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A che serve l’antropologia?

È assurdo che un antropologo debba limitarsi ad andare presso una comunità primitiva per poi tornare a riferire qualcosa alla società da cui è partito. Ciò avrebbe un senso se quella comunità soffrisse di un dramma per colpa di chi la vuole distruggere o comunque espropriare delle risorse del territorio in cui vive. Diversamente si tratterebbe soltanto di un rapporto meramente intellettuale o di semplice mediazione culturale tra due realtà opposte, di cui il ricercatore sa già quanto sia profonda la loro differenza.

Non serve a nulla soddisfare la nostra (di noi occidentali) “curiosità esotica”, anche perché, comportandosi così, solo per dare un senso alla sua attività accademica, l’antropologo non farà che aumentare la diffidenza che quelle comunità provano già, e giustamente, nei nostri confronti.

Se uno vuol fare un mestiere del genere, dovrebbe aver chiaro, in via preliminare, che la società da cui parte non è un modello per le comunità primitive che vorrà incontrare. È anzi impossibile che al giorno d’oggi un ricercatore non sappia che le differenze tra noi e loro, causate da lunghi e drammatici processi storici, sono abissali, al punto che i nostri sistemi di vita non sono assolutamente titolati a insegnare a quelle comunità il modo migliore per vivere in maniera sociale e rapportarsi alla natura.

È inoltre impossibile che non sappia – se è intellettualmente onesto – che oggi la società da cui egli proviene (sia essa fondata sul capitalismo o sul socialismo) tende ad essere un pericolo per la comunità che vuole incontrare. Qualunque società contemporanea che non metta in discussione il rapporto di “dominio” che ha nei confronti della natura, per non parlare dei rapporti antagonistici tra ceti sociali economicamente forti e ceti deboli, è una sicura minaccia per la sopravvivenza di una comunità che definiamo, dal nostro punto di vista, come “arcaica”. Siamo troppo diversi per poterci capire. Non è una semplice questione di linguaggio o di cultura.

Ecco perché la funzione dell’antropologo non dovrebbe essere, in prima e ultima istanza, quella di “capire” razionalmente tale diversità, ma anche quella d’introdurre il concetto di “alternativa” o di “transizione” all’interno della propria società, eventualmente servendosi di esperienze “arcaiche” o “primitive” (ma sarebbe meglio usare il termine “primordiali” o “native”, “autoctone” o “etniche”, onde evitare il rischio di paragonarle a qualcosa di “selvaggio”).

L’antropologo deve saper proporre alla propria società una discussione sulle condizioni irrinunciabili per non nuocere alle esperienze completamente diverse da quelle della stessa società da cui lui proviene e in cui vuole continuare a esistere. S’egli decidesse di andare a vivere nella comunità indigena che vuole conoscere, il discorso sarebbe diverso, ma quando mai viene fatta (o nel passato è stata fatta) una scelta del genere? Al massimo la si fa per un certo periodo di tempo, e sempre per motivi di studio o di carriera accademica. E in ogni caso, se davvero la si facesse come scelta di vita, non avrebbe più senso definirsi “antropologi”. Si diventerebbe membri effettivi di quella comunità, dando in un certo senso per scontato che la società da cui si proviene non abbia alcuna possibilità di migliorare qualitativamente se stessa. Il che sarebbe un errore.

Se l’antropologo vuol prendere le difese delle cosiddette “comunità arcaiche”, dovrebbe chiarire esplicitamente, là dove vive, che la società da cui proviene rappresenta una minaccia per la loro sopravvivenza. Dovrebbe cioè assumersi la responsabilità di dire che il suo compito di ricercatore non è tanto quello di “andare” dagli indigeni, come se avesse da insegnare a loro qualcosa che non sanno, quanto piuttosto quello di permettere agli indigeni di dire qualcosa a noi, di far presente a noi le incredibili difficoltà che devono superare per far fronte alla continua espansione planetaria delle nostre società.

Loro” dovrebbero venire da “noi” per dire a “noi” come dovremmo vivere, permettendo a “loro” di continuare a esistere. Il problema n. 1 infatti è che la nostra esistenza sembra essere del tutto incompatibile con la loro. È come se chiedessimo a un neonato di guidare un’automobile: sarebbe una richiesta stupida non tanto perché, prima di poterlo fare, gli occorrerebbe un certo tempo, quanto perché oggi siamo noi che dobbiamo chiederci se davvero abbia ancora un senso usare delle automobili per spostarsi.

Lo vediamo tutti i giorni che le auto sono una delle principali fonti dell’inquinamento del pianeta. Mentre noi guidiamo un qualunque mezzo motorizzato, stiamo procurando un problema alle comunità arcaiche che non lo usano.1 Il mondo è interconnesso, che ci si creda o no, che lo si voglia o no. Lo sanno bene le multinazionali, gli istituti finanziari, i broker delle borse di titoli e valori, gli ecologisti… Ormai lo sanno tutti che non ci si può più approcciare alle suddette comunità come se fossero un fenomeno locale, geograficamente circoscritto, soggetto a specifiche problematiche.

Anche gli antropologi lo sanno e sanno anche che le contraddizioni del sistema capitalistico si stanno acutizzando. Non è più possibile pensare che con la scienza e la tecnica si possano risolvere i problemi che sono stati creati proprio dalla rivoluzione industriale. O che tali problemi possano essere risolti trasferendo gli impianti industriali, soprattutto quelli più inquinanti, nei paesi del Terzo Mondo (o trasferendo qui le scorie che quegli impianti producono o i relitti inutilizzabili per essere smantellati).

Oggi non è neppure questione di “proprietà privata” capitalistica o di “proprietà statale” socialistica, per quanto sia fuor di dubbio che, al fine di ridurre gli effetti nocivi sui nostri ambienti, la proprietà dei mezzi produttivi vada “socializzata”, essendo questo l’unico modo per responsabilizzare le comunità locali.

Oggi bisogna porre all’ordine del giorno il problema di come uscire dal concetto di “civiltà”, intesa in senso “industriale”. L’antropologo deve poter mostrare ai propri concittadini che esiste la possibilità di vivere un’esistenza molto diversa. E l’indigeno, dal canto suo, può farci capire che questa possibilità non è utopica ma reale.

Tuttavia, affinché venga percepita come “reale”, noi occidentali dobbiamo rovesciare i criteri di fondo con cui viviamo nelle nostre società. Il discorso antropologico deve per forza associarsi a una critica dell’economia politica liberistica (o di derivazione borghese), e diventare, esso stesso, un discorso politico-eversivo.

L’antropologo deve impegnarsi non solo a favore della sopravvivenza delle comunità arcaiche, ma deve anche saper porre le basi per un mutamento radicale della società in cui lui stesso vive. Senza questo mutamento, la sopravvivenza di una qualunque comunità indigena è a rischio. Ed è a rischio anche la nostra.

Se l’antropologo si limita a voler “conoscere” tali comunità e non si preoccupa di fare altro, involontariamente fornisce informazioni utili ai nostri sistemi sociali per eliminare, in qualche maniera, quelle stesse comunità. Diventa, anche contro le sue migliori intenzioni, “una spia del sistema” e un imbonitore per gli indigeni, capace solo di vendere nuove illusioni.

Ai tempi della prima rivoluzione industriale erano gli economisti borghesi che svolgevano questo ruolo mistificatorio nei confronti dei contadini infeudati. Sarebbe triste che oggi venisse ereditato dagli antropologi nei confronti delle ultime comunità arcaiche rimaste in vita. È bene quindi guardare con molto sospetto qualunque teoria antropologica che non metta sul tappeto le questioni più urgenti dell’umanità.

Nota

1 Si potrebbe anche aggiungere che la potenza (espressa in cavalli fiscali) delle auto diventa sempre più irrilevante, a causa del fatto che, essendo state prodotte in gran numero sin dalla loro nascita, esse provocano nelle città degli ingorghi insopportabili, sicché ciò ch’era stato progettato per accorciare le distanze, oggi inevitabilmente le allunga.

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Che fare? Tre indicazioni pratiche

Da tempo è stato detto che la triade hegeliana di Essere, Essenza e Concetto altro non era che una laicizzazione della trinità cristiana di Dio, Spirito e Figlio. Oggi però ci siamo talmente laicizzati da arrivare a dire che non esiste alcun dio. Tuttavia sarebbe assurdo sostenere che è sparito anche l’Essere.

L’Essere continua a esistere, ma insieme al Non-essere, ed entrambi fanno parte di un’Essenza universale, eterna nel tempo e infinita nello spazio, che è insieme umana e naturale. All’origine di tutto vi è questa Essenza, dal carattere duplice, ambivalente, cui tutto l’universo partecipa, e in modo particolare il genere umano, che ne rispecchia l’intelligenza.

Il significato della vita su questa terra e nell’intero universo è tutto qui: siamo dunque destinati a esistere, cioè a essere quel che dobbiamo essere. Se oggi il nostro essere non è umano e quindi non è conforme a natura, allora vuol dire che per noi il problema è diventare quel che dobbiamo diventare. Sia come sia non si scappa dal compito di “dover essere”.

Il significato della vita su questa terra sta appunto nel tentativo che dobbiamo porre di tornare ad essere quel che eravamo. Il tentativo non può essere rimandato, proprio perché chi “non-è” si autodistrugge o distrugge la vita altrui, impedendo agli altri di essere.

Non si può transigere sul compito di realizzare questo obiettivo. Semmai si può discutere sul modo di conseguirlo. E siccome fino ad oggi un modo sicuro, definitivo, non l’abbiamo trovato, in quanto tutti i tentativi compiuti sono falliti, siamo arrivati a un bivio: o smettiamo di cercare e ci rassegniamo al peggio, oppure cambiamo completamente i nostri strumenti e le metodologie.

Cioè invece di cercare di migliorare le cose del nostro presente, sarebbe meglio azzerarle e chiedersi come potremmo essere se non le avessimo. Se accettiamo con fiducia e coraggio questa seconda strada, ci possono venire in aiuto due elementi fondamentali: la natura e la storia.

Quando si parla di “natura”, si deve intendere qualcosa di “naturale”, cioè di non soggetto a sfruttamento intensivo, a sistematico logoramento. La natura ha bisogno di riprodursi agevolmente. Deve fruire di un proprio spazio di autonomia. Gli strumenti con cui la si gestisce non possono ferirla.

Dobbiamo quindi renderci conto che ogni nostro lavoro produttivo dev’essere eco-compatibile coi processi riproduttivi della natura. Tutto ciò che non è eco-sostenibile va progressivamente ma decisamente rimosso. E questo, per noi, abituati a vivere in maniera del tutto artificiale, è cosa altamente complessa, realizzabile solo da un collettivo.

Ci può venire però in aiuto la storia, anzi, la preistoria. Infatti, un’altra cosa che dobbiamo eliminare è la storia di tutte le civiltà sorte a partire da quella schiavistica. Oggi, come noto, viviamo quella denominata “capitalistica”, cui alcuni paesi hanno cercato di opporre, come alternativa, un’esperienza di “socialismo statale”, rivelatasi però largamente fallimentare.

Ora, come si può uscire da un sistema standoci dentro? Pacificamente è impossibile. Il sistema è totalizzante. Persino se si provasse a uscirne fisicamente, trasferendosi altrove, si sarebbe sottoposti ai suoi condizionamenti. È illusorio pensare di potersi sottrarre alle pressioni – espresse in varie forme e modi – di chi esercita un potere altamente conflittuale sul piano sociale, e devastante su quello ambientale. Questo potere va abbattuto con la forza. Costi quel che costi.

La battaglia contro il sistema è anzitutto politica. Il vero problema, semmai, viene dopo, quando si tratta di costruire l’alternativa. Qual è il modello da seguire? Purtroppo i modelli da seguire, in questi millenni di antagonismo sociale, li abbiamo distrutti tutti. Sappiamo solo una cosa, che non possiamo andarli a cercare nelle cosiddette “civiltà storiche”.

Quindi dobbiamo uscire non solo dal sistema, abbattendolo con la forza, ma anche dalla “storia”. Dobbiamo andare a recuperare tutto ciò che, in questo momento, ci appare “preistorico”. E dobbiamo farlo subito, perché bisogna aver chiara l’alternativa nel momento stesso in cui si lotta politicamente contro il sistema.

Storicamente dobbiamo fare un grande passo indietro, e praticamente dobbiamo andare a cercare, nel nostro presente, gli ultimi brandelli, sparsi nel pianeta, che ci riportano alla preistoria. Sul piano culturale dobbiamo fare un lavoro da etnologi e antropologi.

Le cose da fare, in simultanea, sono dunque le seguenti: lotta politica contro il sistema in sé, che prescinda da qualunque esigenza riformatrice; recupero culturale (etno-antropologico) della preistoria; esperienza diretta di tutte le forme possibili di tipo non-antagonistico, dove il bisogno sia condiviso e la proprietà dei mezzi produttivi sia comune.