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La fine di un’illusione

Per quale motivo il capitalismo del secondo dopoguerra ha trovato negli Usa il suo terreno più favorevole? L’America aveva già subito il crac del 1929, cui fece seguito una dura recessione: come poteva diventare la nazione più importante del mondo? I nazisti erano stati sconfitti grazie soprattutto ai russi, non agli americani, che avevano invece contribuito a sconfiggere soprattutto i giapponesi, impadronendosi di tutte le loro colonie.

Eppure fu l’America a trarre i vantaggi più grandi dalla fine del conflitto. È vero che gli Usa non poterono far nulla contro l’Urss, se non sganciando due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, giusto per far capire chi era il più forte, ma poterono fare qualunque cosa sia nei confronti dello stesso Giappone che nei confronti degli europei, loro alleati, usciti completamente distrutti dalla guerra, che pur avevano vinto. Il piano Marshall fu la principale arma di ricatto, quella che permise agli Usa di considerare l’Europa occidentale una propria colonia.

Francia e Inghilterra smisero addirittura d’essere le prime potenze mondiali. Come avrebbero potuto, finita la guerra, ridare credibilità al capitalismo? Con le due guerre mondiali il capitalismo europeo l’aveva persa del tutto: nel corso della prima era nata infatti la rivoluzione bolscevica e nel corso della seconda il nazismo era stato sconfitto dal socialismo statale. Se non ci fossero stati gli Usa a sbarcare in Normandia e in Sicilia, le sorti dell’Europa occidentale sarebbero state segnate, nel senso che sarebbe diventata un continente socialista. Troppo dolore avevano procurato le dittature nazi-fasciste. Forse soltanto l’Inghilterra sarebbe rimasta capitalistica.

Invece dagli Usa venne una nuova ventata di ottimismo, un nuovo sogno in cui credere, l’unica vera alternativa al socialismo statale. Ecco perché gli Usa hanno dovuto costruire una gigantesca fabbrica dei sogni. Con loro il capitalismo è diventato davvero un fenomeno di massa, strettamente associato alla democrazia politica, dove l’individualismo è il fondamentale criterio di vita per avere successo, dove si premia il merito di chiunque, senza guardare la sua provenienza etnica o sociale o il suo credo religioso, dove tutte le religioni sono uguali davanti allo Stato, dove l’emancipazione sessuale è sicuramente più forte che in Europa.

La mentalità consumistica è entrata a far parte dello stile di vita europeo. Gli elettrodomestici hanno invaso le nostre abitazioni e il cinema hollywoodiano ha legittimato questa svolta epocale. La nuova democrazia veniva basata sulla capacità di spendere. In cambio gli Usa chiedevano all’Europa d’essere profondamente anticomunista. E l’Europa, nel complesso, obbedì, anche se, per impedire lo sviluppo del socialismo, dovette dotarsi di uno strumento poco usato in America: lo Stato sociale.

Dopo quarant’anni di guerra fredda è però avvenuto un fatto del tutto inaspettato: il socialismo statale è crollato per motivi endogeni, in quanto la giustizia sociale che garantiva veniva pagata dalla mancanza della libertà personale (di parola, di associazione e persino di coscienza). Sembrava fatta. Invece il capitalismo americano, dopo neppure un ventennio da quel crollo, ha subìto un grave disastro finanziario, che ha avuto ripercussioni sul mondo intero. Il sogno pareva finito. I debiti erano talmente grandi che s’è rischiato un crac analogo a quello del 1929.

Cioè proprio mentre i paesi del cosiddetto “socialismo reale” capivano che una società massificata, se non vuole finire in una guerra civile, ha bisogno del capitalismo, gli Stati Uniti sono stati invece i primi a rendersi conto, dalla fine della guerra, che, lasciando il capitalismo a se stesso, si rischiava la bancarotta, cioè di morire a causa delle sue intrinseche contraddizioni. Anche loro, quindi, erano arrivati alle stesse conclusioni cui era giunta l’Europa nel corso delle due guerre mondiali.

Agli effetti disastrosi della deregulation, iniziata negli anni ’80 col reaganismo, si è ad un certo punto dovuto supplire, con l’amministrazione Obama, potenziando lo Stato sociale (almeno nel campo della sanità), benché non sia mai mancata una legislazione sociale negli Usa (la prima risale al 1935, grazie al presidente F. D. Roosevelt).

Tuttavia i nodi stanno venendo al pettine. Le differenze sociali, legate al reddito, sono aumentati a dismisura nell’area dell’ex socialismo reale; le casse degli Stati capitalisti non hanno più soldi per rimediare ai guasti del loro sistema economico. Tutti i paesi capitalisti avanzati sono enormemente indebitati, e anche il Terzo mondo, che loro sfruttano da almeno mezzo millennio, non ne può più: questo gigantesco limone arriverà a un punto che non si potrà più spremere, anche perché vi sono paesi (come Cina, India, Brasile…) che vogliono decisamente far parte del Primo mondo.

Siamo seduti su una pentola a pressione: sentiamo il fischio uscire dalla valvola di sicurezza, ma nessuno è capace di abbassare il fuoco e, tanto meno, di spegnerlo. La politica non sa trovare alcun vero rimedio ai guasti dell’economia. Invece di ipotizzare sin da adesso una via d’uscita, praticabile per tutti, continuiamo a ballare sul Titanic.

Un Marx ingenuo?

Il fatto che Hegel, pur dentro un guscio mistico, abbia potuto scoprire le leggi della dialettica, avrebbe dovuto portare a credere che la tesi marxiana secondo cui “l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini” – come viene detto nella prefazione al Capitale del 1873 -, è una tesi vera solo parzialmente.

Infatti vien da chiedersi come abbia potuto Hegel scoprire le fondamentali leggi della dialettica in una Germania economicamente molto più arretrata di Francia e Inghilterra. Evidentemente egli seppe trasformare una limitatezza materiale in una ricchezza culturale. Ma da dove gli veniva questa capacità intellettuale? Gli poteva venire solo da una cosa, dalla stessa che influenzerà le grandi filosofie di Kant, Fichte, Schelling e dello stesso Marx: il protestantesimo. E’ stata questa religione laicizzata che in Germania aveva liberato il pensiero dalle catene della Scolastica.

In Germania i filosofi potevano permettersi il lusso di fare una rivoluzione del pensiero, senza aver bisogno di passare espressamente al sistema di vita borghese. Non c’è altra spiegazione storica. Anzi, rebus sic stantibus, risulta alquanto limitato sostenere che il capitalismo va visto come “un processo di storia naturale, che non può rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente il prodotto, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”, come viene detto da Marx nella prefazione al Capitale del 1867.

Se ci si può “elevare” al di sopra dei rapporti capitalistici, sottoponendoli addirittura a critica, come ha fatto magistralmente lo stesso Marx, allora non c’è un mero “processo di storia naturale“, ovvero il capitalismo appare come un processo naturale solo fintantoché non emergono forme di consapevolezza che ne chiedono il definitivo superamento, anche in assenza di un suo forte sviluppo, come appunto avverrà nella Russia di Lenin, il quale diceva che il proletariato industriale al massimo arrivava a una coscienza sindacale e che, per questa ragione, se davvero voleva cambiare il sistema, diventando rivoluzionario, doveva accettare una consapevolezza “dall’esterno”, quella degli intellettuali.

L’idea di Marx secondo cui il capitalismo è destinato ad essere superato dal socialismo, è un’idea che induce alla rassegnazione o, al contrario, a un ottimismo ingiustificato, basato su una concezione provvidenzialistica della storia, che nel Capitale ha le sue basi nell’economia (cioè nel nesso tra rapporti e forze produttive), è un’idea che indebolisce la capacità di resistenza della classe operaia. Se ci si può “elevare”, bisogna combattere subito i sistemi disumani e alienanti in cui si è costretti a vivere, usando tutti i mezzi a disposizione, senza aspettare che la loro forza riduca a un nulla le nostre istanze. Le vere differenze stanno semmai nelle forme organizzative della lotta, cioè nella tattica e nella strategia.

Evidentemente a Marx, subito dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale, dovevano essere giunte delle critiche sul metodo usato, che somigliava troppo da vicino a quello hegeliano, basato su una dialettica intesa come successione necessaria di fasi, ognuna delle quali va considerata anticipatrice della futura sintesi.

A differenza di Hegel, Marx poteva anche dire di essere esplicitamente ateo, poteva anche dire d’essere partito dall’economia politica e non da una filosofia astratta, poteva anche voler trasformare e non soltanto interpretare il mondo, ma la categoria della necessità veniva usata nella stessa identica maniera. Lo dimostra anche il fatto che nelle sue prefazioni al Capitale egli prevede un futuro capitalistico per tutte le nazioni europee, anzi per il mondo intero. Non ritiene possibile giungere al socialismo saltando la fase del capitalismo. Questo voleva dire usare la categoria della necessità in maniera giustificazionista.

A questo punto l’unica vera differenza tra lui e il suo maestro Hegel stava unicamente nel fatto che questi, in veste di accademico, l’aveva usata per legittimare uno Stato reazionario come quello prussiano, mentre lui, da ebreo errante e apolide, non poteva pensare che a una società utopica.

Forse più che “maestro del sospetto” avrebbe dovuto essere definito “campione di ingenuità”, nel senso che se c’è una cosa che non avviene in maniera necessaria è proprio una transizione progressiva da una formazione sociale all’altra. Non solo perché gli uomini arrivano ad un certo punto ad abituarsi così tanto alle contraddizioni antagonistiche che quasi più non le riconoscono, accettandole come una loro “seconda natura”, cioè un semplice dato di fatto, sperando, nel migliore dei casi, in un decisivo “aiuto esterno”, un aiuto anche “barbaro” contro una presunta civiltà, come appunto avvenne alla fine dell’impero romano.

Ma anche quando avvengono queste tragiche transizioni, in genere non si conserva nulla della precedente civiltà, in quanto si vuole ricominciare tutto da capo, proprio perché ci si accorge abbastanza facilmente che, in presenza di una nuova concezione di vita, determinate strutture economiche e materiali non servono a nulla e devono essere abbandonate o riciclate per usi del tutto diversi.

Metà della sua vita Marx la spese per studiare un sistema che non è destinato a crollare automaticamente e che quando verrà distrutto da qualche forza, interna o esterna, non conserverà nulla di utile per creare una vera alternativa.

Organi sessuali e civiltà

Gli organi sessuali sono preposti a tre funzioni: biologica, erotica e riproduttiva. La natura ha concentrato in un unico organo tre funzioni molto diverse. Non può averlo fatto soltanto per motivi “economici”, anche perché la funzione biologica ripugna a quella erotica e quest’ultima guarda con timore quella riproduttiva. Ci deve essere dietro alla motivazione “economica” (che potremmo chiamare anche “fenomenologica”, essendo molto evidente), una motivazione di tipo ontologico, cioè più profonda.

Qui sembra esservi espressa un’intelligenza di tipo etico, che appare inverosimile in ciò che siamo soliti definire col termine di “natura”. Sembra cioè di avere a che fare con una natura dall’intelligenza umana, in grado di prevedere un uso sbagliato, unilaterale, di una funzione, quella erotica, e quindi in grado di aiutarci a prevenirlo senza alcuna particolare forzatura, semplicemente mettendoci di fronte alle nostre responsabilità, come ci accade quando leggiamo quegli avvisi presso le centrali elettriche: “Chi tocca i fili, muore!”.

E’ come se la natura avesse predisposto che i nostri organi sessuali non possano essere usati nelle loro funzioni separate, se non in via temporanea o transitoria. In ultima istanza le funzioni devono restare correlate, poiché, quando non lo sono, occorre chiedersi se ciò sia naturale. Facciamo degli esempi:

  1. se l’erotismo è fine a se stesso, la perversione diventa inevitabile, come p. es. nella pornografia, nella prostituzione, ecc.;
  2. se il biologismo esclude per principio la riproduzione, diventa una forzatura, come p. es. nel celibato dei preti, negli eunuchi, ecc.;
  3. se la riproduzione viene resa obbligatoria, diventa un’ideologia, come quando la chiesa chiede una piena disponibilità a procreare ogni volta che si hanno rapporti sessuali, oppure quando si costringe la donna al solo ruolo di madre.

Questi sono tutti atteggiamenti contronatura. Quindi dovremmo ammettere che la natura ha previsto una coesistenza equilibrata di aspetti etici ed estetici, oltre che fisiologici. Ora quand’è che viene meno questo equilibrio? Viene meno quanto più l’umano si allontana dal naturale, cioè quanto più frappone tra sé e il naturale qualcosa di artificiale. L’essere umano è l’unico ente di natura in grado di farlo. L’artificio, ovvero il mezzo meccanico, gli permette di vivere un erotismo fine a se stesso o comunque non finalizzato alla riproduzione.

Per certa ideologia religiosa questo è peccato, ma i diretti interessati sanno bene che in una società conflittuale, dove il naturale è quasi del tutto scomparso, la riproduzione può avere costi proibitivi. Non voler rendersi conto di questo “handicap”, significa appunto essere schematici, farisei.

Dunque che possibilità abbiamo di ripristinare le funzioni naturali degli organi sessuali? Al momento nessuna. Anzi, la vita è così artificiale e complicata che persino la riproduzione si sta meccanizzando sempre di più, proprio in quanto le coppie sono sempre più restie a riprodursi e quelle infertili e sterili aumentano progressivamente, senza sosta.

Questo è un sintomo abbastanza eloquente e non possiamo certo minimizzarlo scegliendo come alternativa l’adozione di bambini abbandonati. Se nella riproduzione prevale l’artificiale, la natura, ad un certo punto, non sa più che farsene di noi e tende a emarginarci, a espellerci dal suo circuito riproduttivo e quindi addirittura dalla storia, sua e nostra. Noi infatti ci siamo illusi che i mezzi meccanici non potessero avere su di noi conseguenze irreparabili e che si potesse in qualunque momento fare un’inversione di marcia.

Questo, ovviamente, non è un problema della sola nostra società, bensì dell’intera civiltà industrializzata. Guardando come si è evoluto, sarebbe bene che il sistema capitalistico scomparisse dalla faccia della terra, proprio per permettere alla natura e a quelle poche popolazioni che vivono ancora in maniera naturale, di salvaguardarsi e, possibilmente, di farlo nel migliore dei modi.

Noi occidentali non dovremmo preoccuparci d’essere emarginati o espulsi dalla natura e dalla storia, quanto piuttosto di come favorire le condizioni perché qualcuno possa sopravvivere a un nostro declino che pare irreversibile. Il destino dell’umanità infatti è quello di popolare l’intero universo, ma nelle condizioni in cui attualmente ci troviamo, noi occidentali di sicuro siamo la popolazione meno adatta.

Anche Ratzinger indica la minaccia del “capitalismo finanziario sregolato”. La nostra proposte per nna banca per lo sviluppo e bond per la crescita

Mario Ledttieri* Paolo Raimondi**

Gli operatori di pace chiamati a costruire un nuovo modello di sviluppo più solidaleIn relazione alla sorprendente decisione di Papa Benedetto XVI di dimettersi dall’alta carica di capo della Chiesa cattolica, assume una particolare e significativa rilevanza il suo messaggio “Beati i Costruttori di Pace” scritto per la celebrazione della 46. sima Giornata Mondiale delle Pace tenutasi il primo gennaio 2013.

E’ un messaggio assai importante, sicuramente elaborato nella consapevolezza della gravità dei problemi mondiali e della difficile missione universale della Chiesa cattolica. Probabilmente le gravi questioni che tormentano il mondo e le vicissitudini del governo della Chiesa hanno pesato non poco sulla sua decisione.

Nel suo intervento il Papa affronta il tema della crisi economica e del ruolo di “un capitalismo finanziario sregolato” evidenziandone la minaccia per il raggiungimento del bene comune.

Benedetto XVI afferma autorevolmente che “il prevalere di una mentalità egoistica e individualistica e le ideologie del liberismo radicale erodono la funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali”. A farne le spese – continua – sono la dignità dell’uomo ed il diritto al lavoro che “viene considerato una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari”.

Sostiene quindi che “oggi è necessario un nuovo modello di sviluppo” basato su una corretta scala di beni-valori. E’ una esplicita sollecitazione del Papa agli economisti e ai dirigenti politici che intendono essere dei “costruttori di pace” operando anche nel mondo dell’economia.

“E’ fondamentale e imprescindibile la strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali; essi vanno stabilizzati e maggiormente coordinati e controllati, in modo da non arrecare danno ai più poveri”, così continua il Pontefice. Continua a leggere

Tornare alla preistoria

Il concetto di “lavoro”, inteso come mansione ripetitiva, rispetto degli orari, di determinati obblighi, ovvero l’impegno quotidiano imposto da circostanze esterne, è un concetto innaturale, che può essere nato soltanto in un sistema di vita già segnato dai conflitti di ceto o di classe. Un lavoro del genere è determinato in realtà dal concetto di “forza”, in quanto è appunto un “lavoro forzato”.

Per l’uomo preistorico lavorare significava andare alla ricerca di cibo per sfamarsi o di oggetti utili per costruirsi armi per la caccia o per la raccolta di frutti, bacche, radici… Anche quando non c’era di mezzo l’esigenza di alimentarsi, vi erano comunque altre esigenze naturali da soddisfare, come p. es. quella di ripararsi dalle intemperie o da altri animali affamati o pericolosi o fastidiosi.

Sia come sia, egli non aveva mai l’impressione che qualcuno volesse “obbligarlo” a fare qualcosa: si trattava soltanto di trovare una soluzione a esigenze del tutto naturali, che sorgevano spontaneamente dalla sua persona o dalla vita di gruppo. Era impossibile parlare di “alienazione”. La natura non era mai vista come una “nemica”, ma anzi come la fondamentale risorsa per soddisfare le proprie esigenze.

Là dove s’è imposto il concetto di “forza”, lì s’è affermata la “proprietà privata”, e quindi l’obbligo, da parte dei più deboli, di lavorare per i più forti. Oggi questo obbligo s’è esteso in tutto il pianeta, tanto che s’è ridotta a un nulla la possibilità di esistere ricavando liberamente dalla natura ciò che occorre alla propria sopravvivenza. Tutta la natura è dominata dalla forza dell’uomo, la quale domina anche quelle popolazioni che considerano la natura più importante dell’uomo.

L’alienazione si è dunque sviluppata in due direzioni parallele: quella del rapporto tra debole e forte e quella del rapporto tra uomo e natura. quanto più il forte vuole imporsi sul debole, tanto più l’uomo (debole e forte insieme) vuole imporsi sulla natura.

Il forte costringe il debole ad avere un rapporto alienato non solo nei confronti dell’oggetto del proprio lavoro, in quanto deve produrre cose che non gli appartengono e la cui quantità è di molto superiore al suo fabbisogno quotidiano, ma anche nei confronti della stessa natura, poiché è proprio dallo sfruttamento indiscriminato delle sue risorse che egli viene messo in condizione di condurre un “lavoro forzato”.

La storia non è stata altro che un tentativo di trasferire a livelli sempre più elevati, in estensione e profondità, lo sfruttamento della natura, con cui poter rispondere all’istanza, avanzata dai più deboli, di porre fine al loro sfruttamento da parte dei più forti. Cioè la mancata soluzione al problema dello sfruttamento umano ha comportato un’accentuazione sempre più esasperata del saccheggio delle risorse naturali. E poiché questo saccheggio oggi avviene a livello planetario, è evidente che anche lo sfruttamento degli uomini deve sottostare a una regolamentazione di tipo planetario.

Oggi esistono organismi preposti allo sfruttamento planetario degli esseri umani e della natura, gestiti dalle nazioni economicamente, militarmente e politicamente più potenti. Questi organismi sono la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e, per molti aspetti, le stesse Nazioni Unite. Oltre a queste organizzazioni, che sono le principali, ne esistono molte altre di carattere regionale o con scopi più specifici, come p. es. l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, la Nato ecc.

Una lotta mondiale contro questi organismi, che vanno assolutamente ripensati nelle loro fondamenta, in quanto tendono a schiavizzare il mondo intero, non potrà prescindere dall’idea secondo cui l’unico modo di salvaguardare la natura e superare ogni forma di alienazione è quello di far tornare l’uomo alla preistoria, cioè a quel periodo in cui non esisteva la proprietà privata dei mezzi produttivi e il rapporto con la natura era vincolato all’esigenza di rispettarne tutti i cicli riproduttivi.

La moderna credulità

La credulità (o creduloneria) non è una prerogativa dei credenti, almeno non più di quanto oggi non lo sia per i non-credenti. Per capirci sul significato del termine, bisognerebbe anzitutto definirlo, ma la cosa non è facile.

Di regola, infatti, si è soliti applicare questo atteggiamento a una determinata categoria di persone: quelle che hanno una fede religiosa. Diciamo che chi crede in cose che vanno oltre la ragione umana è un ingenuo, e questo si verifica soprattutto tra i credenti, abituati per tradizione a considerare veri i miracoli, siano essi in forma di divina provvidenza, di inspiegabili mutazioni fisiche o di poteri sovrannaturali.

Oggi tuttavia, dopo mezzo millennio di secolarizzazione, non ha senso associare la credulità alla sola categoria dei credenti. Sono diventate troppe le persone non-credenti per rendere ancora legittima un’attribuzione così stretta.

Molti tra i non-credenti (agnostici o atei che siano) non si rendono conto di vivere, seppure in forma laicizzata, gli stessi atteggiamenti di credulità dei credenti. E questo è naturale. La religione ha una storia molto più lunga e per liberarsi dei suoi condizionamenti ci vorrà sicuramente molto tempo. Sicché può apparire del tutto normale che p.es. in luogo della “divina provvidenza” si creda nella “fortuna inaspettata”. Eventualmente, per costoro, saranno le vicende della vita a far capire che gli uomini devono appropriarsi del loro destino, per sentirsi davvero liberi.

Il problema però è un altro. Oggi la credulità non riguarda solo i credenti o i laici che si portano ancora dentro i condizionamenti della fede. Riguarda anche gli atei o gli agnostici convinti, quelli che pensano d’essersi emancipati definitivamente dalle chimere del passato. Li riguarda da vicino quando credono che determinate cose umane, create dagli uomini, possano funzionare da sole, come per magia o per incanto. P.es. le istituzioni o gli Stati, i quali, proprio a motivo della loro astrattezza, favoriscono gli atteggiamenti deresponsabilizzanti, quelli tipici di chi delega ad altri funzioni o poteri.

Sono istituzioni umane, messe in piedi contro forme clericali di autoritarismo del passato feudale, che però, in ultima istanza, riproducono, seppur laicamente, gli stessi difetti di quelle forme.

Una delle credulità più tipiche delle società borghesi è quella di ritenere che i mercati abbiano in sé la facoltà di risolvere ogni problema. Il valore di scambio è come un feticcio da adorare, un tabù inviolabile. Il valore d’uso, che implica l’autoconsumo, non si deve neppur nominare.

Gli Stati sono lo strumento principale di cui la borghesia si serve per dimostrare, a chi non vi crede, che la logica del mercato è l’unica in grado di garantire la democrazia. La stessa democrazia delegata o rappresentativa, che si esercita nei parlamenti nazionali, è la quintessenza della credulità politica. Ai cittadini vien fatto credere che, votando i loro rappresentanti, questi faranno davvero la volontà degli elettori.

Altri miraggi creati artificialmente dai poteri costituiti riguardano il nostro rapporto con la natura. Nonostante i periodici disastri causati da un uso dissennato delle risorse ambientali, ci viene sempre detto che il primato spetta all’uomo, alle sue esigenze (di lavoro, qualunque esso sia) e che la natura è soltanto uno strumento per soddisfarle al meglio.

E noi siamo convinti che questo ragionamento sia giusto, proprio perché ce ne fanno sempre un altro collaterale, e cioè che ad ogni problema si può facilmente trovare una soluzione con la nostra scienza e tecnologia, e che quando non la si trova non è per un limite oggettivo, ma per una mancanza di volontà politica.

Insomma noi viviamo come in una gigantesca bolla di sapone, nel mondo dei sogni. Siamo creduloni anche in quanto atei o agnostici convinti, proprio perché abbiamo uno strano culto del progresso e non ci piacciono i disfattisti, i catastrofisti. Vogliamo essere ottimisti ad oltranza, anche perché non vediamo all’orizzonte alternative davvero praticabili.

Ci piace credere che, in un modo o nell’altro, presto o tardi, le cose si aggiusteranno. E ci dispiace vedere che chi ci ha messo dentro questa bolla, ora stia approfittando della nostra buona fede, della nostra predisposizione alla credulità.

Ecco ora abbiamo forse trovato la definizione che prima cercavamo: credulità vuol dire essere indotti a credere che un potere a noi esterno abbia, nei confronti dei problemi da risolvere, più risorse di quante ne abbiamo noi.

La fine della matematica

La regina delle scienze europee e oggi, se vogliamo, del mondo intero è indubbiamente la matematica, che in origine includeva la geometria e l’aritmetica.

Pur non essendo nata in Europa, ma in Mesopotamia e in Egitto, non senza significativi apporti da Cina, India e civiltà mesoamericane, essa ha trovato in Europa e quindi nel Nordamerica il suo compimento, obbligando l’intero genere umano ad adeguarvisi.

Grazie alla capacità di fare calcoli complessi, gli europei hanno saputo sviluppare enormemente tre scienze fondamentali per la loro esistenza: fisica, economia e astronomia.

La matematica più la fisica hanno reso possibili l’ingegneria e l’astronomia, cioè il controllo della natura su questo pianeta e nei cieli.

La matematica più i mercati e la produzione manifatturiera e industriale hanno creato una serie di scienze economiche e finanziarie su cui si regge l’intera civiltà capitalistica.

Oggi la matematica sembra aver trovato la sua apoteosi unificando, in un’unica scienza – l’informatica - un complesso di scienze, come la logica formale, la fisica, la chimica e la stessa ingegneria. L’informatica siamo soliti distinguerla in due grandi campi: software e hardware. Grazie al fenomeno delle reti digitali, è infine sorta la telematica, che ci fa sembrare il mondo il giardino di casa nostra.

Tutte scienze che l’Occidente ha sempre usato in maniera pacifica e violenta, per costruire rapporti sociali e per distruggerli.

Il motivo di questa schizofrenia sta soprattutto nel tipo di civiltà in cui queste scienze vengono sviluppate. Una civiltà caratterizzata da due contraddizioni fondamentali: l’antagonismo sociale che oppone in maniera irriducibile il possidente al nullatenente; la netta subordinazione della natura agli interessi di uomini abituati alla violenza.

Sulla base della matematica abbiamo sviluppato una civiltà malata, e con la matematica ci illudiamo di poterla sanare. La coscienza è stata messa sotto i piedi della scienza, nella convinzione che, così facendo, sia l’una che l’altra siano davvero oggettive, imparziali, al servizio del benessere e del progresso.

Ci hanno voluto far credere che a ogni problema vi fosse una soluzione, senza dover per forza affrontare le cause ultime della generale sofferenza. Noi pensiamo che tutto rientri in una questione meramente quantitativa, senza dover chiamare in causa alcuna qualità.

Persino chi dice di voler difendere i lavoratori, non fa che pretendere un diritto astratto al lavoro, un diritto al lavoro in sé, a prescindere dal suo impatto sulla natura. Il socialismo riformista chiede di redistribuire il reddito, senza chiedersi se il tipo di rapporto di lavoro che lo produce abbia un senso.

Siamo schiacciati dai ricatti della quantità. Continuamente ci dicono che i conti devono tornare (loro che non li sanno fare), che i debiti vanno pagati (loro che li hanno accumulati), che le variazioni alle richieste di sacrifici possono essere fatte solo a saldi invariati (loro che sono privilegiati e che vivono di rendita).

Ci terrorizzano quando perdiamo punti percentuali del prodotto interno lordo, che è però un indice meramente quantitativo, non in grado di dire alcunché sull’effettiva qualità della vita.

Come i pitagorici abbiamo ridotto l’essere al numero e ci siamo lasciati trasformare da persone pensanti a produttori automatizzati, a consumatori di beni, per i quali trasformiamo la nostra esistenza in un mero contenitore di oggetti, in virtù dei quali dovremmo sentirci migliori o più moderni.

La pubblicità ci fa desiderare cose che, per essere, non ci servono a nulla: servono solo per apparire e per arricchire chi produce quelle cose e chi le rivende, come se il valore d’uso di un qualunque oggetto fosse solo il suo valore di scambio, il suo prezzo di mercato: tutti numeri che intaccano la nostra esigenza d’essere umani e naturali.

Contro questa vita insensata noi dovremmo fare resistenza, come l’hanno fatta i nostri padri nei confronti delle dittature politiche. Dobbiamo convincerci che la dittatura può essere più subdola di quella del passato, più economica che politica, più parlamentare che militare. E’ la dittatura della democrazia borghese che dobbiamo superare.

Dobbiamo spegnere i televisori, i cellulari e i computer mandando in tilt il sistema. Non dobbiamo aspettare di vederlo saltare quando non avremo più energia da usare: dovremmo farlo saltare subito usandone troppo poca, giusto per disabituarli a credere che il mondo giri intorno a loro.

E l’energia che avremo tolto al sistema, la useremo per tornare a vederci di persona, chiedendoci cosa possiamo fare, lì dove siamo, per uscire definitivamente da questo incubo, da questo sogno pazzesco che, come nei miraggi, ci fa vedere l’acqua là dove c’è solo sabbia.

Una legge hegeliana e la terza guerra

Quando si esaminano le due guerre mondiali, ci si accorge abbastanza facilmente di quanto sia giusta una delle leggi della famosa dialettica hegeliana, quella per cui una serie successiva di determinazioni quantitative (cioè di eventi apparentemente irrilevanti), ad un certo produce una nuova qualità, che va a incidere in maniera sostanziale su quelle stesse determinazioni.

Se gli statisti avessero condiviso questa legge, avrebbero fatto di tutto per evitare quei due catastrofici conflitti, cercando di risolvere pacificamente sia i problemi interni ai loro paesi, relativi al confronto tra imprenditori senza scrupoli e mondo del lavoro intenzionato a rivendicare i propri diritti, sia i problemi interstatali, relativi alla spartizione imperialistica del pianeta.

Ma come avrebbero potuto risolvere quei problemi quando nel sistema capitalistico è l’economia privata che detta ragione alla politica? La politica è solo una delle espressioni dell’economia: è al suo completo servizio, al pari dello sviluppo tecnico-scientifico, della cultura, della formazione e anche della guerra. E dagli imprenditori non poteva certo venir fuori la soluzione dei problemi che loro stessi avevano creato.

Gli statisti non solo fecero gli interessi delle rispettive borghesie nazionali, ma permisero anche alle borghesie degli Stati vittoriosi d’infierire sulle popolazioni dei paesi sconfitti, ponendo le basi dei successivi risentimenti e revanchismi. Riuscirono persino a ottenere il consenso, che poi risultò decisivo per i crediti di guerra votati nei parlamenti, di molti dirigenti socialisti della II Internazione, che invece avrebbero dovuto approfittare dell’occasione per dimostrare la forza della loro opposizione. L’unico che non si mise a difendere gli interessi imperialistici della propria nazione e che anzi voleva scatenare una guerra civile, al fine di ottenere una transizione al socialismo, fu quello bolscevico, che lanciò anche la proposta, rimasta inascoltata, di una pace senza annessioni né indennizzi.

In tal senso la storia insegna che se non si reagisce subito a una determinazione quantitativa negativa, si reagirà ancor meno alle successive, e alla fine ci si troverà persino a stare dalla parte sbagliata. Le occasioni perdute fanno “imborghesire” anche i migliori.

Va tuttavia detto che ognuna delle due guerre fu così devastante da rendere inevitabile, in talune aree del pianeta, una qualche evoluzione anticapitalistica. Dalla prima alla seconda guerra queste aree si ampliarono notevolmente, al punto che durante la cosiddetta “guerra fredda” tra i due sistemi economici mondiali, si riteneva imminente lo scoppio di una terza guerra.

Senonché l’eventualità venne scongiurata da un fatto inaspettato: il crollo di uno dei due contendenti, dovuto all’impossibilità di realizzare un socialismo democratico con gli strumenti dello Stato centralista.

L’idea di voler creare uno “Stato di tutto il popolo” era stata considerata una contraddizione in termini, una presa in giro. Tutto implose repentinamente e in maniera, bisogna dire, abbastanza pacifica: sicuramente sarebbe potuto andare molto peggio, viste le energie spese per creare quella gigantesca illusione.

Dall’altra parte della cosiddetta “cortina di ferro” si esultò: il capitale aveva dimostrato che il sistema migliore del mondo era il proprio, e ora bisognava farlo capire a chi, durante il Novecento, non l’aveva ancora sperimentato. Si era scongiurata una nuova guerra semplicemente perché un avversario s’era rifiutato di combattere e aveva accettato le condizioni dell’altro.

Sicché in questo momento i tanti paesi ex-socialisti stanno vivendo tutte le dinamiche borghesi al loro interno, come se nulla fosse: hanno buttato via non solo l’acqua sporca del socialismo autoritario, ma anche il socialismo imberbe, che, nonostante i gravi errori della sua crescita, non meritava una fine così ingloriosa. Anche perché non è affatto vero che il sistema vincitore goda di ottima salute.

E’ anzi dall’inizio degli anni Ottanta che i governi cercano, ostinatamente, di smantellare, un pezzo per volta, tutte le conquiste dei lavoratori, portandoli letteralmente alla fame, usando i debiti pubblici come un’arma di ricatto con cui spogliarli di tutti i loro diritti e facendo della corruzione un vero e proprio stile di vita.

Di nuovo abbiamo a che fare con la suddetta legge hegeliana, e siccome non riusciamo a impedire questa successione negativa di mutamenti quantitativi, ci chiediamo quando vedremo sorgere una nuova tragica qualità e quale sarà, questa volta, il prezzo che l’umanità dovrà pagare per realizzare un socialismo davvero democratico.

Essere o non-essere? Il problema del divenire

Che cos’è il non-essere? E’ tutto quello che non è, tutto quello che non riesce ad apparire. Molti pensano che sia così perché in realtà non esiste o comunque non è storicamente realizzabile o sociologicamente rilevante. Chi nega il non-essere pensa che l’essere sia una verità evidente, cioè che una determinata realtà spazio-temporale appaia come legittimamente dominante.

Tuttavia un essere evidente, scontato, è sempre di una povertà etica, politica e culturale disarmante, al punto che i più direbbero non che l’essere in questione è positivo o negativo, favorevole all’uomo o contrario, ma semplicemente che è un dato di fatto, che non può essere messo in discussione, qualsivoglia limite abbia.

Forse qualcuno sarebbe anche disposto ad ammettere che il vero essere è qualcosa di non statico, ma in mutamento, non coincidente con la realtà che oggi si vede. Forse costui lo farebbe sapendo che, in fondo, è più importante il divenire che l’essere, proprio perché se l’essere è negativo, invivibile, non possiamo negargli la speranza di migliorare.

Ma che cosa significa “migliorare”? Il divenire non è una concessione che l’essere fa al non-essere. Infatti il divenire è possibile proprio perché esiste il non-essere, che non è una variante dell’essere, ma una realtà propria, cioè la possibilità dell’opposto o comunque del diverso, il diritto a una alternativa.

La verità non sta nell’essere in sé, ma nel divenire, frutto di un incontro o anche, se necessario, di uno scontro tra essere e non-essere, nel rispetto delle reciproche autonomie. Questa la lezione hegeliana che tutti noi abbiamo appreso sui banchi di scuola.

La verità sta nel suo perenne movimento. Quando si presume che una verità sia evidente, lapalissiana, si sta violando la libertà di coscienza, che ha sempre diritto a pensarla diversamente. Là dove viene negata la diversità, lì esiste una dittatura, foss’anche in nome della democrazia.

Esiste infatti dittatura anche quando al non-essere si offre una formale libertà di parola, che alla resa dei conti, a causa dei vari impedimenti oggettivi, non produce alcun risultato tangibile. La democrazia illusoria dell’essere è appunto questa, che si vuol far credere che il non-essere ha diritto di esprimersi e che se nessuno lo ascolta, la responsabilità è sua: i cittadini, in definitiva, preferiscono l’essere, in quanto lo ritengono un’evidenza ineludibile.

E’ così che lo spessore delle contraddizioni viene ridotto al minimo: tutto viene relativizzato. Quando i politici americani affermano che il bello della loro democrazia è che i poveri non invidiano i ricchi, perché nel loro paese a tutti viene data la possibilità di arricchirsi, esprimono appunto questo relativismo superficiale con cui si affrontano i problemi.

Là dove esiste un irriducibile antagonismo sociale si preferisce vedere una sana competizione, da cui emergeranno i migliori. La competitività è uno dei totem da adorare del moderno capitalismo, il quale, proprio perché “moderno”, tende sempre più a escluderla, a favore di trust, cartelli e monopoli d’ogni genere.

Le corporazioni preferiscono gli accordi sotto banco alle liberalizzazioni, preferiscono tutelare i privilegi acquisiti alle logiche del libero mercato. Quando parlano di laisser faire è solo per contrastare l’autoconsumo, il protezionismo e le nazionalizzazioni o qualunque forma di socialismo. Ma, una volta ottenuta la facoltà di agire secondo i principi del free market, ecco che scattano i meccanismi monopolistici.

La concorrenza viene sbandierata come valore nel momento in cui ci si deve fare largo fra imprese monopolistiche, ma, una volta ottenuto il proprio spazio, immancabilmente lo si nega ai nuovi arrivati. Il capitalismo è un sistema individualistico che, a causa del proprio carattere antagonistico di fondo (tra chi ha e chi non ha), tende a trasformarsi in una casta sempre più piccola di privilegiati dal potere enorme.

E’ l’essere che nega risolutamente il non-essere, rifiuta la dialettica del movimento, il diritto al futuro. L’unica possibilità di emergere in queste condizioni è quella di dimostrare competenze straordinariamente complesse, capacità produttive, commerciali e comunicative altamente specializzate, fortissime aderenze col potere politico, affiliazioni sempre più criminose… Ma anche in questi casi si finisce soltanto per compiere operazioni di tipo quantitativo, cioè per modificare proporzioni, gradi e intensità di un essere che nella sostanza rimane inalterato. Nel migliore dei casi le contraddizioni non fanno che acuirsi.

Nei confronti di un essere del genere, il non-essere non potrà avere molti riguardi.

Il mestiere del giornalista

Il giornalista è una figura di mezzo tra il politico e l’ideologo. E’ un opinionista. Generalmente è al servizio di chi lo paga: volgarmente si dice “pennivendolo”. Quindi non può avere opinioni troppo personali, anche se i grandi giornalisti, quelli che hanno fatto una carriera significativa, possono averle ed eventualmente, se non vanno d’accordo con l’editore, possono cambiare giornale o addirittura mettersi in proprio, magari in cooperativa.

A volte il giornalista, a forza di dare notizie sulla politica, sposa la causa di un partito e si fa eleggere in qualche parlamento. Quando invece va in pensione si limita a fare il conferenziere, oppure scrive libri o gestisce un proprio blog, ecc.

Il giornalista parla di ciò che dice di vedere (generalmente le solite cose riguardanti i poteri istituzionali), di ciò che sente personalmente (p.es. un’intervista o una conferenza-stampa), di ciò che legge (le news delle varie agenzie o di altri giornali).

Il giornalista parla poco della vita non ufficiale (dovrebbe fare delle inchieste che richiedono troppo tempo e denaro) e parla ancor meno di se stesso, se non indirettamente, attraverso i propri commenti. Il giornalista non scrive pagine di diario, ma pagine di cronaca (nera, rosa, politica, sportiva…), anche quando vuol fare riflessioni teoriche. Se è un grande giornalista o un intellettuale di spicco può scrivere gli editoriali, gli articoli di fondo.

Non pochi giornalisti sono morti nel corso di una guerra o sotto i colpi del terrorismo o della criminalità organizzata. Generalmente però il giornalista viene considerato una persona privilegiata, che quando entra in pianta stabile percepisce uno stipendio di tutto rispetto, e che può permettersi il lusso di dire molte cose che a un comune cittadino sarebbero interdette, non tanto perché la legge glielo vieterebbe, quanto perché, se venisse denunciato, non avrebbe i mezzi per difendersi.

Il giornalista è un uomo di potere, un anello dell’ingranaggio del sistema: se non lo è lui personalmente, lo è certamente il giornale per cui lavora. In genere siamo soliti dire che la libertà di stampa è l’unico vero antidoto contro le tentazioni autoritarie del sistema. Cioè la possibilità di poter criticare un governo e le istituzioni di uno Stato, viene considerata la conditio sine qua non di una qualunque democrazia. I giornalisti, se vogliono, possono anche far cadere un governo o indurre taluni suoi esponenti a dimettersi.

Tuttavia, nella loro grande maggioranza, i giornalisti difendono il sistema e non si preoccupano affatto di cercare delle alternative praticabili. Se c’è una cosa che per loro (salvo eccezioni) non può essere messa in discussione è proprio l’impianto capitalistico del sistema economico e la struttura politica della democrazia rappresentativa parlamentare. Tant’è vero che le notizie offerte dai giornalisti sono, sotto questo aspetto, tutte terribilmente uguali, anche quando i giornali appartengono a schieramenti politici opposti. Il loro è semplicemente un gioco delle parti, il teatrino della democrazia formale, in cui anche l’informazione è convenzionale.

La quantità delle informazioni che offrono sembra essere inversamente proporzionale alla loro effettiva utilità. Anche quando s’impegnano a parlare di cultura, nelle pagine dei quotidiani, la superficialità resta sempre disarmante. Le lamentele relative al fatto che in Italia pochi leggono i quotidiani o i settimanali non hanno alcuna giustificazione, neppure dal punto di vista tecnico. I quotidiani infatti, col loro piombo, fanno diventare nere le mani e solo il fatto di sfogliare un settimanale, con tutta la sua pubblicità, è un insulto al principio che il tempo è denaro. A fronte della grande sfida del digitale, la carta è davvero destinata a scomparire e sarà un bene per tutte le foreste del pianeta. Senza poi considerare che in rete le informazioni sono più personalizzabili e le ricerche sul pregresso incredibilmente performanti.

Per quale motivo il giornalismo italiano di maggior rilievo nazionale è così privo di spessore? Che bisogno ha di riproporsi in maniera così ripetitiva e di fuggire qualunque ipotesi di specializzazione? Perché leggendo un giornale o ascoltando un tg o un radiogiornale si ha l’impressione di non aver appreso nulla o comunque di non aver acquisito notizie più significative di quelle che può dirci, p.es., un collega di lavoro, che quando poi è iscritto a un sindacato diventa un valido punto di riferimento? Se nella scuola un docente s’accorge che anche solo un proprio studente non sta apprendendo nulla, comincia a preoccuparsi, parla personalmente con l’interessato, informa i suoi genitori, ne discute nel consiglio di classe, decide dei corsi di recupero, adotta particolari strategie didattiche, interpella eventualmente uno psicologo…

Cosa vuol dire “tenersi informati”? E’ davvero così importante leggere o ascoltare chiacchiere, pettegolezzi, disquisizioni, amenità che non portano da nessuna parte e che non sono in grado di risolvere alcun vero problema? Se lo chiedono mai i giornalisti il significato della parola “attualità”? Sembra che per “attualità” si debba intendere la soddisfazione di una semplice curiosità intellettuale, per non rischiare di apparire fuori del proprio tempo. Ma questa soddisfazione è soltanto un di più di quella che si prova sfogliando riviste a caso quando si è in attesa del proprio turno dal dentista o dal barbiere o dal medico della mutua. In tal caso si acquisiscono notizie soltanto per ammazzare il tempo.

Nella loro maggioranza, i giornalisti si dividono in due grandi categorie: quelli che s’illudono che sia sufficiente criticare il sistema per migliorarlo, e quelli che pensano che per migliorarlo sia sufficiente dare più poteri all’esecutivo, anche se non così tanti da mettere in discussione la libertà di stampa.

Sia gli uni che gli altri sono giornali di regime, pagati, nella sostanza, con le tasse dei cittadini, caratterizzati da un livello di eticità molto basso, con cui non ci si fa scrupoli nel violare la privacy di chicchessia, o il segreto d’ufficio, nel formulare accuse o sentenze che solo un magistrato potrebbe emettere, nello sbattere il mostro in prima pagina, nel creare scandali ad arte, nel decidere capziosamente quali notizie possono colpire di più la fantasia degli sprovveduti e, in genere, nell’usare informazioni per puro scopo commerciale.

Sono tutti giornali politicamente schierati a difendere un sistema che, anche quando viene criticato, favorisce la loro stessa esistenza.

Come uscire dal circolo vizioso del sistema

Il capitalismo funziona bene quando il tasso di sfruttamento del lavoro è molto elevato. Esattamente come lo schiavismo funzionava bene quando, in seguito alle guerre vittoriose, era molto elevato il numero degli schiavi sul mercato (questo spiega perché i Romani crearono la loro ricchezza sotto la Repubblica senatoriale e si limitarono a gestirla sotto l’Impero dittatoriale).

Se le guerre non sono più vittoriose o se ci si deve limitare a una mera strategia difensiva, oppure se gli schiavi di ribellano, o se cominciano a rendersi autonome le colonie (che i Romani chiamavano province) o a rivendicare sempre più diritti, le cose non possono funzionare più come prima.

Oggi dobbiamo dire lo stesso nei confronti delle rivendicazioni salariali degli operai e degli impiegati o nei confronti della volontà di emergere dei paesi del Terzo Mondo. Il capitale non riesce più a sfruttare come prima, al punto che qualcuno comincia a rimpiangere i tempi in cui c’era più dittatura.

D’altra parte quando c’è antagonismo sociale non si può vincere in due: uno deve per forza perdere. Darwin, quando pensava al mondo animale, chiamava questo processo “selezione naturale” e la definizione, applicata poi agli “umani”, ha avuto molta fortuna.

Gli imprenditori oggi sono come i generali romani di una volta, che coi loro eserciti andavano in guerra per fare fortuna. Poi, quando l’avevano fatta, diventavano senatori, ricchi latifondisti, governatori di province, alti funzionari, oppure addirittura imperatori.

Oggi non si ha bisogno di fare guerre di tipo militare: è sufficiente farle con le armi dell’economia e della finanza. Tra i Romani e noi ci sono di mezzo le tecnologie, l’uso capitalistico del denaro e anche il fatto che il lavoratore gode della libertà personale, quella formale di tipo giuridico.

Le ferite che ci lecchiamo non sono più quelle procurate da una spada, ma dall’aumento dei prezzi, delle tariffe, dei tassi sui mutui, delle imposte dirette e indirette, delle perdite in borsa, dei debiti, degli affitti e soprattutto sono procurate dal fatto che i salari e gli stipendi non riescono a tenere il passo di tutte queste cose.

Oggi un imprenditore sa bene che se la manodopera non viene sfruttata al massimo, rischia di dover chiudere (eventualmente trasferendosi in quei paesi dove il costo del lavoro è irrisorio). Questo perché deve sostenere spese sempre più ingenti nei macchinari, nell’amministrazione, nelle tangenti al potere politico e criminale, nelle strategie di marketing, ecc.

La concorrenza li obbliga a uno stress insostenibile, a dei rischi inaccettabili. La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto – che Marx elaborò nel III libro del Capitale e che non ebbe mai il tempo di approfondire – li spaventa, perché, pur non conoscendola, la possono constatare abbastanza facilmente. Ecco perché tendono a delocalizzare le loro ricchezze dai paesi più avanzati a quelli meno, oppure dall’economia alla finanza, dove hanno problemi più facili da affrontare.

Il capitalismo ha bisogno di avere situazioni di precarietà sociale, in cui la gente è disposta a lavorare per un salario minimo. Situazioni del genere si verificano quando un paese entra in guerra, cioè quando parte della ricchezza sociale di una nazione viene distrutta molto velocemente. Le guerre infatti sono periodiche in questo sistema. D’altra parte quando i debiti sono talmente grandi che per potervi in qualche modo far fronte bisogna per forza impoverirsi, è relativamente facile che da una situazione del genere si passi all’esigenza di dichiarare guerra a qualcuno, magari anche solo per scongiurare il rischio di una guerra civile interna.

Purtroppo per noi il sistema ci ha insegnato che solo quando le cose sono sufficientemente devastate, si può ricominciare a sperare che la situazione migliori. Si arriva a un punto oltre il quale non si può andare avanti e, se si vuole sopravvivere con i medesimi criteri e metodi, bisogna prima distruggere buona parte della ricchezza collettiva.

E’ come passare da un mazzo di 104 carte a uno di 52 per poter continuare a giocare. Ci vuole una specie di peste bubbonica, come quella che nel Trecento eliminò un terzo della popolazione europea. Fu proprio la peste che accelerò la trasformazione delle Signorie italiane in Principati: cosa resa possibile, naturalmente, anche a causa della scarsa combattività del mondo del lavoro, il cui apice in Italia fu raggiunto col Tumulto dei Ciompi a Firenze, nel 1378.

Questo meccanismo infernale che ha il capitalismo, di autodistruggersi parzialmente per poi rinascere come l’Araba fenice, andrebbe superato una volta per tutte. L’unico modo per poterlo fare è noto da molto tempo: togliere agli imprenditori e a tutti i gestori dell’economia finanziaria il potere di decidere da soli quali debbano essere i criteri con cui vivere la vita.

Bisognerebbe però precisare, a scanso di equivoci, che non può più essere considerato sufficiente togliere al capitale la proprietà degli strumenti produttivi e finanziari, senza ripensare completamente gli stili di vita. E, in tal senso, non dobbiamo dare per scontato l’utilizzo delle stesse tecnologie del capitalismo, seppur gestite da lavoratori-proprietari.

Dobbiamo tenerci pronti o a far saltare tutto il sistema (e non solo una sua parte), o ad approfittare delle sue debolezze quando sarà costretto a saltare da solo per potersi autorigenerare. Se non approfitteremo di quel momento favorevole, stiamo pur certi che il capitale farà pagare al lavoro le conseguenze della propria crisi, partendo ovviamente dai ceti più deboli. La crisi infatti non è di crescita (quella che permette ai lavoratori, col tempo, di migliorare le loro condizioni), ma solo di autoconservazione. Sarà un bagno di sangue soprattutto per chi ha già il corpo piagato.

Ecco perché sin da adesso dovremmo chiederci come uscire da questo inferno – che è in fondo un assurdo circolo vizioso -, partendo dai criteri di soddisfazione dei bisogni primari quotidiani. Se non recuperiamo un rapporto stretto, diretto, con la natura, se non ci riappropriamo di ciò che costituisce la base materiale della nostra esistenza, sottraendola a una gestione anonima, eterodiretta, incontrollabile (quale quella che si verifica negli attuali mercati di beni e servizi), noi saremo condannati in eterno a ripetere i nostri errori.

Solo con l’autogestione completa di un territorio ha senso parlare di democrazia. “Esta selva selvaggia e aspra e forte, / che nel pensier rinnova la paura”, non può essere vinta coi metodi e mezzi tradizionali. Bisogna fare una rivoluzione copernicana del pensiero, in virtù della quale l’uomo possa finalmente camminare coi propri piedi e non al guinzaglio di qualcuno.

Il fatto è purtroppo che noi occidentali, così abituati a sentirci onnipotenti, non riusciremo mai ad accettare un rapporto paritetico con la natura, a meno che delle gravissimi catastrofi non ci costringano a farlo. Forse l’unico momento in cui in Europa siamo stati capaci di questo, da quando sono sorte le civiltà antagonistiche, è quello che i manuali scolastici definiscono col termine di “epoca buia”, e cioè l’alto Medioevo. Ma in Europa son dovuti entrare i cosiddetti “barbari” per insegnarci a recuperare con la natura un rapporto equilibrato.

Tuttavia, già a partire dal Mille avevano ripreso, in Italia, un rapporto di sfruttamento delle risorse naturali, analogo a quello di epoca greco-romana. A partire dal Mille sono state tantissime le catastrofi che l’Europa ha subìto (innumerevoli guerre, terribili epidemie, carestie, devastazioni ambientali…), eppure non s’è mai avuta la forza d’invertire la marcia.

In un millennio la borghesia non solo è diventata potentissima, approfittando spesso proprio di quelle catastrofi, ma, quel che è peggio, è riuscita a diffondersi in tutto il pianeta, come un gigantesco virus. Lo sviluppo della borghesia capitalistica – che ha avuto il suo esordio proprio in Italia – è stata la più grande catastrofe dell’umanità. E ora che il testimone sta per essere preso da colossi numerici come Cina e India, il peggio, molto probabilmente, deve ancora venire. E nuovi “barbari” che tornino a insegnarci a vivere non se ne vedono all’orizzonte…

Le inutili alternative

Il problema maggiore delle moderne civiltà è che qualunque tentativo si faccia per risolvere determinati problemi finisce sempre per produrre nuovi problemi, spesso ancora più gravi dei precedenti. Noi sembriamo destinati a ottenere il contrario di ciò che vorremmo.

Prima che le civiltà antagoniste comparissero si doveva cercare di conservare, il più possibile inalterato, tutto il passato, per poter avere delle certezze sul futuro. Oggi invece non abbiamo alcuna cognizione del passato e viviamo alla giornata, del tutto ignari di ciò che ci attende, tanto che qualunque evento, anche disastroso come un crac borsistico, ci giunge assolutamente inatteso e pensiamo che prima o poi si risolva da sé (si pensi solo a quanto furono impreviste le due guerre mondiali).

Purtroppo però non possiamo non far nulla col pretesto che, facendo qualcosa, peggioreremmo la situazione. Se non facciamo niente, le cose peggiorano lo stesso, proprio perché esse sono frutto di rapporti antagonistici, le cui contraddizioni, stante l’attuale sistema che le produce, risultano irrisolvibili.

Infatti, quando si ha l’impressione ch’esse siano meno pesanti da sopportare, è perché il loro carico maggiore è stato trasferito su categorie sociali più deboli. In molti si sta pagando per far contenti i pochi. E questo meccanismo si verifica a tutti i livelli territoriali: locale regionale nazionale continentale mondiale, essendo strettamente intrecciati. P.es. se in ambito nazionale esiste un’imprenditoria che sfrutta la propria componente operaia, esse, insieme, sfruttano le aree del Terzo Mondo.

Insomma non c’è solidarietà tra sfruttati: ognuno se la deve vedere da solo coi propri “padroni”. Il capitale vuole il globalismo per gli scambi commerciali e finanziari e per il mercato del lavoro, ma si opporrebbe con qualunque mezzo, anche il più devastante possibile, all’idea di un’opposizione internazionale al sistema.

Il crollo dell’impero romano (la maggiore società schiavistica del mondo antico) dovremmo vederlo come esempio emblematico, a livello territoriale (in quanto i suoi confini erano abbastanza definiti), di cosa potrebbe accadere al nostro sistema, che è capitalistico, i cui confini non esistono, essendo un fenomeno mondiale.

La differenza, tra allora e oggi, è che a quel tempo esistevano, in Asia e in Europa orientale, molte popolazioni in grado di opporre resistenza all’idea di “schiavismo”; oggi invece l’idea di “socialismo” sembra aver perduto qualunque forza propulsiva. Il motore della nave s’è spento e non possiamo sostituirlo con la vela, perché ci era stato detto che, in nome del progresso tecnologico, non ne avremmo più avuto bisogno. Siamo praticamente in balia dei venti.

Hosea Jaffe e il colonialismo

I

Giustamente Hosea Jaffe sostiene, in Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (ed. Jaca Book, Milano 2007), che l’idea engelsiana di favorire il colonialismo europeo per accelerare il processo di industrializzazione nelle periferie coloniali, al fine di porre le basi per una transizione al socialismo, era un’idea non “socialista” ma “imperialista”, frutto di un’interpretazione meccanicistica o deterministica del materialismo storico-dialettico.

E ha altresì ragione quando afferma che la contraddizione principale, nell’ambito del capitalismo, è diventata, a partire dalla nascita del colonialismo, non tanto quella tra capitalista e operaio delle aziende metropolitane, quanto quella tra Nord e Sud, dove con la parola “Nord” non si deve intendere solo l’imprenditore ma anche lo stesso operaio che nell’impresa capitalista si trova a sfruttare, seppure in maniera indiretta, le risorse del Terzo Mondo.

Detto questo però Jaffe non è in grado di porre le basi culturali per comprendere la nascita del capitalismo (che non può essere considerato una mera conseguenza del colonialismo, in quanto quest’ultimo s’impose già nel Medioevo con le crociate ed esisteva già al tempo della Roma e della Grecia classica e non per questo è possibile parlare di capitalismo, che storicamente nasce solo nel XVI sec.). Jaffe non è neppure in grado di porre le basi politiche di un accordo tra il proletariato del Nord e quello del Sud.

Alla fine del suo percorso egli si ritrova su posizioni speculari a quelle engelsiane: laddove infatti si considerano interi continenti (Asia, Africa, America latina) incapaci di avviare l’industrializzazione borghese in maniera autonoma e quindi di favorire una transizione al socialismo, qui invece si considera l’occidente, en bloc, del tutto inadatto a comprendere i meccanismi mondiali dello sfruttamento economico; il che fa diventare assolutamente inutile il tentativo, da parte del proletariato coloniale, di cercare, nelle aree metropolitane dell’occidente, quei soggetti che possono condividere i suoi processi di democratizzazione sociale.

Hosea Jaffe assume una posizione deterministica rovesciata, al punto che gli diventa impossibile esprimere dei giudizi obiettivi sui limiti delle esperienze socialiste dei paesi coloniali (come quelle avvenute a Cuba, in Cina, nella Corea del Nord ecc.).

Pur di poter manifestare una posizione contraria all’occidente in sé, considerato quasi come una categoria metafisica, Jaffe è disposto a transigere su molti difetti dei regimi socialisti. Anche perché continuamente ribadisce la tesi trotskista secondo cui una transizione al socialismo è più facile in un paese economicamente arretrato che non nell’occidente avanzato.

Alla fine non gli resta che auspicare una terza guerra mondiale in cui lo scontro non avvenga più tra potenze imperialistiche ma tra Nord e Sud. Col che lascia del tutto irrisolto il nodo relativo al modello di sviluppo. A lui interessa soltanto che il Sud si liberi del Nord, non che si liberi anche della sua assurda industrializzazione.

II

In realtà non è di nessuna importanza che un paese sia industrialmente “avanzato” o “arretrato” ai fini della transizione al socialismo. Quello che più importa è la capacità di saper organizzare una rivoluzione che porti effettivamente a vivere una transizione verso il socialismo democratico.

In astratto infatti si può dire che un paese arretrato, sul piano industriale, è più vicino alle idee del socialismo in quanto è più vicino al pre-capitalismo, cioè alla cultura pre-borghese. Ma si può anche dire il contrario, e cioè che quanto più un paese è industrialmente avanzato, tanto più avverte il problema di uscire dalle contraddizioni del sistema, che rendono la vita invivibile, specie per le conseguenze ambientali che ha.

Nei paesi avanzati non sono avvenute rivoluzioni socialiste non perché è più facile che queste avvengano nei paesi arretrati – come diceva Trotski -, ma perché i paesi avanzati industrialmente sono anche quelli che praticano il colonialismo, oggi a livello internazionale, seppur, rispetto a ieri, in forme più economico-finanziarie che politico-militari.

Nel mondo non esistono paesi avanzati o arretrati autonomi, in grado di sperimentare percorsi indipendenti gli uni dagli altri. Nel mondo esistono paesi avanzati sul piano tecnologico che dominano politicamente o anche solo economicamente altri paesi arretrati sul piano industriale.

Tale dipendenza impedisce di servirsi liberamente delle tradizioni pre-borghesi per realizzare una transizione al socialismo. Questo peraltro il motivo per cui Lenin non credeva che il populismo russo, con la sua idea di “comune agricola”, sarebbe riuscito a impedire la diffusione del capitalismo in Russia.

Se i paesi avanzati non avessero colonie da sfruttare, le loro contraddizioni interne, a causa dei rapporti fortemente antagonistici, diverrebbero esplosive in poco tempo. Invece, grazie allo sfruttamento coloniale, il peso di queste contraddizioni può essere scaricato sui paesi arretrati.

L’Europa occidentale ha iniziato a comportarsi così già con la civiltà cretese, ereditata poi da quella ellenica; ha continuato a farlo, in grande stile, coi Romani; ha proseguito nel Medioevo col fenomeno delle crociate; e in epoca moderna ha inaugurato con la scoperta dell’America il colonialismo su scala mondiale.

Sono almeno tremila anni che l’Europa ha una pretesa di dominio verso le realtà più deboli. Ogniqualvolta i conflitti sociali diventano troppo acuti per poterli risolvere pacificamente, in politica interna si usano i sistemi autoritari, i metodi repressivi, e in politica estera si adottano programmi di conquista coloniale, di sfruttamento delle risorse altrui, umane o naturali che siano.

Ai problemi di natura sociale ed economica si risponde con soluzioni poliziesche (all’interno) e militari (all’esterno). Dopo aver represso il dissenso interno, si cerca di contenere il malcontento generale, facendo pagare a popolazioni estranee il prezzo delle proprie contraddizioni.

Ecco perché il dissenso interno riesce a trovare, temporaneamente o in territori circoscritti, uno sfogo alle proprie frustrazioni. I dissidenti si trovano a vivere nelle colonie quegli stessi rapporti antagonistici che subivano in patria, con la differenza che ora, nelle colonie, sono loro che li fanno subire alle popolazioni e ai loro territori conquistati.

Anche ammettendo che nella loro terra d’origine i dissidenti volevano realizzare una qualche transizione al socialismo, bisogna dire che questa esigenza non s’è mai realizzata nelle colonie ch’essi hanno conquistato o semplicemente abitato. E non solo perché la loro stessa madrepatria non gliel’avrebbe mai permesso.

I coloni hanno sì potuto riscattarsi dal peso delle contraddizioni subìte in patria, ma solo perché sono diventati i nuovi padroni in casa altrui. Non hanno mai cercato un rapporto di collaborazione con le popolazioni incontrate, onde potersi opporre al dominio della madrepatria. E se l’hanno fatto, è stato in maniera strumentale, per necessità di circostanza, per aumentare il loro potere di colonizzatori. Il dissenso frustrato nella madrepatria s’è trasformato nelle colonie in dominio nei confronti dei territori conquistati e delle popolazioni sottomesse.

Questa cosa è potuta andare avanti finché ci sono state terre da conquistare e popolazioni da sfruttare. Ma oggi tutto il pianeta è stato colonizzato. Se le popolazioni sottomesse cominciassero a ribellarsi, non ci sarebbe più modo, da parte dei paesi tecnologicamente avanzati, di trovarne di nuove da sottoporre a nuovi sfruttamenti.

L’antagonismo non può più espandersi geograficamente, può solo acutizzarsi a livello sociale, là dove riesce a dominare. Se non riusciamo a realizzare una transizione al socialismo, le barbarie è assicurata.

III

Detto questo, resta sempre da chiarire che cosa s’intenda per “socialismo democratico” e, su questo, Jaffe è incredibilmente lacunoso. Non avendo posto alcuna premessa per un discorso di tipo culturale, si trova a ripetere sempre le stesse cose, senza riuscire ad offrire suggerimenti significativi per uscire non solo dalla dipendenza coloniale, ma neppure dai meccanismi sociali e culturali che creano il bisogno di avere un dominio coloniale.

Qui il discorso si fa davvero ampio e tutto da costruire. Se Jaffe si fosse concentrato sulle origini socio-culturali del capitalismo, non avrebbe dato così grande peso al colonialismo, che pur di quelle origini è parte organica, ma sarebbe stato costretto a darne alla religione, alla teologia, alla filosofia, al diritto, all’arte, alla scienza, all’etica e alla morale, cioè a tutte quelle discipline che il marxismo ha sempre definito come “sovrastrutture” dell’economia e che, per questa ragione, sono sempre state considerate dagli studiosi di sinistra come una sorta di mero rispecchiamento della realtà concreta dell’economia. In realtà tra struttura e sovrastruttura esiste un reciproco condizionamento, che impone allo studioso un’analisi di tipo olistico, obbligata a tener conto di tutti gli aspetti nel loro insieme.

Lo stesso colonialismo dipende da una determinata cultura, esattamente come il capitalismo. Se gli uomini di una civiltà, di una religione, di una nazione ecc. si sentono, ad un certo punto, in diritto di dover conquistare territori altrui, significa che già al loro interno esiste questa deformazione, esiste già il senso del dominio da parte del più forte nei confronti del più debole. Questo senso o sentimento o atteggiamento sociale non dipende dalla psicologia dei popoli, ma da una cultura, da una concezione della realtà. E questa concezione, nell’antichità, si esprimeva soprattutto in chiave religiosa (mitologica o metafisica o razionale che fosse).

Le cause del colonialismo possono anche essere state sociali, politiche, economiche, ma noi dobbiamo cercare le cause culturali, quelle precedenti a tutto. Bisogna scoprirle e combatterle, proprio perché di fronte a una determinata situazione sociale non si debba nuovamente rispondere con la scelta dell’antagonismo e quindi inevitabilmente del colonialismo. Il problema principale infatti è quello di non ripetere, in forme diverse, gli errori del passato.

In occidente le forze progressiste non possono aspettare la fine del colonialismo prima di cercare un’alternativa al capitalismo. Se il problema sta anzitutto “fuori” (nelle colonie), alla fine soltanto quelli di “fuori” potranno risolverlo. Ma se la borghesia avesse aspettato la fine spontanea della rendita feudale, non sarebbe mai riuscita a far trionfare l’idea di profitto.

Tutti i libri di Hosea Jaffe

Armi e Mercato. Uscire dal globalismo

Le armi che abbiamo creato sfuggono al nostro controllo nella stessa misura in cui ci sfugge il controllo del mercato. Abbiamo creato un sistema totalmente in mano ai poteri forti, autoritari, che non solo non sono controllati da nessuno, ma non sono neppure in grado di controllare se stessi.
Chiunque presume di non dover essere controllato, è potenzialmente un nemico pericoloso per la società, anzi, considerando l’attuale consistenza del globalismo economico e militare, per l’intera umanità.
La stessa tipologia di armi di cui questi potentati sono in grado di disporre si presta all’impossibilità di un controllo effettivo del loro impiego, come già dimostrato sin dalla prima guerra mondiale con l’uso dei gas, benché si parli oggi di “obiettivi chirurgici”. Il valore personale dei militari è diventato inversamente proporzionale alla potenza delle loro armi.
La reazione che questi poteri possono avere a quel che ritengono una minaccia per la loro sicurezza o per la loro autorità, reale o presunta che la minaccia sia, può anche esprimersi secondo criteri estranei a qualunque ragionevolezza umana. Infatti l’abitudine reiterata a gestire un potere assoluto, può indurre a compiere azioni il cui effetto può diventare inconsulto, imprevedibile, del tutto sproporzionato rispetto al rischio effettivo che si crede di subire o a qualunque intenzione o volontà di difesa si voglia manifestare. Tant’è che lo scoppio delle due ultime guerre mondiali è avvenuto cogliendo di sorpresa il mondo intero.
L’esercizio del potere assoluto deforma la percezione della realtà, esaspera i problemi, ingigantisce i pericoli, sottovaluta le conseguenze delle proprie azioni, rende incapaci di mediazioni. La tragedia del mondo contemporaneo è che la mancanza di esercizio della vera democrazia si verifica proprio nel momento in cui si crede di usarla (come quando p.es. si va a votare). L’occidente considera addirittura la propria esperienza di democrazia un prodotto di esportazione, da far valere anche con l’uso delle armi, legittimato da risoluzioni di organismi internazionali, in cui solo le cinque nazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dispongono di effettivi poteri.
Oggi la dittatura più pericolosa non è quella del terrorismo internazionale, ma quella che porta a compiere dei crimini contro l’umanità proprio in nome di un’idea distorta di democrazia: un’idea che l’economia borghese divulga attraverso la democrazia delegata e questa la trasmette alla società attraverso il monopolio dell’informazione.
L’economia di mercato ha fatto perdere il controllo sulla produzione, la quale produzione implica anche quella delle armi di distruzione di massa, che, nonostante la fine della guerra fredda, non sono state smantellate, ma, anzi, tendono sempre più a diffondersi. E tutto ciò è avvenuto proprio in nome della formale democrazia borghese, che non è sociale ma semplicemente parlamentare, e si vanta di rappresentare la volontà popolare anche quando i governi in carica sono votati da una minoranza, rispetto a tutti gli elettori aventi diritto di voto (come succede p.es. negli Usa, definiti la più grande democrazia del mondo, dove solo la metà dell’elettorato si reca alle urne).
Se non recuperiamo il concetto di autoproduzione, se non ci liberiamo dal dominio del mercato, dagli indici quantitativi del prodotto interno lordo, da uno sviluppo meramente economico e non sociale, se la democrazia non smette d’essere delegata e non diventa diretta, non solo non saremo mai in grado di controllare le azioni dei poteri forti, economici e militari, ma rischieremo anche di dover ripetere i meccanismi della stessa formale democrazia borghese persino dopo aver subito catastrofi mondiali, belliche o ambientali che siano.
Se non comprendiamo la necessità vitale dell’autogestione delle risorse produttive, rischiamo soltanto di perfezionare gli strumenti e gli inganni per una successiva catastrofe mondiale. Dobbiamo uscire da questo tragico destino e perverso circolo vizioso, riducendo al minimo la forza del mercato, puntando decisamente sulla decrescita e tornando progressivamente all’autoconsumo.
E in questo ritorno dovremmo paradossalmente difenderci con le armi da chi vorrà impedircelo: armi proporzionate a un uso meramente difensivo. Nell’ambito del mercato non c’è alcuna possibilità di sopravvivenza per chi non dispone di potere d’acquisto, meno che mai in maniera dignitosa, proprio perché chi è abituato al potere assoluto, non vuole perderlo, non vuole vederlo diminuire, anzi, lavora ogni giorno per aumentarlo, costruendo monopoli sempre più vasti e complessi, in grado di dominare la scena internazionale.
L’unico modo per poter controllare la gestione delle armi è quello di usarle per difendere il proprio territorio, in cui i cittadini decidono liberamente di praticare la gestione collettiva dei mezzi produttivi. Non abbiamo bisogno di un mercato mondiale per sentirci parte di uno stesso pianeta. Non ha alcun senso democratico uniformare i consumi per far sentire l’umanità una cosa sola.
Nel capitalismo non c’è alcuna possibilità che la politica controlli l’economia. E là dove si è tentato di farlo, usando gli stessi strumenti che la borghesia, sin dal suo nascere, si è data (lo Stato, la burocrazia, il parlamento, il partito politico ecc.), come nel cosiddetto “socialismo reale”, il fallimento è stato totale. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’autoconsumo, è destinata a trasformarsi in una dittatura. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’uso della democrazia diretta a livello locale, è destinata a svolgersi in maniera opposta ai propri fini, e quindi a porsi contro gli interessi di esistenza del genere umano.
Le comunità locali potranno sentirsi parte di un unico pianeta soltanto quando non ci sarà nessuno che farà loro perdere l’autonomia.

Spezzare il cerchio della soluzione finale

L’etica economica di derivazione cattolica ha fatto moralmente bancarotta, in Italia, con l’omicidio di stato del parlamentare Aldo Moro, ma anche con l’omicidio di tutti quei politici e magistrati meridionali che hanno lottato contro la mafia in nome dello Stato. Sono morti ben sapendo che tutte le mafie meridionali altro non rappresentano che la faccia corrotta dello Stato e nella speranza, rivelatasi fino ad oggi illusoria, che all’interno di questo Stato vi potessero essere dei corpi sani, in grado di avviare una controtendenza.
Alla fine degli anni Settanta s’era capito che i cattolici non avevano più niente da dire, sul piano etico, all’economia borghese e che questa poteva marciare per conto proprio. D’altra parte uno Stato che fa fuori i propri statisti, un partito che elimina fisicamente i propri attivisti di spicco, pur di non realizzare alcun compromesso coi comunisti, pur di non farsi moralmente giudicare dalla sinistra, non merita di sopravvivere, almeno non restando uguale a se stesso.
Infatti una prima trasformazione della Dc e dello Stato ch’essa rappresentava avvenne con la stagione del craxismo, che volle dare allo Stato una maggiore laicità e, contemporaneamente, una minore istanza etica (anche se nella fase della trattativa per il rilascio di Moro il Ps si dimostrò possibilista e non intransigente come i democristiani e i comunisti, preoccupati solo di difendere la ragion di stato, benché per motivi assai diversi).
Si voleva una maggiore coerenza fra teoria e prassi: ecco perché col socialismo craxiano nasce una corruzione non più cristiana, cioè tardo-feudale, ma laica, cioè neo-borghese. Il capitalismo non ha più bisogno di farsi largo tra le maglie, a volte troppo strette, dell’etica cattolica, ma semmai è questa che, per sopravvivere, deve cercare di adeguarsi a una mentalità sempre più secolarizzata.
Col craxismo l’Italia ha sperimentato una sorta di riforma protestante laicizzata, attraverso cui il potere poteva essere gestito pienamente da politici “socialisti”. Il ruolo dei vecchi democristiani era piuttosto subordinato. Sembrava una ventata di novità: si revisionò il Concordato, in politica estera si assunse un atteggiamento meno prono alla volontà americana.
Tuttavia anche il socialismo craxiano fu un fallimento totale. Da un lato ci s’illudeva di poter sussistere a tempo indefinito sfruttando il crollo del socialismo sovietico; dall’altro si finiva col rappresentare soltanto il volto borghese della vecchia Dc. Anzi, la corruzione non aveva neppure i freni della medievale etica economica.
L’operazione “Mani pulite” piovve come un fulmine a ciel sereno: per un momento si credette che nello Stato ci fossero pezzi istituzionali eticamente sani. Si fece in poco tempo piazza pulita della corruzione socialista e democristiana, ivi inclusi le altre forze minori, gretti eredi e decadenti del Risorgimento.
Si scoprì chiaramente che tutti sfruttavano lo Stato per arricchirsi e per pagarsi i costi delle campagne politiche, delle proprie clientele: tra politica ed economia dominava il do ut des. Non c’era alcuna differenza tra etica borghese ed etica cristiana.
Sulla scia di questo ripulisti della prima Repubblica (che comunque non aveva toccato i gangli vitali del sistema, essendo impossibile che potesse farlo la sola magistratura), il centro-sinistra ha cercato di convogliare in un unico progetto il meglio della vecchia Dc (la parte più onesta) col meglio della sinistra parlamentare, nella convinzione di poter rimediare a una situazione di sfacelo morale.
Ma anche quest’operazione è fallita, com’era naturale che fosse quando non si vogliono rimettere in discussione i criteri di vivibilità del nostro sistema, i suoi criteri di sostenibilità. E’ stata un’operazione inutile, l’ennesima illusione di poter gestire democraticamente dei processi che di democratico non hanno mai avuto nulla, sin da quando s’è formato lo Stato sabaudo centralista e anti-contadino.
Ecco perché ha trionfato il berlusconismo, che rappresenta il peggio del craxismo, con l’appoggio del peggio della vecchia Dc (Comunione e liberazione) e della vecchia destra fascista (che non ha accettato lo sdoganamento istituzionale di Fini) e della nuova destra razzista rappresentata dalla Lega Nord, che ha fatto di un’istanza giusta (il federalismo) un motivo per far nascere nuovi egoismi locali e regionali.
Rispetto al craxismo si è persino venuti meno a quella parvenza di laicismo che aveva inaugurato la stagione degli anni Ottanta. Il centro-destra, sostenuto dagli elementi più retrivi del Vaticano, è quanto mai clericale. E’ l’espressione più adeguata di un capitalismo che prende del cattolicesimo gli aspetti più amorali e individualistici, più ipocriti e faziosi, al punto che lotta strenuamente per l’abolizione dello Stato sociale.
Questa compagine governativa sta portando il paese alla bancarotta etica ed economica, alla guerra civile tra le generazioni, all’impoverimento di massa delle famiglie, alla dittatura presidenzialista, alla scissione geografica tra macro-regioni. Non è possibile opporsi a una tale “soluzione finale” senza ripensare i criteri di gestione della produzione e della distribuzione dei beni, della ricchezza materiale, dei rapporti con la natura, dei rapporti di genere…
Non servirà a nulla mandare al governo un centro-sinistra o addirittura una sinistra integrale solo dopo aver visto che la destra avrà fatto collassare il sistema. Bisogna da subito ripensare i criteri fondamentali della nostra stessa sopravvivenza. Bisogna uscire dal globalismo delle multinazionali, dal mercato finalizzato al profitto, dallo sfruttamento del lavoro altrui, dalle rendite parassitarie e persino dalla proprietà privata dei mezzi produttivi. Se non si esce da tutto questo il cerchio non si spezza o, prima o poi, si richiude.