LE VERITA’ NEGATE SULLA FINE DI ENRICO MATTEI – 1

di Benito Li Vigni

La mediazione di Kennedy

Appena eletto alla Casa Bianca, nel 1960, John Fitzgerald Kennedy dovette far fronte a due problemi che investivano significativamente la compattezza dello schieramento atlantico. Il primo riguardava la Francia e il pericolo di un suo disimpegno a seguito dell’azione di disturbo messa in atto dal generale De Gaulle con le sue affermazioni nazionalistiche sbandierate come manifestazione d’indipendenza nazionale, anche nei confronti dell’Alleanza atlantica. Sergio Romano, che fu diplomatico e ambasciatore a Mosca, così descrive la contromossa di Kennedy: «Per prevenire il contagio gollista e affermare la leadership americana il nuovo presidente propose agli europei una falsa partnership nucleare: una forza navale composta da equipaggi multinazionali e dotata di armi nucleari, di cui gli americani avrebbero conservato il pieno controllo. Quando fu chiaro che la Forza multinazionale era soltanto un inutile camuffamento della realtà, abbandonato il progetto, Kennedy decise di far leva contro De Gaulle sulla Gran Bretagna e sulle forze politiche europee, che avevano accolto con maggiore freddezza la politica gollista».

Il secondo problema riguardava l’Italia, la sua instabilità politica e le sue spinte neutraliste interne che ostacolavano ancora la piena riconsiderazione del ruolo italiano nella politica internazionale. Sulla instabilità politica italiana il Dipartimento di Stato Usa, nel documento secret del gennaio 1962, rivelava, attraverso una minuziosa analisi, le sue preoccupazioni: «La situazione politica italiana continua a essere estremamente instabile. Il partito della Democrazia Cristiana, al quale le fazioni pro-occidentali hanno fatto riferimento sin dal dopoguerra, ha solo il 46% dei seggi nella Camera dei deputati. Il partito, di conseguenza, non può governare senza il supporto di uno o più partiti della destra o della sinistra. Tale difficoltà è il risultato di marcate divergenze all’interno del partito, dove alcune fazioni favoriscono un allineamento con i partiti di destra (liberali, monarchici e persino neofascisti) e altre preferiscono un allineamento con la sinistra democratica. Ogni fazione è abbastanza forte da evitare una vera e propria scissione. Ne risultano una serie di governi instabili e di breve durata, tesi verso una certa direzione piuttosto che un’altra, ma incapaci di svolgere programmi validi o ben strutturati. L’Assenza di un’alternativa democratica nel governo al potere che noi sosteniamo è potenzialmente pericolosa. Pur essendo preoccupati dalla scarsa capacità e dalla mancanza di una leadership autorevole nei governi che si sono alternati nel corso degli ultimi 8 o 10 anni, dobbiamo riconoscere che sono stati raggiunti risultati importanti in special modo nell’attuazione di politiche finanziarie ed economiche che hanno portato a un’eccezionale crescita economica. Vi sono, tuttavia, alcuni elementi particolarmente preoccupanti per le implicazioni politiche che potrebbero determinare, come ad esempio il fallimento di alcune aree geografiche e di settori economici incapaci di beneficiare della generale prosperità economica italiana, cosa che vale invece per altre del paese».

L’ostacolo che più si frapponeva al raggiungimento della stabilità politica italiana era la capacità di tenuta del blocco di centro della Democrazia Cristiana, che dopo la caduta del governo Fanfani si era ridotta ai minimi termini. Dall’assunzione dell’incarico il 2 luglio 1958 Fanfani aveva tenuto una attiva ed energica andatura negli affari interni ed esteri e, fino a un certo momento, aveva dato l’impressione che il suo governo fosse più stabile di quello che i fatti politici italiani sembravano giustificare. Nel segno della instabilità il febbraio 1959 vide il ritorno di Antonio Segni alla guida del governo, e di Giuseppe Pella agli esteri. Ma il tentativo durò meno di un anno. Succeduto al governo Segni, l’esecutivo affidato nel marzo 1960 a Fernando Tambroni dovette ricorrere all’appoggio dell’estrema destra per ottener la fiducia del parlamento; soluzione politica che sfociò nei drammatici prodromi di una guerra civile che costrinsero Tambroni a dimettersi precipitosamente dalla presidenza del Consiglio. Falliti i ripetuti tentativi di un riassetto in senso moderato degli equilibri politici, l’ipotesi dell’”apertura a sinistra” divenne un tema di immediata rilevanza, una necessità strategica rivolta a recuperare i socialisti al sistema democratico italiano e a isolare i comunisti. Tale soluzione andava emergendo dalla strategia di Fanfani, chiamato a guidare l’ennesimo governo prodotto dallo stato di crisi, e dai laboriosi negoziati di Saragat con Nenni. Il primo passo verso un’intesa con i socialisti non era andato al di là di una loro costruttiva astensione sulla fiducia al Parlamento, tuttavia l’amministrazione Kennedy decise di puntare molto su tale svolta nella politica interna italiana. Il centro-sinistra, in altre parole, divenne gradito a Washington nel momento in cui fu chiaro che la nuova combinazione governativa avrebbe potuto assicurare stabilità politica ed essere ancor più di sostegno all’Alleanza atlantica e all’America, per certi aspetti, del vecchio centrismo degasperiano.

Questo auspicio, seppur con qualche riserva sulla credibilità dei socialisti, fu chiaramente enunciato nelle linee guida (secret) del Dipartimento di Stato americano del gennaio 1962: «La recente e graduale indipendenza del Partito Socialista Italiano dal Partito Comunista ha fatto sperare che tutta o gran parte della forza del Psi (il 14% dell’elettorato) provenga dalle fila delle forze democratiche. Sarebbe questo un importante risultato in quanto porterebbe all’isolamento a sinistra dei comunisti. I comunisti, visibilmente allarmati da tale possibilità, hanno tentato di opporsi con tutte le loro forze. Anche le forze conservatrici politiche ed economiche e alcuni leader ecclesiastici si sono opposti vivamente a questa possibilità in quanto temono l’influenza dei socialisti sulla legislazione nel caso in cui questi riescano a esercitare la diretta pressione sui programmi del governo. Sebbene, sul piano nazionale, i socialisti abbiano rotto la formale alleanza politica con i comunisti e si siano distinti da questi su alcune tematiche, il loro atteggiamento generale fa credere che, su alcune questioni critiche e soprattutto sulla politica estera, essi possano ancora seguire la linea comunista o, almeno, anche se non direttamente favorire i comunisti in alcune situazioni. Considerando i forti legami storici, psicologici e pratici che legano il Psi e il Pci, il partito potrebbe ancora tirarsi indietro e abbandonare questa condizione di autonomia. Qualunque sostanziale inversione del Psi verso il comunismo rappresenterebbe comunque un serio problema per l’Italia e per gli interessi degli Stati Uniti in Italia e, di conseguenza, il fatto che gli Stati Uniti favoriscano l’indipendenza del Psi è assolutamente normale. La politica gradualista dei leader cristiano-democratici, che, cautamente, procedono verso questa direzione è necessaria sia al fine di evitare una rottura all’interno della Dc, sia al fine di favorire l’ulteriore evoluzione, necessaria peraltro, delle politiche del Psi. Quest’ultimo deve muoversi in maniera molto cauta considerando le influenze rivoluzionarie e le posizioni spesso estreme contro l’Occidente che il partito ha adottato durante i quindici anni di stretta collaborazione con i comunisti. È necessario un ulteriore passo avanti in questa direzione al fine di evitare che un’eventuale influenza del Psi sulle politiche nazionali del governo possa compromettere il sincero impegno dell’Italia nei confronti della Nato».

A questo riguardo, le linee guida dell’operazione vennero così riassunte dal Dipartimento di Stato americano nel già citato documento segreto del gennaio 1962: «Dovremmo incoraggiare il Psi verso una maggiore e reale indipendenza politica dai comunisti e dovremmo inoltre favorire alcuni cambiamenti nelle politiche chiave dello stesso partito in tema di politica estera e sicurezza nazionale. Nel dar prova del nostro incoraggiamento in tal senso dovremmo, tuttavia, fare attenzione a non superare la linea politica seguita dai leader progressisti responsabili del partito della Dc a cui resta la responsabilità finale di mantenere la democrazia e la sicurezza dell’Italia. La scelta delle specifiche azioni da intraprendere per raggiungere l’obiettivo di un’eventuale evoluzione del Psi dovrebbe riflettere la nostra attuale valutazione delle opportunità e dei pericoli relativi alla situazione. La nostra influenza dovrebbe avere la finalità di incoraggiare il partito a rompere i suoi legami con i comunisti in qualunque settore possibile, e, in particolar modo, nel quadro della Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), al fine di creare amministrazioni locali in associazione con i partiti democratici piuttosto che con il Pci e per modificare la politica estera del Psi, fondamentalmente neutralista».

Oltre alla sostanziale sfiducia verso la possibilità di affrancare in tempi brevi il Partito Socialista dall’influenza comunista, le analisi americane esprimevano perplessità circa la capacità della Dc di estendere la propria egemonia sullo schieramento socialista garantendone la fedeltà atlantica. Perplessità che nascevano dalle fratture esistenti all’interno della Democrazia Cristiana e dall’influenza, sull’instabilità del partito, delle avanguardie progressiste dominate da Gronchi e Mattei, e in misura minore da Fanfani. Il Dipartimento di Stato americano, in un rapporto secret del 10 gennaio 1958, li aveva accusati di “neo-atlantismo” affermando: «Probabilmente i “neo-atlantisti” tendono al neutralismo. Di sicuro, se la rottura tra gli Stati Uniti e i suoi alleati europei dovesse svilupparsi al punto da causare lo scioglimento della Nato, l’Italia tenderebbe ad affiancare gli Stati Uniti inizialmente. Ma questa posizione filoamericana varrebbe solo se l’Italia fosse in grado di trarne un beneficio materiale come, ad esempio, il sostegno finanziario americano nei suoi interessi in Medio Oriente. Se gli Stati Uniti dovessero respingere le richieste dell’Italia, le tendenze neutraliste dei neo-atlantisti potrebbero prevalere sull’attuale politica filoamericana».

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Agli inizi del 1961 i rapporti tra Mattei e gli Stati Uniti sembravano vicini alla rottura a causa, soprattutto, del gruppo di studio sul petrolio sovietico creato in seno alla Nato, e delle rimostranze che questo aveva rivolto al governo italiano per gli accordi stipulati dall’Eni. Una violenta campagna di attacchi era stata indirizzata contro Mattei per i commerci con l’Unione Sovietica che pure altri paesi, e tra questi la Germania occidentale, praticavano con altrettanta se non maggiore intensità. Duri e allarmati gli attacchi inglesi. In un rapporto confidential del 19 luglio 1962 il Foreign Office, come già detto, accusava: «Il matteismo è potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza. L’appoggio statale nel commercio, le trattative basate sullo scambio di merci tra le due parti (come l’accordo con l’Urss), gli attacchi ai prezzi, potrebbero danneggiare altri importanti settori commerciali oltre a quello dell’industria petrolifera. Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica “matteista” rappresenta la distruzione del sistema libero petrolifero in tutto il mondo. In questa situazione, le compagnie petrolifere internazionali hanno tutto il diritto di difendersi dagli attacchi propagandistici di Mattei».

Mentre Gronchi, giunto ormai alla scadenza del suo mandato, si accingeva a lasciare la presidenza della Repubblica, e Fanfani, dopo l’avvio della sua soluzione governativa, appariva molto più cauto che in passato, Mattei continuava invece a rappresentare una forza attiva capace di influenzare fortemente la politica italiana. Egli non mancava di sostenere la necessità di un vasto programma di riforme in grado di colmare le ampie lacune esistenti in campo sociale ed economico, la cui esistenza costituiva un facile terreno di propaganda comunista, e parallelamente recuperare i socialisti dentro l’area democratica. Posizione, la sua, che lo poneva come potenziale interlocutore politico dell’amministrazione Kennedy, interessata a compiere il primo passo per la riconciliazione con un uomo tanto influente e determinante per la delicata evoluzione del sistema italiano verso un governo di centrosinistra. D’altro canto il suo isolamento si era rivelato fonte di crescenti e pericolose tensioni a causa della esasperazione dei mezzi e dei toni della sua politica e della chiusura di ogni possibile canale di mediazione. Per questi motivi gli Stati Uniti ritennero giunto il momento di offrire a Mattei l’opportunità di un accordo che migliorasse le reciproche relazioni e, nello stesso tempo, eliminasse dai loro piani sull’Italia una forte componente d’incertezza.

L’operazione di “avvicinamento” scattò il 10 marzo 1961 quando Averell Harriman, consigliere di Kennedy per la politica estera, incontrò segretamente Mattei all’hotel Excelsior di Roma. In quell’occasione il capo dell’Eni definì suicide le politiche delle compagnie petrolifere sostenendo che, inevitabilmente, avrebbero portato entro pochi anni alla nazionalizzazione del petrolio da parte degli Stati produttori. (Le crisi petrolifere degli anni ’70 gli daranno ragione).

Disse che i suoi interessi con l’Unione Sovietica erano dovuti alla necessità di assicurarsi una grande quantità di petrolio per un lungo periodo di tempo. Precisò di aver avvicinato le compagnie occidentali nel tentativo di acquistare il petrolio da loro a un prezzo ragionevole. Avevano il 70% di profitto sulle vendite di petrolio e si rifiutavano di garantirgli un’adeguata riduzione. Si era così rivolto ai Sovietici comprando il petrolio a 100 milioni di dollari invece che ai 140 che chiedevano le compagnie petrolifere occidentali. Aveva risparmiato in tutto 40 milioni di dollari, e, inoltre, aveva pagato i Russi in prodotti manufatturati del suo gruppo (prodotti petrolchimici, gomma sintetica e tubi) e aveva venduto 250.000 tonnellate di tubi da 50 pollici ottenendo un ulteriore profitto di 20 milioni di dollari.

Un passaggio contenuto nel documento secret, stilato al termine di quell’incontro, focalizzava efficacemente l’atteggiamento di Mattei nei confronti delle compagnie occidentali ma anche di quelle sovietiche: «Harriman gli chiese se avesse mai tentato di parlare con le compagnie petrolifere ed egli rispose che, la settimana precedente, aveva avuto un incontro di sette ore a Zurigo con un’alta personalità della Standard Oil. Lo avevano trattato con simpatia e persino chiamato “Enrico” ma non lo avevano messo nella condizione di raggiungere alcun tipo di accordo. Voleva questo accordo e, pertanto, intendeva portare avanti la discussione. L’Italia era un’alleata e voleva far parte dell’Occidente ma doveva anche sopravvivere. Sin dallo scoppio della guerra, la rotta più naturale verso l’Austria e la Germania passava attraverso l’Italia ma le compagnie petrolifere non avevano mai preso in considerazione la possibilità di costruire i propri oledotti. Non si trattava semplicemente della vendita dei prodotti petroliferi ma delle opportunità di lavoro che potevano essere create sia nel porto di Genova sia in altre parti d’Italia. Disse che le grandi compagnie petrolifere erano potenti e arroganti ma aggiunse, però, che quelle sovietiche non erano da meno. Aggiunse: “Sono povero ma paziente”. Durante il colloquio, ribadì il concetto che l’Italia veniva continuamente discriminata».

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Un altro importante passaggio del documento riguardava la posizione di Mattei in merito a una svolta di centrosinistra: «Harriman sostenne che, grazie alla crescita dello standard di vita dei paesi europei, l’influenza del Partito Comunista, era ormai praticamente nulla. Ciò, tuttavia, non valeva né per la Francia né per l’Italia. Mattei rispose che la ragione di tutto questo era in gran misura di natura psicologica e che erano necessari ancora molti passi avanti. Bisognava recuperare e riportare i socialisti di Nenni nell’area democratica. Riteneva che circa il 40% del partito poteva essere persuaso con Nenni. Anch’egli, continuò, si stava adoperando in tal senso: aveva amici nell’ala di estrema sinistra del Partito Socialista, i “carristi”, e riteneva che persino questi potevano essere convinti ad entrare nell’area democratica. Volle sottolineare che stava, tuttora, operando in tale direzione e che riteneva che l’Italia aveva bisogno di grandi riforme a carattere sociale ma che i cosiddetti detentori del potere acquisito non avevano alcuna intenzione di adoperarsi in tal senso”.

Quell’incontro convinse Harriman che la politica petrolifera di Mattei, fondata principalmente su problemi di orgoglio nazionale e personale, mirava a raggiungere un accordo paritetico con le grandi compagnie occidentali, nella prospettiva di superare ogni conflittualità e di svolgere un ruolo complementare rispetto alla politica statunitense. Riguardo poi ai contenuti del contratto sovietico, vera pietra dello scandalo, lo stesso Mattei aveva tenuto a escludere ogni motivazione ideologica alla base dell’accordo, rivelando una preoccupazione sincera per la minaccia comunista che lo aveva indotto a chiedere ad Harriman un maggior sostegno militare per l’Iran a suo parere esposto costantemente alla pressione esercitata da Mosca. L’insieme di queste indicazioni rafforzò la convinzione, in seno al Dipartimento di Stato e alla Casa Bianca, che si dovesse attivare urgentemente una mediazione per comporre i rapporti tra Mattei e le compagnie occidentali. Alcuni tra i maggiori esperti di questioni italiane e di affari petroliferi dell’amministrazione Kennedy, come George Mc Ghee, George Ball, Arthur Schlesinger e l’ambasciatore Reinhardt si riunirono il 17 marzo 1962. Nel corso dell’incontro furono analizzate le ulteriori capacità destabilizzanti di Mattei e discusse le possibili conseguenze che potevano derivarne alla politica d’intesa con la compagnia italiana.

Uno dei temi più dibattuti fu proprio la spregiudicatezza di Mattei che a dispetto del suo isolamento e delle polemiche che accompagnavano ogni sua operazione aveva fatto irruzione ovunque. Nel corso dell’incontro Reinhardt sostenne che la questione Mattei era un problema di vecchia data e che non esistevano particolari e nuovi elementi sulla situazione, a parte il numero sempre crescente di attività che egli continuava a intraprendere. Il commento di Ball fu che i nuovi elementi dovevano essere ricercati nel ruolo di Mattei nella formazione del nuovo governo Fanfani appoggiato dal Psi, e nella possibilità che egli stesse diventando una facciata per i comunisti cinesi e un agente dei sovietici nelle vendite del petrolio. Mc Ghee fece notare l’effetto distruttivo delle operazioni svolte da Mattei nei paesi del Terzo Mondo e nei rapporti con il blocco sovietico; lamentò che l’Eni si muoveva in molte aree del mondo ed era estremamente pericolosa per gli interessi americani.

La consistenza del potere di Mattei, che vista dall’esterno appariva grandissima, fece sorgere, nel corso di quell’incontro, non poche perplessità sulla sua controllabilità futura. Perplessità che il realismo e l’acutezza di giudizio dell’ambasciatore Reinhardt riuscirono a far superare facendo prevalere un atteggiamento più obiettivo. Egli sostenne che persino il potere di Mattei aveva dei limiti. Disse che l’estate precedente, quando sembrò che Mattei stava offrendosi per assumere un ruolo speciale aiutando gli iracheni a estromettere le società petrolifere inglesi, il governo italiano lo costrinse a recedere. Allo stesso modo, quando dimostrò che stava incrementando particolari rapporti con il Fronte di liberazione algerino, con l’obiettivo di ottenere delle speciali concessioni in Algeria dopo la sua liberazione, il governo lo costrinse nuovamente a desistere. Sottolineò, poi, che la scelta del petrolio sovietico era stata ispirata soltanto da calcoli opportunistici e che il punto essenziale di ogni negoziazione con Mattei era il prezzo del petrolio praticato nei confronti dell’Eni. Fece infine presente che da qualche tempo la Esso stava tentando un riavvicinamento con Mattei per motivi di carattere politico, e suggerì che proprio su un piano politico si doveva raggiungere un compromesso, se necessario, attraverso un prezzo politico del petrolio.

Convinto dalle argomentazioni di Reinhardt e dalla disponibilità di Mc Ghee e Schlesinger, il 5 aprile del 1962 il segretario di Stato Dean Rusk approvò una strategia che, puntando sulla definitiva rivalutazione del ruolo di Mattei nella politica italiana e nell’industria petrolifera internazionale, incoraggiasse una o più delle maggiori compagnie occidentali a raggiungere con lui un accordo. La strategia prevedeva altresì che per giungere a un’intesa con il presidente dell’Eni si dovesse favorire la partecipazione italiana a vantaggiose operazioni petrolifere, quali quelle di beneficiare delle fonti petrolifere e dei circuiti commerciali delle Sette Sorelle in Medio Oriente, in Africa e ovunque fosse possibile, al fine di creare alternative ai rifornimenti sovietici. Successivamente, una volta stabilita la collaborazione, Mattei sarebbe stato invitato negli Stati Uniti e avrebbe ricevuto tutti gli onori (si parlò di una laurea ad honorem della Stanford University e di un incontro con Kennedy chiesto dallo stesso Mattei), tali da convincerlo del pieno riconoscimento politico da parte delle autorità americane.

Se da un lato il Dipartimento di Stato riteneva di dover giungere a una pace stabile con Mattei, dall’altro nutriva forti preoccupazioni per la politica dei bassi prezzi di cui, proprio Mattei, era uno dei più tenaci propugnatori. Per evitare le conseguenze sull’industria petrolifera mondiale di una politica volta a ribassi sconsiderati, l’intesa con Mattei venne vincolata a tre indirizzi di buona volontà: riduzione delle importazioni di petrolio sovietico, non interferenza nel sistema di divisione degli utili tra compagnie e paesi produttori, comportamento leale in merito ai prezzi e all’acquisizione di mercati e concessioni. Dai documenti segreti del Dipartimento di Stato americano e dai rapporti riservati dell’ambasciata di Roma di quel periodo si evince la ferma determinazione di giungere a un’intesa con Mattei e di favorire anche dal punto di vista politico un clima costruttivo e amichevole. Ad alcune grandi compagnie americane venne affidato il compito di trattare gli aspetti tecnici e commerciali dell’intesa. Saldamente convinti della validità della strategia voluta dal Dipartimento di Stato, i responsabili della politica estera americana non tennero conto di un’intervista rilasciata da Mattei a Cyrus Sulberger del New York Times, il 4 aprile 1962, il giorno prima che Dean Rusk approvasse la trattativa con l’Eni. In quella occasione, Mattei assunse un atteggiamento duro e decisamente sconcertante se si tiene conto della linea di pacificazione delle autorità americane. Dichiarò di essere antiamericano, personalmente contro la Nato e per il neutralismo. Accusò l’America di continuare a tener fuori gli italiani dai mercati esteri e di farsi guidare dalle compagnie petrolifere, condividendo così l’affermazione di Krusciow.

Il 19 aprile 1962 William Stott, vicepresidente esecutivo della Esso, informato da Mc Ghee delle decisioni assunte dal Dipartimento di Stato, pur acconsentendo a iniziare una trattativa con l’Eni per un amichevole accordo e per contenere la strategia sovietica, si opponeva tuttavia al “lancio” di Mattei attraverso un riconoscimento semiufficiale. Riteneva che la trattativa dovesse essere preceduta da un intervento del governo statunitense su quello italiano. Il riconoscimento politico, secondo Stott, doveva avvenire solo in seguito alla conclusione dell’accordo. Dirà poi Stott di Mattei: «Era un uomo difficile, che aveva soprattutto a cuore gli interessi del suo paese. Il primo incontro risale al 1953. Le mie riserve iniziali nei suoi confronti cominciarono a diminuire e si trasformarono in un senso di rispetto, una volta che le giuste ambizioni di quest’uomo mi furono chiare. Mattei era audace e certamente duro; lo era però perché voleva ad ogni costo dare al suo paese una più giusta quota delle ricchezze della terra».

A Reinhardt non piacquero i suggerimenti di Stott. Con un suo telegramma riservato del 25 aprile 1962 cercò di sollecitare il Dipartimento di Stato verso un’apertura politica nei confronti di Mattei. Scrisse testualmente: «Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che, considerati i problemi psicologici della personalità di Mattei, un primo passo per aiutarlo sarebbe quello di accordargli qualche riconoscimento, teoricamente, facilitando gli sforzi delle nostre compagnie impegnate a raggiungere una soluzione con lui… Credo che qualunque approccio ufficiale tra gli Stati Uniti e il governo italiano sulle nostre relazioni con Mattei dovrebbe seguire più che precedere un tentativo di riavvicinamento nel settore commerciale già manifestato attraverso la Esso o altre maggiori compagnie petrolifere». «Mi sembra che un approccio ufficiale con il governo italiano prima che le compagnie petrolifere diano inizio alle loro negoziazioni, potrebbe essere una nuova base per un accordo che riconosca la figura di Mattei, ma a Mattei sembrerebbe un tentativo per costringerlo a un accordo sfavorevole… Alla luce dei fatti, suggerirei di informare Stott prima del suo incontro con Mattei, previsto per questa settimana, che non deve aspettarsi una manovra diplomatica ufficiale da parte del governo degli Stati Uniti verso il governo italiano (alla ricerca di un accordo secondo il quale l’Eni si impegna a non aumentare i suoi acquisti di greggio sovietico), poiché questo tipo di approccio farebbe crescere l’opposizione di Mattei e ridurrebbe le possibilità di raggiungere un accordo. Vorrei far sapere a Stott che, appena possibile, noi saremmo favorevoli a un incontro tra Mattei e i funzionari del Dipartimento di Stato (a mio avviso, sarebbe meglio se tale incontro avesse luogo a Washington piuttosto che far venire il sottosegretario Ball a Roma a meno che, nel frattempo, le negoziazioni della Esso abbiano portato i loro frutti)».

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L’incontro tra Mattei e Ball si tenne invece a Roma il 22 maggio 1962 e si rivelò di estremo interesse per entrambi. All’inizio Mattei volle dare risalto al lavoro che molti immigrati italiani in passato avevano offerto a paesi stranieri procurando tra l’altro una perdita di valore nei confronti del proprio paese. Ora, voleva far sì che questa forza lavorasse in Italia e che fornisse energia a basso costo. In merito poi al petrolio sovietico fece notare che egli era l’unico a essere accusato di fare affari con i sovietici. Spiegò che l’Italia importava solo il 15% del suo fabbisogno dall’Urss e che, secondo le cifre a sua disposizione, la Svezia ne importava il 25%, la Germania occidentale il 10% l’Austria il 65% e la Finlandia il 77%. In merito poi, alle esportazioni compensative di condotte petrolifere, disse che la Germania occidentale stava vendendo ai Russi 200.000 tonnellate di tubi l’anno e che il Giappone ne vendeva ogni anno 600.000. Sottolineò che queste forniture corrispondevano da quattro a dieci volte le quantità esportate dall’Eni oltre Cortina. Parlò della Cina, disse che questa parte del mondo si stava muovendo in avanti e stava diventando sempre più influente negli affari mondiali. Infine parlò dei rapporti tra Cina e Unione Sovietica e previde, con brillante intuito politico, i futuri dissidi tra i due colossi del comunismo internazionale. A Ball quella prima conversazione servì a far dissolvere le preoccupazioni che le dichiarazioni neutraliste di Mattei avevano fatto sorgere e a convincerlo che fosse possibile giungere a un accordo. Auspicò, pertanto, che a quell’incontro ne seguissero altri.

Nei giorni successivi di quell’estate del 1962 si passò alla negoziazione, tra l’Eni e la Esso, di un contratto di approvvigionamento petrolifero di ampio respiro. Giuseppe Ratti, direttore Eni per l’estero, ha raccontato: «Era trascorso poco più di un anno dalla firma del contratto per il petrolio sovietico quando Mattei, sollecitato da Cazzanica, presidente della Esso Italiana, mi dette istruzioni di negoziare un accordo analogo con la Esso (petrolio libico contro forniture di aziende del gruppo Eni). Mi disse allora: “Non aspettiamo che i sovietici stringano il laccio”. Le trattative si svolsero a Roma e si conclusero alla fine dell’estate». Il 21 Ottobre le compagnie raggiunsero un’altra importante intesa che metteva fine al lungo contenzioso che riguardava le raffinerie Stanic di Bari e di Livorno. Concluso l’accordo commerciale attraverso la Esso, grazie alla mediazione dell’amministrazione Kennedy, restava da compiere la seconda fase della strategie approvata dal dipartimento di Stato, quella del viaggio di Mattei negli Stati Uniti per firmare l’accordo di Roma e per ricevere tutti gli onori. La tragedia di Bascapè impedì il riconoscimento politico, ma non la formalizzazione dell’accordo pluriennale che avrà luogo a Madrid, con la firma di Cefis, nel febbraio del 1963.

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