percezione di essere diverso da quel che è? Ecco, partendo da questa domanda piuttosto ingenua, la cui ovvia risposta era il sogno, Tylor era convinto di poter dimostrare che i primitivi, credendo nell’esistenza di un “doppio di sé”, cioè in sostanza di un’anima che si stacca dal corpo nel momento del sogno, ma anche in uno svenimento, in un delirio febbrile e persino nella morte, avrebbero in un certo senso creato la religione.

Successivamente questo alter ego con la morte si sarebbe ipostatizzato e, pur restando senza corpo, avrebbe svolto il ruolo di “spirito protettore”. La gerarchizzazione di questi sosia invisibili sarebbe avvenuta quando la comunità decise di sceglierne uno in particolare, considerandolo un dio supremo, superiore a tutti.

Il fatto di aver bisogno di “spiriti protettori” per affrontare le difficoltà della vita, comportò inevitabilmente la fede nell’esistenza di spiriti negativi, avversari. Il fatto invece che nessuno di questi spiriti potesse essere visto coi propri occhi, portò a credere che la loro presenza fosse ovunque e che la natura servisse loro proprio per manifestarsi.

Questa religione fu chiamata “animistica”, proprio perché i primitivi accettavano l’idea che tutto l’universo fosse mosso da una forza vitale, avente un rapporto privilegiato con gli esseri umani.

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Ora qui non si vuole ripercorrere tutta la storia dell’etno-antropologia mostrando in quali modi queste idee vennero confermate o confutate. Ci si vuole piuttosto chiedere se quella parte di umanità che oggi non professa alcuna religione (in quanto si dichiara indifferente o agnostica o atea) possa avere dei punti di contatto con quest’altra parte di umanità, la cui religione (che noi consideriamo “primitiva”) ha il vantaggio di non aver nulla in comune con quelle che si sono imposte nella storia delle civiltà antagonistiche.

Forse il mondo laico, specie quello interessato a sviluppare una società di tipo socialista, potrebbe iniziare a chiedersi se, nel cercare di dare corpo alle proprie istanze emancipative e di liberazione, possa avvalersi dell’insegnamento delle ultime tribù ancestrali, le cui origini e tradizioni si perdono nella notte dei tempi.

Sino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso queste tribù primordiali venivano etichettate con epiteti denigratori come “senza cultura”, “senza scrittura”, “senza dio”, “senza tecnica”, e quindi pagane, selvagge, primitive, agli inizi dell’evoluzione umana. Poi s’è cercato di rimediare con espressioni più sfumate, tipo “popoli primari”, “popolo tradizionali, “popoli allo stato di natura”. In realtà noi non abbiamo neanche le parole per definire i nostri più antichi antenati, proprio perché da loro ci separa un abisso, un vuoto incolmabile.

L’Africa resta ancora il grande continente di questi popoli ancestrali, soprattutto in quella zona che va dalla fascia subsahariana all’Africa australe, e non a caso è questo il continente che più soffre della logica economicistica del globalismo.

Un altro grande territorio caratterizzato dalla presenza di queste tribù è il Sud del Pacifico, con a capo l’Australia, la Nuova Guinea, le Isole Salomone, la Melanesia e la Polinesia. Poco invece resta tra gli indiani delle praterie d’America, dello Yucatan, del Messico e dei Caraibi. Anche altre tribù del Sud America e dell’India sono state in qualche maniera influenzate dallo stile di vita occidentale e dalle sue religioni.

Che sappiamo di queste popolazioni prive di testi scritti, di archivi, di documenti, su cui noi siamo soliti basarci per fare la “storiografia”? Com’è possibile capire la cultura orale di popoli che usano racconti in veste di favole, proverbi, miti in cui viene detto di credere in un dio, pur senza fare alcuna professione di fede? pur senza neppure interrogarsi sulla sua natura? pur dichiarandosi insofferenti a qualunque colonizzazione di tipo religioso? La maggior parte delle lingue usate dai popoli primitivi non dispone neppure di una parola equivalente a “religione”.

In Africa, se si esclude la civiltà egizia, non s’è mai trovata alcuna forma materiale che rappresenti la divinità; tra queste popolazioni ancestrali non esistono templi o caverne in cui dio possa abitare (la sua dimora è il cielo). Non possono quindi esistere sacerdoti che si rivolgono a lui espressamente: indovini, maghi, sciamani, stregoni… compiono il loro culto agli antenati, agli spiriti buoni o cattivi, ma non all’essere supremo.

Qui non solo non ci sono simboli per esprimere la natura di dio, ma neppure delle preghiere simili al “Padre nostro”, in quanto per loro non ha alcun senso rivolgersi a chi sa già cosa ha bisogno l’uomo per sopravvivere. Frasi come queste: “Se dio c’è, perché permette il male?”, “Se dio non c’è, allora tutto è possibile”, “Occorre vivere come se dio non esistesse”, “Dio è un’ipotesi che non ho considerato”, sono frasi senza alcun senso, esattamente come le prove ontologiche dell’esistenza di dio, sia perché di fronte a qualcosa di assoluto non ci può essere alcun “se dubitativo”, sia perché qualunque forma di male proviene sempre dagli esseri umani, sia perché le cose, per essere accettate, non hanno bisogno di essere spiegate, facendo esse parte di una tradizione infinitamente più grande delle capacità di comprensione di qualunque essere umano.

L’unico vero intermediario tra dio e l’uomo è la natura, che non a caso, per queste popolazioni, è tutta animata, tutta ordinata e regolata nei suoi ritmi e nei suoi cicli. Compito dell’uomo è appunto quello di adeguarvisi liberamente in virtù della propria coscienza, che permette di distinguere il bene dal male.

I miti della creazione, sebbene spesso privi di logica, esprimono la consapevolezza dell’uomo di fronte alla presenza del mistero, lo richiamano al dovere del bene, gli ricordano il giusto posto nell’universo, il significato della sua storia.

In questi miti il creatore non s’impone mai, preferendo lasciare all’uomo la responsabilità del suo agire; anzi, rispetta persino l’avversario (che in molti miti è presente come simbolo dell’origine del male), proprio per insegnare all’uomo che non deve sentirsi padrone della libertà altrui. Il creatore è “padre” anche quando l’uomo viola le norme di comportamento. Propriamente parlando dio non “crea” l’essere umano, ma lo “plasma”, lo “modella” a sua immagine.

L’uomo infatti, nelle concezioni cosmiche di questi popoli, è al centro di un universo la cui materia è energia vitale, che va “umanizzata”. E la caratteristica fondamentale di questa materia è la dualità, cioè tutto nell’universo è preposto a formare una coppia di elementi che si attraggono e si respingono.

La morte della materia non è che la sua trasformazione in altra materia o in altra energia. La stretta continuità tra terra e cielo fa sì che queste popolazioni diano grande importanza al culto degli antenati, che non vanno mai dimenticati. Gli avi hanno assicurato la continuità della stirpe, della tribù, la fedeltà alla tradizione, il rispetto di valori comuni e fondanti per i destini delle comunità.

Ma forse l’aspetto più significativo di queste popolazioni è la capacità di vedere le cose come un unicum inscindibile. Non vedono alcuna differenza tra “sacro” e “profano”, poiché ogni aspetto della vita è “sacro”, tutto è interconnesso, interdipendente, concatenato. L’ordine del mondo non è logico o meccanico, ma olistico, è un’armonia vivente che permette a tutti di trovare il loro giusto posto. Lo squilibrio di una sola parte di questo insieme ha ripercussioni sul tutto.

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Ora si tratta di capire in che maniera il moderno umanesimo laico può convergere con questa concezione della realtà e dell’universo. In altra sede si dovrà esaminare come far convergere le idee del socialismo democratico con la pratica di vita di queste popolazioni studiate dagli etnologi.

La differenza fondamentale che separa l’uomo contemporaneo dall’uomo primitivo è la concezione della natura. L’uomo primitivo si considerava ateo in quanto naturale, oggetto di natura, dipendente dalla natura, e ha cominciato a diventare religioso quando, dopo aver perduto se stesso, ha preso a vedere la natura come qualcosa che avrebbe anche potuto minacciare la sua esistenza, ha cioè attribuito falsamente alla sua dipendenza l’origine dei suoi problemi, dopodiché, personificando questi stessi problemi, ha inventato gli dèi, dando a ognuno di essi i nomi dei suoi problemi e anche le corrispondenti risposte illusorie.

Questa situazione è andata avanti fino a quando non è stata compiuta la rivoluzione tecnico-scientifica, che è potuta avvenire solo dopo che gli uomini hanno cominciato a credere d’essere molto più importanti delle natura, talmente più importanti che, volendo, si poteva anche smettere di credere in dio.

Gli uomini tuttavia, pur cominciando a dominare la natura, si sono accorti che persistevano i loro problemi sociali, sicché nei confronti delle religioni hanno deciso di essere più tolleranti, poiché sapevano che per quanti subiscono il peso delle contraddizioni sociali, la fede in qualche divinità può costituire un certo conforto.

Oggi quindi gli uomini contemporanei si trovano nella seguente condizione: sono atei in quanto dominano la natura, ma, poiché in questo dominio permane la schiavitù sociale, lasciano chiunque libero di credere nella superstizione e nel clericalismo.

Se incontrassero un uomo primitivo che dice di essere credente in quanto dipendente dalla natura, direbbero che è superstizioso. Ma se incontrassero un primitivo che dicesse di essere ateo pur nel riconoscimento di questa dipendenza, cosa direbbero? Durante l’epoca del colonialismo si è sempre data un’unica risposta a tale domanda: gli uomini primitivi senza religione non sono umani. L’ateismo dell’uomo primitivo ha giustificato la sua sottomissione, la sua civilizzazione, la sua cristianizzazione.

Cos’è dunque che impedisce all’uomo contemporaneo d’incontrarsi davvero con l’uomo primitivo? Non è la fede e neppure la sua mancanza. Ciò che li separa in maniera abissale è proprio il rapporto che si ha con la natura, che per l’uomo contemporaneo deve essere di dominio, così come lo sono i suoi rapporti sociali.

E’ nel modo di vivere i rapporti sociali la fonte della loro abissale distanza. Quando gli uomini contemporanei impareranno a superare gli antagonismi sociali, capiranno da soli se, nel loro rapporto con la natura, è necessario essere credenti o è naturale essere atei.

Miti sul comunismo primitivo e sogni su quello futuro

Interamente dedicato alla transizione dalle società comunistiche primordiali alle civiltà antagonistiche, il n. 27 (aprile 2010) della rivista n+1 (del sito www.quinterna.org), merita una serie di riflessioni, prima ancora che sui contenuti storiografici, sull’impostazione metodologica che regge la tesi fondamentale (che è storica e insieme politica), chiaramente delineata alla pag. 68, e che si può riassumere, nella sua prima parte, nel modo seguente:

  1. nella storia dell’umanità vi è stata un’unica fondamentale transizione, quella dal comunismo primitivo alle società divise in classe contrapposte;
  2. la prossima fondamentale transizione sarà quella da una delle attuali società classiste (il capitalismo) al socialismo democratico, che riprenderà l’organizzazione del comunismo primordiale in forme e modi ovviamente diversi.

Fin qui nulla da eccepire, anche perché è certo che sia avvenuto così e si può ipotizzare o auspicare che avverrà di nuovo così, in quanto solo un collettivismo autenticamente democratico è in grado di sussistere all’infinito.

Le perplessità emergono però nella seconda parte della tesi e riguardano proprio le modalità della transizione. Gli autori infatti guardano i passaggi epocali da una formazione sociale a un’altra coi criteri evolutivi del determinismo economico. Come ritengono politicamente inevitabile la transizione relativa ai nostri tempi, in quanto il capitalismo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni (e tutte le volte che ci prova non fa che peggiorarle), così ritengono che anche la prima transizione sia stata storicamente inevitabile.

Ma per sostenere l’inevitabilità di una transizione, bisogna rinunciare in un certo senso al concetto di “rottura”, che di per sé implica una scelta di campo consapevole e non solo una semplice costatazione di fatto.

Per Quinterna invece, come non è esistito una sorta di “peccato originale” per la prima transizione, così non esisterà una “apocalisse” per la seconda. In luogo di “rottura” gli autori preferiscono parlare di “società ibrida”, quella secondo cui possono coesistere degli elementi sociali che solo in apparenza sono opposti, negando con ciò uno dei presupposti fondamentali di qualunque storiografia marxista, e cioè che mentre ci può essere continuità tra un modello di sviluppo antagonistico e un altro, non ci può essere alcuna vera compatibilità tra socialismo e antagonismo. Detto altrimenti, come il socialismo non potrà mai svilupparsi dentro i confini del capitalismo, così l’obiettivo fondamentale che hanno avuto le prime civiltà della storia fu proprio quello di eliminare il comunismo primordiale.

Trattando del comunismo originario, quali sono questi elementi apparentemente opposti? Gli autori ritengono che detto comunismo si trovasse ancora largamente presente nell’ambito delle prime civiltà della storia, quelle cosiddette “fluviali”, alle quali ovviamente viene risparmiato l’appellativo di “schiavistiche”.

Essi non credono vi fossero particolari contraddizioni tra l’aspetto “naturalistico” del primo comunismo e l’organizzazione urbana delle prime civiltà. Sarebbe stato un errore degli storici borghesi (archeologi, etno-antropologi ecc.) vedere la nascita delle civiltà classiste nella piena urbanizzazione del territorio.

In realtà l’antagonismo sociale vero e proprio – secondo questo saggio monografico – sarebbe nato molto tempo dopo (in Europa p.es. con la civiltà greco-romana). Se nelle prime civiltà esistevano forme di “schiavismo”, non si ponevano certo “a sistema” di un modo produttivo e, al massimo, potevano essere equiparate a una servitù di tipo domestico. Gli autori non fanno differenza di forme nell’ambito dello schiavismo, non si parla neppure del rapporto oppressivo tra uomo e donna (che potrebbe essere considerata la prima forma di schiavitù) e si tacciono le devastanti conseguenze ambientali delle prime civiltà (deforestazioni con conseguenti desertificazioni), vedendo in esse, al contrario, un contributo alla bonifica delle zone paludose.

Per quale motivo Quinterna fa un’analisi storica di questo tipo, che contrasta non solo con quella della storiografia borghese, ma anche con quella di buona parte della storiografia socialista? Il motivo sta nell’analisi politica che essa dà della transizione che ancora deve avvenire.

Infatti, gli autori della rivista sostengono che se va considerata possibile “la persistenza di una struttura comunistica primitiva in ambiente sociale assai avanzato, alle soglie della forma statale”(p. 68), allora deve essere possibile anche il contrario, e cioè che si può anticipare “una struttura comunistica avanzata in ambiente sociale ancora arretrato, cioè con retaggi capitalistici”(ib.). In sostanza si postdata la fine del comunismo primitivo, così come si anticipa la nascita di quello futuro.

In altre parole, se si può parlare di “comunismo originario” in presenza di un’organizzazione sociale evoluta (non definibile come “Stato”, in quanto questo è sempre uno strumento nelle mani della classe egemone), così oggi si può parlare di “comunismo in fieri” negli aspetti più propriamente tecnico-scientifici e produttivi della società, che attendono d’essere usati in maniera davvero “razionale” quando al posto della proprietà privata dei mezzi produttivi si sarà affermata quella sociale.

Cosa c’è che non va in questa analisi? Almeno due cose: la prima è relativa all’idea che vi possa essere uno sviluppo tecnico-scientifico indipendente, nel suo significato sociale e culturale, dalle esigenze di uno specifico modo produttivo. Cioè il fatto che oggi scienza e tecnica abbiano raggiunto livelli che solo molto debolmente potevano essere intuiti da uno dei più grandi geni dell’umanità, come Leonardo da Vinci, non può essere considerato di per sé come una forma di progresso, come qualcosa che meriti assolutamente d’essere conservato per quando si realizzerà il socialismo democratico.

Quando i Germani entrarono nell’impero romano d’occidente non eliminarono soltanto lo schiavismo come sistema produttivo, ma anche buona parte di quanto serviva per tenere in piedi una civiltà basata sulle città e sui commerci (dalle terme alle monete, tanto per fare un esempio), proprio perché non erano cose che ritenevano indispensabili per costruire una civiltà basata su autoconsumo rurale e baratto.

La seconda cosa che non va nell’analisi di Quinterna è che nella storia non esistono le evoluzioni, ma solo traumatiche rotture, le quali possono sì creare qualcosa di progressivo rispetto allo stadio precedente ma non in maniera automatica e tanto meno in maniera definitiva.

L’unica evoluzione esistita è stata appunto quella tutta interna al comunismo primordiale (in cui p.es. si passò dal chopper all’amigdala senza creare rivolgimenti di sorta), ma, a partire dal momento in cui si è rinunciato a questo sistema equilibrato di vita, qualunque aspetto di tipo “evolutivo” (p.es. nelle tecniche produttive o di scambio) ha sempre avuto enormi prezzi da pagare in termini sia sociali (sfruttamento del lavoro altrui e guerre di rapina) che ambientali (non può certo essere un caso che i maggiori deserti del mondo siano spesso prossimi alle civiltà antagonistiche).

L’evoluzione vista secondo le esigenze delle società classiste è sempre, inevitabilmente, una involuzione, più o meno culturalmente mascherata, mistificata, con caratteristiche sempre più gravi per i destini dell’umanità.

Ecco dunque spiegato il motivo per cui gli autori di questo saggio vogliono vedere strette analogie tra le due suddette forme di transizione. Se si pensa che il passaggio dal capitalismo al socialismo debba avvenire in maniera deterministica, come una inevitabile esigenza naturale, è più facile pensare che ciò si realizzi quanto più si accetta l’idea che il socialismo futuro debba essere tecnologicamente evoluto; ma se è così, allora anche il comunismo primitivo poteva e anzi doveva esserlo, senza che ciò fosse un riflesso di rapporti squilibrati tra gli esseri umani e tra questi e la natura.

Tuttavia a questo ragionamento si può obiettare che se c’è solo “evoluzione” e non “rottura”, non ci può essere neppure organizzazione della lotta rivoluzionaria, ma soltanto attesa passiva che le contraddizioni scoppino da sole, dopodiché si può facilmente immaginare che qualcuno, dall’alto della propria scienza, faccia capire alle masse che il capitalismo, stante la proprietà privata dei mezzi produttivi, non ha alternative, e che se invece accetta quella sociale, tutto il resto può rimanere come prima.

Ecco perché quando parliamo di miti nei confronti del passato comunismo, dobbiamo parlare anche di sogni in relazione a quello futuro. Di fatto noi oggi possiamo essere sicuri solo di due cose: la prima è che con uno sviluppo planetario del capitalismo (che ora ha investito anche vari paesi dell’ex-socialismo burocratico), la natura verrà completamente distrutta, con conseguenze inimmaginabili sul futuro dell’umanità; la seconda è che senza rivoluzione politica in senso socialista, il capitalismo durerà in eterno o comunque si evolverà in forme che non ne intaccheranno la sostanza (come già sta facendo quello cinese rispetto a quello occidentale).

Tornare all’uomo primordiale

Dovremo tornare a vivere come l’uomo primordiale (“primitivo” lo usiamo in senso dispregiativo), nella piena consapevolezza che qualunque altra forma d’esistenza non è naturale né umana. Dovremo arrivare alla conclusione che un’esistenza umana è possibile solo se è conforme a natura, le cui leggi ci hanno preceduto nel tempo. Dovremo arrivarci in maniera scientifica, il che, stante l’attuale antagonismo sociale, sarà una grande contraddizione in termini. Infatti, come sarà possibile che, sviluppando al massimo grado la tecnologia, si arrivi alla convinzione che il sistema di vita più naturale e quindi più umano è stato quello in cui se ne usava di meno?

Una consapevolezza del genere dovrebbe essere acquisita rinunciando progressivamente alla scienza, o comunque rinunciando a una forma di civiltà che usa la scienza contro gli interessi umani e naturali. Ora, poiché non è questa la nostra strada, è da presumere che lo sviluppo abnorme della scienza, all’interno di una civiltà basata sull’antagonismo delle classi, ci porterà inevitabilmente a una catastrofe mondiale. Noi arriveremo a capire la verità di noi stessi non per virtù ma per necessità. Questo perché la nostra libertà vuole scandagliare tutte le possibili esperienze individualistiche e quindi irrazionali, per poter arrivare a capire che la migliore era la prima, l’unica davvero libera e collettivistica.

Dunque dalla scienza alla coscienza: ecco il percorso positivo che dobbiamo intraprendere. La coscienza deve diventare la scienza delle cose umane, da viversi in maniera condivisa, nel rispetto delle leggi riproduttive della natura. Questo percorso non è detto che sia lineare, anzi, sarà sicuramente a sbalzi, a zig-zag, con accelerazioni e retromarce, ma resta comunque un percorso verso una direzione.

Di tale percorso oggi possiamo con sicurezza dire che si sono fatti più progressi sul versante dell’umanesimo laico che non su quello del socialismo democratico. Se costretto, il capitalismo è più disposto ad accettare una tendenza verso l’indifferenza religiosa, persino un’esplicita professione di agnosticismo o di ateismo, che non il più piccolo richiamo a favore della necessità di gestire in maniera collettiva la proprietà privata.

Tutti i discorsi strutturali a favore del socialismo vengono accuratamente rimossi. Anzi, quanto più è forte la crisi del sistema, tanto più i governi borghesi utilizzano le leve dello Stato per risanare i buchi finanziari, i crolli borsistici, i fallimenti aziendali. Il bene pubblico viene utilizzato per sanare i guasti dell’economia privata.

Occorre creare un movimento popolare che nel contempo sia favorevole alla laicità e al socialismo, un movimento incentrato sui problemi quotidiani delle classi e dei ceti che più soffrono le contraddizioni di questo sistema. Se il movimento non sa affrontare i bisogni della gente, se sovrappone a questi bisogni dei discorsi astratti, ideologici, resterà inevitabilmente settario e inefficace.

Tale movimento dovrà saper coinvolgere il maggior numero possibile di persone, a prescindere dalla loro collocazione sociale, economica o politica. Senza ampi consensi non si realizza alcuna transizione. E soprattutto quand’esso propone forme di tutela ambientale, di risparmio energetico ecc., non dovrà farlo avendo di mira l’obiettivo di rendere più sopportabile il sistema.