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Premessa al testo esegetico “Amo Giovanni”

C’è qualcosa di vero nelle fiabe per bambini? A volte sì, ma non sappiamo cosa, o almeno non lo sappiamo esattamente. La verità storica s’è persa col tempo, anche perché i poteri dominanti non avrebbero permesso di dare, alle loro vicende, delle versioni o interpretazioni diverse dalle proprie. Ecco perché è rimasta soltanto una verità morale, la quale, proprio perché destoricizzata, non è detto che abbia un riferimento preciso alla morale dei fatti realmente accaduti.

Prendiamo p.es. la fiaba di Biancaneve e i sette nani. Oggi è assodato ch’essa fa riferimento a una certa Maria Sofia von Erthal, nata a Lohr nella Bassa Franconia, in Baviera, nel 1725. Era figlia del principe Philipp Christoph von Erthal, rappresentante locale del principe elettore ecclesiastico di Magonza, uno dei sette preposti a scegliere l’imperatore del Sacro Romano-Germanico Impero. La madre, baronessa von Bettendorff, era morta nel 1738 e Philipp si era risposato nel 1743, quando Maria Sofia aveva 18 anni.

La seconda moglie, Claudia Elisabeth Maria von Venningen, contessa di Reichenstein, iniziò a usare la sua nuova posizione sociale per favorire i figli avuti dal precedente matrimonio, a scapito appunto di Maria Sofia, la quale, esasperata dalle vessazioni, decise di andarsene dal palazzo, diventando una specie di vagabonda in mezzo alla foresta limitrofa. Fu assistita da alcuni minatori, ch’erano bassi di statura, in quanto nella regione erano presenti molte miniere con dei cunicoli di non facile accesso. Tuttavia dopo pochi anni la ragazza morì di vaiolo, suscitando una certa avversione, da parte della popolazione locale, nei confronti della matrigna.

Il cosiddetto “specchio parlante” non era che un giocattolo acustico che il padre della ragazza aveva regalato alla seconda moglie: esso era in grado di registrare e riprodurre le frasi pronunciate da chi vi si specchiava. Esiste ancora oggi nel museo di Spessart nel castello di Lohr.

Quanto al veleno della mela, nella regione cresceva in abbondanza una pianta chiamata “solanum”, il cui veleno veniva usato nelle farmacie.

Invece la bara di cristallo, in cui nel racconto viene deposta Biancaneve, fa riferimento a famose vetrerie e cristallerie della regione.

Il fatto che nella fiaba venga detto che la matrigna aveva un carattere orribile o interessi egoistici di per sé non è certo sufficiente a spiegare che, nell’ambito della classe sociale cui essa apparteneva, tali atteggiamenti non erano certo inconsueti, soprattutto quando si doveva decidere il destino dei figli legittimi o naturali, dei primogeniti o dei cadetti, dei figli di primo o di secondo letto, dei figli maschi o delle femmine, e così via.

Nelle fiabe la critica sociale è ridotta a una critica morale, proprio perché non si poteva fare diversamente, se si voleva che un determinato testo potesse essere divulgato. Nei vangeli la cosa non è molto diversa. Qui è Gesù che viene fatto risorgere dal Padre, là è Biancaneve che viene risvegliata con un bacio dal principe azzurro.

Tutto ciò per dire che i vangeli sono falsi per necessità. Sono scritti da ebrei (o simpatizzanti dell’ebraismo, come Luca) che avevano alti ideali politici e che sono stati sconfitti su tutti i fronti, o comunque hanno ereditato, come acquisita definitivamente, l’idea che la Palestina non avrebbe potuto liberarsi dal dominio romano.

Non a caso sono stati scritti in greco, cioè gli autori hanno accettato di considerare come loro principali lettori i pagani convertiti al cristianesimo. Sono libri ad uso interno, per chi ha già la fede cristiana: di storico non hanno quasi nulla, sia perché hanno il compito di presentare le cose in maniera mistificata, sia perché i loro lettori (i quali, in quanto di origine pagana, non sono interessati al mondo ebraico vero e proprio, anzi tendenzialmente sono antisemiti) non vogliono dei testi politicamente eversivi, ma soltanto eticamente edificanti, possibilmente conditi con particolari fantasiosi, come appunto accade nelle fiabe.

Infatti gli aspetti fantastici aiutano a far sognare, a evadere da una serie di contraddizioni sociali tipiche del sistema schiavistico. I vangeli sono favole paragonabili ai racconti omerici, con la differenza che Omero doveva mettere in cattiva luce l’epoca pre-schiavistica, mentre i redattori cristiani dovevano spoliticizzare al massimo un leader anti-schiavista come Gesù.

Ecco perché si può tranquillamente sostenere che tutto il Nuovo Testamento è venuto incontro a un’esigenza di sincretismo culturale tra ebraismo e paganesimo in cui il ruolo di quest’ultimo risultava prevalente, anche se, col passare dei secoli, esso dovrà accettare di trasformarsi in cristianesimo.

In formato ebook https://www.mondadoristore.it/Amo-Giovanni-Mikos-Tarsis/eai978886934398/

In formato cartaceo http://www.bibliotheka.it/Amo_Giovanni__Il_Vangelo_ritrovato_IT

E’ ancora attuale Fernando Belo?

Il libro di circa 400 pagine che rese famoso il filosofo portoghese Fernando Belo fu Lecture matérialiste de l’évangile de Marc. Récit, pratique, idéologie (ed. Cerf, Paris 1974), parzialmente tradotto nel 1975 dalla Claudiana di Torino1 col titolo Una lettura politica del Vangelo. Anche la versione integrale in spagnolo apparve nello stesso anno, mentre quella in inglese nel 1981, A materialist reading of the Gospel of Mark (ed. Orbis Books).

Belo lo scrisse dopo un percorso abbastanza tortuoso: nato nel 1933, si laureò dapprima a Lisbona in ingegneria civile nel 1956. Poi diventò sacerdote a Baixa da Banheira, ma, a contatto col proletariato della parrocchia, abbracciò idee di sinistra e si spretò. Finì in esilio in Francia, a causa del regime fascista portoghese, e si laureò in teologia a Parigi nel 1968, dove scrisse il suddetto libro in cinque anni, riscuotendo subito un notevole successo, tanto che ottenne un incarico honoris causa dalla Facoltà di Teologia protestante di Parigi. Infine, dopo la caduta della dittatura di Caetano, passò a insegnare filosofia del linguaggio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lisbona, dove il dottorato di ricerca lo fece sull’epistemologia della semantica in F. de Saussure.

Belo dunque non è mai stato un teologo e, se vogliamo, è stato un esegeta laico per caso, in quanto i suoi veri interessi erano di tipo filosofico, e spaziavano da Althusser a Derrida, da Heidegger a Kristeva, da Husserl a Prigogine, da Freud a Lacan e molti altri ancora. Difficilmente infatti si potrebbe definire il suo testo su Marco un trattato vero e proprio di esegesi; è semmai un’analisi linguistico-strutturale che parte da presupposti di tipo materialistico-storico (J.J. Goux, J. Baudrillard), non senza riferimenti alle discipline socio-antropologico-religiose (uno per tutti M. Eliade).

Quando lo scrisse Belo era particolarmente influenzato dalle idee del marxismo, mediato dallo strutturalismo (molto famoso nella prima metà degli anni Settanta), ma egli simpatizzava anche per talune idee anarco-socialiste e maoiste: non gli interessava il leninismo, semmai la prassi di figure come A. Cabral, Che Guevara, Ho Chi Minh… Molte delle sue posizioni erano in linea con la sudamericana teologia della liberazione, importata in Italia da Giulio Girardi nella forma del cristianesimo per il socialismo.

Anche da noi il suo testo fece un certo scalpore, poiché era da molto tempo2 che non si leggevano cose così approfondite su un vangelo scritte da un esegeta non confessionale e non professionista, tanto che la Claudiana produsse nel 1976 un altro libro: Dibattito sulla Lettura politica del Vangelo. Il ‘Gesù’ di Fernando Belo. Da allora però, dato anche il crollo del cosiddetto “socialismo reale” e la crisi teorica del marxismo, la sua analisi non è stata ripresa in maniera significativa da esegeti laici di grande spessore. L’attuale e cosiddetta “Terza ricerca” si sta concentrando di più nel cercare di riscoprire il giudaismo del Cristo, coinvolgendo, in questo tentativo, non pochi studiosi di fede ebraica.

Praticamente egli si poneva su una linea interpretativa che vedeva nel Cristo un politico sovversivo e che, partita da Reimarus, finiva col grande teologo anglicano S. Brandon (che nel 1967 pubblicava Gesù e gli Zeloti, ristampato da Pgreco nel 2014), preceduto dal teorico del marxismo K. Kautsky (L’origine del cristianesimo, un’opera del 1908, che Lenin volle subito tradurre in russo e che in Italia lo sarà soltanto nel 1970, tramite Samonà e Savelli). Tale linea oggi dagli esegeti laici, disposti ad accettare la storicità del Cristo, viene considerata sufficientemente acquisita, al punto che non ci si preoccupa più di dimostrarne la fondatezza e non ci si mette neppure a discutere, su questo aspetto, con gli esegeti di tipo confessionale, ma ci si limita a capire la natura o le caratteristiche salienti della messianicità del Cristo.

Diversamente però dalla posizione di Belo, oggi è rarissimo trovare in occidente qualche esegeta intenzionato a dimostrare che se i vangeli vengono interpretati in chiave politica o materialistica, si può tranquillamente essere cristiani e marxisti a un tempo. Ciò in quanto gli esegeti laici nutrono idee prevalentemente ateistiche e non si richiamano più esplicitamente al marxismo. Questo per dire che se si vogliono approfondire le sue analisi bisogna farlo con intenzioni completamente diverse dalle sue.

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Vediamo ora non solo le tesi di fondo del suo libro, ma anche quali vanno considerate superate e quali invece meritano d’essere valorizzate.

1. Anzitutto è molto interessante il fatto che Belo giudichi l’economia della Galilea, rispetto a quella giudaica, più condizionata dall’economia di tipo schiavistico introdotta in Palestina prima da Alessandro Magno poi dai Romani, e quindi maggiormente influenzata dalla cultura ellenistica. Egli infatti vede l’economia giudaica vera e propria ancora legata al modo di produzione cosiddetto “subasiatico”, cioè a quel modo in cui la proprietà della terra non appartiene a nessuno in particolare, se non per un periodo limitato, in quanto il vero proprietario è la comunità in generale o, se si vuole, Jahvè, così come voleva il cap. 25 del Levitico, il quale prevedeva negli anni giubilari il riscatto delle proprietà impegnate (a causa dei debiti) e degli schiavi (ch’erano stati costretti a vendersi sempre per i debiti).3 Anche il Deuteronomio prevedeva varie agevolazioni a favore dei poveri.

“La formazione di una società classista, subasiatica4, si ebbe intorno all’anno 1000 a.C. – scrive Belo – e a questa svolta restano legati i nomi di Davide e Salomone. Questa società si ristrutturò attraverso una corte monarchica che andò a cercare nelle campagne i giovani agricoltori per assoldarli come soldati e servi, che si impadronì di molte delle loro terre (la proprietà è collettiva in Israele) per affidarle ai grandi funzionari della casa reale, creando un sistema di imposte che gravavano sui contadini per far fronte alle spese della corte” (p. 60).

2. Correlata a questa tesi è l’altra, quella secondo cui in Israele e quindi in modo particolare in Giudea vigevano due sistemi diversi di proibizioni o di regole: quello della differenza tra puro e impuro, e quello, relativo alla giustizia sociale, basato su dono/debito (offesa/peccato).

Il primo serviva per impedire la morte: di qui il divieto di mangiare carne di maiale, di venire a contatto con il sangue o con i cadaveri o con certi tipi di malati, di praticare l’incesto o la sessualità tra parenti o l’omosessualità, ecc. Anche gli animali per i sacrifici non potevano avere difetti o tare. I sacerdoti, fisicamente normali, potevano sposare solo donne israelite di sangue puro, altrimenti non potevano accedere agli altari dei sacrifici. E così via.

Le altre interdizioni, quelle del dono/debito, dovevano servire per scongiurare la violenza, l’aggressione: di qui il divieto di rubare, di compiere adulterio o di sposarsi coi pagani, di diffamare, di impedire che la povertà potesse creare dei conflitti sociali, di non abbandonare gli ammalati, gli anziani, le vedove e gli orfani, ecc.

I sacerdoti tenderanno col tempo, soprattutto dopo il rientro da Babilonia, a mettere sempre più in contrapposizione il sistema dell’impurità (strettamente legato al culto, come appare nel Levitico) al sistema del dono/debito (come appare nel Deuteronomio). Questo perché furono loro ad assumere tutte le funzioni del potere politico e a difendere le classi dominanti. Di qui il fatto che i profeti si schierassero a favore del sistema sociale-egualitario del dono/debito.

3. Belo è ben consapevole che, dopo l’esilio babilonese (587-38 a.C.), il vero centro di potere di tutta la Palestina, quello in grado di controllare la produzione attraverso il sistema delle decime, delle primizie, delle imposte, del commercio degli animali destinati ai sacrifici, ecc., era diventato esclusivamente il Tempio, il quale, col Sinedrio, aveva assunto la funzione di centro del potere politico e ideologico anche per gli ebrei della diaspora.

Di fronte a un monolite del genere, supportato dalla presenza romana, egli ritiene che la lotta di Gesù contro i meccanismi dello sfruttamento non avrebbe potuto portare a una trasformazione radicale della struttura sociale esistente. Questo perché, a causa delle contraddizioni tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione, non era oggettivamente possibile un’effettiva rivoluzione.

Essendosi lasciato influenzare troppo dal marxismo degli anni Settanta, Belo riteneva possibile una rivoluzione sociale solo in conseguenza di uno sviluppo capitalistico, quello che dà “al fattore economico un peso decisivo nella struttura sociale” (p. 75). Il che lo portava a considerare l’iniziativa del Cristo come una semplice “rottura” contro il sistema dominante, la cui importanza stava nel fatto ch’essa poteva costituire una delle tappe per la realizzazione del socialismo futuro. Il fallimento, nell’immediato, della sua iniziativa è dimostrato – secondo Belo – dal fatto che la guerra scatenata dagli zeloti nel 66 fu assolutamente perdente; anche perché essi si limitarono a bruciare gli archivi degli atti giuridici sui debiti dei poveri e a mettere al posto di sommo sacerdote un loro affiliato di estrazione sociale non aristocratica. Nessuno quindi poté essere, per motivi oggettivi, un “rivoluzionario”: né Gesù, né il partito degli zeloti e neppure i cristiani.

Col che però Belo non riesce a distinguere la strategia politico-democratica del movimento nazareno da quella politico-estremistica del movimento zelota, il quale p.es. contrapponeva l’identità galilaica a quella giudaica, mentre Gesù aveva cercato un’intesa paritetica. Per non parlare del fatto che gli zeloti volevano imporre con la forza l’idea di realizzare un “regno di dio” in stile davidico, concedendo ampi spazi al terrorismo nei confronti dei collaborazionisti con l’invasore romano e non concedendo nulla alle ideologie pagane e samaritane. Di sicuro non avrebbero mai accettato la presenza di un pubblicano come Levi-Matteo, ancorché pentito, nelle loro fila. Né avrebbero mai accettato di parlare alle folle in parabole, cioè usando un linguaggio indiretto; o di entrare a Gerusalemme in groppa a un asino quando le stesse folle armate al seguito di Gesù avrebbero potuto occupare militarmente la città e imporsi con un colpo di stato.

Belo non riesce assolutamente a comprendere che la capacità di liberarsi politicamente dalle ingiustizie sociali o dall’oppressione nazionale non può dipendere dal livello di sviluppo delle forze produttive, ma unicamente da una determinata strategia politica, la più possibile democratica e partecipata. È molto strano che non si sia reso conto che nella storia le più significative rivoluzioni comuniste sono avvenute in paesi arretrati sul piano industriale. Ancora più strano che non abbia mai fatto riferimento alla prassi leninista. Se il tentativo insurrezionale del Cristo fallì miseramente, ciò non può essere imputato ad altro che a una scarsa partecipazione politica delle masse, a una loro insufficiente consapevolezza rivoluzionaria. Non a caso furono indotte, da subdole autorità religiose, a preferire l’estremismo zelotico di uno come Barabba, ciò di cui l’astuto Pilato fu ben contento, poiché sapeva che il terrorismo può essere vinto più facilmente della democrazia.

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Nella storia dell’uomo preistorico il comunismo è stato un sistema di vita che è durato molte migliaia di anni, quando esisteva l’artigianato in luogo dell’industrializzazione, o comunque quando non esisteva alcuna specializzazione nel lavoro, e quando in luogo della stanzialità si praticava il nomadismo, o quando la vita era vissuta nelle foreste. Che Gesù volesse ripristinare un sistema del genere, in cui l’uomo era se stesso e rispettoso delle leggi di natura (come nell’Eden primordiale), appare piuttosto scontato.

Se questo è vero, non è possibile sostenere – come fa Belo: 1. che Gesù non entrò a Gerusalemme per compiere l’insurrezione nazionale, ma soltanto per dimostrare la necessità di un mutamento sostanziale delle cose; 2. che la sua principale intenzione era quella di rivolgersi alle genti non ebraiche, al fine di universalizzare il suo messaggio, dopo aver posto un seme del cambiamento nella Città Santa (una strategia che verrà ripresa successivamente da Paolo di Tarso); 3. ch’egli non riuscì in questo intento soltanto perché fu tradito da un apostolo zelota o non abbastanza appoggiato dai suoi stessi discepoli; 4. che il suo messaggio fu comunque recepito come una forma di socialismo egualitario (un “comunismo ecclesiale” come quello di At 2,42 ss.; 4,32), che sostituisce i rapporti di classe con la condivisione del bisogno e il valore di scambio con quello d’uso e con l’autogestione, benché la cosa non sia così esplicita nei vangeli, avendo essi riprodotto solo in parte il suo pensiero. Infatti, la parte più politicamente rivoluzionaria è stata censurata, affinché i vangeli venissero letti come testi fondamentalmente religiosi, tant’è che in Marco l’economia del vangelo opposta a quella del Tempio è rappresentata unicamente dal racconto della povera vedova (12,41 ss.) e dall’espulsione dei mercanti (11,15 ss.).

Uno degli errori più comuni che compiono gli esegeti, sopratutto quelli che si concentrano sul solo testo marciano, come fa Belo, è di accettare l’idea che l’epurazione del Tempio sia avvenuta subito dopo l’ingresso messianico: “una specie di occupazione non armata ma violenta, con l’appoggio della folla” (p. 109). Tutte le volte che si considera Marco superiore a Giovanni, si è costretti a rifiutare l’idea che Gesù abbia compiuto l’epurazione (che in realtà fu un tentativo insurrezionale contro i sadducei) all’inizio della propria carriera politica, e quindi l’idea che, col suo ingresso messianico, egli non volesse fare soltanto una manifestazione contro i sadducei e i sommi sacerdoti, ma anche contro i Romani acquartierati nella Fortezza Antonia. Una volta catturato dai Romani il suo destino era segnato, a meno che una buona parte della popolazione non fosse insorta.

Il Gesù di Belo è, tutto sommato, non molto diverso dal Gesù di Marco: un ribelle pacifista e sostanzialmente anarchico, un nemico delle istituzioni religiose corrotte, che vuole un Tempio aperto a tutti, anche ai pagani credenti, senza distinzioni di classe o di ceto o di cultura o provenienza geografica, anzi indifferente al luogo ove ognuno può pregare il proprio dio, in quanto ciò che più gli preme è realizzare una società comunistica. Questo obiettivo si poteva realizzare nell’immediato, senza porre all’ordine del giorno la questione dell’occupazione romana, che sarebbe stata affrontata successivamente.

Naturalmente Belo non è così stupido da non capire che la tesi fondamentale del vangelo marciano, secondo cui Cristo “doveva morire” è “una perversione del cristianesimo” (p. 115), che ha soffocato la carica sovversiva della strategia gesuana. La necessità di una predestinazione è contraddittoria con la prassi messianica. D’altra parte Marco scriveva per cristiani di origine pagana residenti a Roma, i quali erano informati sulla distruzione di Israele e si sentivano eredi di una civiltà in procinto di scomparire, nonché ideatori di una nuova religione, che i poteri costituiti della capitale pagana consideravano inaffidabile (quegli stessi poteri che, con Nerone, iniziarono a perseguitare proprio la comunità destinataria dello stesso vangelo marciano). Le caratteristiche messianiche del Cristo dovevano essere ridotte al minimo, accentuando quelle universalistiche: di qui l’invenzione del cosiddetto “segreto messianico”.

4. Insomma, noi pensiamo che l’analisi di Belo possa essere proseguita soltanto in queste direzioni:

a) sul versante religioso, dimostrando che il Cristo era sostanzialmente un ateo. Non basta sostenere ch’egli voleva realizzare strutture “ecclesiali” ma non “ecclesiastiche” o che “la giustizia ha il primato sulla religione”. Frasi come le seguenti, per quanto trasgressive possano apparire, non hanno alcun senso: “L’eucarestia non è un atto di culto religioso, ma una prassi economica di poveri che condividono e sono saziati” (p. 126); “Gesù e gli zeloti sperano che quando il fallimento starà per sopraggiungere, il Regno di Dio interverrà e trasformerà i rapporti di forze” (p. 130. Non abbiamo bisogno di andare a ricercare dei significati reconditi o simbolici in senso sociale all’interno di gesti o intenzioni, riti o sacramenti appartenenti alla fede. Il “riscatto apocalittico di una situazione politica d’impotenza” – come dice Belo – non è un’esigenza in grado di uscire da una visione mistica delle cose.

b) Sul versante politico occorre invece dimostrare che la strategia insurrezionale del Cristo poteva risultare vincente anche nella Palestina di duemila anni fa, esattamente come quella germanica al tempo della disfatta di Varo nella foresta di Teutoburgo, da cui i Romani non riuscirono più a riprendersi, decidendo di fissare il Reno come confine nord-orientale dell’impero.

L’idea che il socialismo possa essere realizzato solo in virtù di un preventivo sviluppo capitalistico delle forze produttive, è una forma di ingiustificato determinismo; così come l’idea di unire il cristianesimo al socialismo, per cercare di rendere più pura la fede religiosa, non tiene conto del fatto che la religione in sé, a prescindere dai comportamenti personali dei credenti, resta sempre una forma di alienazione.

Il fatto che Gesù volesse un’insurrezione pacifica non può essere letto come rinuncia ad usare una resistenza armata nel caso in cui l’opposizione dei poteri dominanti fosse stata netta e risoluta. Il pacifismo, senza dubbio, è un segno di democraticità, ma una rivoluzione che non si sa difendere vale forse qualcosa? È quindi del tutto sbagliata l’idea secondo cui il Cristo voleva solo un’insurrezione pacifica contro i sadducei e i sommi sacerdoti, in quanto se l’avesse voluta armata contro Roma, avrebbe fatto la fine degli zeloti durante la guerra giudica, non essendoci le condizioni, a quel tempo, per fare una cosa del genere. Belo tuona contro la classe sacerdotale del Tempio, che vede molto simile a quella a lui coeva, ma alla fine ne riproduce quasi il pensiero politico.

È vero che Belo, ad un certo punto, arriva a dire che “ogni lotta politica che abbia per obiettivo la trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali deve essere violenta, contro la violenza dominante. A questo livello parlare di non-violenza è una mistificazione… L’occupazione del Tempio da parte di Gesù è un processo violento contro la violenza che vi si era installata” (p. 131).

Tuttavia la violenza a cui Belo si riferisce è soltanto di tipo simbolico: è infatti una rivoluzione priva di armi, caratterizzata solo da una certa determinazione in carattere. È il potere che usa le armi, perché senza di quelle sarebbe debole. E qui Belo cita tutta una serie di casi di rivoluzioni o di resistenze all’oppressione basate anzitutto non sulla forza delle armi, bensì sulla volontà soggettiva dei rivoluzionari: il maoismo, la resistenza vietnamita contro gli Stati Uniti, la lotta del PAIGC in Guinea Bissau, la caduta del fascismo lusitano, senza lotta armata, dopo 48 anni di dittatura, il Movimento de Esquerda Socialista, successivo alla “rivoluzione dei garofani” del 1974. Su ognuno di questi casi ci sarebbe da dire qualcosa: basti pensare che la suddetta rivoluzione fu in realtà un colpo di Stato attuato da militari dell’ala progressista delle forze armate del Portogallo, quindi non proprio una “rivoluzione”. Ma ciò esula dall’economia del nostro discorso. In via del tutto generale si può soltanto affermare che una volontà autorevole e popolare che non preveda l’uso delle armi, nel caso in cui i poteri dominanti non si rassegnino a mettersi da parte, è soltanto una forma d’illusione.

Particolarmente errata, in tal senso, è la motivazione (troppo dipendente, peraltro, dallo stesso vangelo marciano) ch’egli dà per spiegare l’esecuzione capitale del Cristo. Le autorità religiose decisero di eliminarlo “per il modo come occupò il Tempio, con l’appoggio della folla insorta…”; “egli fu consegnato al potere imperialista romano, che era l’unico autorizzato a emettere condanne capitali di carattere politico” (p. 135. Nel processo davanti al Sinedrio gli argomenti trattati si riferivano esclusivamente al Tempio – prosegue Belo -, e il fatto che Gesù dichiarasse d’essere “il Messia, il Figlio del Benedetto” fu considerato sufficiente per condannarlo a morte. Per le autorità giudaiche questa era una bestemmia vera e propria, in quanto nessuno poteva farsi come Dio. Gesù non dichiara di voler combattere contro i Romani, né di voler conquistare lo Stato ebraico come gli zeloti, né pretende di riformare Israele, ma vuole semplicemente far capire che tra ebrei e pagani non ci può più essere alcuna differenza e che il regno di Dio verrà realizzato solo alla fine dei tempi, quando saranno stati superati i rapporti di classe. Tant’è che nel vangelo di Marco – continua Belo – il regno di Dio verrà costruito in Galilea, essendo la Giudea una nazione maledetta, meritevole della distruzione del Tempio.

Perché questo progetto non riesce a realizzarlo, visto che aveva così tanta popolarità? Perché – secondo Belo – i suoi seguaci giudaici erano “piccolo-borghesi”, dipendenti economicamente dai poteri del Tempio; non volevano ch’egli si opponesse agli zeloti nazionalistici, tant’è che lotteranno al loro fianco quando scoppierà la guerra nel 66. Ecco perché Gesù appare come una zelota mancato, non sufficientemente determinato sul piano politico. Il suo messaggio internazionalistico verrà però ripreso da Paolo di Tarso, il quale non aveva alcuna intenzione di far diventare i cristiani “dei comunisti emarginati come gli esseni” (p. 167).

In conclusione, per Belo “la prassi di Gesù è radicalmente comunista [in senso sociale], anche se non è rivoluzionaria [in senso politico]” (p. 167). Tutto il contrario della borghesia francese del XVIII sec. D’altra parte la prassi messianica è internazionalistica per definizione, non può essere rivoluzionaria, come non lo erano le comuni hippies o le comunità di base degli anni Sessanta. In altre parole, Belo ha fatto bene a sostenere che ciò che è “teologico” nei vangeli è “sovrastrutturale”, e quindi rappresenta un tradimento della prassi messianica del Cristo, ma poi non è riuscito a capire che tale prassi voleva davvero essere insurrezionale contro Roma e la classe sacerdotale, senza concedere nulla alla religione.

1 Onore e merito a questa casa editrice valdese ch’ebbe il coraggio di pubblicare un testo che certamente non era confessionale. Le citazioni riguardano questo testo.

2 In ambito strettamente ecclesiastico è solo con l’enciclica di Pio XII, Divino Afflante Spiritu, del 1943, che viene riconosciuto lecito ai cattolici ricorrere a strumenti di analisi testuale del N.T., la cui validità scientifica era già confermata dall’esperienza secolare di tanti studiosi non cattolici.

3 Non dimentichiamo che il prestito a interesse era vietato tra gli ebrei.

4 “Subasiatica” perché non vi erano – come in Asia – grandi opere idrauliche di irrigazione, anche se vi era uno sfruttamento statale del lavoro agricolo.

L’eccessiva ebraicità di Mauro Pesce

Mauro Pesce è uno di quegli esegeti laici del Nuovo Testamento che, pur avendo studiato tutta la vita la formazione del cristianesimo primitivo, sembra aver capito ben poco di Gesù Cristo, in quanto continua a negargli una caratterizzazione politicamente eversiva, quella della strategia messianica antiromana e antisadducea.

Mostra d’avere una cultura vastissima, di molto superiore a quella dei migliori esegeti confessionali del nostro Paese, eppure son davvero poche le sue tesi che meritano d’essere condivise. Non sembra affatto un esegeta “laico”, ma uno “confessionale” che si limita soltanto a usare strumenti interpretativi differenti, nella fattispecie più sociologici e filologici.

Nel libretto a più mani, intitolato L’enigma Gesù (ed. Carocci, Roma 2008), vi sono due suoi interventi che sintetizzano bene le sue principali posizioni sul Cristo.

Scrive a p. 112: “Una delle tesi per me fondamentale per comprendere la figura di Gesù è che egli era ebreo ed è sempre rimasto all’interno della religione ebraica”. L’autore dice questo perché vuole contrapporre un Gesù “ebreo” al Gesù “cristiano”, giudicando quest’ultimo un prodotto derivato del paolinismo.

Infatti – prosegue l’esegeta – egli “non aveva alcuna intenzione di fondare una nuova religione”. Come appunto ha fatto Paolo. Questo perché voleva soltanto rendere più equo, più umano, più etico l’ebraismo.

“Egli era convinto che Dio stesse per realizzare il suo regno”. In che maniera però Dio volesse far questo, Pesce non lo dice, perché è totalmente contrario all’idea di un Cristo politicizzato. “[Gesù] vedeva anzi nella propria capacità taumaturgica già una presenza della potenza di Dio che stava per prendere finalmente possesso del mondo”.

Siamo – come ben si può vedere – in pieno misticismo. L’autore considera vere tutte le guarigioni, dando per scontato che Gesù avesse capacità sovrumane; associa la consapevolezza di questa straordinaria capacità terapeutica alla convinzione che si stava realizzando il regno di Dio. Cioè da un lato non capisce che tutti quei miracoli sono stati scritti proprio per mistificare delle azioni di tipo politico; dall’altro compie un collegamento tra terapie e basileia (una politicità religiosa) che per un qualunque ebreo non avrebbe avuto alcun senso. Infine dà per scontato che la realizzazione di tale regno avrebbe dovuto essere opera dello stesso Dio.

“La sua predicazione si limitava solo ‘alle pecore perdute della casa d’Israele’ e ad esse soltanto dovevano indirizzarsi anche i Dodici (Mt 15,24; 10,6). Anzi, essi non dovevano neanche percorrere la stessa strada dei non ebrei (i gentili) ed entrare nelle città dei Samaritani (Mt 10,5)”.

Queste sono tutte sciocchezze. Gesù ha frequentato con successo i Samaritani, stando al vangelo di Giovanni; ha frequentato luoghi pagani come la Decapoli, Tiro e Sidone e, nell’ultima settimana di Pasqua alcuni Greci volevano parlamentare con lui. La stessa popolazione galilaica, confinante con tutte popolazioni pagane o quasi, veniva considerata ignorante e rozza dalle autorità giudaiche: persino la lettura pubblica delle preghiere le veniva interdetta. E non è che la Perea, ove spesso Gesù si rifugiava, fosse un paese significativo per i Giudei.

Alla samaritana Gesù dichiara di non essere minimamente interessato al primato storico e normativo del Tempio di Gerusalemme, anche perché non ha mai intenzione di porre delle differenze etniche o tribali tra Giudei, Galilei, Samaritani e Idumei. Tutto il Vicino oriente era caduto sotto il dominio romano: non avrebbe avuto alcun senso cercare di liberare la Palestina rifiutando il concorso delle nazioni pagane ugualmente sottomesse.

Ma l’assurdità maggiore di Pesce viene adesso: “Dopo il giudizio universale sarebbe iniziato il regno di Dio, e tutte le genti (cioè i non ebrei) si sarebbero convertite all’unico Dio”. L’autore fa tanto l’anti-paolinista, eppure mostra di credere in un concetto, quello del “giudizio universale”, che a Paolo era molto caro, proprio perché con quello aveva potuto sostituire l’idea petrina della parusia immediata e trionfale del Cristo.

Ecco, ora siamo venuti a capire cosa intende Pesce per “regno di Dio”: un qualcosa di assolutamente mistico, non alla portata degli uomini, ma solo della divinità; un qualcosa di “apocalittico”, che Dio avrebbe realizzato solo alla fine dei tempi.

“La speranza di Gesù – prosegue l’autore – non era di fondare un nuovo gruppo, ma la riunione di tutti i popoli nel regno di Dio. Questo sogno non era altro che il sogno dei profeti biblici”. Un sogno – come ben si può vedere – del tutto vago e generico, persino più astruso di quello dei profeti veterotestamentari, che con le loro filippiche si rivolgevano sempre a persone ben precise (generalmente delle autorità), mostrando che una fede religiosa senza la giustizia sociale era ben poca cosa. Gesù invece si deve accontentare di fare il taumaturgo a favore dei reietti della società.

C’è da dire che Pesce ha sempre rifiutato con nettezza l’esegesi del teologo anglicano Samuel Brandon, secondo cui Gesù era un “rivoluzionario politico-militare” (p. 123). A suo parere, infatti, non ha senso parlare di un Cristo “sociale” contro un Cristo “religioso”, in quanto Gesù era “radicalmente sociale” e “radicalmente religioso”. “La sua… è la concentrazione sul Dio ebraico che interviene nel mondo a regnare, a trasformarlo” (p. 97). Il programma di Gesù è tutto nelle Beatitudini, secondo la versione lucana, per le quali “il regno di Dio è totalmente ‘di Dio’, non è opera dell’uomo…” (ib.).

Questo modo di ragionare di Pesce è davvero curioso: da un lato dice che Cristo era “radicalmente religioso” (in senso ebraico), e dall’altro sceglie, per dimostrarlo, il vangelo meno ebraico di tutti, cioè quello più vicino alle idee di Paolo. Da un lato dice che Gesù era insieme “radicalmente sociale e religioso”, ma dall’altro non spende una parola a favore degli zeloti, che certamente lo erano molto più di lui, essendo Gesù sostanzialmente un ateo. Dice che Gesù era “radicalmente sociale”, e però affida soltanto a Dio il compito di realizzare la giustizia sociale.

Poi, per dimostrare che il Cristo era un ebreo ortodosso al 100%, Pesce, come se egli stesso fosse un ebreo, presenta alcuni argomenti che per lui dovrebbero essere inattaccabili:

1. Gesù non ha mai dichiarato “puri” tutti gli alimenti, altrimenti negli Atti degli apostoli Pietro non avrebbe avuto bisogno di ricorrere a una rivelazione divina per giustificare il proprio comportamento (p. 113). Dicendo questo, Pesce mostra di non aver capito che per Gesù non aveva senso pensare di opporsi efficacemente ai Romani limitandosi a fare distinzioni di principio tra gli alimenti. Una vera etica fa differenza tra forma e sostanza, e quella relativa ai cibi era in fondo ben poca cosa, anche se con questo non si vuole sostenere che Gesù violasse le regole sui cibi per apparire eversivo. Il fatto che Pietro avesse a che fare, negli Atti, con ebrei che ancora ponevano differenze tra i vari cibi, va considerato come una scarsa propensione, da parte dell’apostolo, a proseguire politicamente la strategia insurrezionale del Cristo.

2. Gesù – sostiene Pesce – non ha mai voluto abolire il sabato, ma semplicemente indicare che questo giorno festivo è finalizzato al bene dell’uomo. Semmai si può discutere su quali azioni possono essere compiute in questo giorno, senza rischiare di trasgredirlo. Gesù quindi si opponeva soltanto alle interpretazioni estreme dei gruppi esseni.

A dire il vero le interpretazioni estreme sul sabato le avevano anche i farisei, poiché son proprio questi – e non gli esseni, che invece lo proteggevano quando fuggiva dalla Giudea – che avrebbero voluto vederlo morto quando guariva nei giorni festivi (ammesso e non concesso che fosse davvero un terapeuta). Rispettare il sabato voleva infatti dire essere “credenti”, mentre il trasgredirlo era segno di “miscredenza”.

La violazione del sabato viene sempre associata nei vangeli all’affermazione che Gesù fa circa la propria identità divina. Com’è noto, intorno a questo precetto le falsificazioni redazionali sono sempre state due: la prima era quella di mostrare che Gesù poteva violare il sabato proprio perché era in grado di fare guarigioni straordinarie; la seconda era quella di mostrare ch’egli poteva violarlo in quanto era figlio di Dio.

In realtà la scarsa considerazione in cui Gesù teneva il sabato è sempre relativa al fatto che non si poteva certo pensare di occupare il Tempio o la fortezza Antonia gestita da Pilato limitandosi a rispettare tale precetto. Non solo, ma quando i vangeli giustificano la suddetta violazione dicendo ch’egli era “figlio di Dio”, si dovrebbe leggere tale motivazione in senso addirittura ateistico: Gesù violava il sabato proprio perché riteneva l’uomo superiore a Dio, o meglio un dio di se stesso.

3. Quanto all’amore dei nemici, che – secondo Pesce – è un puro e semplice approfondimento di una tematica levitica (Lv 19,19), stendiamo pure un velo pietoso, poiché, all’interno di una strategia insurrezionale, non avrebbe avuto alcun senso sostenere una cosa del genere. Gesù chiede di vendere il mantello per comprare la spada (Lc 22,36); dice che il regno di Dio si acquista solo con la violenza (Mt 11,12); dice che è venuto a dividere i padri dai figli (Mt 10,21), e di essere venuto a portare fuoco e non pace sulla Terra (Lc 12,49). E afferma tutte queste cose in vangeli che vogliono spoliticizzarlo al massimo!

Pesce dà l’impressione di essere un esegeta molto ambiguo, che in apparenza sembra volersi opporre alle esegesi confessionali, quando invece nella sostanza ne conferma i presupposti. Come interpretare, infatti, le seguenti affermazioni?

1. “Il riconoscimento della piena ebraicità di Gesù… non implica una messa in questione del cristianesimo” (p. 115). Ora, se Gesù fosse stato un ebreo ortodosso o non lo fosse stato affatto, non avrebbe comunque avuto nulla a che fare col cristianesimo paolino, che rifiutava l’insurrezione nazionale. Paolo era stato un politico di razza quand’era fariseo, ma quando cominciò a diventare cristiano, tradì non solo i farisei ma anche Gesù Cristo. Ecco perché riuscì a fondare una nuova religione: del fariseismo non aveva più l’ebraicità e del movimento nazareno non aveva più la politicità.

2. “Gesù appartiene a tutta l’umanità e chiunque può ispirarsi a lui perché il suo messaggio, il suo stile di vita hanno una valenza veramente universale” (p. 112). “Universale” un Gesù ebreo che rispetta scrupolosamente il sabato e che fa distinzioni di principio tra i vari cibi? Un Gesù terapeuta che compie guarigioni miracolose al di là della portata di qualunque uomo? Un Gesù che moltiplica dal nulla i pani e i pesci e che cammina sulle acque di un lago? Davvero un individuo del genere può essere considerato una fonte di ispirazione universale?

3. “La riscoperta della figura storica di Gesù è rilevantissima anche per la fede…” (p. 111). Ora, se un cristiano accetta l’idea che Gesù era più ebreo di quanto appaia nel Nuovo Testamento o di quanto fino ad oggi abbiano sostenuto i teologi cristiani, è impossibile ch’egli non si chieda se la propria fede cristiana sia davvero autentica o se non sia invece il caso di abbracciare l’ebraismo. Se invece l’esegesi di Pesce serve per approfondire la fede cristiana, allora bisogna dire ch’essa non ha alcun valore sul piano laico, checché egli ne pensi. Che Gesù vada considerato più un “credente ebreo” che non un “credente cristiano”, è del tutto irrilevante ai fini di un’esegesi laica.

4. Ecco ora alcune frasi che mostrano il livello di coerenza dell’autore:

“Luca è a mio parere colui che ha meglio compreso l’essenza del messaggio di Gesù” (p. 124); “nessuna delle formulazioni sinottiche può pretendere di essere quella sicuramente gesuana” (p. 109); “io non credo affatto che il Gesù storico si trovi nei vangeli gnostici di Nag Hammadi” (p. 124); “il Nuovo Testamento non è uno strumento utilizzabile per lo storico che s’interessa del I secolo, ma solo per lo storico che vuol comprendere i teologi dalla fine del III secolo o dall’inizio del IV secolo in poi” (p. 109); il Vangelo di Tommaso, la Didaché, l’Ascensione di Isaia, la Prima lettera di Clemente, i vangeli giudeo-cristiani, il Vangelo di Pietro e altri vangeli pervenutici frammentariamente “sono fonti molto utili per ricostruire la fisionomia storica di Gesù e delle prime comunità dei suoi seguaci” (p. 107).

Di frasi contraddittorie come queste i testi di Pesce sono pieni. Peraltro i vangeli giudeo-cristiani (degli Ebrei, dei Nazarei e degli Ebioniti) sono andati perduti e ci sono giunti solo attraverso testimonianze indirette e occasionali fornite da alcuni Padri della Chiesa che li contestavano. Il Vangelo di Tommaso contiene solo detti di Gesù e non s’interessa affatto della sua vita. Del Vangelo di Pietro abbiamo solo un frammento fortemente anti-giudaico. Il contesto di origine della Prima lettera clementina è legato a una disputa nella chiesa di Corinto, il cui contenuto è strettamente religioso. L’Ascensione di Isaia è un apocrifo dell’Antico Testamento interpolato dai cristiani. Sarebbero queste le fonti da utilizzare per una ricostruzione del Gesù storico?

Mauro Pesce vuol fare la parte dell’esegeta che vuol sentirsi libero di credere e di non credere, di utilizzare le fonti che vuole, di dire tutto e il contrario di tutto; e soprattutto gli piace far la parte dell’esegeta filo-ebraico contro quelli dichiaratamente cristiani o laicisti; salvo poi dire, nella sostanza, ciò che il cristianesimo ha sempre sostenuto. Non accetta l’idea che una fede si debba istituzionalizzare in una struttura ecclesiastica, quando questa cosa – se davvero fosse un esegeta ebraico – sarebbe costretto ad accettarla molto tranquillamente.

Mille anni di storia di una chiesa corrotta

La lotta medievale per le investiture ecclesiastiche, scoppiata a partire dalla pubblicazione del Dictatus papae (1075), non ebbe alcun aspetto democratico, in quanto fu soltanto un’aspra controversia tra due istanze autoritarie: il papato e l’impero.

La prima, rappresentata da Gregorio VII, approfittò della decadenza morale del clero per affermare un potere assoluto e universale della sede romana, che non tramonterà se non con la cattività avignonese (1309-77) e con l’unificazione della penisola italiana.

Il papato diede una risposta dittatoriale, sul piano politico-istituzionale, a un problema di corruzione morale e di abusi economici a livello locale, in quanto i vescovi, nelle città, avevano un potere considerevole.

La corruzione del clero era già stata contestata dai primi movimenti ereticali pauperistici (p.es. la Pataria), e di essa avevano approfittato gli imperatori, i quali, a partire dal sassone Ottone I (963), avevano preso a nominare dei vescovi a loro fedeli, facendo così nascere il cesaropapismo.

La figura del vescovo-conte, se ci pensiamo, era un vero e proprio controsenso, in quanto un vescovo non dovrebbe essere scelto da un’istituzione civile, senza il consenso della chiesa; e, meno che mai, gli si potrebbe attribuire un ruolo politico-amministrativo da esercitare nelle città.

Gli imperatori si comportavano così perché sapevano bene che, non essendo sposati, i vescovi, alla loro morte, non potevano trasmettere ai loro discendenti i beni ricevuti in gestione: tutto tornava all’impero.

Un sistema del genere, agli occhi di un papato che voleva sempre più dotare di uno Stato la propria chiesa, era assai poco conveniente. Ecco perché nella lotta per le investiture si giocava il destino di una chiesa particolarmente venale e corrotta.

Il colpo di genio di Gregorio VII fu quello di approfittare della crisi per affermare, contemporaneamente, un proprio potere personale su tutti i vescovi e sull’imperatore (papocesarismo), mettendo altresì a tacere le proteste che partivano dalla base dei fedeli più rigorosi. Egli poteva altresì disinteressarsi completamente delle inevitabili contestazioni che sarebbero venute dalla chiesa bizantina, in quanto la rottura con tale chiesa era già stata consumata nel 1054 (e, da allora, mai più ricomposta).

Gli bastò servirsi delle potenti città borghesi dell’Italia centro-settentrionale per avere la meglio su Enrico IV. Egli non solo riuscì a vincere la lotta per le investiture in quasi tutta Europa, ma anche a porre le basi per l’affermazione della teocrazia pontificia, con cui il papato poté scatenare le crociate in Medioriente e nei Paesi Baltici, sottomettere, con la quarta crociata, sia il basileus bizantino che la chiesa ortodossa, e soprattutto sottomettere, con l’arma della scomunica, tutti gli imperatori feudali, con quella dell’interdetto tutte le città ghibelline e con l’accusa di eresia tutti i movimenti religiosi eversivi.

Quando il sovrano francese, Filippo IV il Bello, pose fine a questo delirio di onnipotenza, trasferendo la sede vaticana ad Avignone e affermando un nuovo (questa volta nazionale) cesaropapismo in piena regola, in quanto tutti i papi, di origine francese, venivano scelti dalla corona, i giochi erano fatti. La chiesa romana non sarebbe più tornata alla conciliarità della chiesa ortodossa, ma, anzi, la tendenza sarebbe stata quella di continuare a vivere nella più grande corruzione, accettando, nel contempo, l’idea di scristianizzarsi progressivamente, favorendo (o comunque non ostacolando) lo sviluppo dell’Umanesimo e del Rinascimento.

Dopo aver eliminato tutte le possibili contestazioni religiose al proprio interno, e aver stretto una forte intesa laica con la borghesia, il papato non riuscì a capacitarsi quando vide che in Germania esisteva ancora una forte critica teologica condotta da un monaco agostiniano chiamato Lutero.

Sottovalutò completamente il fenomeno della Riforma e, quando decise di reagire col Concilio di Trento, le guerre di Carlo V, i gesuiti e l’inquisizione era, ancora una volta, troppo tardi: l’Europa si era spaccata in due. Se prima il papato aveva favorito economicamente la borghesia, a condizione ch’essa non rivendicasse un potere politico anticlericale, ora deve fare marcia indietro. La borghesia, che nel nord Europa era molto favorevole al protestantesimo (con cui poteva credere in un dio a buon mercato), andava ostacolata in tutti i modi. E fu così che l’Italia sprofondò nel baratro sino al 1861 (per non parlare dei due grandi imperi coloniali, di Spagna e Portogallo).

A quella data il papa scomunicò i Savoia e non accettò alcun risarcimento per la perdita del millenario Stato della Chiesa, obbligando i cattolici a non partecipare all’attività politica, almeno finché col Concordato fascista del 1929 capì che indietro non si poteva più tornare. Cercò di strappare al duce il massimo possibile dei privilegi, molti dei quali durano ancora oggi (p.es. l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali), in forza di quello sciagurato art. 7 della Costituzione.

Tuttavia la svolta ideologica a favore della borghesia non avvenne col compromesso politico del 1929, bensì col Concilio Vaticano II del 1962-65, inaugurato in pieno boom economico, all’insegna del consumismo all’americana. Ciò a testimonianza che gli aspetti materiali del capitalismo sono molto più forti di quelli politici.

A partire da quel Concilio la chiesa romana iniziava finalmente a protestantizzarsi a tutti i livelli. L’ultimo sussulto profondamente clericale l’ebbe con papa Wojtyla, che, provenendo da una Polonia assai poco borghese e da una chiesa politicizzata, in costante lotta col proprio Stato comunista, ambiva a sconfiggere il socialismo internazionale e ad affermare una sorta di teologia politica alternativa sia a Marx che al capitale.

Il socialismo autoritario, in effetti, crollò, ma la chiesa dovette rinunciare a porsi come “terza via”. Una teologia troppo anticomunista non può sperare d’indirizzare il capitale verso la dottrina sociale della chiesa. L’unica teologia che avrebbe potuto farlo era quella sudamericana della “liberazione”, che però fu scomunicata senza appello dalla coppia Wojtyla-Ratzinger.

La chiesa romana, intesa come istituzione, non è in grado di risolvere alcun problema: al massimo, con l’attuale papa sudamericano, può rivolgere appelli generici alla pace, al rispetto dei valori umani, alla tolleranza interconfessionale e alla tutela ambientale. Essa stessa, infatti, deve imparare a vivere, al proprio interno, la democrazia e i valori umani, proprio perché gli scandali continuano a colpirla come mille anni fa, con la differenza che oggi riguardano anche il basso clero.