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Il superamento della religione nell’Anti-Dühring di Engels

L’ateismo del comunismo primitivo

È impossibile dar torto a Engels quando considera ridicola l’idea di Dühring di “abolire” la religione nella società socialista. Infatti il socialismo scientifico ha sempre detto ch’essa è soltanto un epifenomeno, una sovrastruttura che si estinguerà da sé, insieme allo Stato politico, quando il socialismo sarà realizzato.

Ciò che non piace, nella sintesi engelsiana sulla posizione del socialismo in merito al fenomeno religioso, è un’altra cosa. Scrive nel suo Anti-Dühring: “Agli inizi della storia sono anzitutto le potenze della natura quelle che subiscono questo riflesso…”, assumendo col tempo “svariate e variopinte personificazioni”. Quale riflesso? “Ogni religione non è altro che il fantastico riflesso nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la sua esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene assumono la forma di potenze ultraterrene”.

Molto feuerbachiana questa definizione della religione. Cerchiamo di capir bene cosa Engels voleva dire. Anzitutto non si sta riferendo alle religioni politeistiche, tipiche dello schiavismo, poiché subito dopo parla di “mitologia comparata” dei popoli indoeuropei, di cui i Veda induistici costituiscono l’origine ancestrale. Egli si sta riferendo alle religioni più primitive, quelle clanico-tribali, cioè quelle passate alla storia col nome di “totemico-animistiche”.

Queste però non erano religioni che riflettevano rapporti sociali di tipo antagonistico. Erano dunque così alienanti? così predisposte a fuorviare gli uomini dall’idea di doversi liberare da rapporti sociali frustrati? Assolutamente no, anche perché appunto non esisteva ancora lo schiavismo.

Ma facciamo ora mente locale e cerchiamo di ricordare come sono fatte le tante pitture rupestri dell’uomo preistorico trovate in vari luoghi del pianeta. Presentano forse una simbologia magico-religiosa o animistico-totemica? Purtroppo per Engels dobbiamo dire che appaiono molto realistiche e naturalistiche, per quanto le figure siano stilizzate, appena abbozzate. Esse dovevano soltanto rimandare ad altro, non avevano la pretesa d’aver un significato in sé. Il pittore preistorico non voleva rappresentare tutto se stesso, né faceva della sua arte una forma di consolazione o di evasione o di protesta in rapporto alle contraddizioni della sua vita. Picasso rimase molto stupito di questo realismo ingenuo e cercò d’imitarlo nelle sue raffigurazioni dei tori.

Ora, perché questa assenza di riferimenti religiosi? Il motivo è molto semplice: nel comunismo primitivo non esisteva alcuna religione. Il fatto che seppellissero i loro morti con tutto ciò che d’importante avevano usato in vita, non voleva affatto dire che basassero la loro esistenza in funzione di una credenza religiosa. Non c’erano sacerdoti che si distinguevano dal resto della comunità, rivendicando un potere particolare. Se c’erano sciamani o stregoni, non svolgevano riti non compatibili con le funzioni attribuite alla natura. Alcuni eminenti studiosi han detto che non c’era la religione perché il cervello degli uomini primitivi non era sufficientemente sviluppato. Allora non lo è neppure quello dei socialisti! Ancora oggi ci si imbatte in qualche studioso di mentalità borghese che legge il passato con gli occhi del presente o che ritiene sia impossibile non credere in un’entità superiore.

Gli uomini primitivi erano forse religiosi perché mancava la scienza? Ma la fede cieca nella scienza non rende forse altrettanto superstiziosi? L’unica vera scienza è forse quella occidentale? La conoscenza diretta della natura, trasmessa per prove ed errori attraverso le generazioni, va considerata non scientifica? La scienza è davvero “scientifica” solo quando fa esperimenti in laboratori asettici, neutrali, non influenzati dall’ambiente esterno? La vera scienza è soltanto quella che sa “dominare” la natura perché ne conosce a fondo tutte le sue leggi?

Sono tutte domande le cui risposte, oggi, dovrebbero essere scontate, anche perché l’uomo primitivo, avendo una visione olistica delle cose, era inevitabilmente molto più scientifico degli odierni scienziati, sempre molto settoriali e privi di senso etico, in quanto, se sono idealisti, non si ritengono responsabili quando le loro ricerche vengono usate dalla politica o dall’economia in maniera negativa, oppure, se sono venali, si chiedono come ricavare dalle loro ricerche un utile economico. Quando parliamo di medicina non stiamo forse lì a chiederci perché in occidente si curi soltanto l’organo malato e non si abbia un vero rapporto col paziente?

Vivendo rapporti sociali naturali, l’uomo primitivo non poteva avere alcuna religione, e se aveva delle credenze che oggi qualifichiamo, sbagliando, col termine di “religiose”, esse non lo facevano sentire in balìa delle forze della natura, non provenivano da un senso d’impotenza nei confronti di tali forze, poiché la natura era considerata “madre”, non “matrigna”. Semmai è sotto lo schiavismo che si inizia ad attribuire a forze innaturali o sovrannaturali la causa e, insieme, il rimedio delle proprie frustrazioni. È così che si creano delle personificazioni simboliche, astratte, di ciò che si vive (il male) e che si vorrebbe vivere (il bene) nella realtà.

Gli uomini primitivi non si sentivano “dominati” dalla natura, né avvertivano il desiderio di “dominarla”. Per loro la natura era una partner dotata di personalità autonoma (che, p.es., non si poteva ferire con l’uso dell’aratro, per non devastarne il ventre, come dicevano tante popolazioni antiche). Era considerata una madre severa, esigente, ma anche protettiva, rassicurante, con cui misurarsi alla pari, man mano che si diventava adulti, senza mai scordarsi che gli esseri umani sono tutti “figli della natura”. Concepivano la natura come fonte esclusiva1 delle loro risorse, della loro stessa vita. Se per il fatto di ritenerla una sorta di “divinità” è necessario definirli “religiosi”, indubbiamente lo erano. Ma allora dovremmo considerare tali anche gli antichi filosofi ilozoisti o panpsichisti, quando invece erano fondamentalmente atei.

Credere che esista un aldilà o che la morte sia una forma di passaggio da un’esistenza a un’altra non significa essere “religiosi”, poiché anche la scienza parla di eternità e infinità della materia e dell’universo che la contiene, e della sua perenne trasformazione. Per non essere “religiosi” è sufficiente non credere in un dio onnipotente, onnisciente, onnipresente, preveggente…, in grado di leggere il pensiero umano, di anticiparne le decisioni, di condizionarne le scelte, di indurlo in tentazione e altre amenità del genere, che fanno sentire l’uomo una marionetta nelle mani di dio. Chi crede nell’eternità della natura, non ha bisogno di credere in dio, oppure crederà in un dio che sostanzialmente avrà caratteristiche umane. Il livello massimo di religione che potevano avere gli uomini preistorici era il culto degli antenati, che è quanto di più umano vi possa essere.

Schiavismo e paganesimo

Il secondo aspetto sbagliato nella sintesi di Engels, sullo sviluppo del fenomeno religioso, è che non mette in relazione il paganesimo con lo schiavismo. Eppure avrebbe dovuto essere scontato. Tutte le religione cosiddette “pagane” o politeistiche sono nate quando già esisteva la fine del comunismo primitivo. Tali religioni avvertivano la natura come un pericolo o una minaccia, in quanto gli uomini vivevano così i loro rapporti sociali. Cioè consideravano la natura uno strumento nelle mani degli dèi, che lo usavano a loro discrezione, il più delle volte per punire gli uomini di qualche mancanza; oppure veniva invocato l’aiuto degli dèi per nuocere al nemico.

Non è mai esistito – come invece dice Engels – un periodo in cui gli uomini temevano le forze della natura, antecedente a un secondo periodo in cui hanno iniziato a temere le forze sociali antagonistiche. Dopo la fine del comunismo primitivo l’uomo ha subito avvertito il proprio simile come un nemico, e là dove non riusciva a sconfiggerlo, a sottometterlo, s’inventava delle forze supplementari astratte che potessero aiutarlo. Oppure chi era in grado d’imporsi con la forza o l’astuzia, escogitava delle entità simboliche per giustificare la propria superiorità.

Che poi sotto il paganesimo ci fossero tante divinità, mentre sotto le cosiddette “religioni del libro” ve ne fosse una sola, non ha molta importanza. Forse le religioni monoteistiche sono emerse quando il peso dei condizionamenti sociali antagonistici era troppo forte per essere sopportato. Esse infatti appaiono come una forma d’illusione a un livello superiore, più astratto e sofisticato: hanno sostituito qualcosa che aveva fatto il suo tempo, nella convinzione che occorressero ideali più elevati, da realizzarsi a tutti i costi. Le religioni monoteistiche sono legate più alla storia che non alla natura, più all’azione che non alla contemplazione, più a una organizzazione collettivistica con addentellati politici che non a un approccio alla divinità di tipo clanico-parentale o individuale, più a una sensibilità universale che non a un riferimento urbano o locale, più a rigidi dogmi che non a riti conformi ai ritmi della natura. Il passaggio da tante divinità che si possono rappresentare visivamente a un unico dio non rappresentabile o, come nel cristianesimo, a un personaggio che insieme è umano e divino, potrebbe anche essere visto come una forma di cripto-ateismo, di disincantamento da una certa ingenuità di fondo.

Insomma la formazione e lo sviluppo delle religioni sono stati molto sfaccettati nei secoli e nei diversi luoghi geografici, per cui non è possibile stabilire un “prima” e un “dopo” tra una forma e l’altra. L’unica cosa che si può dire è che, se si escludono le religioni animistico-totemiche, tutte le altre riflettono rapporti sociali conflittuali, cui s’è cercato di trovare una spiegazione fantastica a seconda delle circostanze. Tutti gli dèi servono per giustificare la posizione delle classi dominanti, o possono essere inventati per contrastare tale posizione. Le divinità possono assumere col tempo nomi, funzioni, caratteristiche, modalità d’azione… incredibilmente diversi, a seconda della fantasia umana: quello che non cambia è che esse vengono sempre usate in rapporto agli antagonismi sociali.

Anche oggi esistono divinità laicizzate che chiamiamo Stato politico, Libero mercato, Scienza laboratoriale, Diritti umani universali, Democrazia parlamentare… Persino la Scrittura, rispetto alla semplice Oralità, è considerata una divinità. Siamo in grado di “deificare” qualunque cosa, vivendo in sua funzione, sottomettendoci come servi: il denaro da accumulare, lo shopping per spendere il denaro accumulato, il sesso da godere, la droga per evadere, lo sport della squadra del cuore, l’attività ginnica che tiene sempre in forma, la medicina che risolve ogni problema fisico, l’alimentazione che rende sani, giovani e belli, i film che fanno sognare, la musica che distrae, le chat che coinvolgono, il gioco d’azzardo che ipnotizza, l’analista cui confidare i nostri problemi… Quando dominano i rapporti antagonistici, tutto può essere trasformato in una “religione”, persino l’ideologia con cui vengono criticati questi rapporti.

La religione è una fissazione da cui è molto difficile liberarsi, se non ci si libera di ciò che la origina. Con uno sforzo di volontà personale al massimo si può passare da una fissazione a un’altra. Tutto può diventare una forma di dipendenza, esattamente come le classiche religioni. L’oppio dei popoli oggi è il capitalismo, ma, in alcuni Paesi del mondo, per 70 anni è stato il cosiddetto “socialismo reale”. Gli stessi Marx ed Engels avevano il culto per la scienza e la tecnica e avevano concepito una transizione socialista che non prescindesse minimamente da ciò che la borghesia aveva realizzato sul piano tecnologico.

Ecco perché oggi, se davvero vogliamo realizzare un socialismo democratico, dobbiamo rimettere tutto in discussione. Oggi ci vantiamo di conoscere la natura molto meglio di quanto potessero fare gli uomini prima della rivoluzione tecnico-scientifica del Settecento. Ma chiediamoci: forse per questo abbiamo eliminato il concetto di “religione”? O non l’abbiamo piuttosto trasformato in qualcosa di più laico, conseguente al fatto che la società borghese ha aumentato, col consumismo, gli oggetti di cui possiamo disporre per illuderci di superare le nostre alienazioni?

Tutte queste opinioni limitate di Engels non dipendono solo dal fatto che risalgono a 150 anni fa, ma anche e soprattutto da una visione piuttosto terribile della preistoria. Scrive a tale proposito: “Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia: ancora mezzo animali, rozzi, ancora impotenti di fronte alle forze della natura, ancora ignari delle proprie; perciò poveri come gli animali e di poco più produttivi di essi”. In queste condizioni verrebbe da chiedersi come sia stata possibile un qualunque forma di progresso.

Se osserviamo che talune comunità primitive, ancora oggi esistenti, sono rimaste ferme al neolitico, pur essendo consapevoli, almeno a grandi linee, di un certo progresso tecnico-scientifico e urbanistico, avvenuto non molto lontano dai loro villaggi, verrebbe quasi da pensare che i membri di tali comunità non appartengano affatto alla specie “homo sapiens”. A Engels sarebbe parso del tutto incredibile che, pur consapevoli di un certo progresso tecnologico al di fuori del loro habitat, tali comunità abbiano preferito rinunciarvi altrettanto consapevolmente, nella convinzione che, così facendo, avrebbero potuto conservare meglio le caratteristiche della loro identità, le proprietà del loro ambiente vitale.

Purtroppo gli stessi etnologi che visitano tali comunità spesso non sono in grado di capire ch’esse, a causa dei condizionamenti esterni che subiscono, non sono più come vorrebbero essere. Esse sanno benissimo che il cosiddetto “mondo civilizzato” non vede l’ora di espropriarle delle loro risorse naturali. Il fatto stesso che vi siano degli studiosi che vanno a conoscerle come se fossero animali in via di estinzione, è indicativo del profondo abisso che ci separa da loro. Per Engels il criterio fondamentale che spiega la differenza tra “loro” e “noi” è il rapporto con la natura, che per loro sarebbe di “dipendenza”, mentre per noi è di “dominio”, come se il concetto di “dominio” ci caratterizzasse, nei confronti della natura, come “esseri umani”.

Dunque a che serve il sedicente “socialismo scientifico” se nei confronti della natura ha lo stesso atteggiamento “imperialistico” del liberismo borghese? Abbiamo davvero bisogno di “razionalizzare” un atteggiamento che è sbagliato nei suoi presupposti di fondo? Finché per noi il rapporto con la natura si configura solo come dominio, che possibilità abbiamo di diventare noi stessi, cioè “enti di natura”? È forse giusto ritenere che nel mondo primitivo l’uguaglianza fosse soltanto un prodotto inevitabile della loro impotenza nei confronti della natura? un effetto della loro povertà materiale? della loro incapacità produttiva? Per quale motivo è così difficile capire che una qualunque produzione umana deve essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura?

Addendum riepilogativo

Là dove c’è paganesimo, c’è sempre schiavismo. E lo schiavismo è sempre basato sui rapporti di forza, in cui p.es., sul piano personale/sessuale, l’uomo domina la donna. Se esistono riferimenti ancestrali al primato della natura, all’eternità-infinità dell’universo ecc., ciò va considerato un retaggio del comunismo primitivo, che ha caratterizzato la vita del genere umano in tutto il pianeta per almeno un milione di anni (in genere si fa partire lo schiavismo a circa 6000 anni fa).

Là dove c’è schiavismo, non è possibile considerare il paganesimo migliore del cristianesimo: semmai si possono fare differenze tra ortodossia religiosa (di derivazione greco-bizantina) e cattolicesimo-romano, in cui il papato si considerava politicamente superiore agli imperatori.

Il cristianesimo è quella religione che favorisce il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in quanto ha un maggior senso dell’etica, proveniente dall’ebraismo. Questo almeno fino a quando, assumendo atteggiamenti neopagani, desunti dalla passata civiltà greco-romana, il cristianesimo non arriverà a trasformare la dipendenza personale del servaggio in dipendenza contrattuale del lavoro salariato. Un processo, quest’ultimo, iniziato in Italia, con la formazione dei Comuni borghesi e sviluppatosi enormemente con la Riforma protestante, specie nella variante calvinistica. Criticando il cattolicesimo borghese del papato, la Riforma sembrava voler riprendere la severità del cristianesimo primitivo; invece estese soltanto la corruzione a tutta la società civile, facendo di ogni credente il pontefice di se stesso.

Tutte queste cose: schiavismo/paganesimo, servaggio/ortodossia-cattolicesimo, capitalismo/protestantesimo vanno superate con una forma di socialismo democratico e ateistico (umano-naturalistico), che riprenda lo stile di vita del comunismo primitivo, l’unico in cui vigeva l’uguaglianza sociale e quindi quella di genere. Questo per dire che non potremo ereditare nulla di significativo né dallo schiavismo pagano, né dal servaggio cristiano, né dal capitalismo borghese, e neppure dal socialismo statale (di matrice russa) o mercantilistico (di matrice cinese).

Nota

1 Oggi non usiamo più il termine “esclusiva” ma “prioritaria”, in quanto ci vantiamo di poter costruire artificialmente ciò di cui abbiamo bisogno.

www.socialismo.info

Socialismo, Democrazia, Laicità e Religione

Premessa

Uno dei grandi meriti da riconoscere al principio della coesistenza pacifica è che dà tutto il tempo che si vuole per riflettere sulle proprie posizioni. Nella vita infatti si possono compiere molti errori, alcuni purtroppo fatali, ma il dramma più vero è quello di non volerli riconoscere. Quando non vogliamo ammettere l’evidenza è perché siamo influenzati, o meglio, ci lasciamo influenzare negativamente dalle circostanze: sicché diciamo e facciamo cose che in situazioni diverse non diremmo e non faremmo mai.

Probabilmente quando esistono situazioni favorevoli al socialismo e alla democrazia, diventa più facile ripensare i propri criteri interpretativi, i propri stili di vita. Bisogna però impegnarsi nel far sì che il cambiamento sia possibile nel momento stesso in cui si pongono le condizioni che lo rendono tale. Non c’è un prima da superare e un dopo da realizzare, ma un cammino da percorrere, qui ed ora.

Ateismo e religione: conflitto o pacifica convivenza?

Generalmente il cristianesimo si considera come una concezione del mondo contrapposta a quella del socialismo, assolutamente alternativa e incompatibile con i princìpi materialistico-dialettici del marxismo e del leninismo. Non foss’altro che per una ragione: il socialismo crede anzitutto nell’uomo, mentre il cristianesimo crede anzitutto in Dio.

Ora, è noto che questa tesi è condivisa dallo stesso marxismo. L’incompatibilità è a livello ideologico e quindi, in un certo senso, a tutti i livelli: un’intesa politica ci può essere (ad es. a favore della pace o dei diritti umani) non quando il comunismo si avvicina alla fede, ma quando il cristianesimo si avvicina alla ragione (e questo vale per tutte le religioni).

Tuttavia, un modo di procedere del genere sarebbe troppo schematico per essere vero. In effetti, se non esistesse alcuna possibilità di pacifica convivenza fra le due ideologie, non si spiega perché, quando i partiti comunisti vanno al governo, riconoscano il diritto alla religione, o per quale motivo ammettano un regime di separazione tra Chiesa e Stato. In teoria sarebbe assurdo che un governo tutelasse giuridicamente quanto gli è radicalmente ostile.

A ciò in genere i cattolici obiettano che se il comunismo tollera la Chiesa è per la forza morale di cui questa dispone, non per l’intrinseca democraticità di quello. Essi cioè considerano il comunismo come un fenomeno non solo antireligioso, ma anche antidemocratico. In sostanza, la presunta antidemocraticità non dipenderebbe, per questi cattolici, da motivazioni contingenti, praticamente risolvibili, ma dalla stessa laicità del comunismo, dal suo integrale umanesimo. È nota anche la contrapposizione che i cattolici pongono fra laicità e ideologia: il comunismo non sarebbe “laico” proprio perché “ideologico”.

I fatti però vogliono che come in politica estera i partiti comunisti sostengano la tesi della coesistenza pacifica fra Stati a diverso ordinamento sociale, così in politica interna essi ammettono che sul piano della libertà di coscienza il cittadino possa essere ateo o credente.(1) Ciò significa, in altri termini, che nella società socialista la religione, ha il diritto, tutelato dalla Costituzione, di considerarsi come una concezione diversa o distinta rispetto a quella dominante.

Oltre a ciò si può aggiungere che uno Stato socialista, se è davvero democratico, non può impedire con la forza che una confessione religiosa lo contesti pubblicamente. Lo Stato deve limitarsi a chiedere ai cittadini di discutere democraticamente i loro problemi: l’unica cosa che non può permettere è che una religione pretenda di imporsi sulle altre, cioè pretenda dei privilegi inaccettabili sul piano democratico. Concetti come “Stato della Chiesa”, “Chiesa di Stato”, “Stato confessionale”, “religione nazionale”, “religione maggioritaria”, ecc., sono storicamente superati. Se sopravvivono non è per la forza della religione, ma per la debolezza della laicità, per la sua incoerenza.

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Se oggi uno Stato viola qualche principio religioso, gli si dovrebbe fare opposizione non tanto in nome della fede (i cui valori sovrannaturali nessuno Stato laico potrebbe riconoscere), quanto piuttosto in nome della libertà di coscienza: un principio che lo Stato è tenuto a rispettare, in quanto facente parte dei diritti umani fondamentali.(2) Un cittadino-credente che volesse opporsi allo Stato, dovrebbe quindi farlo non in quanto “credente”, ma proprio in quanto “cittadino”. Oggi, in una qualunque società che si dice democratica, sarebbe assurdo disquisire sul valore dei dogmi religiosi, cioè opporre a un’idea religiosa un’altra idea religiosa. La fede cristiana ha avuto duemila anni di tempo per costruire una società democratica e non vi è riuscita: è solo con se stessa che deve prendersela. Stesso discorso – ovviamente in rapporto a tempi storici differenti – vale per tutte le altre religioni.

La particolarità del rapporto socialista fra Stato e Chiesa si esprime nell’impossibilità, da parte di quest’ultima, di fare della propria diversa ideologia un motivo per contestare politicamente quella dominante, cioè quella accettata dalla maggioranza della popolazione. Gli eventuali abusi che può compiere lo Stato vanno superati in modo laico, evitando strumentalizzazioni o atteggiamenti pretestuosi in nome della fede religiosa. La diversità quindi fra ateismo e religione, tutelata giuridicamente, non può e non deve mai trasformarsi in un conflitto ideologico o politico, tanto meno se viene sostenuto dai governi in carica o da confessioni religiose che ambiscono a politicizzarsi.

Ufficialmente o formalmente, per tutti i cittadini di uno Stato socialista dovrebbe esistere una sola ideologia, quella appunto socialista(3), poiché è questa che, impostasi per motivi storici, detiene il potere politico. Di fatto però molti cittadini, privatamente, possono avere anche un’altra ideologia, quella appunto religiosa, che, attraverso il culto, può essere manifestata anche pubblicamente.

Paradossalmente si viene a creare in un paese socialista una situazione tale per cui un cittadino può essere, a seconda dei casi e dei momenti, ateo o credente. Ci sono dei casi in cui l’ateismo è per così dire obbligatorio, come un modus vivendi acquisito per via indotta, cioè per via del regime di separazione tra Stato e Chiesa, anche se non è ovviamente obbligatorio professare l’ateismo esplicitamente, in quanto non si deve coartare la coscienza di nessuno né fare discriminazione per motivi religiosi. Si è dunque per così dire atei o, se si preferisce, laici nell’ambito delle istituzioni statali, nei pubblici uffici, nella scuola ecc.; e naturalmente ci sono dei casi in cui il cittadino può manifestare un comportamento religioso, nell’ambito che gli è proprio, secondo una precisa regolamentazione giuridica, senza che lo Stato abbia alcun diritto d’interferire.

Qui, a dir il vero, ci sono molti cattolici che sostengono che è la stessa regolamentazione giuridica a costituire un’ingerenza indebita nell’attività della Chiesa. Tuttavia lo Stato non interviene sull’attività del credente in quanto credente ma solo in quanto cittadino. La regolamentazione della libertà di coscienza non può ovviamente riguardare la coscienza, ma soltanto l’espressione della libertà, che va riconosciuta a tutti nella stessa misura.

È fuor di dubbio che, posta in questi termini, la condizione della religione subisce un mutamento significativo rispetto ai tempi delle formazioni sociali antagonistiche (schiavismo, servaggio, capitalismo). In particolare essa viene a perdere tutto il suo potere politico e tutti i suoi privilegi di casta. D’altra parte la religione per millenni non è riuscita a risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità; anzi, essa ha sempre fatto da supporto alle mire espansionistiche dello Stato politico di appartenenza.

In definitiva, più che essere un fenomeno antireligioso, il socialismo, nell’ambito dello Stato, è un fenomeno areligioso: esso cioè non perseguita le diverse confessioni religiose, ma vive secondo un’etica sociale completamente separata da qualsiasi riferimento alla religione, proprio perché deve far coesistere, in un medesimo territorio, una molteplicità di religioni. L’anti negativo subentra soltanto in quei casi in cui la religione vuole riportare indietro la storia, cioè vuole politicizzarsi o sostituirsi alla scienza, pretendendo così di porsi in alternativa all’ideologia laica dominante, accettata dalla stragrande maggioranza dei cittadini, e di riportare indietro la storia. Il socialismo spera che la religione si estingua in virtù del processo di maturazione delle masse popolari e lascia ch’esse si confrontino liberamente a livello sociale e culturale.

È stata la storia a decidere che l’imposizione politica, attraverso organismi istituzionali, di una determinata confessione religiosa, non ha più ragione di esistere. Peraltro, là dove esiste una Chiesa di stato, non si permette alle concezioni religiose diverse da quella dominante, di poter avere una rilevanza pubblica, sociologicamente significativa, o di poter esercitare un’opposizione politica. Non si capisce perché il socialismo, che garantisce a tutti i cittadini una libertà di coscienza e che considera tutte le religioni uguali di fronte allo Stato, aventi la facoltà di manifestare pubblicamente il proprio culto e le proprie convinzioni, debba essere considerato antidemocratico.

Cristiano e/o socialista?

Dire che chi vuole essere un “cristiano coerente” non può essere un “comunista coerente”, significa dare al cristianesimo una valenza e un contenuto politici.

Il cristianesimo petro-paolino non nacque per opporsi allo Stato romano, ma per convivere pacificamente al suo interno. L’unica cosa che non riconosceva era la divinizzazione dell’imperatore, ch’era un modo, da parte dello Stato, d’imporre una propria ideologia a tutti i cittadini. Ufficialmente il cristianesimo divenne una religione di Stato soltanto sotto l’imperatore Teodosio. E da allora ha sempre preteso di esserlo, almeno sino a quando sono scoppiate le rivoluzioni borghesi. Le quali, avendo affermato una concezione laica della vita, hanno imposto al cristianesimo di tornare ad essere quello che era prima di Teodosio: una semplice scommessa sull’incapacità umana di costruire una vera democrazia.

Tuttavia la storia ha dimostrato che, ogniqualvolta le società laiche, borghesi o proletarie che siano, falliscono i loro obiettivi politici, è facile che ne approfittino le varie concezioni religiose presenti in tutto il mondo (p.es. in Iran l’ha fatto l’islam sciita di Khomeini dopo la fine della shah Reza Pahlavi; in Afghanistan andarono al potere i talebani dopo la crisi del governo di Najibullah; in Egitto ci provarono i Fratelli Musulmani dopo la fine del governo di Mubarak. Nel mondo di lingua araba l’islam sembra essere diventato il linguaggio delle opposizioni politiche ai regimi filo-occidentali).

Lenin si rendeva conto di quanto fossero inconciliabili i princìpi del comunismo con quelli del cristianesimo; pur tuttavia si preoccupava di precisare che non era giusto impedire a un credente di iscriversi al partito comunista per un fine rivoluzionario, in quanto la suddetta inconciliabilità andava considerata come una “questione personale” del credente, ch’egli, col tempo, spontaneamente e liberamente, avrebbe dovuto risolvere. “Un’organizzazione politica – scriveva nel 1909(4) – non può sottoporre i suoi scritti a un esame sull’assenza di contrasti tra le loro opinioni e il programma del partito”. E ancora: “noi siamo assolutamente contrari a ledere in qualsiasi forma i convincimenti religiosi dei credenti; tuttavia noi li reclutiamo per educarli secondo lo spirito del nostro programma”.

Detto altrimenti, la libertà di opinione era certamente ammessa all’interno del partito bolscevico, ma “entro i limiti precisi fissati dalla libertà di associazione”. Se dunque la religione è un “affare privato” del cittadino di fronte allo Stato o per un credente che milita in un partito comunista, non può esserlo per il comunista che deve lottare “contro l’oppio del popolo, le superstizioni religiose, ecc.”. Una “lotta” che in Italia non è mai avvenuta in quanto il togliattismo voleva impedire che si sconfinasse nell’anticlericalismo.

Ora, è chiaro che se un credente non è disposto, in quanto comunista, a lottare contro il clericalismo e la superstizione, né quindi a privatizzare la propria scelta religiosa, ben difficilmente potrà continuare a svolgere un’azione politica all’interno di un partito del genere. La sua stessa Confessione religiosa gli farà capire, con la minaccia della scomunica, che un qualunque catto-comunismo è un controsenso. In effetti, il cristianesimo integralistico, volendo assumere il principio marxista della prassi in funzione anticomunista, si pone inevitabilmente in antagonismo con la realtà del socialismo e farà di tutto per abbattere i governi in carica: o in maniera diretta, mobilitando il clero, o indiretta, servendo dei politici laici.

Sappiamo tutti che il liberismo e il socialismo sono nati in Europa in conseguenza del fallimento del cristianesimo sul piano sociale. Già la filosofia borghese aveva dimostrato quanto fosse invivibile la teologia cristiana. È sufficiente questo per sostenere che al cristianesimo non può essere data, dopo duemila anni di storia, una nuova possibilità per imporsi come “religione di stato”. Sarebbe un processo del tutto antistorico tornare a una situazione precedente alla formazione e allo sviluppo della laicità, quanto meno nell’ambito del capitalismo e del socialismo. Peraltro oggi la presenza dei flussi migratori a livello mondiale obbliga i cittadini ad appartenere a Stati pluriconfessionali.

Essendo considerato dagli integralisti(5) un “cristianesimo senza Dio”, il socialismo è destinato a inverarsi nel suo contrario, in una forma di antiumanesimo, non riguardante solo gli aspetti etici e politici, ma anche quelli socio-economici. Di qui la rivalsa politica del suddetto cristianesimo, il quale appunto presume di svilupparsi sugli insuccessi del processo di socialistizzazione avviato a partire dalla rivoluzione d’Ottobre e che già presentava delle significative anticipazioni nella Comune di Parigi e in tutto il socialismo utopistico. Questa pretesa politicizzazione della fede la si è vista chiaramente in Polonia al tempo del sindacato Solidarność e durante il pontificato di Woytjla.

Il cattolicesimo polacco di matrice integristica cercò di porsi come compito quello di sostituirsi (ovviamente con l’appoggio delle forze reazionarie del capitalismo mondiale) a un socialismo statale ritenuto fallimentare. E, a tal fine, esso mirava a costituirsi come una società “dal volto umano” (negli interessi, nel linguaggio, negli scopi finali), una società che, nonostante la sua marcata religiosità, si sforzava di aprirsi a tutte le istanze di autentica umanità. Poi si è visto com’è andata a finire. Non esiste una “terza via religiosa” tra capitalismo e socialismo. Il cattolicesimo sociale non è in grado di garantire una vera democratizzazione del capitalismo. Come non sono in grado di farlo i fondamentalisti islamici andati al potere (o che hanno tentato di farlo) in varie parti del mondo, a partire dalla fine degli anni Settanta. L’unica alternativa possibile a un socialismo autoritario o burocratico è un socialismo democratico.

I cattolici integralisti della Polonia avevano pensato di poter recuperare lo spirito originario del cristianesimo primitivo, ed erano addirittura arrivati a ringraziare il socialismo statale del loro paese di aver “depurato” la spiritualità cristiana, obbligandola a una rigorosa separazione dalle questioni del potere politico, dai compromessi con le classi aristocratiche e borghesi. E si erano altresì illusi di poter recuperare la “dimensione eroica” che il cristianesimo aveva avuto al tempo delle persecuzioni romane, e di poter costruire con quell’eroismo una nuova società.

Oggi di questa illusione non esiste più nulla. Si è rinunciato al socialismo statale per affermare il capitalismo privato. Al massimo si sponsorizza un capitalismo monopolistico statale. Tutte le contrapposizioni ideologiche tra cristianesimo e socialismo sono servite soltanto per favorire un sistema sociale che del cristianesimo non sa che farsene o che lo usa soltanto in funzione anticomunista. Lo stesso cristianesimo moderno, col fatto di preferire, in ogni caso, il peggior capitalismo al miglior socialismo, ha perduto ogni residua credibilità. Sotto questo aspetto il cattolicesimo integralistico non è molto diverso dal sionismo religioso-nazionalistico, che appoggia tutti i governi di destra d’Israele, o dai buddisti radicali che nello Sri Lanka, non sopportando la minoranza islamica, chiedono che la nazione adotti il buddismo come religione di stato.

Contraddizioni soggettive e oggettive

Il cristianesimo integralistico è convinto che il marxismo divida la società in borghesi e proletari come se fossero due categorie etiche: il male e il bene. Lo dice come se questa caratteristica non sia stata invece un patrimonio culturale tipico del cristianesimo, cattolico o protestante che sia. Quante volte, proprio in nome della separazione tra eretici e ortodossi, tra cristiani e pagani, tra credenti e non credenti o tra cristiani e infedeli non sono stati compiuti grandi atti d’intolleranza politica e ideologica?

Ci sono due cose che del marxismo questo tipo di cristianesimo non ha capito o non vuole capire. La prima è che nella separazione di borghesi e proletari il socialismo non pretende tanto di dare un giudizio sul comportamento “soggettivo” di tali classi o degli individui ad esse appartenenti, quanto piuttosto sul ruolo “oggettivo” ch’esse ricoprono nell’ambito della società capitalistica. E, oggettivamente parlando, cioè a prescindere dalle intenzioni meramente soggettive che può avere, la borghesia si trova in una posizione socialmente ed economicamente antidemocratica, essendo materialmente detentrice, in via esclusiva, dei mezzi di produzione. Il che la rende, al di là di qualunque considerazione in merito, fautrice di oppressione materiale e spirituale.

La seconda cosa è che il marxismo non considera il proletariato come una classe in sé perfetta, esente da errori. È vero anzi il contrario: se dalla rivoluzione industriale ad oggi la borghesia monopolistica ha potuto continuare a svolgere, in Europa occidentale, la sua oppressione morale e materiale, ciò è unicamente dipeso dalla debolezza del proletariato e dei suoi dirigenti. Infatti, se il proletariato è oggettivamente la classe oppressa (a prescindere dalle intenzioni umanitarie che la borghesia può avere), lo stesso proletariato può soggettivamente sbagliare, indipendentemente dalla sua condizione di oppressione o di emancipazione dallo sfruttamento.

La verità dei fatti non è una cosa autoevidente, né è possibile acquisirla una volta per tutte; non è indipendente dalla libertà di scelta, dalla volontà personale di riconoscerla. Gli stessi credenti dovrebbero sapere che non è una grazia che concede il Padreterno a sua completa discrezione.

Ecco, in tal senso, non è affatto vero che il marxismo divida la società in “buoni e cattivi”. Tuttavia, una cosa è dire che il proletariato può sbagliare e che, per tale ragione non ha il diritto di emanciparsi totalmente dalla borghesia; un’altra è dire che gli errori soggettivi non intaccano la tesi che la rivoluzione è necessaria.

Filosofia del lavoro o Weltanschauung?

Un’altra tesi inaccettabile nelle riflessioni del cristianesimo integralista è quella che considera il marxismo come una semplice, ancorché significativa, “filosofia del lavoro”. Tale modo di vedere le cose è alquanto riduttivo. Parlare di “filosofia del lavoro” è come parlare di “metafisica del lavoro” o, nel migliore dei casi, di “sociologia del lavoro”.

Lo sfruttamento del lavoro è sì il problema centrale del pensiero marxista, ma solo fino a quando il partito non ha conquistato il potere e i mezzi di produzione non sono stati socializzati. A partire da quel momento lo sfruttamento perde la sua caratteristica oggettiva dominante. Determinati abusi e corruzioni potranno anche permanere o riprodursi nel periodo della transizione verso il socialismo democratico e autogestito, ma non per questo si renderà necessaria una nuova rivoluzione politica. Le rivoluzioni politiche, sempre molto dolorose, hanno senso solo in presenza di un antagonismo irriducibile di classe: quando questo antagonismo sarà definitivamente risolto, non ci sarà più né alcuna rivoluzione né alcuna politica.

Rebus sic stantibus, è impossibile ridurre il marxismo a una mera “filosofia del lavoro”. Esso in realtà è una vera e propria Weltanschauung, cioè un’ideologia integrale e totalizzante, concernente non solo gli aspetti materiali della produzione, ma anche quelli soggettivi della morale personale: è un’ideologia in fase di continua evoluzione e arricchimento creativo, conformemente ai princìpi essenziali elaborati dai suoi fondatori. Il materialismo storico-dialettico è più di un semplice strumento per l’emancipazione delle masse, è una concezione di vita. Non si può ridurre il marxismo a un economicismo, senza riconoscergli anche il suo valore etico e filosofico specifico.

Il cristianesimo integralistico fa questo ragionamento sbagliato: siccome il marxismo parla solo di “materia” e non anche di “spirito”, non può affrontare il problema dello sfruttamento meglio del cristianesimo. La realtà, ancora una volta, è un’altra. Il grande contributo del marxismo sta anche nell’aver saputo rivalutare “spiritualmente” la materia, nell’averle conferito “dignità ontologica”, dopo secoli e secoli di degradazione morale cui l’avevano costretta lo spiritualismo platonico e quello cristiano (come d’altra parte lo stesso Nietzsche aveva detto, pur essendo lontanissimo dal socialismo).

Il marxismo è l’erede legittimo di tutte le concezioni antiidealistiche e antimetafisiche della materia. E in ogni caso lo sfruttamento economico non lo si può risolvere in chiave etica. La separazione tra capitale e lavoro è basata su una contrapposizione oggettiva, su una forma irriducibile di antagonismo sociale, e chi non capisce questo, si pone, oggettivamente, dalla parte degli sfruttatori, anche quando dice di voler compiere un’opera di mediazione.

Sfruttamento economico e morale

Forse la critica più severa che il cristianesimo integralista ha potuto muovere al socialismo statale, ha riguardato lo sfruttamento del plusvalore. Tuttavia è stata una critica che tale cristianesimo ha mutuato completamente dalla socialdemocrazia borghese, e non riguardava, ovviamente, le questioni etiche vere e proprie, anche se tale cristianesimo l’ha sfruttata dicendo che nel socialismo statale esiste un’appropriazione indebita del plusvalore da parte dello Stato, in quanto l’ideologia socialista, essendo per definizione atea, non ha dei veri presupposti morali ed è quindi portata a vedere l’uomo come un semplice strumento economico. La critica in sostanza consiste in questo: nell’ambito del socialismo è lo Stato che si appropria del plusvalore dei lavoratori, per cui esso svolge le funzioni del capitalista classico. Quindi il socialismo statale non sarebbe altro che un capitalismo senza capitalisti.

In questa argomentazione due cose vanno preliminarmente contestate: anzitutto in un sistema economico socialista non può esistere un plusvalore di tipo capitalistico, né privato né statale, quindi è improprio parlare di “sfruttamento economico” (il plusvalore – si sa – è lavoro non pagato); in secondo luogo, essendo stata abolita la proprietà privata dei mezzi produttivi e garantita la distribuzione dei beni prodotti secondo il lavoro e tendenzialmente secondo il bisogno, in teoria non dovrebbe esistere uno Stato contrapposto al popolo lavoratore.

Non si può insomma parlare di “sfruttamento” quando non esiste né rendita fondiaria né profitto capitalistico, quando il lavoro è garantito di fatto a tutti i cittadini, quando con i “fondi sociali di consumo” lo Stato copre i tre quarti delle esigenze dei lavoratori, quando i prezzi sono controllati e tutto o quasi tutto è razionalmente pianificato. Non si può paragonare l’attività regolamentatrice dello Stato socialista con l’esigenza del capitalismo di ottenere il massimo profitto dai propri investimenti, a prezzo di uno sfruttamento disumano dei lavoratori.

Se il cosiddetto “socialismo reale” fosse stato una sorta di “capitalismo di stato”, avrebbe tollerato un qualsivoglia uso della proprietà privata, come appunto avviene nei paesi ove esiste un capitalismo monopolistico di stato.(6) Invece è fallito proprio perché non permetteva l’evoluzione verso un socialismo autogestito e cooperativistico, in cui il ruolo dello Stato, fatta salva la proprietà sociale dei mezzi produttivi, si riduce in maniera progressiva.

Il fatto è che il cristianesimo integralistico vuole porre un irriducibile contrasto fra lo Stato socialista e i cittadini lavoratori. P.es. una delle sue affermazioni ricorrenti è la seguente: il salario della stragrande maggioranza degli operai è sufficiente soltanto a soddisfare i bisogni elementari. Sembra non si voglia sapere quanto sia difficile per un operaio di media categoria vivere in un sistema capitalistico, ovvero di quali incertezze e di quanta precarietà sia costituita la vita quotidiana in Occidente.

La filosofia di vita di tale cristianesimo porta in sostanza ad accettare l’idea che sia sempre meglio avere una ricca aristocrazia operaia all’interno di un proletariato affamato, piuttosto che una classe operaia complessivamente garantita a un livello accettabile di sussistenza.

Certamente con questo non si vuol dire che in un paese socialista non sia possibile realizzare un benessere generalizzato. Si vuol soltanto dire che questo benessere non può essere raggiunto senza tener conto dello stato reale delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Le forze complessive di tutti i lavoratori dovrebbero procedere, affinché si realizzi un progresso equilibrato, in maniera regolare e uniforme.

Il cristianesimo integralistico dovrebbe in realtà porsi altre domande. P. es. questa: se il socialismo statale dei paesi est-europei avesse potuto beneficiare dello sfruttamento neocoloniale del terzo mondo, sarebbe crollato lo stesso? Detto altrimenti: che cosa succederebbe al capitalismo se non potesse più beneficiare di tale sfruttamento? E per quale ragione in Occidente i poteri dominanti non amano far sapere all’opinione pubblica da dove proviene tutto il benessere economico dei loro paesi?

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che il socialismo statale non avesse bisogno d’essere riformato in profondità. Di sicuro però l’introduzione del capitalismo di stato o addirittura privato non può costituire la soluzione ai problemi riscontrati. Il socialismo statale aveva il difetto di essere amministrato esclusivamente dall’alto, cioè dagli organi istituzionali dello Stato, per cui tendeva a disincentivare la produttività, ovvero a burocratizzare le decisioni e il modo di applicarle. Si faceva coincidere la proprietà sociale con la proprietà statale, senza porre in essere il progressivo smantellamento dello Stato e la valorizzazione delle autonomie locali.

Uno Stato burocratico o un socialismo da caserma non ha fiducia nei propri cittadini, diventa per forza di cose “paternalistico”, cioè autoritario e ideologico. L’alternativa a uno Stato del genere era una società che progressivamente si autogestisce, che sviluppa la cooperazione multilaterale, che si autofinanzia, gestendo in proprio i redditi da lavoro, insomma che decide autonomamente cosa produrre e come ripartire i risultati del proprio lavoro, affrontando i problemi del calcolo economico. Con la perestrojka di Gorbaciov si era iniziato a procedere in questa direzione, ma poi gli eventi ne presero una del tutto opposta. I cittadini, ad un certo punto, pensarono soltanto a distruggere l’autoritarismo, senza essere capaci di sostituirlo con una vera democrazia sociale.

L’esempio del padrone e del servo

Sono note a tutti le riflessioni filosofiche di Hegel sul rapporto sociale fra “padrone e servo”. A modo di vedere dell’idealista tedesco la contraddizione esistente fra queste due categorie sociali può essere risolta solo a condizione che il servo non la voglia assolutizzare. Ossia, come per il padrone la contraddizione del rapporto ha un carattere relativo, in quanto egli sa bene che il suo status sociale dipende dal lavoro del servo, così anche quest’ultimo deve maturare, pur nel rapporto di dipendenza oggettiva, la consapevolezza di una libertà interiore. In caso contrario la mediazione, che è poi una sorta di “pacifica convivenza”, sarebbe impossibile.

Hegel voleva forse fare l’apologia dello schiavismo o del servaggio? In un certo sì, e in un altro no. Per lui il rapporto padrone / servo non andava considerato storicamente ma in maniera naturale: ciò significa che se il servo si ribella al padrone, diventerà, a sua volta, inevitabilmente, un padrone di altri servi, e così all’infinito, proprio perché qui si ha a che fare con dei processi naturali, che vanno al di là dell’evoluzione storica. Infatti la mediazione, in tal caso, è possibile solo se il suddetto rapporto viene riconosciuto come un dato di fatto imprescindibile della vita di ogni essere umano, di qualunque epoca storica, come un aspetto non contraddittorio in maniera assoluta.

Per Hegel la contraddizione, quella vera, non sta tanto nel rapporto in sé tra padrone e servo, quanto piuttosto nella coscienza soggettiva che avverte quel rapporto in maniera alienante. La soluzione (ed è una soluzione che deve ricercare soprattutto il servo, poiché, in un certo senso, egli si deve trasformare in una sorta di “filosofo stoico”) sta nel considerare la schiavitù o il servaggio non come un fatto estrinseco alla persona, cioè oggettivo, ma come un fatto intrinseco, cioè eminentemente soggettivo. Siamo tutti schiavi di qualcosa o di qualcuno. Sotto questo aspetto neppure il padrone può considerarsi libero. Anzi, considerando che il servo è in grado di acquisire la propria libertà interiore in virtù del fatto che il suo lavoro gli offre una dignità personale, il padrone, che vive senza lavorare, è ancora più schiavo.

La schiavitù, in sostanza, non è qualcosa di “economico” ma di “morale”, come ad es. l’incapacità di essere se stessi o di accettare la propria condizione naturale o sociale. Ovviamente il padrone, secondo Hegel, dovrà far di tutto perché il servo si senta favorevolmente indotto ad accettare la propria condizione. La libertà, per l’idealismo, è qualcosa che appartiene allo “spirito” o al pensiero dell’uomo, ed è qualcosa che l’uomo può raggiungere a prescindere da qualsiasi circostanza a lui esterna, da qualsiasi impedimento naturale o sociale. Come si può facilmente notare, l’idealismo hegeliano non faceva che tradurre in chiave filosofica dei concetti chiaramente teologici, restando nell’ambito del cristianesimo.

Quanto questa concezione di vita sia pericolosa e reazionaria è evidente, soprattutto al giorno d’oggi. Praticamente Hegel, circoscrivendo nella sfera privata della coscienza il problema dell’emancipazione umana (che a quel tempo andava risolto conformemente alla volontà dello Stato confessionale prussiano), giustificava, sul piano pubblico, quell’ordine di cose che impediva all’uomo di emanciparsi anche sul piano sociale. Col pretesto che l’essere umano è tendenzialmente incline al male, egli in sostanza permetteva al più forte di prevalere sul più debole e impediva a quest’ultimo di reagire. Col principio che la libertà interiore può essere vissuta adeguatamente in qualsiasi situazione sociale ed economica, egli in definitiva legittimava quelle situazioni in cui lo sviluppo delle libertà sociali è sfavorito più che altrove. Hegel ragionava in maniera aristocratica e, per questa ragione, è considerato un filosofo conservatore, pur in contrasto con la sua avanzata dialettica degli opposti.

L’odierno cristianesimo integralistico fa lo stesso ragionamento, con la differenza che lo dirige contro il socialismo, cioè praticamente considera la soggettività del proletariato alla stessa stregua di quella della borghesia, arrivando tranquillamente a dire che il proletariato tende a prendere il posto dei capitalisti, per cui la rivoluzione comunista, come ogni altra rivoluzione, è inutile: sarebbe una rivoluzione delle “forme”, non della “sostanza”. Questo perché l’uomo non ha alcuna possibilità di tornare alla situazione precedente al cosiddetto “peccato originale”.

Ma allora perché – ci chiediamo – questi cattolici integralisti, così rassegnati sulle capacità umane di liberazione, vogliono ribellarsi allo stato di cose creato dal socialismo? Quali garanzie offrono che dalla loro rivoluzione cristiana non nascerà un nuovo “padrone”? O forse tutta la loro insofferenza nei confronti del socialismo dipende dal fatto che, per realizzare la propria rivoluzione, i comunisti non hanno chiesto la loro autorizzazione?

È possibile compiere una rivoluzione in nome del cristianesimo? Non poche volte, nell’ambito di questa confessione, si sono usati i vangeli per criticare le ricchezze dei poteri dominanti (ivi inclusi quelli ecclesiastici), ma la reazione è sempre stata quella di una dura repressione. Il cristianesimo al potere non ama essere messo in discussione da nessun’altra forza politica. Se di una cosa il socialismo statale meritava d’essere criticato, era proprio quella d’essersi comportato come il cristianesimo istituzionalizzato del periodo medievale.

La politicità della fede e il fondamentalismo monoteistico

La limitata concezione ideologica del cristianesimo integralistico dipende dall’aver assunto un punto di vista obiettivamente errato: quello di non voler considerare il socialismo superiore al capitalismo sul piano dei diritti sociali.

Il capitalismo è il trionfo dell’individualismo, è nato contrapponendosi alle esigenze delle comunità di villaggio, e ha vinto la sua partita contro il feudalesimo proprio perché sembrava garantire maggiore libertà e benessere.

Ma il capitalismo garantisce il benessere soltanto a chi è proprietario di capitali, o comunque a chi, per ottenerli, non ha scrupoli morali. Anche quando si parla di “capitalismo statale”, non si mette mai in discussione il principio della proprietà privata dei mezzi produttivi, e quindi il diritto di sfruttare il lavoro altrui. Generalmente le istituzioni servono al capitale perché questo possa riprodursi più facilmente. Non riconoscere queste cose significa porsi fuori della storia, cioè mettersi esplicitamente dalla parte del capitale, anche se sul piano etico si predica la “condivisione del bisogno” o l’amore universale.

Pertanto, quando il socialismo dice che la religione deve restare una faccenda privata della persona, lo dice proprio in relazione al fatto che nessuna religione ha in sé degli elementi che possono permettere di superare i limiti fondamentali del capitalismo. Non foss’altro che per una ragione: o le religioni rimandano alla fine dei tempi la liberazione integrale dell’uomo o racchiudono quest’ultima in una dimensione individuale o di piccole comunità isolate, che non partecipano alla vita urbana. Quando le religioni pretendono di istituzionalizzarsi, diventando delle “Chiese statali o nazionali”, inevitabilmente restano soggette, al giorno d’oggi, alle dinamiche internazionali del capitalismo (basta vedere, p.es., l’ebraismo in Israele o l’islam nei Paesi del Medio oriente o il cattolicesimo in Polonia o nei Paesi le cui lingue provengono dal latino). Perché tale istituzionalizzazione sia scongiurata, occorre uno Stato autenticamente laico e democratico, cosa che è possibile solo nel socialismo, poiché qui si pongono le basi per il superamento dello stesso Stato.

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Di tutte le religioni quelle che meno sopportano d’essere relegate nell’ambito della coscienza o del culto sono ovviamente quelle monoteistiche. Chi crede in un unico Dio, che esclude l’esistenza di altri Dèi, è inevitabilmente intollerante.

Va detto tuttavia che le religioni monoteistiche pretendevano, al loro sorgere, di superare quelle politeistiche proprio nell’atteggiamento che queste avevano nei confronti delle istituzioni di potere: un atteggiamento rassegnato, che accettava supinamente le differenze di ceto e di classe, nonché l’immoralità dei ceti dominanti e il culto per l’imperatore.

Le religioni politeistiche erano politicamente disimpegnate, prone ai voleri degli Stati, prive di una dimensione universalistica. Viceversa, quelle monoteistiche pretendevano, almeno ai loro esordi o nelle loro intenzioni, di costruire delle nuove società, basate su valori più umani e democratici.

Il fatto però che tutte le religioni monoteistiche abbiano fallito i loro obiettivi, la dice lunga sul valore della religione in sé. È stato proprio il capitalismo a far capire all’umanità che una religione vale l’altra, ovvero che nessuna fede è in grado di opporsi alla rendita dei proprietari terrieri, alle esigenze del profitto, alla continua espansione del capitale, alle necessità dei mercati, allo sviluppo dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, alla finanziarizzazione dei mercati, e così via.

Il socialismo non ha fatto altro che ereditare la convinzione secondo cui la religione ha senso nella misura in cui resta un affare privato della coscienza. Per tale ragione esso ha preferito rivolgere la sua critica al capitalismo, prendendo in esame le questioni socio-economiche. Qualunque religione pretenda oggi di dare alla fede una valenza politica, fa sempre, in qualche modo, gli interessi del capitale, anche quando presume di porsi come “terza via” tra capitalismo e socialismo.

Con questo naturalmente non si vuol sostenere che la fede non abbia diritto a professarsi pubblicamente o che la religione non debba avere una propria “dottrina sociale” o che non debba esistere una “educazione o istruzione religiosa”. Si vuol semplicemente dire che le istituzioni debbono essere laiche, cioè non devono “parteggiare” per nessuna religione, né possono permettere che per motivi religiosi venga minacciato l’ordine pubblico o messa in discussione la validità di leggi promulgate da un parlamento regolarmente eletto. Alla violazione di un diritto si risponde con un altro diritto.

Può un esponente del clero partecipare alla vita politica? Sì, ma dovrebbe farlo in quanto cittadino laico. Se pretende di farlo sostenendo la propria religione contro altre religioni o contro l’idea stessa di laicità, apparirà sicuramente, agli occhi di un laico, come un fanatico, uno che rischia di minacciare l’ordine pubblico, o persino di incitare all’odio o alla violenza. In ogni caso anche se vi partecipasse in una maniera così aggressiva, lo Stato dovrebbe assicurare a tutte le confessioni religiose un trattamento equipollente, a prescindere dalla loro rilevanza pubblica o sociologica. Tutte dovrebbero avere il medesimo diritto di parola, nelle medesime forme.(7)

D’altra parte lo Stato non può negare dei pubblici dibattiti in cui una confessione religiosa dichiari d’essere migliore di altre confessioni. I cittadini van lasciati liberi di decidere. L’unica cosa che lo Stato può fare è di impedire che una determinata confessione risulti privilegiata rispetto ad altre, ovvero ch’essa sfrutti la propria rilevanza sociale o nazionale, dovuta a motivazioni storiche, in un’occasione di discriminazione per le minoranze religiose.

Per il resto dovrebbero essere gli stessi credenti a capire, autonomamente, che il pieno rispetto della libertà di religione viene garantito quando si tutela la libertà di coscienza. Non si può impedire a un credente di fare proselitismo o di organizzare eventi per diffondere la propria fede, ma non gli si può permettere di utilizzare le istituzioni statali, che appartengono a tutti, per favorire la propria religione.

Ecco perché, p.es., una qualunque scuola privata non può essere finanziata con denaro pubblico. Se lo Stato decidesse, per ragioni contingenti (p.es. la scarsità di mezzi finanziari), di sostenere materialmente tutte le scuole private dei credenti (che ovviamente resterebbero di tendenza, cioè ideologiche), dovrebbe farlo con le tasse dei relativi cittadini credenti, anche se esse verrebbero sottratte, in tale maniera, all’edificazione di opere pubbliche comuni alla collettività. Questa però è una situazione anomala, che col tempo va superata.

Se le Chiese vanno tenute separate dallo Stato, per impedire privilegi di qualsivoglia natura, lo Stato deve necessariamente garantire un’educazione e un’istruzione improntata al laicismo, lasciando ovviamente alle Chiese il diritto di agire, in forma privata, secondo criteri propri, soggetti ad autofinanziamento. Lo Stato, da parte sua, deve garantire tutti i servizi pubblici, tra cui quello relativo all’educazione ai valori civili e all’istruzione. Non ha alcun senso che i servizi garantiti da una confessione religiosa vengano finanziati con le tasse dei cittadini aderenti ad altre confessioni o del tutto privi di riferimenti confessionali.

Etica e politica fra religione e ateismo

Da quando s’è imposto il capitalismo, le Chiese, se proprio vogliono continuare a dare un contenuto politico alla loro fede, possono farlo solo in maniera indiretta, cioè in chiave etica, opponendosi ai princìpi e ai valori professati dagli Stati laici. Le stesse Chiese tendono a dire di non voler fare politica direttamente, per quanto non abbiano scrupoli a servirsi, attraverso canali privati, dell’appoggio di fidati parlamentari.

P.es. uno Stato può essere favorevole a una legislazione che permetta di divorziare o di abortire, mentre una Chiesa è contraria. Può lo Stato impedire alla Chiesa di esprimere una propria opinione su un argomento di natura etica? No, non può. Se lo facesse, creerebbe una situazione pericolosa per l’ordine pubblico. Lo Stato deve soltanto garantire che, quando sono in gioco argomenti così “sensibili”, i cittadini possono e anzi debbono confrontarsi liberamente, lasciando che la decisione ultima in materia venga presa dal parlamento, che si presume regolarmente eletto.

La domanda però che, a questo punto, inevitabilmente si pone è la seguente, che qui vogliamo formulare in varie maniere: posto che una legge sia contraria ai princìpi di un credente, si può accettare che questi non la applichi? Può un credente, in nome della propria fede, impedire che un altro credente o non credente possa esercitare i diritti riconosciuti dallo Stato? Può un credente, quando esercita come cittadino una funzione pubblica nell’ambito delle istituzioni statali, appellarsi all’obiezione di coscienza e non applicare una determinata legge? Più in particolare, può un medico cattolico rifiutarsi di praticare l’aborto o di prescrivere al paziente degli anticoncezionali? O un sindaco credente rifiutarsi di sposare una coppia omosessuale? O un carceriere contrario alla pena di morte rifiutarsi di eseguirla? Sono tante le situazioni in cui si verifica una contraddizione inconciliabile tra la legge e la propria coscienza. Ai tempi di Don Milani si parlava di obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare: oggi tale problema è stato risolto rendendo il servizio del tutto facoltativo. Ma la soluzione migliore sarebbe stata un’altra: fare in modo che tutti i cittadini, di tanto in tanto, vengano esercitati a difendere il loro territorio locale.

La libertà di coscienza è una delle cose più preziose che lo Stato deve tutelare, ma non può farlo violando la volontà della maggioranza dei cittadini che, attraverso i propri rappresentanti parlamentari, liberamente eletti, si è espressa in una determinata direzione. A volte accade che, per non sentirsi costretto a prendere provvedimenti, obbligando gli obiettori di coscienza a cambiare mestiere, lo Stato, sul piano amministrativo, concede delle deroghe, cioè fa delle eccezioni. Ma in questi casi deve comunque appurare che il diritto, sancito per legge, non venga violato, onde evitare una qualsivoglia minaccia all’ordine pubblico o un inaccettabile disservizio.

Lo Stato non può permettersi il lusso d’essere denunciato perché non ha applicato o fatto applicare una legge votata in parlamento. L’unica scappatoia a una situazione così anomala è quella di responsabilizzare i propri funzionari affinché controllino che, nonostante la possibilità dell’obiezione di coscienza, la legge viene comunque rispettata. In altre parole, se p.es. un medico rifiuta di praticare un aborto, deve comunque esserci, in tempo reale, un altro medico in grado di sostituirlo. È responsabilità del dirigente assicurare tale alternativa, e dovrebbe pagare di persona nel caso in cui essa non si verifichi puntualmente. Se si accetta l’idea che la volontà della minoranza prevalga su quella della maggioranza, la democrazia è impossibile. Si possono tollerare le eccezioni, ma non a scapito della regola.

Laicità e democrazia

Vi sono al mondo delle nazioni in cui etica e religione coincidono, o quasi. Vi sono paesi in cui in parlamento siedono dei deputati appartenenti al clero. Addirittura in alcuni paesi il governo e i ministeri sono gestiti da membri del clero. È ovvio che in situazioni del genere la laicità è ancora un diritto da conquistare, e non potrà certo esserlo con la forza.

La laicità può diventare un valore significativo, destinato a durare nel tempo, solo usando la democrazia. Ed è usandola che la società civile e quindi lo Stato possono mettere le confessioni religiose in condizioni di dimostrare la propria antidemocraticità.

Di per sé la religione non può essere considerata più antidemocratica dell’etica laica, ma lo diventa subito se non accetta l’idea che, sulle questioni religiose, la si può pensare diversamente. Non si dovrebbe esser mai perseguiti per le proprie opinioni di coscienza. La libertà di pensiero e di parola dovrebbe essere riconosciuta in tutte le Costituzioni del mondo.

È ovvio che un determinato partito politico o una confessione religiosa non possono tollerare forme di dissenso interno che ne minaccino la stabilità. È possibile discutere quanto si vuole su taluni argomenti, ma poi vanno prese delle decisioni e, se si vuole che la democrazia continui a funzionare, occorre che la minoranza si adegui alla volontà della maggioranza (salvo che si ritorni sullo stesso argomento in un momento successivo, con nuove idee da discutere). Con questo non si vuole affermare che la “verità” sta sempre nella maggioranza, ma semplicemente che non si può “discutere” all’infinito, meno che mai quando si hanno delle decisioni politiche da prendere. Solo il tempo potrà dire se la decisione presa era stata giusta o sbagliata.

Ciò che un partito politico o una confessione religiosa non può impedire è che esistano altri partiti o altre confessioni aventi gli stessi diritti di parola e di associazione. Anche un governo in carica deve accettare l’idea ch’esista un’opposizione intenzionata a criticarlo. Questo è l’abc della democrazia.

Semmai è importante stabilire quale peso dare alle varie opposizioni al governo in carica. È evidente, infatti, che un’opposizione al 40% non può avere lo stesso peso di una che è al 4%. Il diritto di parola va concesso in misura proporzionale al numero dei cittadini che lo rivendicano. Tutti hanno il diritto di parlare, ma soprattutto quelli che sono rappresentati da forze sociali significative. I governi devono sempre porre le condizioni affinché le minoranze possano diventare maggioranze rispettando i princìpi della democrazia

Stato e Chiese possono coesistere pacificamente?

Il diritto che lo Stato concede al cittadino credente di professare pubblicamente la propria fede è implicito nel diritto a poter esercitare pubblicamente il proprio culto. Se tutti i culti fossero vietati, lo sarebbe anche la fede. Quindi fede e culto, in un certo senso, coincidono. È infatti il culto che distingue un credente da un altro o da un non credente. E ogni culto, in uno Stato laico e democratico, è ovviamente pubblico. Tant’è che là dove talune sette religiose esercitano il proprio culto solo privatamente, lo fanno perché temono i dettami della legge o l’opinione pubblica, a meno che ovviamente lo Stato non professi ufficialmente il proprio ateismo, come accadeva nell’Albania di Enver Hoxha, il quale aveva posto fuorilegge tutte le religioni.

È ovvio che se non esistesse uno Stato laico, una confessione religiosa potrebbe non accontentarsi di manifestare la propria fede solo attraverso il culto. Potrebbe pretendere insegnanti religiosi, funzionari religiosi, giudici religiosi e così via. Vi sono religioni, soprattutto quelle monoteistiche, che pretendono di conformare tutta la vita sociale, culturale e politica ai propri valori. Dicono di volerlo fare proprio perché esigono una stretta coerenza fra la teoria e la pratica (di qui p.es. la cosiddetta “Dottrina sociale della Chiesa”). In sostanza non accettano l’idea che un credente si comporti come un semplice cittadino di fronte allo Stato, poiché ritengono che tale atteggiamento dualistico sia una forma di sdoppiamento della personalità, un venir meno ai propri obiettivi.

Si comportano così perché rifiutano l’idea che l’etica abbia dei valori equivalenti a quelli della religione. Per tali Confessioni integralistiche un’etica non influenzata dalla religione è semplicemente priva di moralità e quindi tendenzialmente disumana. Non a caso si avvalgono del detto di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, all’uomo tutto è concesso”.

È dunque impossibile per uno Stato laico avvalersi dell’appoggio delle Confessioni integralistiche. Esse faranno sempre in modo da porre le condizioni perché il governo in carica venga sostituito da uno favorevole al clericalismo politico.

Il fondamentalismo religioso, infatti, non è pericoloso soltanto quando difende la superstizione contro la scienza, ma anche quando presume di dare un contenuto direttamente politico alla propria fede. Che uno Stato laico non sia tenuto a fare distinzione tra religione e superstizione è pacifico. È tenuto però a fare distinzione tra una Confessione che, in nome della propria fede, vuole smentire le acquisizioni della scienza, e una Confessione che si limita a sostenere idee soprannaturali nell’ambito delle proprie convinzioni. Ancor più deve fare distinzione tra una Chiesa che ritiene possibile la democrazia compiuta solo nell’aldilà, e una Chiesa che vuol fare di questa idea un motivo per rovesciare un governo in carica legittimamente costituito.

Con questo non si vuole negare che, in teoria, anche lo Stato laico può rischiare di finire nella superstizione o nel dogmatismo: si pensi soltanto a quando vuole imporre alla società civile l’idea che il mercato sia fonte di libertà o che la scienza è in grado di risolvere qualunque problema o che la democrazia parlamentare va esportata in tutto il mondo o che il diritto occidentale è l’unico in grado di garantire dei valori umani universali. Sono tutti dogmi privi di alcun fondamento, regolarmente smentiti dalla storia: sono le principali fonti di tutte le nostre illusioni.(8)

Qui si vuole semplicemente sostenere che i difetti di una democrazia laica vanno superati rendendo ancora più democratica la laicità. È compito degli Stati laici dimostrare alle Confessioni religiose che sono in grado di correggere da soli i propri errori e che, in ogni caso, sanno accettare le critiche costruttive provenienti anche dagli ambienti ecclesiastici.

I cittadini, credenti o non credenti che siano, devono saper trovare in loro stessi le ragioni per superare i limiti di quelle democrazie che sono tali solo all’apparenza. La stessa definizione di “Stato laico” è indubbiamente destinata a essere inglobata in quella di “società democratica”, in quanto una società davvero democratica non ha bisogno di uno Stato che garantisca la laicità delle leggi. Se uno Stato avesse la pretesa di garantire la laicità e la democrazia a prescindere dalla società civile, ebbene, proprio in quel momento le starebbe violando.

Quand’è che uno Stato è davvero laico e democratico?

Bisogna sempre fare molta attenzione al significato delle parole. “Stato laico” non vuol dire “Stato ateo”. Per capire la differenza prendiamo in esame una questione religiosa.

Noi possiamo facilmente constatare che oggi tutte le Confessioni monoteistiche dicono di voler fare politica solo indirettamente, dedicandosi agli aspetti sociali (assistenzialismo, volontariato, ecc.) e culturali (educazione, istruzione, editoria, ecc.). Molte poi si servono, in forme private o ufficiose, della collaborazione di taluni politici eletti in parlamento. Nessuna Chiesa oggi vuole sentirsi protagonista attiva sul piano politico, salvo quelle che sul proprio territorio hanno imposto una sorta di monarchia teocratica.(9)

Ebbene, anche gli Stati laici svolgono, di fatto, un’operazione di tipo “ateistico” in maniera indiretta, servendosi appunto della loro laicità. Se lo Stato fosse esplicitamente ateo dovrebbe impedire sia il culto che la fede. Uno Stato laico invece permette entrambe le cose.

Laicità vuol dire “indifferenza” nei confronti delle religioni, nel senso che lo Stato non parteggia per nessuna in particolare, ma le considera tutte uguali. È questo un atteggiamento ateistico? Indirettamente sì (o, se si preferisce, è di tipo agnostico), ma è un atteggiamento che ha il vantaggio di non violare la libertà di coscienza di nessuno.

Gli Stati non lottano contro le religioni in sé, ma possono farlo contro quegli atteggiamenti che, in nome della fede, negano credibilità alla scienza e un valore effettivo alla laicità e all’etica democratica. Semmai si oppongono con decisione a tutte le forme di clericalismo politico. Ma non per questo sono tenuti a sostenere una “democrazia atea”.

L’ateismo può essere un patrimonio culturale di un partito politico, che lo usa per contestare il valore delle religioni, ma non può essere una convinzione imposta con la forza della legge. Ateismo o agnosticismo non possono essere trasformati in una nuova religione, se si vuole salvaguardare il significato della laicità.

Il cittadino deve esser lasciato libero di credere in quel che vuole, anche perché, nel caso in cui alcuni valori religiosi vengono violati dallo Stato, egli ha il diritto di protestare. E, di fronte allo Stato (che assicura, nei suoi diritti fondamentali, quello alla libertà di coscienza), lo farà in quanto cittadino, non avendo bisogno di farlo in quanto credente in una specifica Confessione.

In ultima istanza, ovviamente, ogni cittadino è tenuto a conformarsi alla volontà della maggioranza. In una qualunque società o comunità il valore della maggioranza è decisivo per garantire il rispetto della legge. Il che ovviamente non significa che, nell’ambito della democrazia, una minoranza non possa diventare maggioranza. Non ha senso ipostatizzare delle posizioni politiche o ideologiche.

Certo, uno Stato laico, mettendo tutte le religioni sullo stesso piano, può far credere ch’esse siano soltanto una sopravvivenza del passato, una forma di oscurantismo; e, per questa ragione, può cercare di ostacolarle (anche solo sul piano amministrativo) in vari modi. L’abbiamo visto durante le rivoluzioni borghesi e proletarie: il fatto d’avere storicamente ragione offriva il pretesto per compiere cose umanamente riprovevoli o politicamente inaccettabili. Ricordiamo tutti quando Gorbaciov diceva che se è giusto tenere separata la Chiesa dallo Stato, è insensato pensare di poterla tenere separata anche dalla società civile.

Compito dello Stato è quello di stare molto attento a non porre le condizioni che possono indurre i cittadini a disobbedire alle sue leggi, anche perché, quando avviene un meccanismo del genere, ogni occasione diventa facilmente un pretesto per rincarare la critica al sistema. Alla fine tra cittadini e istituzioni non ci si comprende più, e prima o poi i cittadini vincono: se passa l’idea che qualcuno è ingiustamente perseguitato, inevitabilmente il consenso tende ad allargarsi.

Lo Stato governa la società civile, ma questa deve essere messa in grado di non aver bisogno di alcuno Stato per autogovernarsi. Lo Stato non dovrebbe mai esercitare il potere contro la società civile. Semplicemente dovrebbe essere considerato uno strumento che la maggioranza dei cittadini si dà per far rispettare le leggi. Tuttavia, nella misura in cui la società è davvero in grado di rispettarle, avendole acquisite per abitudine, nella consapevolezza della loro necessità, lo Stato diventa inutile.

Quando si dice che lo Stato è uno strumento che si dà la maggioranza dei cittadini per far rispettare a tutti determinate leggi, bisognerebbe anche aggiungere che se lo Stato non usa la persuasione ragionata, il confronto dialettico, il rispetto dei diritti umani, prima o poi, agli occhi della pubblica opinione, la suddetta maggioranza diventa “minoranza”, sicché all’ordine del giorno torna di nuovo il problema di come abbattere le istituzioni.

In tal senso lo Stato non deve temere che una Confessione religiosa, attraverso il proselitismo, aumenti il proprio consenso. È un diritto del cittadino non solo credere in ciò che vuole, ma anche pubblicizzare le proprie idee ed espandere la cerchia degli aderenti alla propria fede. Lo Stato deve semplicemente educare i cittadini alla tolleranza, al rispetto delle idee altrui, a credere nel pluralismo.

È vero che lo Stato è un ente astratto ed è quindi impossibile che il proprio compito educativo escluda a priori l’uso della forza. Lo Stato non può educare soltanto attraverso l’esempio etico dei propri funzionari. In ultima istanza si riserva sempre il privilegio esclusivo di poter usare la forza contro una popolazione disarmata o non adeguatamente attrezzata e preparata per affrontare i suoi corpi di polizia, le sue forze armate. Tuttavia la storia è piena di esempi in cui l’uso della forza non ha fatto altro che produrre una reazione contraria, spesso di intensità assai maggiore, che puntualmente ha trovato impreparati ad affrontarla i governi al potere.

Il più grande limite dello Stato è che per assicurare l’ordine pubblico usa degli organi repressivi separati dalla popolazione. Ecco perché i cittadini devono imparare a difendere da soli i propri diritti, cioè a educarsi reciprocamente, prendendo spunto dagli esempi concreti di persone reali, che vivono un’esistenza comune, del tutto normale. L’etica viene garantita, nella sua democraticità, soltanto quando i cittadini si sentono uniti liberamente.

Uno Stato è davvero laico e democratico quando si fida dei propri cittadini e non assume atteggiamenti paternalistici, anche perché, quando si possiedono le leve del potere, è facile passare dal paternalismo alla dittatura.

Può esistere una internazionalizzazione della fede?

Le Confessioni religiose non solo hanno diritto a fare proselitismo a livello nazionale, ma possono anche svolgere un’attività internazionale a favore della pace e dei diritti umani, con o senza l’aiuto dei loro rispettivi Stati.

Tali Confessioni sono organismi che i cittadini possono darsi per affrontare meglio i problemi della vita, propria e altrui. Gli Stati laici non hanno il diritto e tanto meno il dovere di sindacare sull’efficacia degli strumenti religiosi, a meno che con essi non vengano palesemente violate delle disposizioni di legge. Se una Chiesa è a favore della tutela ambientale, che è un valore riconosciuto a livello internazionale, ha tutto il diritto di dirlo e persino di contestare gli Stati che non lo rispettano o non lo fanno rispettare. Se una Chiesa, sul piano pratico, dimostra d’essere più coerente dello Stato nell’applicare i princìpi o le leggi che appartengono alla democrazia, sarà compito dello Stato modificare il proprio atteggiamento.

Noi non possiamo sapere a priori quali sono tutti i modi in cui l’obiettivo della democrazia può essere realizzato. Sappiamo soltanto che la forza dovrebbe essere esercitata dopo aver provato inutilmente tutte le altre modalità. Ma è a tutti evidente che forza e democrazia non possono, alla lunga, stare insieme. Quando i cittadini usano la forza per compiere le rivoluzioni politiche, non possono pensare di continuare a usarla ad libitum, dopo averle compiute. È vero che una rivoluzione che non si sa difendere, non vale nulla, ma l’obiettivo finale non è quello di stare sempre sulla difensiva.

Le istituzioni non possono diventare paranoiche e vedere nemici in ogni dove, anche perché in una situazione del genere è molto facile accusare qualcuno ingiustamente. L’abbiamo eloquentemente visto nelle dittature staliniana e maoista. Quando uno Stato si sente debole e non ha fiducia nei propri cittadini, non vede l’ora di dimostrare con esempi eclatanti (p.es. dei processi giudiziari) chi è che comanda. Può anche arrivare a compiere atti di terrorismo, scaricando la colpa su nemici completamente inventati. Si badi che, per far questo, non è obbligatorio essere degli Stati “socialisti”.

Se al mondo esistesse un minimo di democrazia, noi dovremmo vedere gli Stati chiedere alle Confessioni religiose di esprimersi chiaramente a livello internazionale quando i diritti umani o civili vengono minacciati o violati. La democrazia non è forse un bene per tutti, credenti e non credenti?

Probabilmente se le Chiese non avvertissero se stesse in competizione tra loro; se fossero abituate a confrontarsi liberamente e francamente e non si limitassero a difendere gli interessi nazionali o “di parte”, potrebbero svolgere un ruolo più produttivo nel mondo. Dovrebbero smetterla di sentirsi in colpa per aver assunto nel passato una posizione favorevole ai poteri dominanti; anche perché gli stessi Stati hanno svolto il ruolo di difendere gli interessi dei potentati economici. Gli Stati esistono da circa 500 anni, un periodo che, guarda caso, coincide con quello in cui si è sviluppato il capitalismo moderno.

Teoricamente gli Stati sono a favore del diritto internazionale, ma praticamente difendono gli interessi del capitale, sia esso nazionale o globale. In tal senso le Confessioni religiose potrebbero dimostrare, se solo lo volessero, maggiore coerenza; soprattutto dovrebbero essere capaci di andare oltre i retaggi del passato, che le condizionano negativamente. P. es. chi appartiene alla Confessione islamica difficilmente emetterebbe dei comunicati congiunti con chi appartiene alla Confessione cristiana, poiché gli sembrerebbe di fare un favore al passato colonialismo occidentale.

Eppure vi sono argomenti trasversali a tutte le religioni, come p.es. il diritto alla vita, alla pace, al lavoro, a un ambiente naturale, il rispetto delle minoranze e delle categorie sociali più deboli, ecc. Che senso ha che le Confessioni religiose vogliano espandersi a livello internazionale, e poi si comportino come se fossero degli organi vincolati a esigenze nazionali? O come se dovessero difendere degli schieramenti geopolitici (occidente contro oriente, nord contro sud, Euro-America contro Asia, ecc.)?

Poiché il Medioevo è finito da un pezzo, le Confessioni religiose non hanno il diritto di sostituirsi agli Stati. Né, per essere meglio accettate in un mondo sempre più laico, devono sentirsi in obbligo di rinunciare alla loro specifica identità religiosa. Semplicemente esse hanno il dovere di compiere una pressione morale là dove i valori laici e democratici non vengono concretamente rispettati. Sarà poi la storia a decidere se per un credente è preferibile la religione o l’ateismo.

Stati e Chiese nazionali

Oggi è ancora molto facile vedere come gli Stati difendano a spada tratta gli interessi delle loro Chiese nazionali, accettate dalla maggioranza dei cittadini; spesso lo fanno contro gli interessi delle Confessioni minoritarie o addirittura contro quelle Confessioni straniere che nel mondo si pongono in maniera concorrenziale rispetto alle loro Chiese nazionali. Non è poi infrequente che gli Stati laici si servano delle Chiese presenti nei loro territori in maniera ostile nei confronti di altri Stati.

Le Chiese si prestano facilmente a tali strumentalizzazioni. Anzi, si può con certezza dire che le Chiese nazionali sono ben contente di poter fruire di una protezione o di un privilegio statale che le metta al riparo dalla concorrenza sul piano religioso. In questa maniera le Chiese minoritarie vengono semplicemente “tollerate” dalle istituzioni, ma devono stare sempre molto attente a come si comportano, alle parole che dicono: soprattutto devono evitare di fare “proselitismo”, o comunque limitarsi a farlo in maniera molto privata. Le Chiese nazionali o maggioritarie possono pretendere d’essere inserite nel “diritto pubblico”; le altre devono accontentarsi di appartenere al “diritto privato”.

Ora, il fatto che là dove esiste una larga tutela statale, le Chiese maggioritarie la accettino ben volentieri, è la riprova che i valori religiosi non sono migliori di quelli laici. In genere si ha come l’impressione che le Chiese non abbiano alcuna fiducia nel loro futuro. Il confronto con le rivoluzioni borghesi e proletarie le ha come disarmate. Avvertono di poter sopravvivere solo perché esistono ancora degli Stati che, ignorando il senso della laicità, le proteggono in varie maniere.

L’unica identità o personalità che possono far valere è quella giuridica. Sul piano propriamente etico non hanno da dire qualcosa di diverso dai loro Stati di appartenenza. Non riescono neppure a chiedere a tali Stati di essere apertamente democratici e pluralisti. Preferiscono sentirsi privilegiate. Si comportano come le Chiese pagane nei regimi schiavistici. Non sono neppure in grado di trovare tra loro delle strategie comuni per indurre tutti gli organismi internazionali a essere più coerenti nell’applicare i princìpi laici che professano.

Le Chiese hanno una visione internazionale delle cose soltanto quando ognuna di loro può espandersi geograficamente a spese delle altre. Il loro principale obiettivo è quello di svolgere una sorta di “governo nazionale indiretto” e, per potersi diffondere all’estero, non hanno scrupoli a servirsi del potere o dei servizi dei loro rispettivi Stati nazionali, i quali naturalmente non mancheranno di chieder loro qualcosa in cambio. Se una missione religiosa fa del bene a una comunità locale del Terzo Mondo, sul piano scolastico o sanitario, non è forse più facile alle aziende che appartengono al medesimo Stato di quella missione sfruttare economicamente quella comunità o lo Stato in cui essa vive?

Quando gli Stati politici si comportano in maniera antidemocratica, le confessioni religiose possono anche sponsorizzare delle rivoluzioni politiche vere e proprie. Possono addirittura passare da un governo “indiretto” a uno effettivo vero e proprio. L’esempio dell’Iran è quello più eclatante: vedere gli imam che gestiscono un’intera nazione, a noi occidentali fa abbastanza impressione. A dir il vero però, in tutto il mondo islamico, dopo la caduta di alcuni leader governativi filo-occidentali, il fondamentalismo religioso ha voluto assumere una funzione direttamente politica, e senza farsi tanti scrupoli dall’usare mezzi terroristici.

In una situazione del genere i valori religiosi non hanno alcuno spessore etico. D’altra parte chi nutre atteggiamenti integralistici difficilmente sopporta che la propria fede religiosa resti priva di una veste politica ben definita. E purtroppo questa fede riesce anche ad avere la meglio sull’etica laica, quando la politicità che tale etica esprime, viene esercitata in forme autoritarie, corrotte, antidemocratiche.

Una volta giunta al potere, l’etica laica deve dimostrare quotidianamente d’essere superiore ai valori e all’esperienza religiosa, altrimenti un’insurrezione sarà sempre possibile. E un’insurrezione fatta in nome di valori religiosi facilmente oggi si trasforma in un’aberrazione. Nella storia il tempo non passa invano.

Etica e religione: quale futuro?

Sembra, ma è solo un’apparenza, che la religione sia più antica dell’etica, cioè abbia un’esistenza di più lunga durata.

L’autonomia dell’etica, la sua indipendenza dalla religione, è andata di pari passo col distacco della filosofia dalla mitologia, al tempo dei Greci. Anche nel corso del basso Medioevo la riscoperta dell’aristotelismo ha contribuito non poco a separare la metafisica dalla teologia.

Tuttavia si sono dovute aspettare le rivoluzioni borghesi e proletarie prima di avere una significativa affermazione dell’etica laica. La borghesia ha avuto il compito di laicizzare il cattolicesimo, creando una confessione, il protestantesimo, e una cultura generale, l’Umanesimo, nonché una specifica tipologia artistica, il cosiddetto Rinascimento, che di religioso avevano solo la parvenza. La quale, poi, è stata completamente rimossa dal socialismo scientifico, dopo aver subìto terribili colpi demolitori dalla rivoluzione francese, dalla Comune di Parigi e dagli sviluppi ateistici dell’idealismo hegeliano (Feuerbach, Stirner, i fratelli Bauer e Strauss).

Il merito del socialismo scientifico è stato quello di aver fatto capire che più importante ancora dell’ateismo è il superamento del capitalismo. L’attenzione quindi si è spostata dalle questioni filosofiche e teologiche a quelle economiche (Marx) e politiche (Lenin).

Oggi la religione è solo uno degli strumenti (neanche il più importante: la cinematografia, p.es., lo è molto di più) di cui si serve il capitale per riprodurre culturalmente se stesso. Il capitalismo si serve di tante cose per riprodursi: il consumismo ad oltranza, la democrazia formale, la forza militare, il diritto astratto, la superiorità tecnologica, e via dicendo. Tutti questi strumenti in genere vengono usati in maniera tale che l’etica risulta priva di vera umanità. Essa è sì separata dalla religione (e per farlo ha dovuto dimostrare d’essere migliore), ma vive come se fosse del tutto alienata: sul piano teorico vengono affermati princìpi altamente democratici; su quello pratico ci si comporta in maniera completamente opposta.

L’etica borghese è schizofrenica, e il motivo di ciò sta proprio nelle contraddizioni economiche del capitalismo, profondamente lacerato tra la proprietà dei mezzi produttivi e il lavoro di chi non li possiede. Questa è un’etica che riesce a imporsi sulla religione non per la sua forza morale intrinseca, ma perché alla base è sostenuta da una continua rivoluzione tecnico-scientifica.

Le religioni, per dire qualcosa di utile o di convincente, devono prima aspettare che l’etica borghese, in forza del proprio cinismo, procuri sommi disastri all’umanità, come p. es. le guerre mondiali o le devastazioni ambientali.

Oggi tuttavia è raro trovare qualcuno che creda nella possibilità di superare i limiti dell’etica borghese grazie alla religione. In Occidente i cittadini sono troppo disincantati. È più facile credere che tali limiti siano insuperabili. Al massimo si pensa, ma si tratta di convinzioni molto minoritarie, ch’essi potranno essere superati solo dopo aver abbattuto il sistema capitalistico con una rivoluzione proletaria. In Occidente si è smesso di credere in questa possibilità dopo il fallimento di quella stagione eversiva iniziata nel Sessantotto e conclusa una decina d’anni dopo. Il colpo di grazia l’hanno dato il crollo del “socialismo reale” e l’insuccesso della perestrojka gorbacioviana, con cui si sperava di poter passare dal socialismo burocratico a quello democratico.

Nel mondo della sinistra radicale non manca chi pensa che nell’attuale Cina sia possibile far coesistere una politica governativa di tipo socialista con una economia prettamente borghese, ma si tratta di un’illusione. Là dove sul piano sociale si sviluppa il capitalismo, l’etica e la politica ne risentono inevitabilmente. Una volta affermato il primato del valore di scambio, l’etica sottesa al valore d’uso tende progressivamente a scemare, fino a scomparire del tutto, e tale declino non può essere impedito da una politica che, per affermarsi, usa la forza.

In Cina si sta sperimentando soltanto una forma di capitalismo in cui lo Stato ha la pretesa di fare da arbitro, cioè di giocare il ruolo del controllore. Il fatto che in questo paese la religione non conti pressoché nulla, è la riprova che un’etica laica, di per sé, non rende migliore la società. Potrà farlo soltanto quando sarà sostenuta da una democrazia effettiva, anzitutto sociale ed economica, di cui quella politica sia un semplice riflesso.

Per milioni di anni il genere umano non ha avuto alcun bisogno della religione, proprio perché viveva una forma di socialismo del tutto compatibile con le esigenze riproduttive della natura. Gli uomini primitivi erano atei non perché culturalmente arretrati, ma perché nella loro essenza umana e naturale non soffrivano di contraddizioni antagonistiche, quelle che appaiono irrisolvibili.

Oggi abbiamo bisogno di tornare a quel periodo, con o senza la scienza e la tecnica di cui siamo capaci. Di sicuro non possiamo nutrire nei confronti della scienza quegli stessi atteggiamenti devozionali o fideistici che nel passato si nutrivano nei confronti delle divinità.

Etica e politica nel socialismo

Davvero il socialismo pone la politica al di sopra dell’etica? Gli integralisti religiosi sostengono che è sufficiente tale convinzione per non concedere nulla al socialismo. Infatti per loro la politica, quando ha un primato sull’etica, inevitabilmente si disumanizza, sicché nei confronti della religione diventa ancor peggio dell’etica laica.

In realtà la questione andrebbe rovesciata, nel senso che ci si dovrebbe chiedere se davvero esistono dei valori etici universali, la cui applicazione possa prescindere dallo spazio e dal tempo, cioè dei valori che siano indipendenti dalle interpretazioni che determinate comunità locali o nazionale possono darne.

Prendiamo ad es. il diritto alla vita. Apparentemente sembra essere il diritto umano più universale: ne sanno qualcosa i medici col loro “Giuramento di Ippocrate”. Eppure le religioni lo interpretano come vogliono. Tante di loro prevedono tranquillamente la pena di morte. Quasi tutte negano alle donne il diritto di abortire, cioè ritengono che abbia più diritti una persona che non c’è di una in carne ed ossa. E non si preoccupano di sapere quale sia la causa di una scelta così dolorosa.

Vi sono Confessioni religiose i cui aderenti, in caso di guerra, rifiuterebbero di difendere la loro patria occupata da una potenza straniera, e solo perché, impugnando le armi, sarebbero costretti a uccidere il nemico. Quante volte sentiamo di genitori credenti che uccidono le loro figlie quando queste decidono di non accettare un “matrimonio combinato” o di sposare chi non segue la loro religione? Sono innumerevoli i casi in cui il diritto alla vita subisce delle interpretazioni unilaterali che impediscono di considerarlo un valore umano universale.

È per questa ragione che il socialismo non sopporta le astrattezze. La politica serve per dare concretezza all’etica. Predicare un’etica universale è una forma di idealismo astratto, una vuota filosofia. Significa, in sostanza, fare gli interessi della politica dominante, cioè fare gli interessi di potere, che generalmente sono di tipo economico, di quelle classi sociali che, per nascondere la privatezza dei loro interessi, predicano appunto i valori universali. Oggi i valori universali che vanno per la maggiore solo la libertà di mercato e la democrazia parlamentare: due valori che fanno anzitutto gli interessi dei monopoli economici e degli organismi finanziari internazionali.

Nelle società divise in classi sociali opposte il potere si è sempre servito della religione per affermare se stesso. E il compito della religione è appunto questo, far credere che esistono valori al di sopra della politica, cui la stessa politica deve rendere conto. In un certo senso la religione è una specie di finta opposizione al sistema: da un lato si serve della propria etica per contestare la politica laica; dall’altro fa concretamente gli interessi di quella politica che vuole strumentalizzarla in funzione anticomunista. Essa odia il socialismo proprio perché il socialismo le impedisce di svolgere questo lavoro ambiguo, che rende ipocriti anche quando lo si compie con le migliori intenzioni.

Un vero credente dovrebbe esser grato al socialismo di averlo tolto dall’imbarazzante posizione di chi, da un lato, predica il bene universale e, dall’altro, oggettivamente, è costretto a fare gli interessi del bene particolare delle classi dominanti.

Quante volte il cristianesimo ha predicato un amore incondizionato per i nemici, tacendo, per opportunismo o convenienza, sulle loro ingiustizie? Quante volte lo ha predicato distinguendo tra nemico e nemico? E quante volte lo ha soltanto predicato? È utopica l’idea di poter superare una società basata sullo sfruttamento del lavoro altrui, senza dover ricorrere alla forza politica e, se occorre, anche militare. Non s’è mai visto da nessuna parte che gli sfruttatori abbiano rinunciato spontaneamente al loro mestiere limitandosi ad ascoltare delle “belle parole”.

Il socialismo non afferma il primato della politica per negare all’etica il suo valore: se lo facesse sarebbe cinico o machiavellico o gesuitico. Non è forse stato Machiavelli a far nascere la scienza della politica subordinando nettamente a quest’ultima ogni considerazione di tipo morale? Perinde ac cadaver non era forse il motto principale dei gesuiti?

In realtà è proprio il socialismo democratico che sa benissimo come non ci possa essere alcuna etica migliore di quella in grado di dimostrare concretamente il proprio valore. È la prassi il criterio della verità. Semmai è la politica borghese che si deve preoccupare di creare le condizioni favorevoli allo sviluppo di un’etica davvero umanistica.

Compito del socialismo è quello di chiedere all’etica, e quindi anche alla religione, di affermare dei valori che facciano gli interessi non di classi particolari, ma della stragrande maggioranza dei cittadini. Il popolo ha bisogno di valori in cui potersi riconoscere, e questi valori devono essere veri, non costruiti artificiosamente dai poteri dominanti. Valori veri sono quelli che permettono al popolo di vivere un’esistenza dignitosa, non lacerata da conflitti che costituiscono una minaccia quotidiana e che costringono a fare scelte indesiderate o che inducono a comportarsi in maniera alienata, degradante.

Il valore della libertà di scelta

Se tutti potessero esercitare concretamente il diritto alla libertà di scelta, senza limitarsi a fruirne in maniera puramente teorica, i valori universali si formerebbero spontaneamente. Finché questa libertà non esisterà fattivamente per tutti i cittadini del mondo, la politica avrà tutti i diritti di pretendere un primato sull’etica astratta. Quando invece essa esisterà, scompariranno sia la politica che regolamenta i conflitti di classe o che cerca di superarli, sia la religione che dà per scontato che su questa Terra essi non siano risolvibili. Resterà solo l’etica, umana e democratica.

Invece di pensare ad astratti valori umani universali, i credenti dovrebbero chiedersi, quando vedono i poteri dominanti manifestare una profonda incoerenza tra ciò che dicono e ciò che fanno: “Che cosa possiamo fare per risolvere tale antinomia?”. Cioè non dovrebbero limitarsi a contestare il socialismo solo perché questo non ha idee religiose, ma dovrebbero anche dire basta al consumismo sfrenato, al saccheggio ambientale, alle discriminazioni di genere, allo sfruttamento della forza-lavoro e a tante altre cose che il capitalismo mette in atto quotidianamente sull’intero pianeta.

Cosa fanno i credenti per dimostrare che non sono dei “sepolcri imbiancati”? Che non predicano soltanto pazienza e rassegnazione? Che non sono disposti a chiudere un occhio sulle aberrazioni del capitalismo pur di avere in cambio una fetta del potere?

È palesemente falso sostenere che il socialismo mette in discussione non soltanto l’esistenza di Dio, ma anche il diritto dell’uomo ad avere una speranza ultraterrena. È vero il contrario: una volta risolta la principale questione economica, cioè il conflitto tra capitale e lavoro, tutti saranno finalmente liberi di credere in ciò che professano, senza impedimenti o condizionamenti di sorta. Questo poi senza considerare che il socialismo non nega affatto che possa esistere una dimensione vitale diversa da quella terrena. La materia è eterna e universale, soggetta a perenne trasformazione. Semplicemente il socialismo considera il nostro pianeta come il luogo in cui sperimentare il lato umano e democratico della materia. Che poi questa materia sia fatta anche di antimateria o, se si preferisce, di spirito anima energia dynamis… chi mai potrebbe escluderlo? Non abbiamo ancora elementi sufficienti per conoscere l’intera “sostanza” di cui l’universo è fatto.

Politica ed etica, nel socialismo democratico, sono strettamente connesse, nel senso che gli obiettivi dell’una sono gli obiettivi dell’altra. Quando il socialismo si comporta in maniera difforme da tale coerenza, è perché sta imitando il sistema borghese, che è cinico per definizione. Con questa differenza: i capitalisti sono disposti a calpestare qualunque valore etico quando in gioco sono i loro interessi economici; i socialisti imborghesiti lo fanno quando vogliono restare legati alla loro ideologia, senza tener conto della realtà concreta.(10)

Delle due aberrazioni, quella borghese, essendo nata un migliaio di anni fa nei Comuni italiani, è stata in grado di condizionare la realizzazione di tutte le rivoluzioni socialiste. Partorire un socialismo davvero democratico si è rivelato un’operazione incredibilmente complessa, oltre ogni immaginazione. Due guerre mondiali non sono state sufficienti per trovare la giusta strada.

L’umanità però di fronte a sé continua ad avere due sole alternative: o socialismo o barbarie. E se il socialismo che si vuole e si deve creare non è sufficientemente umano e naturale, la barbarie è assicurata.

Compiti del futuro socialismo democratico

Il socialismo democratico non è altro che un ritorno al comunismo primitivo nella consapevolezza di tutti gli errori compiuti nella storia. Le religioni sono nate in conseguenza della fine del comunismo primitivo. Il cosiddetto “peccato originale” non è stato che la nascita dello schiavismo, cioè di quella esperienza storica che ha posto fine a quel comunismo. Si tratta di capire se questa fine va considerata irreversibile.

La differenza tra socialismo e religione sta nel fatto che quest’ultima non ritiene più possibile su questa Terra un ritorno al paradiso perduto, quello della foresta. La liberazione da tutti i “mali” è prevista soltanto nell’aldilà. Ecco perché socialismo e religione sono del tutto incompatibili, almeno nell’obiettivo finale che si propongono, che però condiziona tutto il resto, anzitutto i mezzi con cui conseguirlo.

Fino ad oggi la storia ha sperimentato varie forme di oppressione sociale, ma ognuna di esse, al suo sorgere, si poneva l’obiettivo di superare i limiti dello stile di vita precedente. Schiavismo, feudalesimo e capitalismo, nelle forme statali o private, sono state delle formazioni sociali che pretendevano di superare i limiti della precedente. Il socialismo statale ha preteso, vanamente, di superare i limiti del capitalismo.

La mia generazione, nata negli anni Cinquanta, ha assistito al superamento del capitalismo privato con quello sostenuto dallo Stato; ha assistito al crollo repentino del socialismo statale, sostituito dal capitalismo statale o privato; sta osservando l’esperimento cinese, in cui un partito sedicente comunista al governo sta gestendo un capitalismo privato e statale. Inoltre nella cosiddetta area “terzomondiale”, usata dal capitalismo occidentale in forma “coloniale”, le contraddizioni sono diventate talmente esplosive che hanno iniziato a sperimentarsi varie forme di socialismo, con risultati però del tutto insoddisfacenti.

L’umanità procede in maniera contorta, molto diversificata, sulla base di specifiche condizioni storiche. Le uniche esperienze di “socialismo democratico” sembrano essere quelle delle ultime, sparute, comunità primitive che vivono nei luoghi più impervi della Terra.

Che cosa possiamo fare oggi per sopravvivere in maniera dignitosa? Indubbiamente lottare contro le contraddizioni antagonistiche di tutti i sistemi sociali e politici. Bisognerebbe farlo lì dove si è nati e cresciuti, evitando d’illudersi di potersi emancipare emigrando altrove. La conoscenza del proprio territorio, di tutte le sue caratteristiche, è di fondamentale importanza. In secondo luogo occorre recuperare il valore del comunismo primitivo, non solo sul piano teorico, approfondendo gli studi antropologici, ma anche tutelando gli interessi delle ultime comunità rimaste, che non possono essere lasciate da sole a combattere i meccanismi perversi del capitale. In terzo luogo bisogna associare l’idea di socialismo a quella di ambientalismo, poiché solo oggi ci stiamo accorgendo che le risorse naturali sono in via di esaurimento e che taluni danni compiuti alla natura hanno la caratteristica d’essere irreversibili. Infine, per non ripetere gli errori del passato, bisognerebbe cercare di capire bene i motivi per cui, dopo essere risultata clamorosamente vittoriosa, l’esperienza rivoluzionaria del bolscevismo si è trasformata, sotto lo stalinismo (e successivamente sotto il maoismo), in una incredibile dittatura.

Note

(1) Si noti che nella nostra Costituzione non è neppure previsto che un cittadino possa essere ateo.

(2) Attenzione che l’obiezione di coscienza non ha lo stesso valore della libertà di coscienza. Nell’ambito delle istituzioni civili o statali non ci si può opporre a una legge del parlamento sulla base di una convinzione religiosa. Se lo Stato permettesse una cosa del genere, la laicità perderebbe la sua ragion d’essere. Lo Stato può soltanto evitare che un cittadino compia qualcosa contro la propria coscienza, ma non può non intervenire quando un cittadino, per far valere la propria libertà di coscienza, viola quella altrui o altri diritti fondamentali.

(3) D’altra parte in uno Stato capitalista esiste una sola ideologia dominante, cui tutti devono formalmente attenersi, quella liberista.

(4) Proprio nello stesso anno nasceva invece il fondamentalismo protestantico nordamericano, che si opponeva all’esegesi laica della Bibbia e che poi, col nome di Christian Right, appoggerà sempre il partito repubblicano.

(5) Si pensi solo a tutta la filosofia politica di Augusto Del Noce e di Rocco Buttiglione.

(6) In Cina il governo interviene sull’uso della terra, che è rimasta statale, solo in ultima istanza, quando sono in gioco degli interessi statali: per il resto viene concessa ad uso privato, dietro il pagamento di un affitto.

(7) Cosa che in Italia è la stessa Costituzione, con l’art. 7, a impedirlo. La differenza tra “Concordato” con una religione e “Intese” con tutte le altre è abissale.

(8) A proposito di “illusioni”, non sono forse gli Stati capitalistici che alimentano la convinzione di poter vivere al di sopra delle proprie effettive risorse? Di poter pagare qualunque cosa se il costo viene rateizzato? O che si può sempre vincere in una lotteria milionaria per superare la propria precarietà? Dogmi e superstizioni possono riguardare tranquillamente tanto le religioni quanto il laicismo.

(9) Ufficialmente le monarchie teocratiche risultano essere oggi quella vaticana e quella del Monte Athos in Grecia, ma in Iran la repubblica è ierocratica, gestita dal clero islamico; e in Arabia Saudita i non musulmani non possono ottenere la cittadinanza saudita e la pratica religiosa privata non è definita legalmente; nel Regno Unito non può esserci un sovrano che non sia di religione anglicana; in Norvegia fino al 1º gennaio 2017 il luteranesimo era la religione di stato; in Israele il Gran Rabbinato è in grado di legiferare autonomamente su molte materie etico-religiose, senza che lo Stato possa dire alcunché.

(10) Da notare che sotto la denominazione di “socialismo imborghesito” è possibile farci stare sia la socialdemocrazia occidentale, che è socialista a parole e borghese nei fatti, sia il socialismo burocratico e autoritario, tipico, almeno sino al crollo degli anni Novanta, dei paesi est-europei, ma anche asiatici. Il cosiddetto “socialismo reale” era una forma di dittatura ideologica da parte di una casta di intellettuali, analogamente al giacobinismo della rivoluzione francese. La disumanità della socialdemocrazia borghese era evidente là dove si accettava l’imperialismo occidentale, cioè lo sfruttamento dei popoli coloniali. Quella invece del cosiddetto “socialismo amministrato dall’alto” era evidente là dove lo Stato e il governo in carica impedivano alla società civile ogni forma di libertà di pensiero e di parola.

Fonti

Luca Ozzano, Fondamentalismo e democrazia, ed. Il Mulino, Bologna 2009

Gabriel A. Almond, R. Scott Appleby, Emmanuel Sivan, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale, ed. Il Mulino, Bologna 2006

Enzo Pace – Renzo Guolo, I fondamentalismi, ed. Laterza, Roma-Bari 2002

Gilles Kepel, La rivincita di Dio, ed. Rizzoli, Milano 1991

Il senso della storia

Qual è il senso della storia? Di sicuro non quello di Nikolaj Berdjaev, che vedeva nella storia terrena una ripetizione di qualcosa già avvenuto nei cieli. Diciamo che se una qualche “ripetizione” deve esserci o, per dirla con Nietzsche, un qualche “eterno ritorno”, allora potremmo dire che il senso della storia sta nel tornare all’esistenza dell’uomo primitivo, ovviamente con la consapevolezza di tutti gli errori compiuti. È una specie di “ritorno alla terra” – per restare alla terminologia nicciana -, con un movimento però non lineare, che sarebbe troppo ottimistico, troppo illusorio: il movimento è a spirale, dove i cerchi concentrici si restringono sempre più, fino a diventare un punto solo. Nel suo Anti-Dühring, a proposito di questi cerchi, F. Engels diceva ch’essi avrebbero raggiunto la loro fine collidendo col centro.

L’essere umano e naturale è soltanto quello preistorico. La storia, infatti, è una successione di eventi che di umano e naturale hanno ben poco. Gli unici aspetti meritevoli d’essere ricordati sono quelli in cui gli uomini han fatto il possibile, anche sacrificando la loro vita, per recuperare ciò che hanno perduto, di cui la prima cosa in assoluto è l’innocenza, quella condizione che si viveva quando non esistevano rapporti antagonistici irriducibili, quando le contraddizioni non erano insormontabili.

Il senso della storia è tutto racchiuso nella parabola lucana del figliol prodigo, salvo in un punto: l’atteggiamento invidioso o addirittura rancoroso dell’altro figlio, che sembra essere rimasto col padre solo per interesse o perché non aveva il coraggio di vivere una propria vita, non aveva sufficiente “spirito imprenditoriale”.

Perché si possa giungere a una condizione innocente di vita, valida per tutto il pianeta, oggi occorrerebbe un evento catastrofico, apocalittico, che rendesse equivalenti i diversi livelli di consapevolezza, che dipendono dalle diverse tipologie di vita. Ci vorrebbe però un evento epocale, che azzerasse quasi tutta l’umanità, lasciando in vita una sorta di “piccolo resto d’Israele”. Questo perché il capitalismo ha infettato il mondo intero, ha corrotto anche gli angoli più remoti della Terra. Persino quando si crea il socialismo di stato, se ne resta profondamente condizionati.

Certo, queste son cose che non si dovrebbero dire, ma purtroppo è la stessa storia – questo mattatoio a cielo aperto – che ci costringe a farlo. Si deve fare eticamente di tutto per scongiurare i cataclismi, ma se sarà del tutto vano, s’imporranno da soli altri mezzi e metodi. La stessa natura non ci sarà sempre benigna, come vuole il Pascoli. E, in ogni caso, già oggi si dispongono di armi nucleari in grado di distruggere l’umanità non una ma più volte.

È probabile che tutti gli esseri umani che hanno già lasciato questo pianeta e che si trovano a vivere in qualche luogo dell’universo (che – ci piace ricordarlo – è eterno nel tempo e infinito nello spazio), siano impegnati nel rendere uniformi o allineati gli eterogenei livelli di consapevolezza storica, che riguardano l’etica e la democrazia. “La discesa di Cristo agli inferi”, così come viene raffigurata nelle icone bizantine, non può non avere questo significato. L’omogeneità assiologica dovrebbe essere facilitata dal fatto che un’esistenza secondo natura è più democratica, più egualitaria, più umana.

Su questa Terra i livelli di consapevolezza sono tra i più vari proprio perché ci siamo allontanati tantissimo, in tempi e modi diversi, dall’esistenza naturale dell’uomo primitivo. È vero che oggi il globalismo del capitale tende a omogeneizzare le menti a livello mondiale. Ma lo fa con la forzatura dei mercati, che impongono i loro valori di scambio, a prescindere da quelli d’uso. Il risultato è che non sappiamo più chi siamo e facciamo cose senza senso, senza volerlo, pur sapendo che non dovremmo farle.

Negli stessi vangeli i redattori han messo in bocca al Gesù crocifisso le parole: “Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”. Peccato però che anche i redattori non sapessero quel che scrivevano: Gesù Cristo, infatti, era ateo. Per lui non c’era nessun “Padre” dai poteri sovrumani. Lo disse chiaramente agli ebrei nel quarto vangelo: “Voi siete dèi”.

Ritornare al punto di partenza con la consapevolezza di tutto il male compiuto significa, sul piano scientifico, che la materia deve tornare allo stato energetico iniziale, come se non vi fosse stata alcuna vera dissipazione. Nella storia la materia si è sviluppata in varie forme, prendendo strade diverse, ma l’energia è rimasta intatta, poiché non può essere violata al punto da mutare la propria natura. La coscienza, su cui si basano le intenzioni, può sempre tornare ad essere quel che era. E la nostra vera “energia” è l’autoconsapevolezza di sé.

*

Un’anticipazione di questo fenomeno possiamo constatarlo nella Sindone: lì un corpo in carne ed ossa s’è trasformato in energia, rendendosi invisibile all’occhio umano. Come ciò sia potuto accadere è impossibile saperlo. Di sicuro sappiamo che su questa strana trasformazione o trasmutazione non si doveva costruire una nuova religione. Interpretare la tomba vuota come resurrezione è stata una forzatura, del tutto arbitraria, di Pietro, in quanto il concetto di “resurrezione” presume che un corpo ricompaia integro dopo morto e che sia facilmente riconoscibile. Il che non è mai avvenuto: tutti i racconti evangelici di riapparizione del Cristo sono stati chiaramente inventati. Né la cosa sarebbe potuta avvenire senza violare la libertà di coscienza degli uomini, che vanno appunto lasciati liberi di credere nelle condizioni spazio-temporali del loro pianeta.

Finché restò in vita, Gesù non mostrò d’aver nulla che non fosse “umano”. Un sospetto subentrò quando si trovò il sepolcro vuoto. Ma nessuno era in grado di dire che cosa era cambiato, e tanto meno in che maniera. La materia era tornata ad essere energia, ma senza poterlo far vedere agli uomini, ai quali è interdetta la possibilità d’aver di fronte a loro, sulle questioni cosiddette “sensibili” (quelle implicanti una decisione di coscienza), un’evidenza che s’imponga da sé. La verità autoevidente è un’ingenuità degli antichi filosofi greci e dei teologi medievali, una pigrizia del pensiero.

Ognuno di noi, tuttavia, è destinato a sperimentare su di sé lo stesso fenomeno. Per entrare su questa Terra siamo usciti da un tunnel e non senza fatica; per entrare in una nuova dimensione, dovremo uscire da un altro tunnel, e con una fatica ancora più grande, poiché ci porteremo dietro tutti i nostri pregiudizi.

Poiché la morte è solo una forma di passaggio da una condizione di vita a un’altra (come il bruco e la farfalla o il seme e il frutto), noi ci vedremo trasformati in una sostanza energetica, la cui natura ci sfugge. Paolo di Tarso parlava di “corpo glorioso”, ma lo diceva come se gli interessasse la lotta contro “le potenze dell’aria” e non contro “la carne e il sangue”. Il suo era solo un delirio mistico.

Dove sta la differenza tra noi e il Cristo sepolto? Nel corpo. Il nostro imputridisce. Noi non vorremmo che fosse così. I ricchi Egizi imbalsamavano i loro corpi nella convinzione che quello era il modo migliore per giungere nell’aldilà: avevano bisogno delle fattezze del loro corpo, al quale però dovevano togliere gli organi interni. Era anche questa una forma d’ingenuità, peraltro abbastanza classista, in quanto i poveri non si potevano permettere un trattamento così costoso e meno ancora una piramide.

Anche oggi riusciamo a imbalsamare perfettamente i cadaveri: i russi l’han fatto col rivoluzionario Lenin, i cinesi con Mao Zedong, i vietnamiti con Ho Chi Minh. È un modo, un po’ patetico, di trasformare gli eroi in icone. Negli Stati Uniti, pagando cifre astronomiche, ci si può far ibernare, anche se ancora non esiste una tecnica per farsi “risvegliare”.

Si vuol far durare la vita in eterno, fingendo di non sapere che su questa Terra non è possibile farlo in alcuna maniera. A dir il vero la Bibbia dice che Adamo ed Eva, prima del peccato, non conoscevano la morte, e che Dio, a causa dell’iniquità degli uomini, si vide costretto ad accorciare di molto la durata della loro vita. Forse per questo siamo convinti che la morte non sia la fine di tutto.

Solo le idee di una persona possono sopravvivere al suo corpo. Ma occorre che siano conosciute e che qualcuno le erediti e le sviluppi, in base alle nuove condizioni di vita che la storia ci obbliga a vivere. Non c’è niente di peggio di un’idea statica, sempre uguale a se stessa. Eraclito diceva che non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume.

Può anche sopravvivere qualcosa nell’immaginario popolare, a prescindere dalle idee del proprio mito. La persona viene eternizzata per qualcosa che ha fatto. Ci ricordiamo, p.es., di Che Guevara perché morì in un agguato in Bolivia, dopo aver fatto la rivoluzione cubana; ma chi si ricorda di cosa egli abbia mai detto?

Tutto ciò lascia pensare che la morte ci stia stretta, cioè che non faccia parte del nostro senso della vita. Infatti, anche quando diciamo che è naturale morire, la morte l’avvertiamo sempre con dolore, come se qualcosa d’importante venisse meno o ci venisse a mancare. Non siamo affatto contenti quando muore qualcosa o qualcuno che ci piace o che amiamo o che stimiamo e ammiriamo. Anche quando abbiamo a che fare con soggetti particolarmente sgradevoli, speriamo sempre che cambino carattere o atteggiamento. Non ci piace augurare la morte a qualcuno. I sentimenti negativi ci fanno star male.

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Ma torniamo alla domanda di prima: perché il nostro corpo imputridisce, mentre quello del Cristo non ha conosciuto corruzione? Cosa c’è che ci differenzia da lui?

La sua morte è stata reale, non apparente: l’attesta il colpo di lancia che gli trafisse il cuore. E nella trasformazione l’energia non ha abbandonato il proprio corpo, ma se l’è ripreso integralmente e immediatamente. Sepolto di venerdì pomeriggio, sarà scomparso la notte stessa, quando nessuno poteva vederlo. Poi la Chiesa s’è inventata la storia dei tre giorni. Per uscire dal sepolcro ha dovuto spostare la pietra che lo chiudeva. Quindi il suo corpo aveva mantenuto le caratteristiche della fisicità.

Nel racconto inventato sull’apostolo Tommaso che non crede in ciò che non vede, i redattori fanno dire a Gesù: “Metti il dito nelle mie piaghe”. Pur mentendo poeticamente, avevano capito che non si poteva parlare di “puro spirito” (cosa che nessun ebreo, peraltro, avrebbe mai fatto per tutto l’oro del mondo).

In quell’uomo materia ed energia potevano tranquillamente coesistere anche dopo morto. Per dimostrare la fondatezza di tale asserzione, la Chiesa arrivò a escogitare il sacramento dell’eucaristia, in cui si consuma una sorta di pasto totemico simbolizzato. Si era trasformata l’idea di comunismo primordiale in qualcosa di assolutamente fantastico.

Come mai in noi materia ed energia sono disgiunte? Per quale motivo la Chiesa parla di “resurrezione dei corpi” solo al momento del cosiddetto “giudizio universale”? E come mai sentiamo il desiderio di una loro indissolubile unità? Noi non vorremmo morire mai. O meglio, vorremmo poter rivivere, dopo morti, con un corpo perfetto, privo di difetti, sempre giovane e forte.

Chi davvero desidera morire è perché è disperato. Ha una visione falsata della realtà, con cui p.es. s’immagina di poter ottenere un premio nell’aldilà. A meno che uno non desideri liberarsi di una sofferenza assolutamente insopportabile, o che comunque giudica tale. Non dobbiamo infatti dimenticare che per un altro la medesima sofferenza potrebbe essere giudicata “relativamente” sopportabile. La soglia della sofferenza varia da persona a persona. Variano anche le motivazioni con cui si giustifica la sofferenza. Siamo animali molto complessi.

In ogni caso è da ottusi non capire che la morte può anche essere vista come liberazione da un male incurabile o da sofferenze indicibili. Dire che non possiamo toglierci la vita perché ce l’ha data Dio, significa essere “ideologici”, cioè schematici. Uno deve essere padrone del proprio corpo, se vogliamo che eserciti una responsabilità personale. Dobbiamo smetterla di sentirci sotto tutela di qualcuno.

Il suicidio può essere visto anche come una forma di protesta. A dir il vero ci si può uccidere per tanti motivi: una delusione d’amore o un senso di abbandono, un tradimento subìto o una clamorosa sconfitta, un atto vergognoso che s’è compiuto… Non ci sono solo le malattie incurabili e le sofferenze indicibili.

Catone lo fece perché non tollerava il passaggio dalla Repubblica all’Impero; Jan Palach perché rifiutava la presenza dei sovietici a Praga; i monaci tibetani si bruciano perché non sopportano l’occupazione cinese… Kierkegaard volle far credere che il suo suicidio era stato una sorta di “omicidio” da parte della Chiesa di stato danese.

Oggi non pochi fanatici musulmani si fanno saltare in aria come forma di protesta contro l’Occidente. Non sanno che anche il capitalismo potrebbe comportarsi nella stessa maniera se si sentisse profondamente minacciato nella propria incolumità. Cosa si saranno detti i Romani quando a Masada videro che oltre novecento ebrei si erano suicidati pur di non essere schiavizzati? Abbiamo sentito parlare di suicidi di massa anche in talune sette religiose fanatiche, come segno di devozione (o di plagio?), da parte degli adepti, nei confronti dei loro leader.

Hitler l’ha fatto perché non voleva essere giudicato dalla storia: tanto coraggioso quanto vigliacco. È che quando il coraggio si esprime nelle forme della spietatezza, l’etica scompare. Il suicidio, in tal caso, appare come una forma di ingiustificata debolezza. Si capisce di più chi si uccide perché, posto sotto tortura, teme di tradire i compagni.

Tuttavia uno dovrebbe mettere alla prova se stesso. “Fin dove siamo in grado di resistere?” – questo dovremmo chiederci. Non si può aspirare all’eroismo senza dimostrare un minimo di coraggio. In fondo le sofferenze, oltre un certo limite, non possono andare: il corpo non le regge.

*

Ma torniamo alla domanda di partenza: perché in Cristo materia ed energia non potevano restare separate? Nell’universo le stelle sono energia che si trasforma in materia, e questa, a sua volta, si ritrasforma in energia. Il processo può durare miliardi di anni, anche se prima o poi finirà, poiché tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine, come disse il giudice G. Falcone in riferimento al destino della mafia (avrebbe però dovuto aggiungere che solo il popolo potrà eliminarla: certamente non lo Stato, di cui lui si sentiva un fedele servitore).

Con sicurezza possiamo dire che anche il nostro pianeta è destinato a finire, e non in concomitanza alla fine del Sole, ma molto prima. Anzi, se andiamo avanti con questa devastazione ambientale, il tempo che ci resta è davvero poco. Con le nostre capacità autodistruttive possiamo soltanto affrettarne il decesso.

La Terra è figlia del Sole: nell’Universo siamo tutti “figli delle stelle”, come diceva quella bella canzone di Alan Sorrenti. Ma se le stelle prima o poi esplodono o implodono, davvero noi umani siamo destinati all’eternità? Oppure dobbiamo soltanto accontentarci di vivere qualche miliardo di anni? Perché diciamo che l’universo è eterno e infinito quando al suo interno tutte le cose hanno, almeno all’apparenza, un tempo limitato? Più che le cose in sé, sembra essere eterno il processo rigenerativo, quello che le riproduce. Le cose muoiono, ma per rinascere in forme diverse. La dialettica hegeliana di tesi – antitesi – sintesi, con la sua negazione della negazione, pare davvero essere la legge dell’intero universo.

Forse i cosiddetti “buchi neri” sono in qualche modo responsabili di questa perenne trasfigurazione della materia, in cui nulla si crea e nulla si distrugge in maniera irreversibile. Esiste una sorta di “antimateria” che ci è del tutto ignota. Non ci è però ignoto il fatto che dentro di noi esiste qualcosa che sfugge a una nostra esaustiva comprensione: è la coscienza. La coscienza è qualcosa di così vasto e profondo che sembra essere il contenuto più adeguato dell’universo che la contiene.

Nella nostra coscienza vi è qualcosa di eterno e di infinito che fa sembrare gli esseri umani più grandi di qualsiasi altra cosa dell’universo. In un certo senso siamo o possiamo diventare l’autoconsapevolezza dell’universo. Sembriamo essere destinati a popolarlo in lungo e in largo. La Terra è come un banco di prova delle nostre possibilità. È una specie di esperimento in laboratorio per saggiare le nostre capacità umane e naturali. E finché non abbiamo imparato a comportarci in maniera degna, non possiamo pensare di meritarci l’universo.

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Sì, ma la domanda resta: perché nel Cristo materia ed energia coincidono perfettamente, mentre in noi non avviene? Se siamo stati creati “a immagine e somiglianza” della divinità, anche noi dovremmo avere questa straordinaria caratteristica.

Qui è difficile rispondere. Non riusciamo infatti a capire se questa dicotomia è avvenuta in un particolare momento della storia o se sia invece una nostra caratteristica naturale. Siamo un prodotto malriuscito della divinità, che potrebbe farci fuori in qualunque momento, come ai tempi di Noè; oppure, una volta creati, godiamo del privilegio dell’immortalità?

È indubbio che se noi siamo la copia di un modello originario, cioè il prodotto derivato di un prototipo ancestrale, non fatto da mano umana, qualcosa ci deve mancare, altrimenti non esisterebbe un “prima” e un “dopo”. Un qualche primato ontologico dovrà pur esserci nell’universo. Non siamo “divini” per “essenza” ma solo per “partecipazione”, diceva l’Aquinate. I figli che mettiamo al mondo sono un nostro prodotto, ma non sono copie identiche di noi, non foss’altro perché sono il risultato di un rapporto di coppia.

Se il Cristo è il modello originario dell’umanità, qualcosa di diverso deve averlo. E poi di quale umanità sarebbe il modello? Certamente non di quella femminile. Devono per forza esistere due modelli eterni, divisi per genere. Lo si intuisce in quel “facciamo l’uomo” (cioè l’essere umano bisessuato) nel racconto della creazione. In principio era il due, non l’uno solitario. C’è una relazione che fa l’identità: non c’è prima l’identità e poi la relazione, ma il contrario.

La differenza tra il modello e la copia non è però così grande da metterci in imbarazzo. Non esiste alcun dio che non abbia caratteristiche umane, per cui possiamo star tranquilli che nessuno ci leggerà mai nel pensiero, né sarà in grado di anticipare le nostre mosse o di prevedere le decisioni che prenderemo. Noi siamo destinati a esistere, che lo si voglia o no, ma nelle forme che riterremo opportune, e senza poter violare la libertà di coscienza degli altri. Non potrai fare lo schiavista se nessuno vorrà fare lo schiavo.

Il suicidio non sarà altro che una forma di disperazione, un non voler essere se stessi, umani e naturali. Ma avremo tutto il tempo per pentirci delle nostre colpe. E per essere perdonati. Il problema infatti non sarà soltanto quello di pentirsi del male che si è fatto, direttamente o indirettamente, ma anche quello di convincere chi l’ha subìto che il pentimento è sincero. E quando vi sono di mezzo le questioni sensibili della coscienza, tutto è maledettamente complicato. Dicono che il tempo sia la migliore medicina, ma occorre anche una certa disposizione d’animo.

*

E con ciò non abbiamo affatto risposto alla domanda iniziale: se nel Cristo materia ed energia coincidono strettamente, dobbiamo considerarlo davvero umano? O era una specie di extraterrestre di cui ci sfugge la vera identità? Finché è rimasto vivo, nessuno ha potuto dubitare della sua umanità (evitiamo qui di considerare le amenità dei vangeli, i cui redattori mirano a presentare come reali cose assolutamente fantastiche).

Le falsificazioni e le mistificazioni su di lui sono subentrate subito dopo la sua morte. Certo, lo misconoscevano anche quando era vivo, ma nessuno pensava che fosse una divinità. La fantasia poetica a sfondo religioso subentrò solo dopo aver visto vuota la tomba, che poi tanto vuota non era, visto che trovarono la Sindone, il lenzuolo di lino che aveva avvolto frettolosamente il cadavere. Il fatto che fosse stata ripiegata e posta da una parte, escludeva l’ipotesi del trafugamento della salma. Fu così che cominciarono ad attribuirgli cose che non aveva mai detto e mai fatto. Ecco perché se la Sindone è vera, tutto il resto, nel Nuovo Testamento, è falso.

La stranezza tuttavia rimaneva. Se la sua morte era stata reale e nessuno aveva rubato il corpo, seppellendolo da qualche altra parte (magari per far credere ch’era risorto), come aveva fatto a scomparire? L’aveva fatto da solo o era stato aiutato da un’entità esterna? Per i credenti ciò è del tutto irrilevante. Invece noi pensiamo che l’ha fatto da solo proprio perché non esiste alcun dio che non sia umano. E questo dio è fatto di materia ed energia, legate indissolubilmente, altrimenti avrebbe potuto lasciare il suo corpo e andarsene con la sua anima.

Finché rimase in vita, il suo messaggio, nettamente travisato dai vangeli, era chiaro: liberare la Palestina dall’occupante romano e dalla classe sacerdotale corrotta e collusa col nemico. L’obiettivo finale era quello di tornare al comunismo primordiale, quello abbandonato col peccato originale.

Tuttavia in quella tomba diede un messaggio ulteriore, la cui importanza fu dai cristiani esagerata proprio per trascurare l’obiettivo politico: dopo la vita terrena ne esiste un’altra, extra o ultraterrena. La Terra è solo un ovulo fecondato, da cui dobbiamo uscire per popolare l’intero universo. E dobbiamo farlo secondo natura, conformemente alla nostra natura umana.

Avere eliminato la sua proposta di vita non è servito a nulla. Abbiamo soltanto aumentata, in intensità e durata, la nostra sofferenza. Il compito che abbiamo è rimasto sempre quello: come essere se stessi. Se avessimo seguito le sue direttive, ci saremmo risparmiati le sofferenze dello schiavismo, del servaggio feudale, del capitalismo e del socialismo statale.

Vorrà dire che dovremo imparare dai nostri errori. Lui ha soltanto voluto dimostrare che per essere se stessi occorre umanità sul piano etico e democrazia su quello politico. La Chiesa, che ha preteso di rappresentarlo, non ha realizzato né l’una né l’altra: non sa proprio che cosa siano, anche se la Chiesa ortodossa appare più umana e democratica di quella cattolica e di quella protestante.

Forse, con l’ingresso nel terzo millennio, si è aperta una nuova fase per l’umanità. Ci troviamo a vivere completamente atei, ma ancora non siamo capaci di vera democrazia. Non riusciamo a superare i rapporti antagonistici che ci affliggono quotidianamente. Non siamo capaci di rivoluzionare la società, di trasformare il sistema in un qualcosa di completamente diverso. La paura ci frena. L’illusione ci condiziona. Pensiamo sempre che chi ci comanda possa attenuare le sue pretese. O che le cose si possano risolvere da sole. Abbiamo trasformato la scienza in una nuova religione e facciamo dei nostri fondamenti politici ed economici (il diritto internazionale, la democrazia parlamentare e il libero mercato) degli idoli da adorare.

Siamo ancora molto immaturi, lontani dal Sapere aude kantiano. E quando dimostriamo coraggio, non siamo capaci di coerenza. “Non faccio quello che voglio ma quello che non voglio”, diceva san Paolo duemila anni fa. Facciamo le cose a metà. Il servo della gleba non era uno schiavo, ma non era neppure libero. L’operaio salariato è giuridicamente libero, ma è socialmente schiavo. L’Occidente è ricco, ma vive sulle spalle del Terzo mondo. Le cose sono sì paradossali – come è giusto che siano -, ma al negativo. Qualcosa va sempre storto e qualcuno ci rimette sempre.

Il falso benessere su cui poggia la nostra pseudo-democrazia è in attesa di uno sconquasso internazionale che ne riveli la vera natura. E noi non siamo capaci di innescare la miccia propositiva. “Non sono venuto a portare la pace ma il fuoco, e quanto vorrei fosse già acceso”, diceva Joshua nei vangeli.

Quand’anche fossimo capaci di accendere questo fuoco purificatore, sapremo poi impedire che si ricada nel male di sempre? Il problema, infatti, non sta solo nel saper porre le premesse della transizione, ma anche nel saperle gestire “dopo” averla avviata. Gli uomini sembrano non aver mai le idee chiare. Dopo aver fatto un passo avanti, con la rivoluzione d’Ottobre, ne hanno fatti due indietro con lo stalinismo industriale e il maoismo agricolo.

Sembra che tornare al comunismo primordiale sia diventata la cosa più difficile di questo mondo. Ci siamo complicati inutilmente la vita, e ora tutto quello che ci diciamo sul piano teorico, lo smentiamo puntualmente su quello pratico. Forse prima di dimostrare che sappiamo essere coerenti, dovremmo recarci in un deserto e stare a digiuno per quaranta giorni e quaranta notti.

I rischi del credere

Qualunque credenza religiosa comporta sempre il rischio che, al cospetto di un’esigenza di liberazione nei confronti di contraddizioni insostenibili, il soggetto assuma atteggiamenti nocivi o controproducenti al raggiungimento di uno scopo comune.

Il credente, infatti, oscilla sempre tra due atteggiamenti opposti: l’ingenuità e il fanatismo, che spesso portano a medesime conseguenze, anche del tutto involontarie.

L’ingenuità sta nel fatto che il soggetto crede in entità astratte, ritenute onnipotenti sotto ogni aspetto, per cui può essere facilmente raggirato o tratto in inganno. Può infatti diventare fanatico quando gli si chiede di compiere determinate azioni, in virtù delle quali gli viene fatto credere d’essere molto più in linea con la volontà divina.

In genere è abbastanza facile riconoscere credenti del genere, poiché sono quelli che antepongono le idee ai fatti, che privilegiano l’ideologia alla politica, che subordinano la soddisfazione dei bisogni al rispetto dei precetti religiosi, che praticano discriminazioni di vario tipo: fede religiosa, genere sessuale, provenienza geografica, lingua parlata e cose analoghe.

Con questo ovviamente non si vuole sostenere che per realizzare una liberazione nazionale o una qualche forma d’insurrezione non debbano esserci dei martiri. Semplicemente non dovrebbero esserci dei martiri influenzati dalle idee estremistiche di qualche intellettuale.

Si può morire per una giusta causa, ma a condizione che questa sia “popolare”, cioè condivisa da ampi strati della popolazione. Quando si lotta per una giusta causa, non si può venir meno ai princìpi della democrazia o ai valori umani universali.

Una minoranza non può imporre le sue regole di vita, i suoi punti di vista alla maggioranza. Non si possono fare rivoluzioni o insurrezioni o moti popolari senza il consenso di ampi strati di cittadini e di lavoratori, senza dibattiti pubblici, senza confronto alla pari con chiunque voglia impegnarsi in progetti del genere.

La persuasione ragionata è la prima arma della democrazia. La seconda è l’autodifesa. Sarebbe assurdo, infatti, rinunciare a difendere le conquiste di un moto eversivo o di una qualche rivendicazione popolare solo perché l’avversario ha scatenato una controffensiva.

Dunque, ci si può fidare dei credenti? Diciamo fino a un certo punto. Quando sono in gioco interessi collettivi, che coinvolgono credenti di varie religioni e anche non credenti, sarebbe bene non affidare ad alcun credente delle responsabilità direttive o strategiche, proprio perché qualunque credente è una persona potenzialmente inaffidabile.

Non è infatti possibile sapere fino a che punto egli s’impegni, come cittadino, a favore della democrazia in sé o non piuttosto per ottenere dei privilegi proprio in quanto credente. D’altra parte non si può indurlo a compiere determinate azioni facendo leva sulla sua fede religiosa, poiché ciò implicherebbe una strumentalizzazione delle sue convinzioni. Neppure è possibile farlo agire come se tali convinzioni non le avesse (chi avrebbe il coraggio d’imporre a un ebreo o a un islamico di mangiare carne di maiale?), e tanto meno è possibile rinunciare alla sua disponibilità a lottare per il bene comune solo perché ha determinate convinzioni.

Bisogna sapere trovare un punto d’incontro che soddisfi l’obiettivo comune della liberazione dagli antagonismi sociali. Di regola, al cospetto di obiettivi del genere, si chiede ai partecipanti d’impegnarsi a prescindere dall’atteggiamento che si può avere in campo religioso, ma è evidente che i credenti, proprio perché tali, non mancheranno di far valere, quando lo riterranno opportuno, la loro diversità. Ecco perché non ci si può fidare ciecamente di loro.

Tuttavia bisogna fare attenzione a non ostacolarli per motivi di opinione e a non offenderli nei loro sentimenti, cioè a non creare, da parte degli organi di potere, degli inutili martiri. Se c’è una cosa, infatti, che induce a credere ancora di più nella verità delle proprie idee, è vedere che per queste stesse idee qualcuno è disposto ad accettare qualunque persecuzione.

Le regole generali, democratiche, da far valere nell’atteggiamento da tenere nei confronti delle religioni dovrebbero essere le seguenti: 1) la religione dev’essere dichiarata un affare privato (della coscienza), senza ch’essa possa aspirare a pretese di tipo politico o nazionalistico; 2) ognuno dev’essere lasciato libero di professare qualsiasi religione o di non riconoscerne alcuna, cioè di essere ateo o agnostico; 3) è inammissibile tollerare delle differenze sostanziali nei diritti dei cittadini motivate da credenze religiose, ovvero ci si può opporre a determinati comportamenti o leggi degli organi di potere se viene violata la libertà di coscienza, che è un diritto riguardante chiunque, credente o non credente che sia; 4) un partito politico può anche fare propaganda a favore dell’ateismo senza per questo violare la libertà di coscienza di nessuno; anche le chiese o le associazioni religiose possono fare propaganda delle loro idee; 5) sono possibili alleanze fra credenti e atei sulla base di piattaforme politico-programmatiche che nulla hanno a che vedere né con l’ateismo né con la religione; 6) se un credente accetta la linea politi­ca di un partito aconfessionale, deve poi preoccuparsi da solo di risolvere le sue in­coerenze sul piano ideologico: dal partito avrà soltanto l’assicurazione che non verrà discriminato per la sua diversa ideologia; 7) si può ammettere all’interno di un partito la libertà di opinione, ma entro i limiti fissati dalla libertà di associazione: non possono essere ammessi predicatori attivi di concezioni respinte dalla maggioranza del parti­to.

 

I limiti insuperabili della filosofia borghese

Tutto questo parlare di “dio” nella filosofia moderna dell’Europa occidentale era una conseguenza del carattere “borghese” di quella filosofia, cioè del suo carattere “classista”, non democratico, anche se indubbiamente quella filosofia appariva più democratica della teologia medievale, che, per sua natura, era legata all’aristocrazia (laica ed ecclesiastica) e quindi a forme assolutistiche della monarchia.

I filosofi borghesi, non avendo l’appoggio delle masse popolari, poiché volevano assolutamente emanciparsi anche dalla vita contadina, che quella volta era prevalente, erano in un certo senso costretti a parlare di dio per non subire spiacevoli conseguenze da parte dei poteri costituiti. Tuttavia, se avessero potuto parlare liberamente, avrebbero usato soltanto la parola “io”.

L’io borghese vuole indubbiamente liberarsi del peso di una comunità religiosa i cui valori non sente più come propri. In particolare il borghese non sopporta più l’incoerenza, tipica del cattolicesimo-romano, tra alti valori affermati in sede teorica, e grande corruzione vissuta sul piano pratico da parte delle gerarchie ecclesiastiche, che ambiscono sempre ad avere privilegi economici e poteri politici.

Il filosofo borghese ha però questa caratteristica che lo rende umanamente poco credibile: non lotta per abolire tutti i privilegi, per affermare una piena democrazia sociale, ma vuole affermare un proprio diritto esclusivo, capace di farsi strada nel mare magnum dei privilegi feudali.

Il borghese non è che un ecclesiastico laicizzato, è un “prete dentro”, nella sua coscienza. Ha avuto bisogno di non pochi secoli per affermarsi proprio perché la sua filosofia non era “popolare” ma “classista”. Ha dovuto cercare un’infinità di compromessi, di sotterfugi, di ambiguità semantiche prima d’imporsi in maniera definitiva.

Viceversa in Europa orientale si poté passare dalla religione ortodossa all’ateismo scientifico proprio perché gli intellettuali vollero fare una rivoluzione popolare, che eliminasse non solo il feudalesimo ma che non permettesse neppure al capitalismo di svilupparsi. Che poi le cose siano finite tragicamente, con un ritorno ai valori dell’ortodossia religiosa, non significa che, in quella fase iniziale, le intenzioni non fossero giuste.

In particolare i comunisti affermarono subito, per ottenere il consenso delle masse rurali, che, a rivoluzione avvenuta, avrebbero provveduto a fare la riforma agraria, spezzando il latifondo e concedendo in proprietà gratuita dei lotti di terra sufficienti per vivere.

Questa cosa non è mai stata fatta dalla borghesia. I borghesi non avevano proprietà terriere, ma solo abilità personali per fare affari commerciali. Volevano arricchirsi a titolo individuale, per poter accedere alle leve del potere politico. Nei confronti dei contadini potevano soltanto avere un atteggiamento strumentale, quello di servirsene per fare una rivoluzione anti-feudale. A rivoluzione avvenuta, venivano immancabilmente traditi, in quanto la borghesia, temendo che le idee democratiche diventassero “socialiste”, provvedeva subito a cercare un compromesso con l’aristocrazia. Nel contempo venivano illusi prospettando loro una vita “libera” se si fossero trasferiti nelle città a svolgere il mestiere dell’operaio o dell’artigiano. Li s’illudeva di potersi arricchire partendo anche da precarie condizioni sociali, totalmente prive di proprietà.

Tutte le rivoluzioni borghesi, nessuna esclusa, hanno subìto questa involuzione. Nel momento in cui venivano fatte, si poteva anche aver chiaro fin dove si sarebbe potuti arrivare, ma nel momento in cui venivano concluse, le forze borghesi provvedevano subito a ridimensionare gli obiettivi, a ridurre le pretese “popolari” in direzione della democrazia. Al massimo – si diceva – ci si può emancipare nell’ambito del capitalismo.

Questo spiega il motivo per cui l’esperienza borghese dell’economia è destinata ad essere superata da un’esperienza più democratica. Il momento in cui ciò avverrà dipenderà da due fattori: consapevolezza e determinazione rivoluzionarie. Un qualunque peggioramento dei conflitti sociali non farà che rendere più evidente questa esigenza.

La filosofia borghese tra paganesimo e cristianesimo

In Grecia, o meglio, nelle colonie ioniche, nella Magna Grecia e in Sicilia, la filosofia è nata, in un certo senso, come la teologia scolastica, cioè cercando di esprimere gli interessi di una classe sociale emergente: la borghesia. Una classe che 500 anni prima di Cristo e poi, di nuovo, 1000 anni dopo Cristo, ambiva a porsi in antagonismo a quella aristocratica. Era una contrapposizione tra monopolio della terra e traffici marittimi. Era un’accanita lotta fra tradizione, sapientemente manipolata a favore dei ceti agrari, militari e schiavili, e innovazione culturale, etica e politica che nasceva in ceti mercantili, artigianali e professionistici favorevoli, virtualmente, alla democrazia e all’uguaglianza dei cittadini.

Era un’illusione contro un’altra illusione. Si distrusse una tradizione mistificata con una innovazione non meno mistificata. Fu soltanto il tentativo di far emergere una classe sociale senza scrupoli, ridimensionando le pretese di un altro ceto che, a causa delle proprie interne contraddizioni, non aveva da dire più nulla di positivo alla società nel suo insieme. L’eroismo degli antichi guerrieri nobili (così evidente nell’Iliade) era diventato una caricatura, il pretesto per affermare privilegi ingiustificati.

La filosofia, la logica, la scienza… sono sostanzialmente nate contro il mito, che era l’ideologia dominante dell’aristocrazia: un mito che si poteva soltanto accettare così com’era, senza discutere. E in questa contrapposizione non s’è recuperato ciò che quel mito aveva mistificato, ma s’è buttata via l’acqua sporca col bambino dentro. Si è giustamente voluti passare dalla religione all’agnosticismo e persino all’ateismo, ma per fare gli interessi esclusivi di una classe dedita ai traffici mercantili. Cioè non si è recuperato lo stile di vita pre-schiavistico, la dimensione dell’uguaglianza sociale e sessuale. Si è soltanto affermato culturalmente l’ateismo, senza sapere ch’esso già esisteva nelle società pre-schiavili. E, proprio per questa ragione, lo si è affermato, inevitabilmente, in maniera ambigua, mescolandolo ad affermazioni dal sapore mistico o metafisico.

L’ateismo borghese è sempre incoerente, non importa se di 500 anni prima di Cristo o di 1000 anni dopo. Si è pensato di fare una rivoluzione del pensiero, ma nella realtà non s’è fatto altro che estendere la corruzione del ceto aristocratico a tutta la società borghese. Due cose infatti non sono mai state poste in discussione: l’esistenza della schiavitù e la discriminazione della donna. Queste due contraddizioni ne hanno inevitabilmente alimentate altre due: il razzismo culturale nei confronti delle popolazioni “diverse” e il primato delle esigenze produttive dell’uomo su quelle riproduttive della natura.

Tutte queste anomalie, a loro volta, dipendevano da un’altra ancora, la più importante di tutte: l’individualismo esistenziale, cioè la concezione che l’individuo, per potersi realizzare, deve perseguire degli obiettivi di tipo personale, basati sulla logica dell’interesse. L’appartenenza a ceti o classi (alla polis o al Comune) è sempre stata vista in maniera strumentale all’obiettivo che ci si prefiggeva.

La differenza tra i ceti mercantili di 500 anni prima di Cristo e quelli di 1000 anni dopo Cristo non sta soltanto nella diversa estensione geografica del dominio economico e politico, ma anche e soprattutto nel fatto che la cultura degli uni era pagana, mentre quella degli altri era cristiana. Questa differenza ha comportato una diversità di una certa importanza, poiché, sulla base di essa, nascerà l’odierno capitalismo: la borghesia comunale non sfruttava più uno schiavo vero e proprio, ma un operaio giuridicamente libero.

Ecco perché dobbiamo dire che la borghesia cristiana ha creato una cultura molto più sofisticata di quella della borghesia pagana, una cultura che, a tutt’oggi, nonostante lo smascheramento compiuto dal socialismo, domina incontrastata a livello mondiale.

Povertà della logica ateistica

Nel numero 5/2013 di “MicroMega”, intitolato Ateo è bello! Carlo Bernardini basa il proprio ateismo “scientifico” su ciò che disse un accademico neopositivista, Richard von Mises: “Non esiste la dimostrazione della non-esistenza di ciò che non esiste”.

Detto da un esponente del Circolo di Berlino (non di Vienna), la cui filosofia aveva apprezzato quella del Trattato di Wittgenstein, fa un po’ specie. Che poi lo ripeta un fisico prestigioso come Bernardini, è increscioso.

È dai tempi del logico Frege, anzi forse da quelli di Hume e Leibniz, che non ci si permette più di dire che, in campo logico, una proposizione è vera se ha una qualche corrispondenza nella realtà. La logica moderna non è come quella aristotelica: non si basa su soggetto e predicato, che devono trovare conferme nella realtà, secondo il famoso sillogismo: “Se tutti gli uomini sono mortali, e Socrate è un uomo, Socrate è mortale”. Cosa che gli Scolastici neo-aristotelici chiamavano “adaequatio rei et intellectus”.

La logica moderna, quella astratta della borghesia, si basa invece sul fatto che anche una proposizione falsa è sensata, cioè un’espressione può essere sensata anche in quanto “logicamente” falsa. L’esempio di Wittgenstein è famoso: “piove o non piove”: anche la negativa è vera e può convivere tranquillamente con l’affermativa, anzi, proprio questa sussistenza permette di creare qualunque tipo di proposizione.

L’informatica si nutre di queste cose, facendo suo l’esempio, in positivo, che Bernardini usa per dimostrare la fondatezza del proprio ateismo: “La dimostrazione dell’esistenza del pane è il pane”. Bella tautologia questa, che, per quanto esistenzialmente povera, Wittgenstein avrebbe però rovesciato immediatamente nel suo contrario, proprio per rendere la logica più stringente: “La dimostrazione dell’esistenza (sottinteso: logica) del non-pane è il non-pane”.

In campo informatico, quando si devono elaborare algoritmi, “pane” e “non-pane” si equivalgono perfettamente. In logica la forma è sostanza. Pertanto dire che dio non esiste perché il credente non può dimostrarne l’esistenza, non ha senso. In campo logico non si deve “dimostrare” alcunché di metafisico, se non una propria interna coerenza formale, che i logici si guardano bene dal contraddire prendendo esempi dalla realtà. E in questo, purtroppo, bisogna dire che sbagliano, poiché la logica della vita, per quanto contraddittoria sia, è sempre più interessante e avvincente della logica formale dei segni e dei simboli.

Non è comunque sul piano della “dimostrazione logica” che l’ateismo può giocare la propria partita con il misticismo. Non è certo con la tautologia del pane che si dimostrano le contraddizioni del pane eucaristico! Infatti non si tratta – diceva Wittgenstein – di “di/mostrare” qualcosa. In campo etico si può soltanto “mostrare” qualcosa, cioè al massimo l’ateo può essere più convincente del credente se “mostra” sul piano etico d’essere migliore di lui. E quando riuscirà a farlo, sul piano etico, che è quello dell’affronto dei bisogni e delle umane contraddizioni, possiamo star tranquilli che sarà migliore anche di quell’ateo che basa il proprio ateismo su affermazioni meramente logiche.

Ateo è bello ma non banale

Sul n. 5/2013 di “MicroMega” (Ateo è bello!), interamente dedicato all’ateismo, la Presentazione di Paolo F. D’Arcais merita d’essere commentata. Proprio perché di alcuni luoghi comuni in materia di ateismo non se ne può più, soprattutto da parte degli intellettuali.

Continuare a ribadire che devono essere i credenti a esibire “prove” della loro fede, quando ormai il concetto di “prova” è stato di molto ridimensionato dalla stessa scienza contemporanea, nel senso che nessuno può vantarsi d’averne in maniera inconfutabile, è quanto meno un segno d’arretratezza culturale. L’esempio del Sole che, sin dal tempo degli eliocentristi perseguitati dalla chiesa, sta lì nel mezzo mentre la Terra gli gira attorno, come volevasi appunto “dimostrare”, è ridicolo: sia perché anche il Sole si muove insieme a noi, sia perché sul piano pratico la cosa è abbastanza indifferente all’uomo comune, sia perché, infine (e questo lo dice Wittgenstein, che credente non era), non c’è nulla sul piano logico che obblighi il Sole a risorgere una volta tramontato.

D’Arcais afferma che “il ricorso alla parola ‘mistero’ è impraticabile in ogni discussione razionale”. Bene, così abbiamo fatto un bel regalo alla religione: l’unica titolata a parlarne! Chissà che tipo di parola dovremo trovare per definire quel 90% di materia di cui ancora non sappiamo un fico secco.

Servirsi poi delle argomentazioni ingenue dei classici filosofi greci, le quali ritenevano incompatibile la presenza di un dio assoluto con la presenza di un male così radicato sulla Terra, è quanto meno puerile: qualunque religione un po’ scafata obietterà che dio non può violare il libero arbitrio, altrimenti si sarebbe limitato a creare animali non esseri umani. Un qualunque credente arriva molto facilmente a sostenere l’esistenza di dio, proprio partendo dal fatto che l’azione umana, nonostante il male compiuto, alla fine rientra sempre in un progetto salvifico più generale. Semmai a un credente del genere si potrebbe far presente che proprio l’esistenza del male dimostra, seppur negativamente, ch’esiste un “dio” chiamato “uomo”, l’unico essere dell’universo che compie il male contro il proprio istinto di bene, e che non ha bisogno di nessun altro dio per comportarsi diversamente.

Invece D’Arcais preferisce parlare di “caso e contingenza”, che per essere smentiti avrebbero bisogno di un “determinismo assoluto e onnipervasivo”, che per fortuna – dice lui – nella realtà non esiste. E’ ridicolo. Il caso ovviamente esiste, ma ha un ruolo determinato, entro un certo ventaglio di possibilità: come scegliere una carta nel mazzo. Se il caso fosse assoluto, sarebbe relativa qualunque parola usassimo per definirlo. Ed è curioso che un atteggiamento che si presume “scientifico” attribuisca al caso l’origine di tutto. Se c’è una categoria che la scienza dovrebbe detestare è proprio quella della “casualità”: infatti, proprio nel momento in cui la usa, smette d’essere “scientifica” e diventa “filosofica”.

E’ assoluta o relativa la libertà di coscienza? Se relativa, perché ci diamo così tanto da fare per tutelarla? perché addirittura morire per difenderla? Quando lo fanno i credenti, dobbiamo pensare che a ciò siano meno legittimati, in quanto il dio della loro rivendicazione è qualcosa di indimostrabile? La libertà di coscienza non è forse fonte di una morale umana universale, a prescindere dalle sue pratiche realizzazioni, sulle quali comunque è sempre bene confrontarsi?

“L’azione del ‘caso’ rende imprevedibile l’esito”, dice D’Arcais. In che senso? Nessun esito può essere così imprevedibile da violare le leggi di natura. O forse, per togliere ai credenti l’idea di creazione predeterminata, vogliamo negare che l’essere umano sia soggetto a leggi di natura, indipendenti dalla sua volontà? Non è certo un caso che mutazioni genetiche avvengano in popolazioni che non praticano l’esogamia o che sono sottoposte a inquinamenti ambientali. Davvero “il caso esclude il finalismo”? Davvero è così assurdo pensare che un puntino insignificante dell’universo, chiamato Terra, possa pretendere, all’interno di tale contenitore, d’avere uno “scopo” e un “senso”? Anche l’embrione umano appena concepito è, nell’utero, un puntino insignificante. Anche il Tirannosauro nell’uovo che l’ha generato. E allora?

E con quale sicurezza si può sostenere che “tutte le facoltà che chiamiamo ‘spirituali’ cessano con la morte”? E se fosse la “morte” a non esistere? Come possiamo sapere che questa non sia soltanto una parola imprecisa con cui cerchiamo di definire un “trapasso naturale” da una condizione a un’altra? Quando mai nell’universo si può parlare di “morte” senza parlare, nel contempo, di “trasformazione”? L’antimateria esiste, eppure noi non la vediamo: gli scienziati si limitano a supporla, e nessuno ha l’ardire di definirli “credenti” solo per quest’ammissione di ignoranza.

Per concludere. Quando si dialoga coi credenti è meglio partire dal presupposto che non esiste “prova” che non possa essere smentita. Più che aver la pretesa di “dimostrare” qualcosa, dovremmo limitarci a “mostrarla”, usando sì argomentazioni a supporto, ma senza privilegi di esclusività. Le cose assumono significati diversi a seconda delle circostanze di spazio e tempo e del punto di vista con cui o da cui vengono osservate, benché non si possa escludere l’esistenza di leggi di natura, universalmente valide.

Dobbiamo accontentarci di argomentazioni che rendono soltanto plausibili determinate affermazioni, cioè ragionevolmente possibili, senza che ciò comporti alcuna forma di misticismo, laica o religiosa che sia. Non possiamo rischiare di assumere un atteggiamento “mistico” anche nei confronti dello stesso concetto di “prova”, col risultato di fare della scienza una nuova religione. Un’evidenza che presuma di auto-dimostrarsi è una semplice tautologia, avente quindi un contenuto semantico poverissimo. In campo astronomico la parola “mistero” non è l’eccezione ma la regola. Ma anche in campo medico, quando le guarigioni vengono ottenute per cause psichiche.

Il mistero fa parte della natura in generale e di quella umana in particolare, in quanto, in ultima istanza, resta sempre qualcosa d’insondabile nella natura delle cose, ed è proprio questo aspetto che stimola la ricerca e permette alle cose di assumere forme o fisionomie sempre diverse. Non c’è mai nulla di uguale a se stesso.

E’ assurdo pensare che le popolazioni del passato, solo per il fatto di non avere le nostre stesse conoscenze, non fossero “razionali”. Non ha alcun senso sostenere che è “vero” solo ciò che è empiricamente dimostrabile. Questo è fanatismo scientifico. Neppure l’amore tra due persone è “dimostrabile” empiricamente, eppure diciamo di non aver dubbi a riguardo. Qualunque risposta a qualunque perché “ontologico” resta scientificamente indimostrabile. Dobbiamo elaborare un altro concetto di “scienza”, più legato non tanto alla tecnologia quanto alle profondità dell’umano, che sono poi le stesse della natura.

Sperare contro ogni speranza

Quando si finisce sulle Ande, perché l’aereo vi si è schiantato contro, e i soccorsi non arrivano e i viveri sono molto scarsi e non c’è alcun modo di comunicare con l’esterno, perché la radio non funziona, e i passeggeri, chi per le ferite riportate, chi per inedia, finiscono, uno dopo l’altro, per morire, e la disperazione comincia a farsi strada nei sopravvissuti, che, guardandosi attorno, avevano per un momento pensato d’essere stati “fortunati” – si vede subito la differenza tra l’ateo e il credente.

Uno prega, l’altro no; uno è passivo, rassegnato, l’altro no; uno dice di aspettare i soccorsi, l’altro invece li vuole andare a cercare tra quelle montagne impervie e innevate. Uno si affida a dio, l’altro al proprio io e cerca di convincere altri io a rischiare il tutto per tutto. Preso dalla terribile fame l’ateo propone di mangiare i cadaveri degli altri passeggeri; il credente, invece, si oppone per motivi di coscienza: ne fa una questione ideologica.

Dov’è dunque la vera differenza tra i due atteggiamenti? Dobbiamo forse pensare che l’ateo faccia di tutto per sopravvivere perché ritiene che non esista alcun aldilà? E che il credente faccia bene ad essere indifferente nei confronti della morte, perché sa che comunque tornerà a vivere? Dei due quindi dobbiamo ritenere più immaturo, più sprovveduto l’ateo, che non sa come stanno davvero le cose nell’universo?

No, la differenza non può stare in queste cose, poiché anche l’ateo può pensare che la vita continui dopo la morte. Se ritiene che l’universo sia infinito e che tutto quanto vi è contenuto si trasforma perennemente, niente gli impedisce di crederlo.

In fondo il credente non può avere alcuna certezza del suo “paradiso”: è solo una sua convinzione personale, in cui chiunque può credere, senza per questo dover scomodare l’esistenza di un fantomatico dio. La differenza, tra i due, non può essere così banale: deve per forza essere un’altra.

Il credente pensa di poter esibire ciò che lo distingue dall’ateo, per far vedere che è migliore, che il suo atteggiamento rassegnato e autoconsolatorio è quello giusto. Lui attende fiducioso un intervento miracoloso e si sente autorizzato a pensare che, se questo non arriva, la loro o la sua sia soltanto una prova da superare, magari per misurare la fede o per punire, lui o qualcun altro, di qualche peccato compiuto. Lui è lì, tutto pronto a fare delle supposizioni metafisiche.

No, l’ateo non farebbe mai ragionamenti del genere, così paralizzanti: tanto meno accetterebbe l’idea che quella tragica avventura deve servirgli per mutare opinione sulle questioni della fede. Anzi, troverebbe il modo di organizzarsi per cercare di salvare tutti, perché per lui la vita va vissuta sino in fondo, è tutto quello che è in suo potere di fare, deve farlo.

In questo sta la sua diversità: se deve morire, vuol farlo camminando, non stando a sedere, chiuso in quel rottame abbandonato da dio. Cercherà un modo per comunicare, anche a costo di attraversare a piedi quell’enorme catena montuosa. Si attrezzerà, pensando di dover sopravvivere a 40 gradi sotto zero e in un sacchetto metterà una scorta di carne umana. Non darà per scontato, senza prima provarci, che non ci sia più nulla da fare.

E una volta che avrà trovato i soccorsi, farà capire al credente cosa vuol dire l’espressione “sperare contro ogni speranza”. Sì, farà capire proprio a lui cosa vuol dire “aver fede”.

Abbiamo davvero capito Aristotele?

La metafisica di Aristotele si divide in due settori (ontologia e teologia) che potrebbero restare anche separati. Ciò che li lega, in definitiva, è abbastanza irrilevante. Fa anzi specie che un filosofo del suo livello abbia introdotto un discorso su dio ragionando in maniera semplicistica, come fanno gli adolescenti, quando si chiedono, posti di fronte a una causa, quale sia la causa della causa e così via. Qui aveva ragione Marx, quando, nei Manoscritti del 1844, diceva che i credenti vogliono dimostrare l’esistenza di qualcosa partendo dalla sua inesistenza.

In altre parole, quando si osserva un fenomeno e si vuol cercare di capirne le cause, ad un certo punto ci si dovrebbe fermare, non tanto perché non si hanno elementi sufficienti per vincere l’ignoranza, ma, al contrario, proprio perché si è ben consapevoli che, oltre un certo limite, non si può andare. E questa umiltà nei confronti dell’insondabilità delle cose, dovremmo averla non solo nei confronti dei fenomeni umani, ma anche nei confronti di quelli naturali. La pretesa di voler conoscere tutto è semplicemente infantile, che però possiamo giustificare in una filosofia nata 2300 anni fa. Questo perché ogni volta che si vuole approfondire qualcosa, si arriva sempre a un punto – che poi è quello della libertà – in cui fermarsi è d’obbligo, in quanto, se si facesse il passo ulteriore, si direbbero cose facilmente contestabili.

Il fatto che Aristotele accetti l’idea di un qualcosa di “soprasensibile”, di per sé non andava preso come un invito a credere in una qualche “divinità”, anche perché Aristotele era più propenso ad accettare l’eternità dell’universo, escludendo quindi che potesse esistere un “dio creatore”. Dicendo “soprasensibile” egli aveva soltanto in mente qualcosa di diverso da ciò che si può constatare usando il nostro pianeta come osservatorio del cosmo. Sulla Terra infatti tutto sembra avere un inizio e una fine: il “soprasensibile” (quello che non è soggetto a mutamento) doveva per lui trovarsi al di fuori della Terra, cioè appunto nell’universo. E doveva essere qualcosa di diverso dai quattro elementi che compongono il nostro pianeta (terra, aria, acqua e fuoco). Di qui l’ipotesi di una “quinta essenza”, eterna, immutabile, senza peso e trasparente, che lui chiamò etere, in cui continuerà a credere persino il matematico Luca Pacioli, neoplatonico del XVI sec.

Tutto il discorso che Aristotele fa alla fine della sua metafisica, relativamente al cosiddetto “primo motore immobile”, non è decisivo per capire la struttura dell’universo, in quanto sarebbe bastato parlare dei cinque suddetti elementi. Potrebbe benissimo essere stato scritto da qualcuno che ha cercato di conciliare, forzosamente, Aristotele con Platone. Anche perché Aristotele era uno scienziato: più che le cause ultime di tutte le cose, preferiva parlare di cause finali, cioè di “scopo dell’agire”, o di leggi della trasformazione della materia, che da cosa magmatica e informe diventa ben definita e intelligibile (e non solo in astronomia, ma anche in fisica, botanica, zoologia ecc.). Oppure trattava, magistralmente, di argomenti di logica formale, che con la teologia non avevano attinenza.

Aristotele non pensò mai di attribuire all’universo una nascita, né, ovviamente, una fine. E’ vero che per lui l’universo non era, eterno e, insieme, infinito, poiché, come tutti i greci (che in questo caso son appunto come i bambini), preferiva un universo perfetto proprio in quanto finito. L’idea di infinito sconcertava: al massimo veniva ammessa sul piano matematico, come ipotesi astratta, non riguardante la fisica vera e propria.

Oggi invece siamo arrivati alla conclusione che è proprio l’infinità spaziale dell’universo (che corrisponde appunto alla sua eternità temporale) che assicura a noi, come essenza umana, una unicità nell’universo. Il genere umano è universale in quanto l’universo è l’unico luogo adeguato a contenerlo. L’universo dell’essere umano è il suo proprio universo.

Occorre però ribadire che non esiste per Aristotele alcun “dio creatore”; al massimo può esistere un “dio regolatore”, cioè un qualcosa che spieghi il movimento della materia: l’unico vero argomento per lui meritevole d’interesse. D’altra parte nessun greco ha mai pensato a una “creazione dell’universo” da parte di un dio dotato di superpoteri (gli stessi dèi erano sottoposti al fato, cioè a leggi imperscrutabili). Se si può rimproverare qualcosa ai greci non è tanto l’idea di negare che dal nulla possa nascere qualcosa, quanto piuttosto di non aver capito che il non-essere ha un ruolo decisivo per la stessa natura dell’essere, essendo fonte di libertà e di diversità.

La materia, nella sua origine, apparteneva all’ambito del non-essere, che, nelle sue profondità, resta inaccessibile all’essere, come la coscienza possiede elementi inconsci, che restano, in ultima istanza, non chiaramente definibili. D’altra parte la stessa creazione raccontata nel Genesi ebraico sembra più che altro finalizzata a far capire a un essere umano del tutto smarrito quale sia la sua origine nell’universo e quindi il suo significato sulla Terra.

E’ un racconto pedagogico, che serve per spiegare il momento di passaggio da una condizione naturale, quella del comunismo primordiale, a una molto innaturale, quella dello schiavismo. In quella naturale non vi era alcuna vera differenza tra uomo e dio, in quanto entrambi “passeggiavano” nel giardino, cioè l’uomo aveva consapevolezza d’essere padrone della propria vita, mentre in quella innaturale ha piena consapevolezza d’essere schiavo di qualcun altro.

Quando Aristotele delinea una cosmologia così chiusa e perfetta, lo fa dal punto di vista di un osservatore terrestre, usando ragionamenti di tipo deduttivo; ma questa descrizione lasciava, in un certo senso, impregiudicato il significato profondo dell’universo, che va necessariamente al di là di qualunque osservazione.

La sua teoria cosmologica ha avuto così grande successo semplicemente perché, senza strumenti tecnologici avanzati, era la migliore possibile, quella più convincente. Anzi, se nell’universo esiste un finalismo (e il caso spiega soltanto i fenomeni accidentali), noi dovremmo dire che il geocentrismo è una scienza “istintivamente” esatta, in quanto soddisfa le esigenze della coscienza umana. Non perché – come diceva la chiesa – esiste un dio, ma proprio perché non esiste.

Noi siamo al centro dell’universo, proprio perché l’universo è ateo. Gli unici esseri viventi dell’universo sono quelli del pianeta Terra, del nostro presente e anche del nostro passato, poiché tutto, ivi inclusi quindi gli esseri umani, è in perenne trasformazione. Noi non vediamo gli esseri umani che ci hanno preceduto, semplicemente perché li osserviamo dal punto di vista terrestre. Ma il punto di vista che meglio caratterizza gli umani è quello universale, che rispecchia in maniera più adeguata le caratteristiche della loro libertà di coscienza, che è eterna e infinita.

La scienza moderna, quella nata in epoca borghese, ci ha spiegato come funzionano le cose materialmente, ma, tenendo separata la materia dal suo fine, ci ha fatto perdere la visione d’insieme.

Verità e linguaggio

Il bambino comprende la madre e poi il padre perché li vede quotidianamente, ed è in grado di associare progressivamente le parole ai loro significati, che non sono solo significati concreti (oggettuali) ma anche astratti (emotivi).

Se il bambino li sentisse parlare senza poterli vedere, perché magari cieco, probabilmente ci metterebbe molto più tempo a capire gli aspetti astratti del linguaggio, ovvero la differenza tra semplici riferimenti oggettuali e complessi riferimenti emotivi. Un bambino cieco, per poter comprendere meglio il linguaggio astratto degli adulti, avrebbe continuamente bisogno d’essere toccato. In tal caso il contatto servirebbe come forma di rassicurazione.

Sotto questo aspetto tutte le religioni che presumono d’avere aspetti dogmatici nelle loro teorie non fanno altro che usare una intangibilità astratta per supplire alla mancanza di un contatto fisico con la divinità, che sanno bene di non poter avere (e che s’illudono d’avere nelle estasi mistiche). I credenti son come dei bambini ciechi con un corpo da adulto. E non si rendono conto che se la verità (in tal caso espressa attraverso il linguaggio) fosse una determinazione proveniente da una realtà totalmente esterna, come appunto una divinità, l’essere umano non riuscirebbe neppure a comprenderla.

Invece di dire che, se esiste un dio, non può in alcun modo essere più grande dell’uomo, almeno non negli aspetti di sostanza che qualificano l’essenza umana, i credenti preferiscono rimpicciolirsi al massimo, facendo della divinità un qualcosa di assolutamente sproporzionato, che, in ultima istanza, suscita sentimenti inquietanti, non avendo alcuna caratteristica umana.

Essi infatti s’immaginano un dio onnipotente e onnisciente, in grado di leggere i pensieri, di compiere qualunque cosa, di prevedere il futuro, di esprimere giudizi infallibili… Un dio del genere non potrebbe esistere neppure se ogni essere umano fosse destinato a diventare come lui. Infatti una condizione del genere è la negazione dell’elemento fondamentale che costituisce l’essenza umana, e cioè la libertà, soprattutto la libertà di coscienza.

E’ stato sicuramente per questo motivo che il politeismo non ha mai conosciuto il dogmatismo. Pur essendo la religione dello schiavismo e pur avendo quindi ogni motivo per elaborare dei dogmi con cui confermare la discriminazione sociale, il politeismo era ancora troppo vicino alla cultura pre-schiavistica per poterla offuscare del tutto. I miti greci, dove gli dèi hanno sempre la meglio su degli umani negativizzati, come p.es. Prometeo, quando non addirittura ridicolizzati, come nel caso di Polifemo, lo dimostrano eloquentemente: eppure quegli umani, nella realtà, cercavano disperatamente di non perdere la loro autonomia di pensiero e di azione.

La loro infatti era una cultura della libertà, che s’era dovuta piegare all’uso di quella forza che aveva prodotto la schiavitù, e che gli aristocratici latifondisti e guerrieri, insieme ai loro sacerdoti pagani, avevano fatto credere di poter conservare, illudendo schiavi e nullatenenti che sarebbe stato sufficiente coltivare infiniti culti a infinite divinità. A quel tempo era impossibile sostenere la pratica dello schiavismo giustificandolo con una religione monoteistica, caratterizzata dall’elaborazione di dogmi indiscutibili.

Il monoteismo è nato quando i rapporti con le culture primordiali erano stati del tutto dimenticati. A quel punto s’imponeva una duplice esigenza: quella di superare sia lo schiavismo che il politeismo. Purtroppo la storia ha voluto che il superamento dello schiavismo avvenisse non in direzione del recupero del comunismo primitivo, insieme all’ateismo naturalistico, ma in direzione di una transizione al servaggio, che ha appunto favorito l’evoluzione dal politeismo al monoteismo.

Il monoteismo appariva certamente come una forma più autoritaria di credenza, ma allo stesso tempo era anche più vicino alla condizione di un essere umano che, almeno formalmente, si sentiva più libero dello schiavo.

L’ulteriore passaggio dalla servitù al lavoro salariato del capitalismo ha comportato la trasformazione del monoteismo assoluto in un monoteismo privo di dogmi, liberamente interpretabile, cioè a una sorta di cripto-ateismo o di pratico agnosticismo, in cui s’impone una certa indifferenza alle verità dogmatiche. Questo spiega il motivo per cui il passaggio dal lavoro salariato a quello autogestito liberamente dovrà necessariamente comportare anche quello dall’agnosticismo religioso all’ateismo vero e proprio.

Il linguaggio quindi non può mai avere una connotazione religiosa che gli impedisca di evolversi. I dogmi sono una forma di ingenuità; e, in ogni caso, se può essere giusta l’esigenza di trovare delle definizioni più obiettive di altre, in quanto non esistono solo verità soggettive (personali), ma anche verità oggettive (collettive), non ha alcun senso perseguitare chi non le condivide. Usare i dogmi in chiave politica è un’aberrazione, di cui non s’è resa responsabile solo la chiesa romana ma anche i moderni totalitarismi.

Un collettivo può usare un dogma per espellere da sé chi non lo condivide, ma non può muovergli guerra. Peraltro chiunque dovrebbe sapere che i dogmi non si reggono in piedi da soli. Essi riflettono esperienze in atto, le quali, a loro volta, rispondono a bisogni e interessi specifici, e anche questi, col tempo, mutano enormemente.

Se proprio si volessero elaborare dei dogmi, sarebbe meglio farlo in maniera negativa, cioè apofatica, quella che viene usata non per affermare delle verità, ma per negare delle falsità, poiché tutti sanno che un’affermazione è allo stesso tempo una negazione che tende a escludere qualcosa che potrebbe col tempo rivelarsi molto importante.

Una negazione ha il pregio di lasciare aperto il campo a più possibilità. Se p.es. viene detto “non rubare”, sono infinite le possibilità in cui uno può vivere in maniera onesta. Se si dà invece una definizione astratta dell’onestà, che pretende d’essere, nella sua astrattezza, molto precisa, alla maniera filosofica o teologica, saranno infinite le obiezioni circa la sua effettiva applicabilità. Perché costringere gli uomini alle definizioni di una teoria quando sarebbe meglio lasciarli liberi nel cercare la pratica migliore?

Ecco perché bisogna sempre affermare che la verità è relativa, limitandosi, al massimo, a distinguere quella soggettiva, dell’individuo singolo, da quella oggettiva, decisa da istanze collettive, le quali devono dare per scontato che la verità assoluta è un obiettivo il cui raggiungimento non può certo essere stabilito a priori.

Perché l’idealismo vince sempre sul materialismo?

E’ impressionante vedere con quanta forza i filosofi presocratici riuscirono, col loro materialismo, naturalismo e, in fondo, ateismo, a superare le concezioni religiose della mitologia di Esiodo e Omero, e con quanta debolezza dovettero soccombere agli attacchi delle metafisiche platoniche e aristoteliche, così astratte, idealistiche e imbevute di misticismo.

Molte delle cose scoperte dai filosofi naturalisti verranno riprese solo duemila anni dopo, al tempo dell’Umanesimo e del Rinascimento; altre verranno recuperate ancora più tardi, come p.es. l’atomismo di Democrito. E di tutti i loro innumerevoli testi ci restano solo pochi frammenti: li conosciamo solo indirettamente, solo perché altri (spesso gli avversari) ne hanno parlato.

Come si spiega questo fenomeno? In una maniera molto semplice: chi professa il materialismo o l’ateismo finisce, in genere, coll’avere scarsa propensione per gli argomenti etici, preferendo di gran lunga quelli di carattere scientifico.

Ora, il potere politico dominante trova sempre una certa difficoltà a utilizzare questo atteggiamento da intellettuali per rabbonire le masse. Quest’ultime, infatti, per essere meglio ingannate, hanno bisogno di sognare ad occhi aperti, di provare sentimenti, emozioni… E il materialismo, in tal senso, appare troppo freddo, troppo sicuro di sé.

I materialisti non si rendono conto che ai comuni mortali, abituati alle vessazioni dei potenti, non piace tanto la verità quanto piuttosto la finzione: la verità presumono già di saperla, ed è la loro sofferenza (che ritengono secolare, irrisolvibile), per cui preferiscono fantasticare.

I materialisti che vorrebbero essere onesti dicendo la verità, escono sempre sconfitti dal confronto con gli idealisti, proprio perché questi sanno vivere meglio il loro “volgare materialismo” dietro la facciata delle belle parole, dei buoni sentimenti (quelli lacrimevoli), dei valori patriottici (che affratellano tanto) e così via.

Gli idealisti sono così abili che fanno passare i materialisti per gente senza scrupoli, sempre litigiosa, supponente, fanatica, fondamentalmente egoista, in quanto priva di valori sociali condivisibili.

E i materialisti, ad un certo punto, si rassegnano a questo ruolo trasmesso dai mass-media, e cominciano a discutere solo tra loro, si vantano di avere la verità in tasca, nutrono sentimenti rancorosi, ostentando un distacco fittizio, e soprattutto attendono passivamente che le contraddizioni esplodano da sole, proprio per avere la soddisfazione di dire: “Era da un pezzo che ve lo dicevamo”.

Insomma, prima i metafisici greci, poi i teologi medievali, poi ancora i filosofi borghesi e ora infine i politici di ispirazione cristiana: tutti mostrano di saper perfettamente comunicare alle classi marginali il modo migliore per uscire dall’oppressione: sperare contro ogni speranza.

E queste masse, sempre più vaste, sempre più sofferenti, continuano a illudersi che qualcuno, prima o poi, saprà alleviare i loro mali, magari farle anche uscire dalla miseria; e questo qualcuno dovrà per forza essere un idealista, perché solo un idealista ha il senso dell’umanità, è misteriosamente ispirato da dio.

I veri nemici da combattere sono i disfattisti, quelli che vogliono sostituire dio con la natura, lo spirito con la materia, la fede con la ragione, cioè quelli che vogliono dire la verità, senza sapere che la verità è relativa e che nessuno la conosce.

La gatta frettolosa. Autointervista su democrazia atea

- Hai visto la nascita del partito di democrazia atea?

- Sì e nonostante abbia condiviso il programma non m’è piaciuto il nome.

- Laico è troppo generico, non credi? Tutti i partiti lo sono o dicono di esserlo.

- Sì, ma associare la democrazia all’ateismo è troppo ideologico.

- Perché, una democrazia non può essere atea?

- Sì, in futuro, per adesso basta la laicità. Perché legare in maniera così stretta una questione politica a una di coscienza? Quale credente entrerà mai in un partito del genere? Persino gli agnostici si spaventeranno.

- Scusa ma chi li vuole i credenti in questo partito? Che ce ne facciamo di quei cattolici che fanno gli obiettori con certe leggi dello Stato?

- E vorresti obbligarli a non obiettare? Per farli sentire dei martiri? E poi che c’entra? Se una legge è contraria alla propria coscienza, uno deve ascoltare la coscienza. Se non fosse così, ancora oggi crederemmo alla divinità degli imperatori.

- Già, ma se tutti per motivi religiosi ascoltassero la loro coscienza, chi applicherebbe le leggi?

- Senti, se la laicità non è in grado di garantire il rispetto della coscienza religiosa, siamo proprio messi male. Figurati se ci riesce l’ateismo…

- Già, ma a che è servita tutta la laicità che abbiamo? Il Concordato è sempre lì e la chiesa s’intromette come e quando vuole nelle leggi dello Stato.

- E tu pensi di aumentare l’esigenza di laicità dichiarandoti politicamente ateo?

- E perché no? Buona parte della sinistra ha sempre detto che la laicità, l’indifferenza nei confronti della religione riguarda lo Stato non il partito.

- Dimmi te quale partito ha mai dichiarato l’ateismo nel proprio statuto?

- Lo so, ma qui bisogna dare una scossa a un paese bigotto e clericale. Abbiamo una dirigenza politica troppo indietro rispetto alla coscienza dei cittadini.

- E’ vero, ma in questa maniera rischiamo di ottenere l’effetto contrario a quello sperato. Chi non è ateo si spaventerà, perché penserà a qualcosa di obbligatorio, di troppo vincolante.

- Il fatto è che anche i credenti dicono di essere laici. Ormai non si sa più cosa vuol dire questa parola. Guarda la Costituzione: non c’è neppure il diritto di non credere. L’unica libertà prevista è quella di credere in questa o quella religione.

- Allora vorrà dire che ci giocheremo la posta sull’ambiguità del termine…

- In che senso?

- Nel senso che sarà la storia a decidere quale interpretazione dare alla parola “laicità”. Oggi certamente coll’articolo 7 della Costituzione è impossibile parlare di laicità. Questo lo capiscono tutti, non c’è bisogno di dirsi atei.

- Mi aspettavo da te un’altra critica.

- Quale?

- Quella che in fondo né la laicità né l’ateismo sono davvero importanti nella nostra società.

- Non volevo dirtelo, ma certamente le questioni economiche su un modello di sviluppo che ha fatto il suo tempo, per non parlare di quelle politiche sui limiti della democrazia delegata, sono per me di molto superiori.

- Questo non toglie che non si debba parlare di laicità. O vuoi fare come quei comunisti che non ne parlavano per paura di perdere il consenso dei cattolici?

- Già, se penso che sono stati proprio i comunisti ad accettare l’articolo 7… Però devi ammettere che la collaborazione oggi tra credenti e non credenti nel partito democratico sarebbe stata impensabile nei partiti della prima repubblica.

- Sbagliato! Erano proprio i temi forti dell’economia e della politica a far diventare comunisti i cattolici. Non ti ricordi gli anni Settanta? e la Resistenza?

- Mi fai ridere. Certi cattolici erano diventati comunisti proprio perché il Pc diceva di non essere ateo. Togliatti non voleva guerre di religione e la lettera di Berlinguer al vescovo Bettazzi parlava chiaro. Se oggi dici di essere politicamente ateo, nemmeno con una terza guerra mondiale avrai il consenso dei cattolici.

- Sì in effetti le questioni di coscienza richiedono tempi molto più lunghi di quelli della politica. Ma se non ne parliamo mai come faremo ad accorciarli?

- Io ti dico soltanto che c’è modo e modo di parlarne. O vuoi fare come la gatta frettolosa?