Articoli

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (X)

Ma la critica al marxismo non si ferma qui. “Il totalitarismo, afferma de Benoist, è il prodotto dello spirito egualitario e, in particolare, dello spirito economico che ne è il corollario obbligato”. Il culto dell’uguaglianza è figlio del culto dell’economia, ha detto C. Polin.

Il marxismo insomma è sotto accusa perchè riduce all’economia tutti i fenomeni e i processi del mondo, riduce l’uomo, che è un essere di cultura, a un “animale economico”. Si dirà: niente di nuovo sotto il sole. Da un un pezzo si sentono critiche del genere. E non potrebbe essere diversamente. Ogni nuova critica al materialismo storico e dialettico non è altro che una rielaborazione riveduta e corretta di critiche borghesi precedenti. Se questi “filosofi” studiassero seriamente il marxismo, si accorgerebbero che in nessuna opera vi sono affermazioni secondo cui le condizioni economiche costituiscono l’elemento determinante di tutti i fenomeni sociali. La concezione materialistica della storia parte soltanto dall’idea che il modo di produzione della vita reale condiziona il processo della vita sociale, culturale e politica.

Engels, in alcune lettere degli anni ’90, dimostrò chiaramente quale ruolo avevano i fattori extra-economici nel processo storico. “La situazione economica è la base, ma anche tutto il resto -egli scrisse- esercita la sua azione sul corso delle lotte storiche e, in molti casi, ne determina in maniera preponderante la forma”. Vi è insomma anche qui una sorta di interazione, all’interno della quale i fattori economici costituiscono una determinante solo in ultima istanza. Sono proprio questi fattori che rendono più importanti taluni aspetti sociali in luogo di altri.

La ND predica la renaissance della cultura europea, ma nega l’unità della storia mondiale, la quale, più di ogni altra cosa, attesta che in tutte le culture dell’uomo vi sono determinati elementi comuni (quella borghese, che è presente in tutti i paesi capitalistici, ne possiede moltissimi).

Ma la filosofia marxista evidenzia anche la diversità nella storia mondiale. In virtù delle specifiche caratteristiche di ogni paese e regione, le leggi generali del processo storico vi si manifestano in diversi modi. Pur in presenza di analoghi rapporti di produzione, la diversità dei fenomeni sociali è infinita.

Al contrario, la ND nega non soltanto l’unità della storia, ma anche l’orientamento della sua evoluzione. A. de Benoist considera la storia un non sens, in quanto delle due concezioni europee dello sviluppo storico, lineare e ciclica, la prima, che mira a evidenziare la direzione del movimento storico mondiale, rappresenta secondo lui una violazione della libertà di scelta dell’uomo.

Ecco qui delineata la classica concezione borghese della libertà: nessuna decisione a vivere il meglio per tutti, conforme alle vere esigenze degli uomini, ma pura e semplice possibilità di scelta. Una libertà, come si può vedere, che vuole essere libera sia dalla natura che dalla società: una libertà in sostanza che non esiste. A. de Benoist colloca nella teoria lineare, che egli giudica “fatalista”, anche il marxismo, il quale, secondo lui, non terrebbe in alcun conto il ruolo della contingenza nella storia.

A. de Benoist e soci hanno praticamente ricondotto la teoria marxista dell’evoluzione sociale a una categoria delle dottrine finalistiche. Engels, tuttavia, scrisse a questo proposito: “Non più della conoscenza, la storia non può trovare un fine perfetto in uno Stato ideale perfetto dell’umanità; una società perfetta, uno Stato perfetto sono cose che esistono solo nell’immaginazione; viceversa, tutte le condizioni storiche succedutesi non sono che tappe transitorie nello sviluppo senza fine della società umana che va dall’inferiore al superiore”.

Da questa angolatura risulta evidente che solo la conoscenza delle leggi dello sviluppo della natura e della società, solo la loro intelligente applicazione pratica rendono l’uomo veramente libero. Lenin, criticando i populisti che, come la ND, ritenevano il determinismo dei fenomeni sociali ostile alla libertà dell’individuo, scrisse: “L’idea del determinismo, che stabilisce la necessità delle azioni umane e che rifiuta l’assurda favola del libero arbitrio, non abolisce affatto la ragione né la coscienza dell’uomo, né la valutazione delle sue azioni”. Dunque, l’oggettività determina le azioni del soggetto, ma quest’ultimo, a sua volta, agisce sul corso dei processi oggettivi.

Necessità e contingenza non possono essere separate. A certe condizioni la necessità può mutarsi in contingenza e viceversa. Chi spera di poter avere a disposizione un dogma col quale interpretare, comodamente seduto in poltrona, tutti i fenomeni storici e sociali, passati e presenti, perde il suo tempo.

Marx ha scritto che “sarebbe evidentemente molto facile fare la storia impegnandosi a lottare con possibilità favorevoli al 100%. Una storia di questo genere però, ove i rischi non giocano alcun ruolo, avrebbe un carattere assai mistico. I casi fortuiti rientrano nel processo generale dell’evoluzione e si trovano compensati da altri casi fortuiti. E tuttavia l’accelerazione o il rallentamento del movimento dipendono da simili inconvenienti”.

La filosofia marxista non ama separare il passato dal presente e dal futuro. Al contrario, il marxismo sostiene che ogni epoca dello sviluppo dell’umanità viene preparata da quella precedente. Proprio l’analisi scientifica di questo stato di cose ha permesso a Marx di elaborare la teoria delle formazioni economico sociali.

Le simpatie di A de Benoist vanno ovviamente per la concezione ciclica, secondo cui la storia non ha né inizio né fine, essendo semplicemente il teatro di un certo numero di ripetizioni analogiche.

Condividendo la tesi dell’idealismo soggettivo, i seguaci della ND si immaginano tutto il processo storico come un flusso irrazionale di avvenimenti slegati fra loro.

La libertà tanto declamata è soltanto la “libertà da ogni responsabilità” per il destino degli uomini. La ripetizione analogica (vedi l’irrazionalista Kierkegaard) è assunta come un pretesto per il proprio disimpegno, come un alibi del proprio conservatorismo.

Da questo punto di vista la répétition trova la sua ragion d’essere. Le idee di questi intellettuali non riflettono soltanto la profondità della crisi spirituale della società capitalistica, ma rappresentano anche un tentativo di giustificare una concezione del mondo unilaterale e autoritaria.

La filosofia della nouvelle droite risponde dunque agli interessi dell’ala più reazionaria della borghesia. E’ davvero singolare che proprio mentre s’impone con vigore l’esigenza di superare le differenze di razza e nazionalità, vi siano correnti filosofiche che teorizzano una direzione opposta, cioè l’affermazione di un libero arbitrio à tout prix.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (VIII)

All’inizio del XX secolo la storiografia francese prediligeva la storia politica, affrontando le questioni economiche in sezioni separate, poiché si pensava ch’esse non riguardassero la storia vera e propria. Gli storici francesi di allora non riuscivano a vedere la società come un insieme organico, i cui elementi, una volta separati, non devono far perdere al ricercatore la consapevolezza dell’insieme.

Indubbiamente la concezione di una “storia globale” acquista i suoi fondamenti teoretici e un contenuto storico concreto negli anni Trenta e in quelli seguenti, grazie ai lavori di Bloch, Febvre, Lefebvre, Braudel e altri storici delle “Annales”. Costoro non pretendevano affatto che col concetto di “storia globale” s’intendesse un “tutto su tutto”, come se fosse obbligatorio abbracciare l’universo intero per averne una visione “globale”.

E’ possibile vedere globalmente un aspetto o un problema particolare a condizione di non falsificare la vita di tutta la società, cioè a condizione di non spezzare l’unità e la continuità della storia. L’uomo non può essere suddiviso in politicus, oeconomicus, religiosus… La parola “globale” stava semplicemente ad indicare che la scienza storica deve affrontare la vita dell’uomo e della sua società nella sua totalità e complessità, senza tralasciare quegli aspetti che più difficilmente mutano col tempo e che più sembrano intralciare il movimento storico, come i processi tecnologici, le strutture demografiche e mentali ecc.

Per histoire globale Braudel intendeva una stratificazione della realtà storica in molteplici livelli, cioè la trasformazione della foto in un’immagine in rilievo. Per lui la società era un “grande insieme” composto di diversi insiemi, dei quali i più noti sono l’economico, il sociale, il politico e il culturale, ciascuno dei quali, a sua volta, si suddivide in altri sottoinsiemi, e così via.

“In questo schema -egli dice- la storia globale (o meglio globalizzante, poiché tende a esserlo senza mai poterlo diventare) è lo studio di almeno quattro sistemi considerati prima in se stessi, poi nelle loro relazioni”.

Oltre a ciò l’histoire globale è anche la consapevolezza che la dinamica dei livelli interconnessi della realtà storica procede non come un moto uniformemente accelerato in un’unica direzione, ma come un movimento irregolare, strettamente legato al tempo e alle diverse situazioni.

L’histoire nouvelle era giunta a tali conclusioni non solo per aver ereditato creativamente la lezione di storici e sociologi come Guizot, Durkheim, de Tocqueville, Vidal de la Blache, Mauss e altri, superando definitivamente il semplicismo e la frammentarietà della storia événementielle d’inizio secolo: ma vi era giunta anche per l’influenza che esercitava l’autorevole storiografia marxista. Lo dimostra il fatto stesso che l’histoire nouvelle ha abbandonato la storia degli eroi e degli avvenimenti sparsi, accettando quella delle masse e dei processi di lunga durata.

E’ stato proprio l’interesse per le masse popolari, stimolato dal marxismo, che ha attirato l’attenzione sulle loro condizioni materiali d’esistenza, sullo studio della storia socio-economica, che ha contribuito ad alimentare l’esigenza di una “teoria della storia globale”.

Ci sembra tuttavia che l’histoire nouvelle non abbia saputo trovare una soluzione convincente alla comprensione globale della società. Le sue concezioni generali  della storia spesso risultano eclettiche. Secondo i migliori rappresentanti di questa scuola, nella storia agiscono una moltitudine di forze e di fattori, capaci di passare l’uno nell’altro, senza che però si possa sapere quale sia, in ultima istanza, quello determinante.

Benché pongano l’accento sulle condizioni materiali e sull’economia, essi concepiscono la storia stessa della vita materiale come un aspetto a se stante, piuttosto empirico e poco legato ai fattori socio-politici e ai conflitti di classe. E’ sintomatico, ad es., che i rapporti degli uomini nel momento della produzione e i rapporti di proprietà vengano quasi completamente ignorati nelle loro trattazioni di storia economica.

Questi storici sembrano più essere legati a procedimenti di tipo struttural-funzionale che storico-genetico. Inoltre non parlano mai dei tradimenti storici della borghesia e preferiscono prendere in esame più il passato che il presente.

Solo verso la fine degli anni Settanta Braudel si convinse che la produzione giocava un ruolo fondamentale nella comprensione dei meccanismi storici. Fino ad allora egli aveva pensato che nella fondazione di un modello d’interpretazione storica, universalmente valido nello spazio e nel tempo, il momento della circolazione e dello scambio delle merci dovesse nettamente prevalere su quello della produzione.

Ma questa sua ammissione non è stata neppure presa in considerazione dall’ultima generazione delle “Annales”, che anzi decise, fatte salve le debite eccezioni, d’incamminarsi per una via completamente diversa, rispolverando classiche tesi regressive e concezioni storiche anteriori alla stessa nouvelle histoire.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (VII)

Verso la metà degli anni Settanta l’espressione histoire nouvelle è cominciata ad apparire nelle pubblicazioni francesi, ed ora in Francia quasi nessun storico dubita del fatto che con essa si volesse indicare una nuova scienza storica.

Analogamente all’americana new economic history o alla moderna linguistica di cui F. de Saussure è stato l’iniziatore, la si definisce “nuova” in questo senso, che pur basandosi su principi e metodi d’analisi storica elaborati nel corso dei secoli, essa si differenziava per molti aspetti dalla storiografia tradizionale.

L’histoire nouvelle è stato il fenomeno più importante della storiografia mondiale del XX sec. Essa ha avuto una storia per circa mezzo secolo e ha subìto una forte evoluzione. Iniziata alla fine degli anni Venti con la fondazione della rivista “Annales d’histoire économique et sociale” degli storici M. Bloch e L. Febvre, essa s’è prolungata con l’attività dell’eminente storico F. Braudel, il quale ha trasformato la scuola delle “Annales” nell’orientamento dominante della storiografia francese. Tuttavia verso la fine degli anni Sessanta cominciano a mutare non solo gli indirizzi di ricerca, ma anche l’interpretazione dello sviluppo della società e delle civiltà; vi sono regressi e abbandoni di molte conquiste positive.

Forse pochi sanno che oltre a questa scuola sono esistite altre scuole, di tutto rispetto, che si sono sviluppate autonomamente: la scuola storica marxista di P. Vilar, J. Bruhat, A. Soboul, C. Mazauric, C. Willard, M. Vovelle e altri, i quali hanno al loro attivo seri lavori di storia delle rivoluzioni, di storia socio-economica, di storia del movimento rivoluzionario e altro ancora.

Esiste anche l’école des Chartres di Parigi, cioè la scuola della critica delle fonti, i cui storici: Ch. Samaran, J. Favier e M. François hanno spesso trattato soggetti tradizionali di storia politica.

Le scuole più recenti sono quelle di storia delle relazioni internazionali, che raggruppa i discepoli di P. Renouvin; e quella che studia le strutture sociali e i movimenti popolari dei tempi moderni, capeggiata da R. Mousnier.

Tornando all’histoire nouvelle, bisogna dire che è impossibile trovare in questa scuola una concezione dello sviluppo storico e una metodologia di ricerca condivise da tutti i suoi appartenenti. Soprattutto va sottolineata la profonda differenza che esiste tra la cosiddetta “terza generazione” delle “Annales”, iniziata nel 1968-69, al momento della dipartita di Braudel, e le due precedenti, che vanno dai due fondatori Bloch-Febvre a Braudel appunto. Si potrebbe anzi dire che l’histoire nouvelle vera e propria sia terminata alla fine degli anni Sessanta, proseguendo quasi unicamente con le opere pubblicate da Braudel, morto nel 1985.

Nel complesso si può sostenere che l’histoire nouvelle abbia rappresentato la coscienza storica borghese del sec. XX. Come tale essa ha esercitato delle funzioni sociali chiaramente determinate: p.es. le “Annales” dell’immediato dopoguerra ebbero molto successo perché la Francia cercava una posizione culturale che fosse al tempo stesso autonoma dall’egemonia anglosassone e nettamente separata dal pcf.

Questa storiografia è stata in grado di interagire con le correnti più diverse del pensiero storico e con numerose discipline (economia, geografia, antropologia storica, psicologia ecc.), appropriandosi di metodologie e concezioni fra loro spesso divergenti: su di essa ad es. hanno esercitato una indubbia influenza lo strutturalismo, il positivismo, la psicanalisi di Freud, il marxismo, il neo-malthusianesimo ecc.

Nonostante questo è comunque possibile individuare alcuni aspetti dominanti riassumibili nella concezione della “storia globale”, nella categoria della “lunga durata”, nella nozione di “fatto storico”.

Alla fonte della concezione della “storia globale” si trovano gli influssi sia del marxismo, sia delle tradizioni storiografie francesi (Voltaire, Guizot, Michelet, Berr ecc.), sia delle scienze moderne della natura, specie la fisica quantistica, la biologia, l’ecologia, la teoria della relatività ecc.

L’idea della sistemicità, i rapporti fra sincronia e diacronia, il concetto di realtà spazio-temporale, le leggi della probabilità e della statistica, i legami della funzionalità, il ruolo della discontinuità ecc.: queste e altre nozioni sono entrate nella storiografia di questa scuola nel momento stesso in cui s’investigava la realtà storica e la pratica sociale, l’esistenza materiale, in cui si facevano le scoperte più importanti nei vari campi delle scienze esatte e naturali.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (VI)

L’idea di una “storia globale”, nell’ambito dell’histoire nouvelle francese, ha raggiunto i vertici del suo sviluppo negli anni Sessanta. Gli studi monografici condotti sulla base di questa idea sono stati largamente riconosciuti e i suoi promotori sono diventati i rappresentanti più significativi della scuola delle “Annales”.

Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Sessanta alcuni ricercatori hanno cominciato a limitarsi ad accettare la concezione della globalità solo sul piano cognitivo, e non anche su quello metodologico, finché, col passare del tempo, sono giunti a dei mutamenti d’indirizzo anche nelle ricerche storiche vere e proprie.

La concezione della “storia globale” è stata messa in discussione proprio da coloro che, continuando a fare riferimento alla rivista delle “Annales”, si ritengono eredi della nouvelle histoire di Bloch, Febvre, Lefebvre e Braudel.

In realtà la terza generazione si dedica a un complesso di storie per le quali la globalità non è più un punto di partenza ma, nel migliore dei casi, un lontano orizzonte. Ci riferiamo a storici come Le Roy Ladurie, Furet, Richet, Roche ecc.

Per alcuni ricercatori la “storia globale” non è che un mito, una sorta di costruzione razionale aprioristica e non il risultato della conoscenza storica positiva. Besançon, p.es., scrive che gli storici della sua generazione si sono finalmente sbarazzati del miraggio della totalità storica. Furet è quasi dello stesso avviso: per lui la struttura d’una società globale non è che un postulato non legittimato dall’attuale storiografia.

Dunque, perché la concezione della “storia globale” non risponde più ai bisogni dell’histoire nouvelle e la scienza storica francese si trova di nuovo ad affrontare il problema della frammentarietà? Le risposte a tale domanda, dei vari Le Goff, Foucault, Revel, de Certeau, possono in sostanza ricondursi a una tesi comune: la concezione dell’oggetto dell’histoire nouvelle, l’acquisizione stessa del sapere storico è radicalmente mutata nel tempo.

In particolare Le Goff e Foucault fanno risalire l’ingombro della nozione stessa di “storia globale” ai limiti della continuità-concatenazione della storia stessa, che oggi non corrisponde più, secondo loro, ai canoni della scienza moderna, la quale evita categoricamente di porre l’uomo al centro della storia. Essi in sostanza affermano che Copernico, Darwin e Marx hanno reso praticamente impossibile qualunque tentativo di riportare l’uomo al centro dell’universo: hanno prodotto la discontinuità eliminando la rigida casualità.

In precedenza lo storico si liberava della discontinuità cercando la concatenazione elementare degli avvenimenti. Oggi invece la nouvelle histoire preferisce servirsi della discontinuità lasciandosi influenzare dalle scienze più disparate: psicanalisi, linguistica, etnologia…

Una storia globale non è dunque più possibile. Oggi lo storico mette in luce la diversità, le specifiche particolarità cronologiche, gli scarti e i dislivelli. Una storia in cui regna la discontinuità (che poi diventa, si badi, fine a se stessa), in cui l’uomo è dominato dai miti, dalle leggi del linguaggio ecc., è più inquietante e suggestiva di quella in cui le cause e gli effetti si susseguono univocamente. Entrando in contatto con questo tipo di storia, l’uomo moderno si sente più esitante, perde le sue certezze, però ha il vantaggio -dice Foucault- di un maggior realismo. Questa storia rinuncia ad essere l’ultimo rifugio del pensiero antropologico e diventa la vera antitesi della “storia globale”.

L’uomo non è più il personaggio centrale della storia. Scrive a questo proposito de Certeau: “La teoria, che ieri era orientata all’oggetto, retrocede oggi verso il linguaggio, la parola… Ed è un’illusione credere che la ricerca storica possa avere per risultato una riproduzione adeguata della realtà”.

La storiografia si ritrova così, come all’inizio del sec. XX, nel mondo dell’idealismo agnostico e soggettivo di Rickert, Dilthey e Russel; solo che di quell’idealismo non può più conservare l’ingenuità, in quanto la crisi delle “Annales” e di tutta la nouvelle histoire è strettamente legata al venir meno dell’impegno ideologico e politico, al non volersi confrontare col pensiero marxista e con la pratica del socialismo democratico.

In un certo senso il fallimento dell’utopia sessantottesca ha portato le “Annales” a rinnegare se stesse. Dalla fine degli anni Sessanta l’histoire nouvelle è diventata talmente “nouvelle” che Braudel ha dovuto abbandonarla completamente.

Bloch e Febvre avevano cercato di trasformare la storia in una scienza sociale, nel senso ch’essa doveva superare lo stadio del pensiero “individualizzante” ed entrare nel novero delle scienze “generalizzanti”. Conditio sine qua non per realizzare tale passaggio era il rifiuto categorico della scienza narrativa dei fenomeni singoli, ovvero della storia evenemenziale, in cui il concetto di “tempo storico” veniva concepito in maniera semplicistica e univoca, come una sorta di calendario uniforme, un asse predisposto sul quale gli storici si limitavano a infilare i fatti e gli avvenimenti del passato.

Con l’histoire nouvelle l’idea del tempo come “durata senza contenuto” era stata rimpiazzata dall’idea del “tempo sociale a contenuto determinato”, che è in sostanza l’idea della molteplicità dei tempi, dei diversi ritmi del tempo a seconda delle diverse realtà storiche, l’idea della discontinuità nello scorrere del tempo sociale.

Da Bloch a Braudel gli storici delle “Annales” hanno sempre avvertito forte la preoccupazione di fare della storia una scienza al pari delle altre scienze. Detestavano il caso, i zigzag repentini, preferivano soffermarsi sulle tendenze durevoli, sui rapporti familiari, sulle strutture mentali.

La longue durée, in tal senso, è stata senz’altro una positiva conquista dell’histoire nouvelle. Tuttavia essa non è priva di ambiguità. Anzitutto non sembra che faciliti la soluzione dei problemi più cruciali della teoria della conoscenza storica. Viene qui in mente la domanda che Marx fece a Proudhon in Miseria della filosofia: “In che modo la sola formula logica del movimento, della successione del tempo potrebbe spiegare il corpo della società, nel quale tutti i rapporti coesistono simultaneamente e si sostengono gli uni con gli altri?”. Una tale questione non è mai stata posta dall’histoire nouvelle. E non rispondendovi l’histoire nouvelle non è in grado di garantirsi una vera scientificità nell’analisi storica, che vada cioè al di là di ciò ch’essa è sicuramente in grado di fare: offrire una mole impressionante di dati.

Il tempo del mondo o della storia è -secondo Braudel- il tempo della formazione sociale che domina in una data epoca, niente di più. Il che però risulta assai limitativo nei confronti della totalità degli esseri umani, che appartengono a zone geografiche marginali rispetto ai criteri della formazione sociale dominante.

Braudel non comprende che il legame tra tempo e storia è costituito dal modo di produzione, e che i modi di produzione non sono statici ma evolvono di continuo. Non tener conto di determinati processi storici equivale a considerare la storia come un cieco destino, lo sviluppo di una fatalità. La storia diventa un mero prodotto del tempo.

In questa ambiguità filosofica di fondo si può anche arrivare all’assurdità di credere che la rivoluzione francese non sia mai avvenuta, cioè che sia un mito o una sopravvivenza ideologica. Per Furet, Richet, Roche, Chaussinand-Nogaret la rivoluzione francese fu un semplice conflitto politico-ideologico tra nobiltà e borghesia, non un rivolgimento sociale. A loro giudizio la nobiltà era progressista, per cui non erano in questione il feudalesimo e l’ancien régime (considerati addirittura come già inesistenti a quel tempo), ma solo una questione di rivalità politica all’interno di una comune concezione.

Sul piano socio-economico l’avvenimento viene giudicato da questi storici come una vera e propria catastrofe nazionale, poiché avrebbe impedito alla noblesse libérale di trapiantare in Francia i rapporti agro-capitalistici della vicina Inghilterra.

L’histoire nouvelle – sottolinea lo storico marxista Vovelle – tende in generale all’immobilità, non crede nelle brusche modificazioni che avvengono nella storia, non è dialettica, non considera le diverse epoche storiche come tappe d’uno sviluppo progressivo delle società e delle civiltà, e i diversi ritmi di tempo come momenti d’un tempo a senso unico.

La discontinuità è talmente assolutizzata ch’essa non è più un momento particolare di una più generale e uniforme evoluzione. Questa scuola non crede in alcuna transizione dal capitalismo al socialismo, come non crede in quella dal feudalesimo al capitalismo. Furet rifiuta categoricamente la prospettiva dell’evoluzione che conferisce un senso o una direzione significativa al tempo. Sicché l’analisi quantitativa o “seriale”, come la chiama Chaunu, diventa fine a se stessa: l’importante diventa solo il raccogliere dati e classificarli. Non c’è più analisi qualitativa.

Ricostruendo p.es. la storia dei prodotti alimentari, si lascerà in ombra la questione delle relazioni tra produttori e consumatori. Questo significa, in sostanza, ricadere nella superficialità, cioè proprio in quel limite contro cui l’histoire nouvelle s’era posta negli anni Venti. A quel tempo le “Annales” -come vuole Braudel- era una rivista di “eretici”, oggi invece è una rivista perfettamente allineata con le concezioni borghesi dominanti, in grado di favorire la promozione sociale e le carriere scientifiche.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (V)

Fra il 1961 e il 1969 uscì la Storia quantitativa dell’economia francese, il cui difetto principale, ereditato ovviamente dalla scuola americana, era quello di tenere separata la storia economica dalla storia sociale e dall’evoluzione dei rapporti di classe, il che ovviamente portava a giustificare una crescita progressiva del capitalismo francese.

I concetti e la metodologia della scuola “quantitativa” vennero ereditati e approfonditi, alla fine degli anni Sessanta, dai cosiddetti “cliometristi” della scuola americana “new economic history”. I ricercatori di questa nuova corrente si avvalevano di decine di studiosi altamente qualificati, incaricati di raccogliere dati e materiali, predisponendoli a un uso computerizzato.

D. North, R. W. Fogel, S.L. Engerman e altri, grazie a questi nuovi metodi arrivarono, fra l’altro, alla incredibile conclusione che l’economia schiavista dei piantatori di cotone, negli Usa, si trovava fino alla guerra di Secessione a un altissimo livello di sviluppo. Al fine di dimostrare la continuità e l’immanenza della crescita economica del loro paese, essi avanzarono l’ipotesi che nessun fattore esterno era intervenuto per accelerarla, neppure la costruzione delle ferrovie.

Fogel arrivò persino a dire che né la macchina a vapore, né la locomotiva, ma solo il lavoro dei farmers e l’antica istituzione dello schiavismo, allora perfettamente redditizia, avevano portato avanti la ricchezza americana del XX sec. Pertanto – ecco la tesi finale dei cliometristi – l’abolizione dello schiavismo aveva comportato un regresso del capitalismo americano. Tesi questa considerata assurda anche dal quantitativista francese P. Chaunu.

Ciononostante l’astrazione della scuola americana, coi suoi calcoli matematici, guadagnò negli anni Sessanta i consensi della terza generazione degli “annalisti” francesi. A giudizio di Le Roy Ladurie, F. Furet e altri l’avvenire sarebbe appartenuto ai soli metodi matematici e statistici, capaci di quantificare in maniera informatica i dati storici.

Fu tale l’entusiasmo che i modelli elaborati per il presente venivano sistematicamente usati anche per il passato. Le Roy Ladurie affermò addirittura che né la guerra d’indipendenza americana, né la realizzazione della ferrovia, né il new deal roosveltiano avevano comportato delle modifiche sostanziali al tasso di crescita dell’economia americana. Egli negò qualunque valore alla storia événementielle e alla biografia atomistica: la nuova storia doveva per lui essere strutturale, orientata verso lo studio di diverse collezioni di dati, soggette a un uso seriale o quantitativo, cioè programmato. Anche le istituzioni scientifiche avrebbero dovuto dotarsi di centri di ricerche quantitative, sul modello americano.

Dieci anni dopo tuttavia l’entusiasmo di Le Roy Ladurie scemò. La storiografia francese, nel suo complesso, era comunque riuscita a dimostrare che se i metodi matematici potevano avere una certa importanza per lo studio della storia economica e specialmente della storia agraria, nessuna “storia quantitativa” avrebbe potuto però sostituirsi alla storia propriamente detta. Le crisi economiche mondiali degli anni 1973-75 e 1980-82 diedero poi il colpo di grazia al concetto di “crescita continua” del capitalismo.

In ogni caso i ricercatori della terza generazione delle “Annales” hanno continuato a trascurare le esigenze di un’analisi economica strutturale dei fatti storici. Oggi si parla di tutto e di niente: del clima, del corpo umano, dei miti, delle feste, della cucina francese… Quando è in gioco l’economia si evitano accuratamente le questioni riguardanti la produzione e i conflitti di classe.

Le scienze usate sono tra le più svariate: psicanalisi, linguistica, sociologia, cinematografia… Nella Storia immobile di Le Roy Ladurie, tanto per fare un esempio, i fattori demografici e biologici si vedono attribuire un ruolo decisivo relativamente allo sviluppo della Francia. Dall’XI al XII sec. -egli afferma- vi è stata una crescita senza interruzioni, poi, nel XIV sec. è iniziato un lungo periodo di stagnazione. La popolazione si mantenne agli stessi livelli dal XIV al XVIII sec. Il volume della produzione agricola non aumentò. Quale fu dunque la causa della crisi? La risposta di Le Roy Ladurie si pone tutta a un livello biologico: ratti e pulci pestifere avevano invaso l’Europa occidentale e la Francia, attraverso gli eserciti mongoli e le carovane che, a partire dal XIV sec., trasportavano la seta acquistata in Asia centrale. La prima fatale conseguenza s’ebbe nel 1348, con la terribile peste nera. Scoppiò quindi una reazione a catena, che s’interruppe solo dopo l’epidemia di peste di Marsiglia nel 1720.

Spiegazioni di questo genere s’incontrano spesso nei suoi libri. Di qui le critiche mossegli da altri eminenti storici francesi come J. Le Goff, G. Duby, P. Raveau ecc., i quali, ad esempio, si chiedono sino a che punto si possa considerare come un periodo di “storia immobile” il XVI sec., che ha visto sia l’apertura dell’Atlantico al commercio mondiale, sia la nascita del capitalismo manifatturiero in Europa occidentale.

I limiti dell’impostazione metodologica di storici come Le Roy Ladurie, F. Furet, D. Richet, D. Roche, G. Chaussinand-Nogaret, P. Chaunu ecc. si rivelano soprattutto quando viene presa in esame la rivoluzione francese. Riprendendo i termini d’una memorabile polemica scoppiata alla fine degli anni Cinquanta fra R. Mousnier e B. Porchnev, essi negano recisamente, proprio come Mousnier, che nella Francia del XVIII sec. vi fossero tracce di feudalesimo.

In particolare, Furet, che è il più duro avversario dell’interpretazione marxista della rivoluzione, afferma che l’ancien régime era già morto prima della rivoluzione e che questa pertanto altro non è stata che un “mostro metafisico”. Secondo Furet e Richet il ruolo decisivo nella rivoluzione venne giocato non dalle classi sociali ma da una élite, la cui principale componente era non la borghesia commerciale e affaristica (che rimase sempre in una posizione di retroguardia), bensì la noblesse libérale, sostenuta dagli intellettuali.

La nobiltà francese, secondo loro, non era neppure una classe feudale reazionaria, ma al contrario una classe dinamica, laboriosa, volta a sviluppare rapporti capitalistici nelle campagne. Cosa che in realtà poteva essere vera solo limitativamente e in ogni caso solo perché già esisteva una borghesia socialmente affermata.

Non meno unilaterale è il giudizio sul movimento contadino. Le Roy Ladurie sostiene, contrariamente alla tesi di Porchnev, che i contadini insorgevano non contro i signori ma contro l’esosità fiscale dello Stato. Anzi i proprietari terrieri avrebbero voluto realizzare il capitalismo nelle campagne alla maniera inglese, e furono proprio i contadini a impedirglielo, essendo di vedute obiettivamente reazionarie.

Come si può notare, l’obiettivo di questi storici è quello di far passare la rivoluzione francese per un “complotto massonico”, rispolverando le vecchie tesi di D. Cochin, uno storico reazionario degli inizi del XX sec., il quale, a sua volta, le aveva riprese da un abate francese del XVIII sec., A. Barruel. Non le contraddizioni socio-economiche avrebbero fatto scoppiare la rivoluzione ma il bisogno di potere che aveva una squallida “oligarchia anonima”, il cui giacobinismo altro non era che una macchina propagandistica per ottenere consensi popolari.

Oggi, a questo, i vari Furet, Richet ecc. aggiungono che la rivoluzione francese frenò le tendenze progressiste, in senso capitalistico, manifestatesi in agricoltura, ritardando di almeno un secolo lo sviluppo della nazione; che la rivoluzione non distrusse né l’ancien régime né il feudalesimo, allora già inesistenti e che la vera, unica rivoluzione prodottasi nel XVIII sec. fu quella tecnica e industriale dell’Inghilterra.

Stante queste analisi non stupisce che Braudel abbia preferito troncare ogni rapporto con le “Annales”.