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Gli storici e la religione cristiana (III)

3. L’ORTODOSSIA BIZANTINA

In un qualunque manuale scolastico di storia medievale, il tema principale dedicato al regno millenario dei bizantini è quello dell’epoca giustinianea. Tutto il resto viene generalmente liquidato in qualche paragrafo sparso qua e là.

Perché si accentua l’importanza di Giustiniano? Il motivo è semplice: perché sino a questo imperatore non vi è stata una sostanziale differenza tra cattolici e ortodossi. Sicuramente non ve n’era sul piano dogmatico, e anche su quello politico l’intera cristianità riconosceva un’unica realtà imperiale: tutti gli altri sovrani o erano re delle proprie genti o erano “patrizi romani” (titolo che indicava una sorta di vassallaggio nei confronti del basileus).

Le differenze tra cattolici e ortodossi han cominciato a farsi sentire sul piano politico con l’incoronazione di Carlo Magno, preceduta dalla rottura ideologica del Filioque nel Credo (rottura che i cattolici curiosamente definiscono col termine di “scisma di Fozio”).

Prima di allora la chiesa romana s’era limitata a ostacolare, in varie maniere, il progetto di riunificazione dell’ex impero romano sotto l’egida bizantina, anche a costo di favorire la penetrazione barbarica in occidente. Questo perché il papato non aveva mai accettato il trasferimento costantiniano della capitale da Roma a Bisanzio.

In tale resistenza ad oltranza, il papato aveva cercato non solo di prevalere su ogni altra cattedra episcopale della civitas cristiana, ma anche di acquisire quanti più beni possibili. Infatti, quando si sentì sufficientemente forte sul piano economico, al fine di poter rivendicare anche un potere politico, scelse di incoronare imperatore Carlo Magno, in totale dispregio del fatto che un imperatore esisteva già.

Ma come viene presentato Giustiniano? Bisogna prima fare un passo indietro e parlare dei due imperatori che l’hanno preceduto: Zenone e Giustino.

Del primo i manuali dicono che mandò in Italia gli Ostrogoti per liberarsi degli Eruli di Odoacre, di religione ariana. In realtà, si precisa, Zenone lo fece perché gli Ostrogoti premevano sui confini orientali (anche i Goti infatti erano ariani, per cui non vi sarebbe stata alcuna differenza di principio). Con ciò quindi si fa capire che l’Italia, per Zenone, non valeva nulla.

Tuttavia con gli Ostrogoti l’Italia ebbe 30 anni di pace. Dunque perché con Giustino l’impero volle disfarsi anche di questa popolazione? Forse perché era anch’essa ariana? No, il motivo era che Bisanzio voleva annettersi l’intera Italia.

Cioè lo storico vuol far credere che mentre Bisanzio aveva motivi ideali sul piano formale, sul quello sostanziale invece aveva i sordidi motivi dell’interesse di potere. Lo dimostra il fatto (storiografico) che il basileus viene sempre dipinto come un uomo senza scrupoli, continuamente ansioso d’intromettersi nelle questioni teologiche e di sottomettere politicamente la chiesa (cesaropapismo).

Per converso, la chiesa romana viene presentata come la paladina della libertà dell’occidente: libertà religiosa (cattolici contro ortodossi e contro impero), culturale (latino contro greco), economica (potere spirituale poggiante su quello temporale) e politica (autorità imperiale non indipendente ma riconosciuta dal papato).

Quando si inizia a parlare di Giustiniano, lo si definisce addirittura come “l’ultimo grande imperatore romano”! Tutti gli altri imperatori che si sono succeduti, dalla sua morte sino al 1453, cioè per altri 888 anni, è come se non fossero mai esistiti: non vengono neppure ricordati per nome.

Ma perché Giustiniano fu grande?

1. Perché cercò di riunificare tutto l’impero cacciando i barbari dall’Africa, dalla Spagna, dall’Italia, anche se, a causa della forte resistenza ostrogota, ridusse l’Italia a un cumulo di macerie;
2. perché riprese il controllo commerciale del Mediterraneo;
3. perché riorganizzò l’amministrazione dello Stato, sviluppò il commercio, l’artigianato, l’architettura ecc., e produsse quel capolavoro giuridico chiamato Corpus iuris civilis.

Insomma Giustiniano in tanto fu grande in quanto assomigliava ai migliori imperatori pagani del passato mondo romano. Tuttavia la sua idea di ricostruire il vecchio impero in nome del cristianesimo morì con lui. Si parla della sua “utopia” come se fosse stato un suo problema personale e non un’esigenza dell’intera cristianità.

Quando infatti si comincia a dire che il progetto fallì perché i Visigoti si ripresero la Spagna, i Longobardi entrarono in Italia, i Berberi e i Mauritani si ribellavano continuamente in Africa e i Persiani premevano a oriente, si tralascia del tutto di dire che la chiesa romana non fece assolutamente nulla in occidente per favorire la realizzazione di quel piano. Anzi lo ostacolò in tutte le maniere: dapprima con una forma di resistenza passiva, che impediva ai bizantini di concertare le forze in funzione anti-gota; poi col favorire l’ostilità monofisita delle forze copte dell’Egitto e siriane nei confronti del potere centrale dell’impero; infine con l’avvallo all’ingresso longobardo in Italia, onde impedire a Bisanzio, dopo la vittoria sui Goti, di potersi insediare in tutta tranquillità nella penisola (cfr la controversia dei Tre capitoli).

Il papato infatti aveva bisogno di un’Italia divisa sul piano territoriale, per meglio esercitare i propri tentativi egemonici; e a partire dall’ingresso dei Longobardi, essa resterà divisa sino all’unificazione di fine Ottocento.

Detto questo, si aggiunge che, avendo dovuto sostenere ingenti spese per le numerose e faticosissime guerre su più fronti, Giustiniano aveva prosciugato le casse dello Stato, sicché i suoi successori dovettero privilegiare gli aspetti del risanamento interno, interessandosi dell’Italia solo per motivi fiscali.

La questione delle tasse diverrà cruciale per sostenere le finanze dello Stato, ma anche per sostenere la tesi, propria degli storici papisti, secondo cui la chiesa romana aveva tutto l’interesse a staccarsi dal dominio di Bisanzio.

I bizantini saranno sempre odiati a causa del loro rapace fiscalismo e del loro cesaropapismo. Di fronte a una situazione del genere era dunque giusto che in occidente fosse la chiesa romana a porsi a capo della cristianità.

Ovviamente si tace del tutto sia il fatto che in occidente la chiesa esercitava quello che poi venne definito col termine di “papocesarismo” (l’imperatore come braccio secolare del papato), sia il fatto che in oriente il fiscalismo bizantino era una prerogativa dello Stato, esercitata nei confronti di qualunque cittadino, anche di quello possidente, cosa che nell’Europa feudale occidentale non è mai avvenuto, proprio perché la gestione del potere politico era personalistica (basata sul vassallaggio) e non istituzionale.

Gli storici e la religione cristiana (II)

2. IL CRISTIANESIMO FEUDALE

Uno storico contemporaneo, di cultura laica, difficilmente arriva a sostenere che nel corso del periodo medievale la chiesa romana appariva su posizioni più antidemocratiche (meno “conciliari”) di quella ortodossa, proprio perché strutturata in maniera integralista, cioè politico-monarchica, con tanto di rigida gerarchia clericale, specie dopo la svolta autoritaria di papa Gregorio VII, con cui si pretendeva di subordinare alla curia pontificia la figura imperiale.

Uno storico del genere di regola ha scarsa dimestichezza con le questioni religiose, ovvero ne delega volentieri l’affronto (anche per non aver noie riguardo a pubblicazioni di tipo scolastico) agli stessi teologi e, di conseguenza, pone tutte le religioni sullo stesso piano, non facendo differenze di principio tra l’una e l’altra. E, fatto questo, si limita ad analizzare il fenomeno religioso dal punto di vista politico-istituzionale e, al massimo, socio-economico.

Ecco perché detto storico preferisce dare per scontate una serie di tesi che vanno per la maggiore, ancora oggi, nell’ambito della storiografia occidentale europea, la prima delle quali è che la chiesa ortodossa era del tutto prona, succube, secondo la pratica del “cesaropapismo”, alla volontà politica del basileus, per cui tra le due confessioni – cattolica e ortodossa – va preferita sicuramente quella cattolica, appunto perché si presentava storicamente come una potenza in grado di reggere il confronto con tutti gli imperatori, benché a volte essa abusasse dei propri poteri, come appunto è successo a partire da Gregorio VII sino a Bonifacio VIII.

È assai difficile incontrare uno storico laico che non accetti, consapevolmente o meno, tale interpretazione “cattolica” dei fatti storici. Questo però comporta conseguenze spiacevoli ai fini della ricerca della verità storica.

In primo luogo infatti si è costretti ad accettare come del tutto normale l’incoronazione di Carlo Magno in veste di imperatore del sacro romano impero, in opposizione al basileus bizantino, legittimamente costituito sin dai tempi di Costantino e Teodosio. E noi sappiamo che da quella incoronazione illegittima è poi dipeso tutto lo svolgimento politico-istituzionale dell’Europa occidentale, praticamente sino alla nascita delle moderne nazioni borghesi.

In secondo luogo si è costretti a sostenere che la rottura del 1054 fu voluta dagli ortodossi e non dai cattolici, i quali però, sin dai tempi del Filioque, avevano infranto la tradizione ecumenica e teologica della chiesa indivisa.

In terzo luogo si è indotti a considerare come legittime tutte le innovazioni, amministrative ma anche dogmatiche, introdotte dalla chiesa romana nell’ambito della cristianità mondiale.

Solo di recente lo storico medievista tende a considerare quanto meno esagerate le persecuzioni clericali ai danni dei movimenti pauperistici, da sempre ritenuti troppo settari ed estremistici per essere politicamente attendibili.

Tuttavia detto storico non può arrivare a prendere una posizione nettamente favorevole nei confronti di tali movimenti, altrimenti ciò ad un certo punto lo porterebbe a parteggiare, a seconda del movimento scelto, o per la causa protestante, oppure per un ritorno, sic et simpliciter, all’evangelismo pre-borghese.

Lo storico medievista, di cultura laica, si limiterà a dire che quelle persecuzioni erano un segno premonitore del fatto che il potere temporale della chiesa andava in qualche modo ridimensionato. Che poi questo storicamente sia avvenuto proprio a causa della riforma protestante, è un altro discorso, che non merita d’essere approfondito più di tanto. Infatti lo storico medievista italiano, se è costretto a scegliere tra ortodossia e cattolicesimo, sceglie il secondo, e se deve scegliere tra cattolicesimo e protestantesimo, sceglie il primo.

Gli storici e la religione cristiana (I)

Queste riflessioni sul modo come la religione cristiana viene trattata nei manuali scolastici di storia antica e medievale, vogliono soltanto essere esemplificative dei limiti cui si può andare incontro scegliendo come approccio ermeneutico quello meramente “occidentale” (che in detti testi coincide con quello dell’Europa cristiano-borghese).

1. IL CRISTIANESIMO PRIMITIVO

Quando nei manuali scolastici di storia antica o medievale si affronta il tema del cristianesimo primitivo, che cronologicamente va dalla nascita di Cristo al crollo di Gerusalemme nel 70, generalmente lo storico tiene un atteggiamento molto prudente.

Infatti se si mettono a confronto le versioni sulla natura di questo evento, espresse nei manuali scolastici di religione cattolica, che come noto devono sottostare a un placet ecclesiastico, con quelle espresse nei manuali di storia, si assiste quasi sempre a una sostanziale omogeneità di vedute.

Questo perché gli storiografi non confessionali hanno adottato in maniera del tutto acritica le tesi ufficiali della chiesa romana relative all’interpretazione di tale fenomeno storico. E questo senza considerare minimamente che nei paesi anglosassoni esistono tesi confessionali di tipo “protestantico” e in quelli greco-slavi tesi confessionali di tipo “ortodosso”, che su moltissimi punti divergono ampiamente da quelle cattoliche.

Per convincersi di questa abdicazione del laicismo all’esegesi confessionale basta citare alcuni semplici esempi tratti dal manuale di Alba Rosa Leone (Popoli nella storia, ed. Sansoni), uno dei più usati alle medie di I grado:

1. Gesù non predicò un regno di liberazione nazionale della Palestina oppressa dai romani, ma una salvezza di tipo “etico-religioso”, che si sarebbe realizzata nel cosiddetto “regno dei cieli”;

2. tale regno sarebbe stato fondato esclusivamente sull’“amore fraterno e universale” e sarebbe stato appannaggio delle categorie sociali più deboli e reiette.

La storiografia laica conferma quindi l’idea della storiografia confessionale secondo cui il Cristo non era affatto un liberatore politico-nazionale, bensì un redentore morale-universale.

Oltre a ciò si danno per scontate tutte le guarigioni miracolose (definite dall’autrice con l’aggettivo “inspiegabili”).

Ma il bello sta nel finale. Poiché dunque la popolazione riteneva Gesù il “messia” tanto atteso, egli finì coll’essere giustiziato sulla base di un incredibile equivoco, in quanto nei vangeli non appare in alcun punto ch’egli avesse mai desiderato diventare un “liberatore nazionale”. Egli fu crocifisso a causa dell’odio che nei suoi confronti nutriva il ceto sacerdotale giudaico, che temeva di perdere il proprio potere, di fronte all’eventualità di un’insurrezione armata contro i romani (realizzata a questo punto non si sa da chi). Pilato eseguì la sentenza senza neppure essere pienamente convinto della sua giustezza. Successivamente il primo che ebbe il coraggio di far uscire il cristianesimo agli angusti limiti geografici della Palestina fu Paolo di Tarso, il vero fondatore del cristianesimo come religione universale.

In tutta la propria rappresentazione dei fatti, la Leone evita di soffermarsi su un punto che per la storiografia confessionale è di cruciale importanza, e cioè la resurrezione di Cristo. Ma questo silenzio, indubbiamente voluto, è il massimo della laicità possibile che si possa riscontrare nel suo manuale. Una omissione che, stante le premesse, verrebbe inevitabilmente giudicata come incomprensibile da una qualunque esegesi di tipo confessionale.

Considerando poi che i nuovi programmi fanno partire la storia del primo anno delle medie dalla caduta dell’impero romano, ci si chiede se l’affronto di un tema così importante debba restare definitivamente precluso ai preadolescenti. Il testo del Brusa – Guarracino – De Bernardi (Il nuovo racconto delle grandi trasformazioni, Mondadori), al cristianesimo primitivo non dedica neanche una riga, partendo direttamente dalla svolta costantiniana.

Il Neri (Il mestiere dello storico, La Nuova Italia) fa rientrare il cristianesimo nell’ambito della nascita delle “nuove religioni” e si limita ad affermare che tutto quanto sappiamo di questa religione ci è stato tramandato da una “tradizione”. Quella medesima tradizione che il manuale di Zaninelli – Bonelli – Riccabone (Storia ed educazione alla cittadinanza, Zanichelli) accetta come oro colato, pur essendo stampato da un editore che difficilmente si potrebbe definire come “confessionale”, e che però, verrebbe a dire “a scanso di equivoci”, ha pubblicato un altro manuale che sul tema in oggetto è più “realista del re”, quello di Barbero – Frugoni – Luzzatto – Sclarandis (La storia, l’impronta dell’umanità), dove viene detto che la vita eterna promessa dal Cristo per l’aldilà costituiva un messaggio autenticamente “rivoluzionario” per gli schiavi.

Un po’ più obiettivo appare il testo di Alberton – Benucci (St 1, ora di storia, Principato), che, tra una riga “confessionale” e l’altra, arriva ad ammettere che la predicazione del Cristo risultò scomoda anche ai romani, in quanto contraria allo sfruttamento degli schiavi.

Molto curiosa, specie in considerazione dell’orientamento della casa editrice, la collocazione dell’argomento in questione da parte di Ronga – Gentile – Rossi (Grandangolo, La Scuola): la paginetta dedicata al cristianesimo primitivo, in cui per fortuna si ribadisce la tesi laica secondo cui il Cristo venne crocifisso perché i romani lo giudicavano ostile alla loro autorità, si trova dopo le descrizioni particolareggiate del Pantheon e del Colosseo e subito prima di alcune pagine dedicate agli acquedotti, alle latrine pubbliche e alle fogne di Roma!

Assiomi da superare nell’interpretazione dei fatti storici

In qualunque testo scolastico di storia, di qualunque tendenza esso sia, vi sono sempre alcuni presupposti metodologici ritenuti irrinunciabili, che indicano in un certo senso il carattere apologetico dell’informazione trasmessa nella scuola di stato attraverso una delle sue discipline più significative, appunto la storia.

Tali presupposti provengono direttamente dal senso di appartenenza geo-politica all’Europa occidentale da parte degli autori dei libri di testo, i quali, generalmente, danno per scontata l’idea secondo cui la civiltà di questa parte del continente europeo sia la migliore del mondo, superiore anche a quella degli Stati Uniti, la cui grandezza viene misurata più in termini quantitativi, relativamente al progresso tecnico-scientifico, militare e nell’organizzazione dell’attività commerciale e industriale, che non in termini qualitativi (le tradizioni culturali, religiose e politiche), in cui l’Europa occidentale eccelle da almeno duemila anni.

Sulla base di questi presupposti si fonda l’idea di “scienza” o di “oggettività”. Come se nell’arco della propria vita uno storico non ne vedesse così tante da dover escludere a priori l’esistenza di qualcosa di incontrovertibile o di inconfutabile! Come se uno storico non sapesse quanto le interpretazioni siano condizionate dalla politica, dalle ideologie dominanti (esplicite o implicite), dalle forme di civilizzazione e, sul piano soggettivo, anche dalle proprie storie personali!

E se questo vale, in maniera evidente, per le scienze umane, non vale forse anche per quelle “esatte”? Su asserzioni cosiddette “scientifiche”, del tipo: “la matematica non è un’opinione”, ci sarebbe da discutere all’infinito, essendo ben noto che enunciati assolutamente inconfutabili sono poverissimi di contenuto dialettico o anche semplicemente informativo, e che la nostra “matematica” non è l’unica possibile (i cinesi p.es. usavano la numerazione binaria quando da noi non si sapeva neppure cosa fosse, e i Maya conoscevano la numerazione a base 20 che permetteva loro di fare calcoli molto più complessi di quelli che facevamo noi nel loro stesso periodo).

Gli autori dei manuali scolastici di storia possono essere di ideologia liberal-borghese (crociana-gentiliana), di ideologia socialista (generalmente gramsciana) o, in casi più rari, di ideologia cattolica, ma queste differenze non incidono minimamente sulle scelte di fondo (ontologiche) operate in materia di impianto metodologico generale.

Una constatazione del genere può forse apparire presuntuosa nella sua astratta generalizzazione, eppure essa emerge con sempre maggior insistenza proprio dallo sviluppo di un fenomeno ritenuto ormai incontrovertibile: il globalismo, in nome del quale è diventato legittimo chiedersi se possa essere considerata congrua (sul piano didattico-culturale) una visione unilaterale, in quanto geopoliticamente determinata, dei fenomeni storici.

I fatti dimostrano che le ideologie sottese (in maniera più o meno esplicita) all’elaborazione dei manuali scolastici di storia possono prescindere da molte cose, possono anche essere in competizione tra loro, ma su un aspetto di vitale importanza esiste sempre un’ampia convergenza di vedute, al punto che il senso di appartenenza geopolitica all’Europa occidentale, in particolare alle culture liberal-borghesi (ivi incluse quelle cattoliche e, in misura minore in Italia, quelle protestanti) e, all’opposto, alle culture socialiste-riformiste (che proprio nei testi di storia risultano prevalenti), appare come una sorta di dogma in cui credere per fede.

Si può rilevare questo anche dal fatto che in genere nessuno storico avverte mai l’esigenza di precisare che la sua interpretazione parte da tale assioma, o comunque di chiarire preventivamente i limiti epistemologici entro cui si muove la propria interpretazione dei fenomeni storici del passato e del presente.

Qui in sostanza si vuole sostenere la tesi che, per garantire un minimo di obiettività nei giudizi storiografici, la scelta di un’ideologia in luogo di un’altra, oggi, a differenza, diciamo, di una trentina d’anni fa, risulta del tutto irrilevante, in quanto agli autori dei manuali di storia pare sufficiente far dipendere la verità dei propri enunciati da una preliminare scelta di campo “geografica”, quella dell’Europa occidentale (di cui gli Usa sono soltanto una propaggine), da cui tutto il resto proviene in maniera logica, come una sorta di sillogismo aristotelico.

Si è ormai arrivati a un punto tale di superficialità nell’organizzazione dei contenuti, che ciò che va rimesso in discussione è proprio il rapporto tra ideologia in senso lato e occidente in senso proprio, che va oltre le differenze interne alle medesime ideologie. Questo per dire che anche l’ideologia marxista, o meglio gramsciana, che pur ha dimostrato d’essere teoricamente superiore a quella borghese, nonostante i fallimenti pratici del “socialismo reale”, ha dei difetti intrinseci dovuti proprio al fatto che gli storici di questa corrente considerano assodata la loro appartenenza ideale, specie dopo il crollo del muro di Berlino, all’area occidentale dell’Europa e, indirettamente, degli Stati Uniti, caratterizzati entrambi, soprattutto quest’ultimi, che meno hanno dovuto lottare contro le resistenze del mondo cattolico, da uno sviluppo progressivo dell’ideologia borghese-calvinista, nata nell’Europa del XVI secolo, quell’ideologia che ha portato nel Novecento alle due guerre mondiali e che ha trovato un freno significativo nell’istituzione post-bellica del “Welfare State”.

I limiti metodologici fondamentali che rendono tutti uguali e quindi poco utili, ai fini dell’obiettività del giudizio, i manuali scolastici di storia, sono sostanzialmente frutto di un postulato che andrebbe quanto meno rimesso in discussione, quello per cui si crede che esista una linea evolutiva che va dalla preistoria alla storia, una linea che si estrinseca materialmente secondo un percorso cronologico dei fatti, che trova nell’occidente capitalistico il suo point d’honneur.

Tale linea evolutiva, progressiva, si basa su alcuni fattori fondamentali di “sviluppo”:

1. sviluppo tecnologico e scientifico: la miglior scienza e tecnica – questa la tesi che si sostiene – è quella che permette un rapporto di dominio sulla natura (non è l’uomo che appartiene alla natura ma il contrario);

2. sviluppo dell’urbanizzazione e dei mercati: ogni forma di comunità basata sull’autoconsumo, sul valore d’uso, sul baratto, sulla vendita del surplus, in una parola su un ruralismo non-borghese, viene considerata sottosviluppata; il che porta a giustificare, da parte degli storici, il colonialismo e l’imperialismo, che possono andare dalle classiche crociate medievali alle forme di “aiuto economico” al Terzo Mondo per farlo diventare “come noi”, o comunque a considerare come inevitabili le guerre di conquista o la necessità che i mercati mondiali vengano dominati dall’Occidente;

3. sviluppo della produzione industriale: non solo l’artigianato viene considerato sempre inferiore all’industria (specie quella di massa), ma si tende anche a privilegiare la separazione tra agricoltura e artigianato, considerando prioritaria, specie nel basso Medioevo, la specializzazione dei mezzi tecnici e delle mansioni lavorative;

4. sviluppo della produzione culturale: i valori più significativi di una civiltà vengono ritenuti quelli basati soprattutto sul commercio, sulla scrittura, sul militarismo e in generale sulla supremazia del maschio, quindi tutti valori appartenenti a una determinata categoria di ceti, classi o individui, salvo fare concessioni di circostanza all’ambientalismo e al femminismo.

Posto questo, le differenze, se e quando esistono, tra uno schieramento ideologico e l’altro, risultano del tutto secondarie o formali, come p.es. si evidenzia tra le seguenti:

– nello sviluppo della produzione culturale, gli autori cattolici o protestanti mettono in rilievo l’evoluzione positiva dalle religioni primitive (animismo-totemismo) alle religioni monoteiste, senza però specificare che proprio quest’ultime sono state più facilmente strumentalizzate dalle esigenze di dominio mondiale;
– nello sviluppo della produzione industriale, gli autori di sinistra mettono in risalto le lotte operaie-contadine e, i più radicali (sempre meno in verità) l’esigenza di una socializzazione dei mezzi produttivi; e così via.

Qui si vuole ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che all’origine di questo incredibile appiattimento culturale sta proprio il primato concesso acriticamente al valore di scambio su quello d’uso, e non solo il primato concesso alla proprietà sul lavoro. Il socialismo non è più un’alternativa al liberismo non tanto perché ha smesso di contrapporre lavoro a proprietà, quanto perché ha sempre visto il lavoro all’interno del valore di scambio.

Sulla base di questi assiomi si è elaborato il concetto di civiltà, e ovviamente nessuno mette in discussione che quella più avanzata della storia sia quella occidentale (europea e statunitense); il Giappone non avrebbe fatto altro che copiare la civiltà americana, trapiantandola su un tessuto culturale semi-feudale, come d’altra parte la Cina sta impiantando il capitalismo in un paese agricolo dominato politicamente da un socialismo autoritario. Gli stessi paesi a cultura islamica non sono che paesi feudali nella sovrastruttura e capitalisti o soggetti a neocolonialismo capitalista nella sfera strutturale della produzione. I paesi ex-comunisti (specie quelli est-europei) non sarebbero che paesi neo-democratici, in quanto sul piano economico si sono finalmente aperti al mercato capitalistico. E così via.

Questa impostazione di metodo è così evidente che viene spontaneo darla per scontata in tutti i manuali di storia, anche se ovviamente solo pochi sono stati adottati o esaminati: ovunque infatti si tende a mettere in risalto quelle civiltà che con più decisione sono uscite dalla preistoria, quindi quelle che hanno sviluppato meglio l’organizzazione schiavistica e servile, e che in definitiva assomigliano di più a quella capitalistica.

Ancora oggi nei manuali scolastici di storia si pone una netta differenza tra “storia” e “preistoria”, senza mai precisare che i fenomeni che hanno determinato quella differenza: scrittura, urbanizzazione, metallurgia, commercializzazione degli scambi ecc., sono tutti strettamente correlati alla nascita dello schiavismo. Il che significa che non ha storicamente alcun senso apprezzarli positivamente separando concettualmente l’analisi di quelle forme sociali e tecnologiche dallo scopo per cui erano nate e che ne legittimava l’ulteriore sviluppo.

Ma c’è di peggio. Tutti i manuali tendono a privilegiare le civiltà commerciali basate sullo schiavismo rispetto a quelle agricole basate sul servaggio, allo scopo di sostenere la validità di alcuni fondamentali postulati, che indirettamente risultano funzionali alla legittimazione della modernità borghese, quali ad es. quelli relativi alla superiorità della città sulla campagna, del mercato sull’autoconsumo, del borghese sul contadino e sull’operaio (cioè del proprietario sul nullatenente), del lavoro intellettuale su quello manuale (cioè della scrittura sulla trasmissione orale del sapere), dell’artigiano specializzato sul contadino-artigiano, dell’agricoltore sull’allevatore, del sedentario sul nomade, del bellicoso sul pacifico, dell’occidentale cristiano (una volta si sarebbe aggiunto di “razza bianca”) su tutti gli altri credenti, e in generale dell’uomo sulla donna e della storia sulla natura.

Facciamo ancora un esempio. Quando si parla di migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) gli storici non sostengono mai ch’esse posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o che riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche.

Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri” o “bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente, che, se era “commerciale” e “stanziale”, sicuramente era superiore. Cioè non si prende mai l’organizzazione comunitaria primitiva come un modello di rapporto equilibrato tra esseri umani e tra questi e la natura.

A tutto ciò gli autori di sinistra aggiungono che va considerato necessario non solo il passaggio dalla preistoria alla storia (al fine di superare i limiti delle comunità basate sull’autoconsumo), ma anche il passaggio dal capitalismo al socialismo democratico, sebbene questa tesi oggi, dopo il crollo del “socialismo amministrato”, sia o stia diventando piuttosto rara, in quanto si tende a sostituirla con la cosiddetta ideologia dell’economia mista o “terza via”, in cui vige una sorta di influenza reciproca tra sfera pubblica e privata; e qui, mentre sul versante degli autori di sinistra si vorrebbe una sfera pubblica (statale) più importante di quella privata (il che contrasta con le tendenze di fatto dell’economia borghese), su quello degli autori borghesi si vuole invece un pubblico che faccia da mero supporto al privato.

Ciò che nessuno autore riesce a comprendere (ma in questa incomprensione possono celarsi motivazioni extra-culturali, come p.es. l’esigenza di dover collocare il libro di testo in un determinato mercato editoriale) è che nel rapporto tra comunità primitiva e civiltà storica, quella che più si avvicina al senso di umanità dell’essere umano non è la seconda ma la prima, e che quindi quanto più le civiltà tendono a svilupparsi, tanto più si allontanano dalla dimensione dell’umanizzazione, per quanto la resistenza ai conflitti di classe non lasci impregiudicata la possibilità di un ritorno alle origini.

Nessun autore sostiene che per ripristinare il concetto di umanità sia necessario “uscire” dal concetto di civiltà, così come esso s’è venuto configurando già nel passaggio dal comunismo primitivo alle prime formazioni schiavistiche, e come poi è andato sviluppandosi fino alle civiltà più recenti, che in un certo senso sono una variante dello schiavismo: il capitalismo è uno schiavismo, sotto la parvenza della democrazia, gestito dall’economia privata, quindi con esigenze di sfruttamento coloniale di paesi terzi; il socialismo amministrato è uno schiavismo gestito in maniera palesemente autoritaria dalla politica, quindi con esigenze di sottomissione a un’ideologia di stato.

Ovviamente con questo non si vuole sostenere che una rappresentazione tematica e non cronologica della storia potrebbe meglio garantire l’obiettività dell’interpretazione. È fuor di dubbio che una rappresentazione tematica aiuterebbe a focalizzare meglio le caratteristiche salienti di una civiltà, ovvero di una formazione sociale, perché in fondo è di questo che si tratta, e in tal senso il contributo del socialismo scientifico non va sottovalutato, in quanto è l’unica metodologia che ci permette di chiarire, sul piano economico-sociale, le differenze di sostanza tra una civiltà e l’altra.

Tuttavia lo storico non può basarsi unicamente sugli aspetti socio-economici: ha bisogno di trattare con pari dignità anche quelli culturali e politici. Ecco perché in una visione tematica o, se si preferisce, olistica, integrata, strutturata, organicista, della storia, ogni aspetto dovrebbe essere preso in esame e messo in rapporto trasversale rispetto a tutte le principali formazioni sociali della storia.

Solo che per arrivare a un’interpretazione sufficientemente obiettiva (e diciamo “sufficientemente” con la consapevolezza che la storia di cui trattiamo è quasi sempre la storia dei “vincitori” o quella di chi era padrone di quei mezzi che gli hanno permesso di trasmettere ai posteri una determinata rappresentazione di sé), occorre qualcosa che alla storiografia occidentale manca del tutto: il confronto con le istanze di identità umana.

Oggi non sappiamo neppure decifrare l’umano. Dopo seimila anni di storia delle civiltà abbiamo creato un essere umano quasi totalmente incivile, una sorta di barbaro che di civile ha solo le apparenze.

Possiamo pertanto lavorare solo sui “fantasmi”, cioè su quanto le civiltà ci offrono, tenendo ben presente, alla nostra indagine, che in tutte le civiltà esiste una divaricazione netta tra quanto affermato in sede teorica e quanto vissuto praticamente. Tale dicotomia tende ad accentuarsi col progredire delle civiltà e ha avuto una netta escalation a partire dal tradimento degli ideali del cristianesimo primitivo. Questo perché tutte le civiltà, nessuna esclusa, ha avuto bisogno, al suo nascere, di apparire più democratica rispetto al passato che stava per negare, proprio per poter vivere con legittimazione il contrario di quanto andava predicando, ne fosse o meno consapevole.

In sintesi. Uno storico dovrebbe preoccuparsi di verificare due cose, nel mentre cerca di capire i fatti, perché sarà su queste cose che si svolgerà il dibattito in classe tra il docente e i propri studenti:

1. quali condizionamenti spazio-temporali possono aver indotto un dato fenomeno a manifestarsi in una data maniera, ovvero quali alternative potevano esserci alla soluzione che storicamente, ad un certo punto, si scelse? Lo storico non deve chiedersi il “perché”, in ultima istanza, si preferì una soluzione piuttosto che un’altra (una risposta, in questo senso, non la troverà mai); deve limitarsi semplicemente a registrare il “come” ciò avvenne, aggiungendo, alla fine della spiegazione storica, l’ipotesi di un’alternativa che si sarebbe potuta seguire, naturalmente sempre sulla base dei fatti. Lo storico non deve “inventarsi” le alternative col senno del poi, ma deve saperle cogliere nel dibattito del tempo, quello pubblico, ufficiale, quello delle posizioni dialettiche che si fronteggiavano a viso aperto (che è poi quello stesso dibattito che, in seguito, la posizione risultata vincente spesso cerca di manipolare secondo i suoi propri interessi).

2. Quali differenze esistevano tra ideologia e prassi, in riferimento alle posizioni politiche contrapposte, che ad un certo punto, da paritetiche che erano, sono risultate una “egemonica” o maggioritaria e l’altra di “opposizione” o minoritaria? Lo storico cioè dovrebbe sempre chiedersi: a) la prassi era conforme all’ideologia? b) la prassi era accettabile nonostante l’ideologia? c) l’ideologia era accettabile nonostante la prassi? “Accettabile” naturalmente dal punto di vista democratico, umanistico…

Le ambiguità della storia

Noi studiamo la storia e la facciamo studiare ai nostri allievi secondo un processo lineare di causa/effetto, quando di fatto, nel mentre gli avvenimenti accadevano nel passato, ciò che dominava non era una logica stringente, necessaria, che legava gli avvenimenti, ma una marcata ambiguità, in cui tutto sarebbe potuto accadere.

Noi insegniamo la storia come se fosse una scienza esatta. P.es. quando si affronta il nazismo, mettiamo facilmente in evidenza l’assurdità delle teorie razziste, ma nel mentre esse venivano divulgate i nazisti dovevano ricorrere a svariate dimostrazioni, a infiniti espedienti per convincere le loro popolazioni.

Oggi quelle teorie ci sembrano assurde per una serie di ragioni: i nazisti hanno perso la guerra; esistono teorie scientifiche che ne negano i presupposti culturali; esistono teorie politiche che temono che la diffusione di teorie razziste possa portare a conflitti bellici; esistono teorie etiche e religiose che ritengono il razzismo una forma di anti-umanesimo. E via dicendo.

Eppure il razzismo permane nel rapporto tra Nord e Sud, tra Occidente e Terzo Mondo; permane in quelle sperimentazioni genetiche che pur essendo fatte prevalentemente sul mondo animale si cerca, seppur in maniera strisciante, di estenderle sempre più al genere umano, o in quelle sperimentazioni specifiche per l’essere umano (clonazione, fecondazione artificiale, banca del seme, ibernazione…); permane nel modo come si recepisce il fenomeno dei flussi migratori o nel modo come viene strutturata la convivenza, l’integrazione nelle città: i ghetti, i quartieri residenziali dove tende a prevalere una o più componente etnica…; può persino far capolino nella formazione delle classi nelle scuole, e non è rara nelle dinamiche di gruppo di quelle classi ove esiste una certa componente straniera.

Il razzismo è figlio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo; anzi gli uomini sono razzisti anche nei confronti degli animali e della natura in generale. È una forma culturale, politica, psicologica…, sempre più sofisticata, che fa da supporto a un’esigenza di dominio materiale, economico, dell’uomo sull’uomo, degli uomini sulle donne, degli uomini e delle donne sulla natura, in una parola, dei più forti sui più deboli.

Le forme di razzismo esplicite, istituzionali, vengono sostituite da altre forme di razzismo più subdole, più surrettizie, connesse paradossalmente allo sviluppo della democrazia o comunque coesistenti con l’affermazione dei diritti umani universali.

Per non essere superficiali quando si affrontano argomenti del genere, bisogna sempre partire dal vissuto dei ragazzi, dalla loro paura, spesso indotta dai genitori, di perdere privilegi e comodità.

Insomma di fondamentale importanza è il fatto che quando si fa un’analisi storica di un determinato fenomeno, bisognerebbe anzitutto distinguere tra ciò che il fenomeno poteva apparire ai contemporanei che l’hanno vissuto e ciò che il fenomeno appare a noi, che non l’abbiamo vissuto e che per questo possiamo osservarlo con distacco, nella consapevolezza dei suoi limiti.

Se nell’esaminare il nazismo, noi lo presentiamo solo nella sua negatività, che pur, a guerra finita, è stata a tutti evidente, noi non aiutiamo lo studente a capire il motivo per cui tantissima gente (milioni di persone), coeva a quel fenomeno, lo riteneva un evento positivo, da sostenere persino in maniera incondizionata. Un docente non può in alcuna maniera rischiare di attribuire a una qualche “caratteristica negativa naturale” il fatto che un certa popolazione ha compiuto una determinata scelta. Un educatore non può affidarsi alla psicologia delle masse o addirittura alla genetica per trovare spiegazioni di natura socio-economica e politica.

Noi non possiamo presentare le cose col senno del poi. Non possiamo partire da tesi precostituite se vogliamo abituare lo studente a capire che nella vita si devono operare delle scelte e che quelle migliori per i destini delle generazioni non sono immediatamente intuibili o percepibili nel momento in cui si deve scegliere. Generalmente la verità è qualcosa di molto ambiguo nel suo svolgimento.

Il target della storia come disciplina

Quando i nostri studenti ci portano in classe, per mostrarceli con fierezza, gli album delle figurine dei calciatori o degli eroi del loro tempo, e noi sulla cattedra, mentre sfogliamo questi incipienti prodotti archivistici, buttiamo un occhio al manuale di storia ancora aperto, a cosa pensiamo? Io penso che la storia sia davvero una materia molto difficile da insegnare, anche perché è forse l’unica disciplina a non poter essere “insegnata”.

Un docente può insegnare a leggere, a scrivere, a far di conto, ma solo in misura molto limitata può insegnare a vivere. Non si insegna a vivere a qualcuno che al massimo si vede 18 ore la settimana, se non appunto in misura molto ridotta. Un docente non può insegnare a vivere quando non condivide coi propri alunni i motivi salienti della propria e della loro esistenza.

Quando un docente non è un punto di riferimento per i propri allievi anche al di fuori delle quattro mura scolastiche, c’è poca storia da costruire insieme e quindi poca storia da imparare insieme e da conservare gelosamente contro quanti vogliono sminuirla o demotivarla.

Un educatore dovrebbe esser tale 24 ore al giorno, per tutto l’anno, dovrebbe esserlo non solo per i giovani ma anche per le loro famiglie e per gli adulti in generale, poiché solo con una collettività del genere può diventare un costruttore di “storie”, al punto che la storia che insegna a scuola dovrebbe diventargli la stessa storia ch’egli vive con loro al di fuori della scuola, al punto che quella stessa storia insegnata al mattino potrebbe essere insegnata dagli stessi genitori dei propri allievi, nella generale consapevolezza che si tratta di una storia comune, condivisa nelle sue linee essenziali, un patrimonio generale che si trasmette ovunque, a prescindere da dove ci si trova, dal mestiere che si fa…

Ma questo è soltanto un miraggio, poiché la scuola statale è nata proprio allo scopo di “espropriare” il mondo contadino della propria storia, che s’è trovato così a studiare, come unica storia possibile, quella della classe dominante. Ai contadini è stata tagliata persino la lingua, obbligandoli a credere che l’unica vera lingua era l’italiano e che la loro era soltanto un miserabile dialetto.

L’espropriazione ci ha così lacerati nel vissuto quotidiano che noi docenti siamo arrivati a “insegnare” la storia proprio perché non riusciamo a “viverla” coi nostri ragazzi e coi loro genitori. Siamo intellettuali sradicati dal nostro territorio e trapiantati in luoghi che non ci appartengono e su cui non possiamo neppure mettere radici, poiché un “dipendente statale” è – come diceva un classico della Patty Pravo – “oggi qui, domani là”.

Noi insegniamo una storia a noi stessi estranea e ci meravigliamo che non venga appresa come un’operazione algebrica o una regoletta grammaticale. Noi docenti siamo l’espressione ufficiale di uno Stato che viene visto come una trave nell’occhio della cittadinanza locale, e in forza dei suoi poteri noi insegniamo una storia che la popolazione locale, pur non dicendolo, percepisce come imposta, come calata dall’alto.

È una storia che considera l’oggi migliore di ieri, la scienza superiore alla natura, il valore d’uso del tutto irrilevante rispetto a quello di scambio, la società civile come meno importante dello Stato, la democrazia delegata più giusta di quella diretta, il livello locale come insignificante rispetto a quello nazionale, e così via, sballottati tra le presunzioni di Scilla e i pregiudizi di Cariddi. Noi insegniamo una storia dei luoghi comuni, che sono poi “comuni” soltanto a chi li ha voluti imporre alla collettività. Non esiste neppure nei nostri libri di storia o di geografia una lettura delle tradizioni e delle caratteristiche locali, e d’altronde come potrebbe essere diversamente dal momento che gli editori vogliono vendere a livello nazionale?

Gli storici ci chiedono d’insegnare la storia “in modo da favorire la strutturazione di una mappa cognitiva storica permanente e non solo l’acquisizione a breve termine”(R. Neri, Il mestiere dello storico). Ma lo sanno gli storici che se noi insegnassimo la storia in questa maniera, rischieremmo di porre ai nostri ragazzi degli interrogativi troppo pericolosi per uno Stato che può svolgere una funzione autoritaria, funzionale ai poteri forti, appunto perché la popolazione del suo territorio non ha nel proprio dna una “mappa cognitiva storica permanente”? Non lo sanno gli storici che quanti più collegamenti riesce a fare una popolazione, tanto più essa rischia di sfuggire alle maglie della rete che la governa? È davvero così utile che i cittadini si pongano delle domande sul significato “storico” della loro esistenza? O non è forse meglio accettare un certo tasso di analfabetismo, relativo alle vicende cruciali della storia, che sicuramente è molto più facile da gestire sul piano politico?

Il sistema vuole gente che pensi, poiché nella globalizzazione è importante avere un terziario avanzato: la manovalanza a basso costo la possiamo trovare nel Terzo Mondo o tra i nostri immigrati. Ma che succede quando la gente comincia a pensare un po’ troppo? Quando comincia a chiedersi i motivi per cui nella globalizzazione il nostro paese non sta dalla parte dei molti deboli ma dei pochi forti? E che succederà quando i tanti deboli vorranno rivendicare un ruolo storico di primo piano (come d’altra parte sta già avvenendo in Cina e India)? Davvero dobbiamo dire ai nostri ragazzi che esistono rischi e pericoli relativi ai destini dell’Occidente, oppure è meglio lasciare che li scoprano da soli? Davvero è importante metterli di fronte alle contraddizioni strutturali del nostro tempo, oppure è meglio lasciar loro credere che di fronte a ogni tipo di problema noi siamo sempre in grado di trovare delle soluzioni soddisfacenti per tutti?

Insomma, fino a che punto si deve spingere un’indagine “critica” dei fenomeni storici? Di fronte al rischio che uno studente arrivi a capire i meccanismi di fondo che regolano le dinamiche dello sviluppo sociale, è davvero così preoccupante che metta in correlazione Alessandro Magno e Carlo Magno sulla base del cognome?

Il mestiere dello storico

Uno storico non è un teorico. Uno storico vuole raccontare i fatti. Li racconta collegandoli tra loro secondo un’ideologia basata sui rapporti di forza. Ciò è inevitabile, in quanto le vicende che racconta sono tutte conflittuali.

Lo storico legge prevalentemente delle fonti scritte, che gli raccontano episodi prevalentemente violenti. Se non c’è violenza non c’è storia, ma cronaca, agiografia, letteratura… Lo storico non avverte il bisogno di farsi una cultura troppo astratta, troppo teoretica. Gli basta – o crede che gli basti – quel tanto per interpretare dei fatti nudi e crudi.

È per questo motivo che ritengo i manuali di storia uno strumento antipedagogico. Secondo me uno storico dovrebbe cercare di motivare lo svolgimento dei fatti anche sulla base di idee culturali (valoriali) e non soltanto sulla base di interessi di parte, economici e politici; cioè uno storico dovrebbe già avere una posizione critica nei confronti di questi interessi, in modo che quando li incontra nella sua indagine non dà per scontato il loro svolgimento. Lo storico non dovrebbe essere come un commissario di polizia che quando s’imbatte in un omicidio comincia subito a ipotizzare i soliti moventi che la società in cui vive gli mette a disposizione: soldi, sesso, potere ecc. Lo storico dovrebbe andare al di là dei fatti, dovrebbe potersi immedesimare nella cultura in cui essi trovano la loro ragion d’essere.

La storia non è solo un intersecarsi di interessi opposti, materiali o di potere politico. Vi è anche lo sviluppo delle idee, dei valori, della cultura, che non necessariamente trova riscontro diretto in specifiche fonti. Infatti non sempre gli uomini si rendono conto che l’accettazione o l’abbandono di determinate prassi o consuetudini è in qualche modo legato all’accettazione o all’abbandono di determinati valori.

I valori sono spirituali, invisibili, impercettibili alla penna di un redattore di fonti, che può anche viverli o, al contrario, smettere di viverli in maniera inconscia, irriflessa, istintiva; meno che mai il redattore riesce, in piena consapevolezza, a collegare “logicamente”, in forma sillogistica, il sorgere o il venir meno di un dato fenomeno al sorgere o venir meno di un dato valore culturale o umano.

Anche quando le fonti hanno la pretesa di far dipendere rigorosamente determinati fatti da determinate idee, bisogna sempre che lo storico agisca con molta circospezione, poiché spesso proprio in questa stretta coincidenza di teoria e prassi si celano le falsificazioni più bieche. Tra fatti e idee esiste sempre un rapporto ambiguo, di reciproca interazione, in cui non a caso la libertà si muove su binari opposti.

Questo significa che nell’interpretazione dei fatti uno storico non dovrebbe avere la pretesa di comportarsi come un ricercatore appartenente alle discipline scientifiche. Non è importante l’esattezza con cui si raccontano i fatti, che è sempre molto relativa, ma la capacità di argomentare ipotesi interpretative con cui cercare di collegare gli eventi più significativi.

Leggendo i vangeli si fa fatica a credere che i redattori fossero degli storici, e tuttavia il loro modo di raccontare le cose – a prescindere dal carattere leggendario di molti episodi – ha convinto milioni di persone, modificandone, a volte anche radicalmente, lo stile di vita.

Questo per dire che un redattore di fonti può essere geniale nel modo di presentare le cose, ma se non incontra consensi effettivi, pratici, il suo genio non vale nulla. Ecco perché quando si raccontano le cose non è tanto importante dire tutta la verità (nessuno è in grado di farlo, e chiedere a un testimone processuale di giurare sopra la Bibbia, sperando che dica effettivamente “tutta” la verità, è semplicemente ridicolo), quanto piuttosto è importante aiutare chi ascolta (o chi legge) a immedesimarsi nei fatti narrati, come fece magistralmente il Manzoni col suo capolavoro.

Quanto più l’immedesimazione empatica è forte, tanto più lo scopo del testo (della fonte storica) è riuscito. Il testo non ha creato soltanto curiosità o interesse intellettuale, ma anche partecipazione emotiva, che può anche diventare corale, se il testo è espressione di un sentire comune (come p.es. avvenne col Libretto Rosso di Mao al tempo della rivoluzione culturale).

Questo a prescindere dal fatto che i contenuti trasmessi dalla fonte siano umani o disumani, veri o illusori, verosimili o falsificati. Non esiste un criterio oggettivo che possa stabilire a priori la differenza tra il vero e il falso. L’interpretazione è sempre un faticoso processo a posteriori, che non può riguardare, in maniera unilaterale, il solo storico, ma anche lo studente che legge una fonte e su cui deve esercitare il proprio raziocinio, lasciandosi stimolare da una batteria di domande-guida. Spesso questo atteggiamento supponente degli storici lo si nota anche nel mondo della politica e del giornalismo: ognuno è sempre convinto di avere la verità in tasca.

Insegnamento e concezione della storia

Forse è giusto sostenere che tutta la storia che facciamo studiare, soprattutto quella dei manuali scolastici, è la storia del “senno del poi”, cioè una storia scritta per dimostrare che le cose si sono svolte in una certa maniera proprio perché questa maniera era quella “giusta”, anche se nel concreto i fatti si sono manifestati secondo ragioni e modalità tutt’altro che nobili.

Gli storici dei manuali scolastici sanno bene che non si può insegnare la storia dicendo ai ragazzi che gli avvenimenti sono accaduti per il gioco politico delle forze in campo, che ha spesso reso inevitabili eventi la cui eticità era prossima allo zero. In questo sono pedagogicamente unanimi, “politicamente corretti”: non vogliono far portare sulle spalle dei ragazzi un peso superiore alle loro forze. Sanno cioè che la storia è fatta da “adulti” e che si rivolge, sul piano cognitivo, agli stessi adulti, per cui pensano che ai ragazzi, al massimo, sia sufficiente acquisire le coordinate spazio-temporali in cui collocare i fenomeni e quelle di causa-effetto per interpretarli (ridotte, quest’ultime, a una sorta di semplice operazione aritmetica).

Questo atteggiamento – lasciatemelo dire – è abbastanza curioso. Da un lato infatti essi sostengono che la storia, o meglio la storiografia, non si fa coi “se” e i “ma”, dall’altro invece non possono non sapere che proprio nel momento in cui si è protagonisti della storia (specie nei momenti di transizione o nelle occasioni rivoluzionarie) i “se” e i “ma” sono più fastidiosi delle zanzare.

Perché ci piace così tanto avere delle interpretazioni univoche della realtà? Pigrizia del pensiero? Timori di attività didattiche antipedagogiche? O forse si è convinti, inconsciamente, che l’unico modo di affrontare una realtà sempre più contraddittoria sia quello d’aggrapparsi a certezze meramente teoriche o virtuali? Non è anche questa una forma illusoria del razionalismo occidentale e forse del razionalismo qua talis?

Per quale motivo il passaggio dal feudalesimo al capitalismo viene sempre visto come una sorta di riscossa, di riscatto, di liberazione dal duro prezzo che s’è dovuto pagare alle invasioni barbariche, al punto che quando si fanno “concessioni” al Medioevo (Capitani, Le Goff, Sestan…) è sempre e solo in riferimento al periodo che più somiglia al nostro, cioè quello che parte dalla rivoluzione comunale?

È difficile incontrare un manuale scolastico di storia che preferisca far capire allo studente che nel mentre si prendevano decisioni epocali per le sorti di un determinato paese o territorio, esistevano tesi contrapposte; di regola si preferisce sostenere che la tesi vincente meritava di vincere.

In realtà la storia, come disciplina, andrebbe fatta esattamente come viene vissuta nella vita, cioè ponendo le fonti o le versioni dei fatti in modo parallelo, un po’ come fanno gli esegeti quando devono esaminare la questione sinottica, onde verificare concordanze e discordanze. Lo studente diverrebbe così contemporaneo ai fatti studiati e noi smetteremmo di costringerlo a leggerli come se di un giallo si sapesse già il finale.

E i fatti da studiare dovrebbero essere pochi, quelli paradigmatici dei destini dell’umanità. In tal senso mi piacerebbe elaborare una storia universale per grandi categorie di pensiero, in cui quella dell’area euroccidentale non è più il faro antinebbia di tutte le altre. Scrive a tale proposito Aurora Delmonaco: “tra i prerequisiti fondamentali per uscire dall’eurocentrismo vi è quello di assumere come campo di analisi il locale, perché permette di espandere lo sguardo fin dove vogliamo, fino alla mondialità… dal micro al macro, per poi compiere il cammino inverso, dal macro al micro”(1).

I manuali di storia, questi golem contronatura, sono ancora impostati, se vogliamo, in maniera mitologica, come al tempo del fascismo, poiché ci vogliono far credere, con tutto l’illusionismo possibile, che la storia sia “maestra di vita”. Ma se non riusciamo a sapere la verità delle cose che ci sono più vicine, come possiamo pretendere di sapere quella delle cose più lontane? Nel migliore dei casi veniamo a sapere la verità delle cose quando lo scenario è già da tempo completamente cambiato e il fatto di saperla è ormai diventato del tutto inutile (come accadde con la falsa Donazione di Costantino).

È lo stesso discorso che facevano Croce e Gentile quando dicevano che “non possiamo non dirci cristiani”. Cioè per quale motivo dovremmo insegnare ai giovani che chi nella storia ha ragione ne esce quasi sempre sconfitto? Per quale motivo dovremmo dir loro che chi nella storia s’è imposto con la forza, ha poi dato della propria vittoria un’interpretazione falsata al 100%? Forse è meglio dire che la ragione stava, alla resa dei conti, proprio dalla parte di chi ha vinto, a prescindere dai mezzi e modi usati e dai veri scopi che s’era prefisso.

In questa maniera i ragazzi non si demotiveranno, non avranno a schifo troppo presto il mondo degli adulti: vivranno in un mondo di sogni, che gli verrà infranto solo in età adulta, quando si sforzeranno inutilmente di capire qualcosa delle vicende loro contemporanee, e ad un certo punto si limiteranno a costatare che dalla violenza che regge e governa i destini dell’umanità dovranno difendersi usando, nel loro piccolo, tutte le astuzie possibili, prendendo come modello il mitico Odisseo.

Ma piuttosto che agire così, preferirei rinunciare del tutto alla Storia con la esse maiuscola, e mi limiterei a organizzare ricerche su scala locale, su personaggi, stili di vita, metodi di lavoro, abitudini alimentari… che nel territorio dei miei studenti esistevano nei decenni scorsi, ancora visibili qua e là nelle campagne, nei ruderi del passato, nei musei della civiltà contadina, nei monumenti, epigrafi, tombe, nelle monete antiche, nelle fotografie… e da qui li inviterei a fare interviste agli anziani, riprese con la videocamera, ricerche in biblioteca, comparazioni di ogni tipo tra passato e presente.

(1) Dove si costruisce la memoria. Il Laboratorio di storia, in “Quaderno n. 5”, Roma, MPI Dir Classica, 1994.

L’impostazione lineare-diacronica nell’insegnamento della storia

Da dove nasce l’impostazione didattica di tipo lineare-diacronica o cronologica, così consueta nell’insegnamento della storia? Essa, a ben guardare, sembra essere supportata da tre motivazioni di fondo, spesso di tipo più psicologico che ideologico:
1. suscita l’illusione di favorire meglio la comprensione dei nessi di causa-effetto;
2. evita l’imbarazzante decisione, che potrebbe essere facilmente contestata, di dover scegliere i momenti salienti dell’evoluzione storica;
3. induce a credere nell’esistenza di una immaginaria linea progressiva che vede nel tempo presente di noi occidentali la risultante ottimale di vari percorsi iniziati nel passato.

È molto difficile, anzi impossibile, rinvenire in tale impostazione l’ipotesi che il nostro tempo presente sia in realtà il frutto di una scelta tra opzioni differenti, se non opposte, e che quella che ad un certo punto si è deciso di prendere o in qualche modo di imporre, non necessariamente vada considerata come la migliore.

L’impostazione lineare-cronologica privilegia la categoria della necessità storica, la quale, in un certo senso, non privo di risvolti magici, offre agli occhi dello storico l’impressione che per mezzo di essa si sia favorito al meglio lo sviluppo della libertà umana; nel senso cioè che allo storico appare quanto mai giusto che, al cospetto delle infinite e astratte possibilità teoriche, ad un certo punto si sia deciso di sceglierne una, nei confronti della quale poi, guardando le cose dappresso, lo storico s’è sentito in dovere di farla rientrare nella categoria della necessità, negando un qualunque significativo valore a tutte le altre opzioni in campo. Basta vedere con quanta supponenza e apriorismo, nei nostri manuali di storia, si nega all’ipotesi federalista, nell’imminenza dell’unificazione nazionale, una qualunque possibilità di successo.

Tutti gli storici ancora oggi sostengono che dal comunismo primitivo alla nascita delle prime civiltà fondate sullo schiavismo il passaggio era necessario o inevitabile, o, peggio ancora, che in tale mutamento si sono prodotte le condizioni che hanno permesso all’umanità di svilupparsi.

In realtà non esiste affatto, in maniera incontrovertibile, una linea evolutiva dall’uomo primitivo a quello civilizzato; anzi ci sono molte ragioni per definirla involutiva (già con Esiodo, nell’VIII sec. a.C. si parlava di una mitica epoca d’oro, cui sarebbero succedute l’età dell’argento, del bronzo, degli eroi e del ferro), e possiamo parlare di “evoluzione” solo nel senso che dai tempi in cui è sorto lo schiavismo ad oggi gli uomini hanno lottato contro gli antagonismi sociali, nella speranza, andata sempre delusa, di poterli risolvere una volta per tutte.

La storia delle civiltà non è stata altro che una serie di tentativi di sostituire forme esplicite e dirette di schiavitù con altre forme più implicite e indirette. A tutt’oggi infatti è impossibile sostenere che il lavoro salariato costituisca il superamento certo dell’antica schiavitù. Sono cambiate le forme, le apparenze, le condizioni materiali o fenomeniche, ma la sostanza è rimasta la stessa: il lavoro salariato resta comunque una forma di sfruttamento, e la società ch’esso rappresenta non disdegna forme di lavoro che spesso s’avvicinano a quelle di natura schiavile o servile.

La storia purtroppo è stata un susseguirsi continuo di fallimenti di questo genere. D’altra parte gli individui o le masse, se prima di intraprendere un qualunque progetto di emancipazione sociale, si guardassero indietro o facessero pesare il passato più del presente o del futuro, o se addirittura fossero convinti che, pur cercando di realizzare il suddetto progetto secondo le migliori intenzioni democratiche, esso inevitabilmente produrrà effetti opposti a quelli sperati, alla fine non prenderebbero mai alcuna decisione. Il che per fortuna non avviene mai, in quanto nell’uomo esiste, in maniera innata, qualcosa che lo spinge a modificare tutto ciò che presenta difetti, lacune, problemi. L’immobilismo è sempre in malafede.

Tuttavia, se questa è una caratteristica dell’uomo in generale, perché non esiste alcun manuale di storia che metta in discussione l’idea che gli uomini contemporanei siano più liberi dei loro predecessori? La risposta è semplice e ce la diamo da soli: fino a quando i manuali di storia esalteranno, come tratto distintivo della nostra epoca, la rivoluzione tecnico-scientifica, che ovviamente non può trovare paragoni nel passato, sarà difficile mettere in dubbio l’idea che da essa sia andata affermandosi una maggiore libertà.

In realtà se c’è una cosa che dovremmo fare è proprio quella di rovesciare la linea del tempo, partendo decisamente dal presente e andando a ricercare nel passato tutte quelle motivazioni che ne spiegano il senso. Noi viviamo in un’epoca che, ci piaccia o no, si chiama “capitalismo”, in cui il rapporto tra uomo e lavoro è mediato dalla macchina, e in cui il rapporto tra lavoratore e merce è mediato dalla proprietà privata dei mezzi produttivi, nel senso che l’operaio, essendo un salariato, non è padrone di ciò che produce.

Esiste un antagonismo di fondo tra capitale e lavoro, che passa attraverso il riconoscimento, da parte dell’imprenditore, di una formale libertà giuridica appartenente all’operaio. Il lavoratore è tanto formalmente libero quanto sostanzialmente costretto a lasciarsi sfruttare, non essendo altro che un nullatenente. Il salario infatti non corrisponde mai all’effettiva produttività del lavoro, ma è soltanto il pretesto che permette all’imprenditore di sfruttare il lavoratore ben oltre quanto pattuito.

Ebbene questa dinamica lavorativa ha avuto un’origine storica ben determinata in Europa occidentale, ed è il XVI secolo, fatte salve alcune anticipazioni in Italia e nelle Fiandre. Non riuscire a capire questo significa, sic et simpliciter, precludersi di poter comprendere adeguatamente il proprio tempo, significa viverlo passivamente, senza avere gli strumenti per progettare qualcosa di diverso.

Questo silenzio omertoso dei manuali di storia sulle dinamiche sociali ed economiche che legittimano il nostro presente induce inevitabilmente a pensare che la scuola non sia un luogo di “produzione del sapere”, ma soltanto di “riproduzione” di un sapere deciso altrove.

Peraltro lo studio della storia in ordine cronologico non aiuta di per sé alla comprensione delle reiterazioni (gli “eterni ritorni” di Vico), se non in maniera generica e superficiale.

Questo per un altro semplice motivo: si tende a non applicare al proprio presente le stesse leggi che hanno caratterizzato il passato. Questa problematica era già stata sollevata dalla Sinistra hegeliana allorché s’accorse che se il metodo hegeliano della dialettica era rivoluzionario, il sistema che lo inglobava era del tutto conservatore, in quanto Hegel poneva lo Stato prussiano al vertice della perfezione politica.

È naturale, anche se illogico sul piano razionale e illecito su quello etico, l’atteggiamento di chi considera la propria civiltà, appunto perché parte di un “presente”, come la migliore possibile. In realtà la storia dell’umanità non è che la storia di molte civiltà che in vari modi hanno cercato di negare e insieme di recuperare ciò che si era vissuto nell’epoca del comunismo primitivo, a testimonianza che il genere umano ha perduto qualcosa di fondamentale per la propria sopravvivenza.

La negazione storica dell’innocenza primigenia (il mitico “peccato originale”, che poi si è ripetuto al sorgere di sempre nuove civiltà, tant’è che anche Marx lo individua nel XVI secolo per spiegare l’origine del capitalismo) è servita per affermare una determinata civiltà individualistica. Nella misura in cui il recupero dell’innocenza perduta non è stato sufficientemente adeguato, è sorta una nuova civiltà, diversa dalla precedente in qualche aspetto fondamentale, ma non così diversa da determinare la fine del processo reiterativo, che è una sorta di loop storico in cui al cambiare delle forme non cambia la sostanza, come si diceva nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

Le civiltà sono come delle parabole matematiche: hanno varie fasi di sviluppo progressivo, l’apice dello splendore (in realtà il vertice delle contraddizioni antagonistiche), poi il lento e inesorabile declino, infine il repentino crollo. Sono appunto “civiltà”. Bisognerebbe studiarle guardandole non con gli occhi del nostro presente, ma con quelli del passato ad esse precedente. Se l’uomo primitivo potesse guardare il futuro con gli occhi del suo presente si renderebbe facilmente conto che la storia degli uomini è stata solo un tentativo drammatico, per molti versi disperato, di recuperare quanto già si possedeva sin dall’inizio, e cioè il rapporto armonico con la natura, l’equilibrio con se stessi e nel rapporto coi propri simili. In sostanza la storia, a tutt’oggi, è soltanto l’occasione in cui gli esseri umani possono verificare i limiti del loro arbitrio.

D’altra parte possono gli uomini considerare relativa la loro civiltà e continuare a lottare per il suo sviluppo? Possono considerare più vero un passato che a loro appare definitivamente sepolto? Lo sviluppo progressivo delle civiltà pone forse un limite invalicabile al recupero integrale del comunismo primitivo, oppure questo recupero dipende esclusivamente dalla volontà degli uomini?

Occorrerebbe trovare delle coordinate interpretative con le quali poter dimostrare che, poste certe condizioni, ogni civiltà avrebbe potuto superare se stessa recuperando adeguatamente le leggi del comunismo primitivo. Queste leggi sono poi quelle dei popoli che noi riteniamo sprezzantemente “senza civiltà”, come i marxisti classici consideravano “senza storia” le popolazioni slave. Di fatto, lo studio della storia delle cosiddette “civiltà” non aiuta a comprendere queste leggi più della mancanza di questo stesso studio.

Indubbiamente oggi siamo molto lontani dalle leggi del comunismo primitivo: ma questo cosa significa? Abbiamo forse meno possibilità di recuperarle rispetto a quei popoli che le avevano appena abbandonate e che per questo motivo erano convinti di essersi avventurati in un percorso decisamente migliore? È la memoria che alimenta il desiderio o il desiderio si alimenta da solo?

Ogni rivoluzione politica può essere considerata come un tentativo di recuperare una memoria perduta. Ogni antagonismo contiene un desiderio di rivoluzione e il suo immancabile tradimento. La storia sembra stia lì a dimostrare che non è possibile alcuna vera liberazione. Eppure un popolo che non lottasse per la propria liberazione sarebbe come morto, senza storia. Un popolo di questo genere o è già libero, e allora giustamente sarebbe “senza storia”, oppure sarebbe un popolo inutile, meritevole d’essere dimenticato.

Ciò che gli storici devono superare è l’idea che il passaggio da una civiltà a un’altra sia stato unicamente il frutto della necessità. Le civiltà si formano necessariamente in questa o quella maniera solo a seguito di determinate scelte compiute dagli uomini, che a loro volta sono sempre frutto della libertà o, se si preferisce usare il termine “libertà” soltanto in riferimento alla scelta di un valore positivo, del libero arbitrio, in forme e gradi diversi di responsabilità, sulla base dei condizionamenti ereditati dalle generazioni precedenti: la categoria della “necessità” va applicata soltanto alle conseguenze che comportano determinate scelte, e nei confronti di tali “conseguenze” uno storico dovrebbe sempre sostenere il principio ch’esse, in nome della stessa facoltà di scelta, sono soggette a ulteriori modificazioni.

La storia non va studiata per compiacersi delle sue grandezze, proprio perché le civiltà tendono a mascherare se stesse e a ingannare i posteri. Ciò che più importa è vedere, con rigore, il livello di vicinanza o di lontananza che ha contraddistinto una civiltà rispetto ai parametri fondamentali del comunismo primitivo. Ecco perché, prima di accingersi a studiare una qualunque civiltà bisognerebbe conoscere le leggi essenziali che caratterizzano l’epoca più lontana da noi. Oggi invece studiamo il passato con l’atteggiamento di superiorità che ci viene dalla convinzione di vivere in una civiltà migliore di tutte quelle che l’hanno preceduta.

Ingenuamente gli uomini ritengono che il presente, solo perché presente, sia in grado di conservare nella propria memoria quanto di meglio è stato prodotto nel passato. La nostra civiltà è ancora più convinta di questo in quanto presume di potere conservare il passato attraverso la strumento illuministico della mera conoscenza.

L’adozione obbligatoria dei libri di testo

L’impostazione dei manuali scolastici di storia, che sostanzialmente è di tipo enciclopedico, in cui ogni argomento è già compiutamente svolto, nelle sue linee essenziali, risulta quanto mai sfavorevole all’idea di poter fare in classe un qualunque lavoro di “ricerca storica” (sotto questo aspetto si trovano meglio i maestri delle scuole elementari).

I manuali di storia, pur essendo notevolmente migliorati negli apparati iconici, cartografici, didattici, raramente riescono a proporre temi su cui riflettere, ovvero una serie di domande aperte che attendono di trovare, grazie a un lavoro di ricerca, una qualche risposta; non ci sono piste di lavoro su cui fare indagini, strumenti da analizzare (p.es. le fonti originali di un’epoca sono a discrezione dell’autore del manuale) per esercitarsi nell’interpretazione storiografica (salvo acquistare ulteriori e più specifici “quaderni di laboratorio”).

Generalmente detti manuali offrono soltanto svolgimenti in sé conclusi, incatenati da una ferrea logica di cause ed effetti, la cui interpretazione è sempre univoca, senza se e senza ma. Il manuale non appare come uno strumento tra altri, ma come una sorta di “bibbia”, le cui tesi hanno dovuto subire un iter processuale non molto diverso da quelle che appaiono, con tanto di imprimatur esplicito, nei manuali di religione cattolica. L’autore è come una sorta di “Mosé” che deve traghettare lo studente dall’ignoranza alla conoscenza e, in questo compito, il ruolo del docente non va oltre quello del luogotenente.

All’interno di tale impostazione didattica non c’è tempo per mettere a confronto strumenti diversi, non c’è modo per costruirsi, in itinere, un proprio “manuale”, meno che mai partendo da situazioni storiche locali; è inoltre da escludere a priori l’idea che, dopo aver pagato a caro prezzo un determinato manuale, gli alunni possano non considerarlo come il loro principale strumento di apprendimento della storia.

Il che, se ci pensiamo (ma preferiamo non farlo), è davvero assurdo, in quanto la stragrande maggioranza dei ragazzi oggi è in grado di disporre di cd enciclopedici e di navigare in rete, per cercare tutte le informazioni che vuole. Il libro di testo è ormai diventato uno strumento non solo del tutto inutile, ma anche terribilmente controproducente, sommamente anti-pedagogico.

Nessuno autore di testo infatti parte mai dal vissuto dei ragazzi, neppure in astratto o simulando dei casi (p.es. parlando di una qualunque guerra bisognerebbe partire dai conflitti interni a una classe); questo è un lavoro che deve fare il docente, il quale però deve anche fare la fatica di trovare le giuste mediazioni tra un manuale che non ha prodotto lui e le capacità ricettive e metaboliche di chi gli sta di fronte.

La fatica è doppia, anzi tripla, poiché gli autori dei due manuali, di storia e di italiano (antologia), non pensano mai di integrare le due discipline, fornendo p.es. ai fatti storici una documentazione culturale dell’epoca (qualcosina, in tal senso, si vede soltanto nell’ultimo anno delle medie). Italiano, storia e geografia viaggiano su binari completamente separati.

A questo punto sarebbe quasi meglio non adottare alcun libro di testo, ma limitarsi a partire dal vissuto dei ragazzi e sulla base di questo costruire vari percorsi storici, che devono necessariamente lasciarsi stimolare anche dal contesto locale, dal territorio comunale o provinciale in cui la classe vive. Scrive Laurana Lajolo, in I giovani e il senso del tempo. La storia del ‘900 a scuola: “L’approccio allo studio della storia dovrebbe partire dal vissuto dei soggetti della formazione, gli studenti, dalle domande sul presente per risalire al contesto storico passato”(art. trovato nel sito www.israt.it).

Bisogna partire non solo dal basso ma anche dal concreto, recuperando un vissuto e la sua memoria, procedendo insomma dal presente al passato, dal vicino al lontano. L’approccio testuale che offre il manuale è inevitabilmente astratto e intellettualistico, non solo perché non ha alcun riferimento alla realtà degli studenti, ma anche perché offre un sapere precostituito, che va semplicemente memorizzato e ripetuto, previa semplificazione da parte del docente.

Si pensi p.es. all’enorme importanza che può avere per uno studente di una piccola località rurale, la valorizzazione di esperienze come quelle della canapa, della tessitura, del riciclo dei materiali usati e in genere delle tradizioni del mondo contadino: tutte cose che andrebbero affrontate con ricerche specifiche e che assai difficilmente troverebbero supporti adeguati negli attuali manuali di storia (forse un piccolo aiuto si potrebbe trovare in quelli di educazione tecnica).

I limiti strutturali dell’insegnamento

Proviamo a mescolare la “specificità” del soggetto in via di formazione (che non è certo un “vaso da riempire”), la “diversificazione degli stili cognitivi” (che inevitabilmente vanno messi in rapporto all’età degli alunni, al loro background socio-culturale di provenienza, alla loro capacità intellettuale di rielaborare personalmente i contenuti) e i “nuclei fondanti della disciplina” (cosa che implica inevitabilmente una riduzione quantitativa dei contenuti a vantaggio di una focalizzazione degli avvenimenti storici più rilevanti o comunque di una sintetica riformulazione concettuale di interi periodi storici, che prescinda in toto dalla descrizione dei singoli avvenimenti), e avremo ottenuto gli argomenti ineludibili che ci costringono oggi ad attrezzarci a livello di psicologia cognitiva e comunicativa, di psicopedagogia, di strategia dell’apprendimento ecc.: tutte cose che un docente non apprende certo all’Università ma solo dopo un lungo tirocinio svolto in aula, in maniera del tutto autonoma, col criterio molto empirico detto “prove ed errori”, senza cioè il supporto di una documentazione ad hoc, di frequenti aggiornamenti seminariali, di presenze tutoriali in grado di valutare un percorso didattico, di gruppi di lavoro periodici in cui confrontare il proprio vissuto scolastico.

A dir il vero qualcosa negli ultimi anni (a Bologna a partire dall’anno accademico 1999-2000) è cambiato, visto che dopo aver acquisito il diploma di laurea, l’unico modo per ottenere l’abilitazione all’insegnamento è di frequentare e superare l’esame di stato presso una SSIS (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario). Ma oggi la Gelmini ha bocciato anche la SSIS, per cui siamo punto e a capo.

Dalla fine degli anni ’70 il Ministero della P.I. ha stipulato col proprio corpo docente un patto non scritto, che rispecchia, se vogliamo, una sfiducia di fondo nelle capacità formative della scuola statale nazionale: “È vero che vi do uno stipendio molto basso, ma in cambio non vi chiedo nulla”. A questo patto, negli ultimissimi anni, se ne è aggiunto un altro, ancora più desolante, frutto di tentativi abortiti di riforma generale della scuola: “Qualunque cosa ti chiedo di fare, considerala soltanto in via teorica”, che tradotta in italiano vuol dire: “Aiutami a salvare le apparenze di fronte a chi, nell’ambito dei paesi avanzati, considera il nostro sistema scolastico molto scadente”.

La scuola da tempo resta inghiottita in quel girone infernale chiamato “assistenzialismo”, in cui più del 90% del bilancio ministeriale è riservato ai magrissimi stipendi del personale docente e impiegatizio, in cui inoltre si cerca di ritardare il più possibile l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, in cui infine si offre loro una preparazione così approssimativa che la vera formazione, quella spendibile sul mercato, viene praticamente impartita, a pagamento, solo dopo essere usciti dalla scuola.

E poi ci si chiede che dobbiamo puntare sul merito, sul ripristino di un profitto chiaro e distinto, sulla selezione naturale dei più capaci…

Una parentesi sulla Geografia

Gli stessi rapporti controversi tra storia ed educazione civica s’incontrano anche tra storia e geografia, tipici della scuola italiana.

Di fatto noi non riusciamo a fare della geografia la “premessa ambientale” di quei fenomeni storici che ogni anno insegniamo, in quanto i libri di testo ci impongono di considerarla separatamente e quindi di affrontare argomenti che non c’entrano nulla con quelli del corso di storia.

Senonché senza coordinate geografiche (confini e caratteristiche di un territorio, delle sue risorse naturali, del suo clima, senza i dati statistici che aiutano a leggere un territorio) qualunque discorso storico inevitabilmente s’impoverisce, soprattutto in riferimento alle fasi delle civiltà antagonistiche, in cui la storia è, in sostanza, una continua ricerca di risorse da sfruttare.

Oggi la stessa geografia, volendo aiutare il cittadino a leggere le interconnessioni tra uomo e ambiente, deve sempre di più legarsi alle scienze sociali ed economiche. Si pensi solo a un argomento di grande discussione come l’ecologia: qui davvero occorrono forti sintesi tra geografia, storia, attualità, economia, statistica…

Ebbene per quale motivo questo approccio integrato risulta estraneo ai libri di testo di storia, che in sostanza si limitano a offrire soltanto delle schematiche mappe? A proposito di mappe, è singolare che quelle di Arno Peters, che a partire dal 1973 hanno rivoluzionato la concezione della cartografia, siano spesso assenti sia nei manuali di storia che, ed è ancora più grave, in quelli di geografia.

Ma il discorso sulla geografia insegnata a scuola sarebbe davvero lungo, poiché anche in questa disciplina, esattamente come in storia, l’Europa occidentale ha priorità su qualunque altra area geografica (oggi anche sulla stessa Italia, che viene affrontata solo alle Elementari) e ovviamente il capitalismo è considerato il miglior sistema economico di tutti i tempi.

Il ripristino dell’Educazione civica

Nelle nostre scuole si è tenuta per molto tempo separata la storia dall’educazione civica, finché la Direttiva ministeriale n. 58 ha deciso nel 1996 di spalmare quest’ultima, nelle medie, nell’arco del triennio di storia e parzialmente di geografia, ma soprattutto di delegarla ai progetti educativi di istituto (come p.es. quello alla legalità) o comunque di farla diventare una sorta di “educazione trasversale” a tutte le discipline, al pari di tante altre, che non hanno propri orari, voti e abilitazione e che, pur essendo fatte poco e male, sarebbero forse quelle più utili per i nostri allievi e sicuramente quelle su cui più facilmente si potrebbero testare le competenze.

Le elenca Luciano Corradini nel Documento di sintesi prodotto dal gruppo di lavoro sull’educazione alla cittadinanza istituito con decreto dipartimentale 12.4.2007, n.32: educazione alle relazioni interpersonali, alla socialità e alla convivenza civile; educazione alla cittadinanza (democratica, attiva, responsabile, italiana, europea, mondiale, plurale, a raggio variabile, ecc.) e alla cultura costituzionale, ai diritti umani, alle responsabilità, al volontariato, alla legalità e simili (comprese sottovoci rilevanti come l’educazione stradale); educazione interculturale e alle differenze di genere e alle pari opportunità; educazione alla pace e alla gestione (democratica, non violenta, creativa) dei conflitti e simili; educazione all’ambiente, naturale e culturale, e allo sviluppo (umano, globale, planetario/locale/’glocale’, sostenibile ecc.); educazione ai media e alle nuove tecnologie, e simili; educazione alla salute.

L’educazione civica poteva essere affrontata indipendentemente da un’analisi storica dei problemi, in quanto chiamava in causa questioni giuridiche, sociali, culturali, etiche ecc. E tuttavia la vera efficacia di questo “sapere” stava proprio, quando si trattava di tirare le fila del discorso, nel fare riferimenti precisi alla storia, al fine di comprendere adeguatamente l’origine socioculturale e lo sviluppo dei fenomeni e dei problemi, evitando le astrattezze e le genericità delle analisi non contestualizzate.
Ancora oggi, pur non avendo più un libro di testo specifico, un docente di storia può tranquillamente usare un argomento di educazione civica come occasione motivazionale da cui partire (p.es. il ruolo della famiglia contemporanea), per poi elaborare un percorso sulle diverse tipologie di famiglie lungo i secoli, spiegandone l’evoluzione in rapporto ai processi sociali ed economici.

L’educazione civica non può sopperire all’uso di strumenti legati all’attualità, come p.es. i quotidiani, spesso presenti nelle aule, che coi loro dossier relativi ai grandi temi di attualità, sono in grado di offrire un certo contributo all’affronto di tale “educazione trasversale”. Per l’analisi del presente l’educazione civica può essere anche più importante della storia, la quale, inevitabilmente, si configura come una riflessione sul passato, o comunque su fatti accaduti non di recente, anche quando ci si riferisce all’oggi.

La scuola dovrebbe togliere ai mass-media (tv, radio, quotidiani, web) il privilegio di disporre in maniera esclusiva dell’accesso alla “contemporaneità”, anche perché quando si affronta la contemporaneità senza una base storica (come appunto fanno i media), si cade inevitabilmente nella superficialità delle tesi da sostenere, si finisce nel vicolo cieco delle opinioni fini a se stesse, senza capire la causa remota dei problemi e dei fenomeni.

La ricerca storiografica, in tal senso, ha già parlato di una “nuova alleanza tra storiografia e insegnamento”, nella consapevolezza di un forte legame tra storia contemporanea e formazione dei cittadini. (1)

Didatticamente si può dunque partire in classe da un argomento di educazione civica (o di attualità), per poi arrivare a una precisazione, sufficientemente chiara, dei termini storici entro cui un determinato problema può essere affrontato. La lezione riesce quando i vari punti di vista si confrontano democraticamente, quando emergono opinioni condivise da questo o quel gruppo e soprattutto quando sono i ragazzi stessi che ad un certo punto si mettono a formulare nuove domande.

Se oggi p.es. la famiglia nucleare vive una profonda crisi, si deve comunque sapere ch’essa è uscita dalla famiglia patriarcale e questa è stata distrutta nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. Un ritorno alla famiglia patriarcale, in un contesto borghese, non ha senso, tanto più che oggi la famiglia che va imponendosi, per motivi anche di disagio economico, punta spesso sulla convivenza senza figli.

Questo per dire che è stato un errore l’aver abolito il testo di educazione civica. Anzi vien quasi da pensare che nessun’altra disciplina meglio dell’educazione civica (che poi era un’educazione alla legalità e alla democrazia) avrebbe potuto garantire le “situazioni di caso” sulla base delle quali verificare le competenze personalizzate.

In questo momento, come noto, il Ministero della P.I., impressionato dai fenomeni di bullismo dello scorso anno scolastico, ha voluto ripristinare questa disciplina nella scuola media, senza sapere che, pur non facendola in maniera tradizionale, le scuole s’erano attrezzate da tempo a svolgerla in altre forme e modi. L’ha pretesa come materia a sé senza dotare gli studenti dei relativi libri di testo, confidando nella buona volontà dei docenti.

(1) Cfr Convegno internazionale, Storiografia e insegnamento della storia: è possibile una nuova alleanza? (Bologna 2004) e Convegno nazionale di Modena, La storia è di tutti. Nuovi orizzonti e buone pratiche nell’insegnamento della storia (2005)

Quali competenze storiche?

Nonostante da più di vent’anni, cioè almeno dai programmi del 1985 per la scuola elementare, la storia come disciplina sia oggetto d’interesse da parte dei tanti Ministri della Pubblica Istruzione che fino ad oggi si sono succeduti e che han cercato di superare la ripetizione ciclica dei contenuti, a favore di una visione organica del curricolo tra scuole elementari e medie, il modello gentiliano domina ancora incontrastato.

La didattica di tale disciplina, probabilmente la più complessa di tutte, viene ancora concepita come trasmissione di conoscenze consolidate, frutto delle ricerche degli storici accademici, le quali vengono poi imposte dagli editori, previa semplificazione didattica, attraverso l’adozione del libro di testo, la cui tassativa obbligatorietà nessun Ministro ha mai messo in discussione.

Tale trasmissione avviene per lo più attraverso la lezione frontale e lo studio del manuale, che consiste nella memorizzazione, da parte dello studente, di fatti o eventi disposti in un ordine lineare-diacronico, sulla base del presupposto dell’unicità del tempo storico, coincidente col tempo cronologico degli eventi, che s’intendono riferiti teleologicamente all’Europa occidentale, un’area geo-storica a fronte della quale il resto del mondo o non esiste in maniera autonoma, oppure è visto come mero prolungamento dell’impatto euroccidentale sul pianeta: “nella gran parte dei manuali l’auspicato abbandono dell’eurocentrismo si riduce ancora ad una pura dichiarazione d’intenti”, così scrive R. Dondarini, in Per entrare nella storia, ed. Clueb, Bologna 1999.

Tutta la storia è concepita come un continuo narrativo di fatti eminentemente politico-istituzionali, che trovano il loro terminus ad quem nel presente della civiltà occidentale, il cui inizio storico stricto sensu viene fatto risalire al XVI secolo, fatte salve le anticipazioni di Italia e Fiandre, mentre l’inizio storico sensu lato parte addirittura dalle prime civiltà assiro-babilonesi e soprattutto da quelle mediterranee (egizia, fenicia, minoico-cretese ecc.), che sono a noi più vicine: in definitiva da tutte quelle civiltà caratterizzate dalla scrittura, dagli scambi commerciali, dall’urbanizzazione, dalla divisione del lavoro, dalla contrapposizione dei ceti ecc. e che hanno trovato il loro compimento più significativo nella nostra. Da quel lontano passato ad oggi l’unico momento poco meritevole d’essere preso in considerazione è il cosiddetto “Medioevo”, a causa della sua eccessiva caratterizzazione “rurale”, soprattutto di quel periodo che va dalle invasioni cosiddette “barbariche” al Mille. Insomma il nostro presente va a cercare nel passato una propria anticipata autorappresentazione. Antonio Brusa ha scritto, a tale proposito, un importante Prontuario degli stereotipi sul Medioevo (“Cartable de Clio”, n. 5/2004, reperibile anche in storiairreer.it): se ne citano almeno una quarantina.

Ancora oggi noi usiamo parole come “Medioevo”, “impero bizantino”, “barbari” ecc. che i protagonisti di quelle epoche avrebbero ritenuto del tutto incomprensibili se non addirittura inaccettabili. P.es. il termine “Medioevo”, che pur ci appare così cronologicamente neutro, e che è stato formulato in epoca umanistica, è alquanto dispregiativo: considerare mille anni di storia (che poi in Europa orientale furono molti di più e spesso con caratteristiche meno “feudali” delle nostre) come una sorta di “intermezzo barbarico” tra due “luminose civiltà”: quella greco-romana e quella umanistico-rinascimentale, sicuramente non è stato e continua a non essere il modo migliore per valorizzare quel periodo.

Chiarito infine che l’attributo più significativo con cui cerchiamo di distinguere la nostra civiltà da tutte le altre non meno commerciali, è la rivoluzione tecnico-scientifica, che ha permesso l’industrializzazione del business e il totale assoggettamento della natura, non resta che chiudere il primo ciclo dell’istruzione con la disamina del Novecento, dopodiché alle superiori – ecco perché parliamo di impostazione gentiliana – non resta che ricominciare tutto da capo.

Peraltro il “presente” di cui si poteva parlare in terza media fino allo scorso anno scolastico non era neppure tanto “contemporaneo”, in quanto, con la riforma morattiana, si era tornati a fare, in 60 ore disponibili, l’Ottocento e il Novecento. Questo poi senza considerare che del mondo contemporaneo, generalmente, non si fanno mai quelle cose che potrebbero davvero servire alla gioventù per affrontare al meglio il proprio tempo, e che invece spesso si ritrovavano in un qualunque manuale di educazione civica.

È vero che con le nuove Indicazioni per il curricolo (2007) s’è tornati a riproporre lo studio del solo Novecento nell’ultimo anno della scuola media, ma è anche vero che questa scelta stride ancor più con l’altra, non meno recente, d’aver voluto innalzare l’obbligo scolastico a 16 anni. Infatti se davvero fossimo favorevoli a una visione organica, in verticale, del curricolo di storia, dovremmo far fare il Novecento soltanto nell’ultimo anno del biennio delle superiori, che viene appunto a coincidere con la fine dell’obbligo; anzi, in questo stesso anno si dovrebbe prevedere un esame finale di stato, eventualmente in sostituzione di quello del primo ciclo d’istruzione.

In fondo non era così peregrina l’idea berlingueriana della Riforma dei cicli (n. 30/2000) secondo cui il periodo compreso dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri sarebbe stato meglio farlo nelle prime due classi della scuola secondaria superiore, a conclusione appunto di un percorso iniziato in prima elementare. L’affronto più approfondito dei problemi ne avrebbe sicuramente tratto giovamento.