Pino Nicotri

Benvenuti. Sono Giuseppe Nicotri, detto Pino. Nato il 15 agosto 1943, ho iniziato a collaborare a L’Espresso (allora aveva la E maiuscola) nel 1972 e per puro caso, per poi diventarne man mano collaboratore fisso, redattore, caposervizio e infine inviato. Su richiesta di Eugenio Scalfari, sono stato anche corrispondente dal Veneto del quotidiano la Repubblica fin dalla sua fondazione. Dall’ottobre 1977 fino al dicembre 1979 sono stato caposervizio del quotidiano il Mattino di Padova, giornale che ho contribuito a far nascere sia reperendo alcuni soci locali e sia indicando all’editore – all’epoca Giorgio Mondadori, coadiuvato da Gianfranco Cantini – quasi tutti i nomi di chi assumere come giornalista tanto al Mattino quanto al “gemello” la Tribuna di Treviso. Dal 1986 al 1994 ho condotto su TelePadova il programma di informazione e dibattito settimanale Profondo News, da me ideato.

Ho scritto una dozzina di libri di attualità e un romanzo. Il primo è Il Silenzio di Stato, pubblicato da Sapere Edizioni nel 1973, il cui lavoro di ricerca ha contribuito in modo decisivo – merito del collega Mario Scialoja, all’epoca già famoso e bravissimo inviato de L’Espresso – a far crollare la falsa pista anarchica delle bombe del 12 dicembre 1969, compresa quella della strage milanese di piazza Fontana addebitata al ballerino Pietro Valpreda. Le anticipazioni del contenuto del Silenzio di Stato hanno dato inizio alla mia collaborazione con L’Espresso. Scialoja era già un giornalista affermato, che ovviamente ignorava la mia esistenza (ero un qualunque studente universitario di Fisica, per giunta fuori corso). Il 1° settembre 1972 partì da Roma con la sua Alfa Romeo 1.750 e piombò a Padova a cercarmi – alla Casa dello Studente Arnaldo Fusinato, eternamente occupata e dove abitavo con la mia prima consorte, giovanissima studentessa di Filosofia – solo perché aveva saputo da una comune conoscente che stavo scrivendo un libro nel quale raccontavo, tra l’altro, come all’epoca della strage di piazza Fontana un mio ex compagno di appartamento, lo studente di Ingegneria Giorgio Caniglia, avesse da tempo una borsa marca Mossbach&Grueber eguale a quelle usate per nascondere gli ordigni del 12 dicembre. Il mio amico la sua Mossbach&Grueber l’aveva comprata a Padova, particolare che smentiva in pieno quanto affermato ufficialmente a lungo dagli organi di polizia, secondo i quali in Italia borse di quella marca non erano mai state in vendita.
Scialoja a Padova non mi trovò, la mia consorte gli spiegò che mi ero isolato a Gallio, sull’altipiano di Asiago, nella casa di montagna dei suoi genitori, per scrivere il libro e gli indicò la strada per trovare la casa, un pezzo di una casera di montagna piuttosto fuori mano. Stavo scrivendo al quarto piano quando ho sentito un notevole fracasso venire da pian terreno, dove qualcuno era entrato sbattendo la porta di ingresso. Mi sono affacciato sulle scale e ho visto un signore con un soprabito bianco e una barba rossa arruffata che guardando in alto mi gridava: “Sono Mario Scialoja, del settimanale L’Espresso”. “E io sono Napoleone Buonaparte”, risposi incredulo e irritato per l’irruzione. “Ma io sono davvero Mario Scialoja”, rispose il signore col soprabito bianco e la barba rossa. “E io sono davvero Napoleone. Non vorrà contraddirmi a casa mia, eh!”.
E’ cominciata così l’avventura che ha portato me nel giornalismo, la pista Valpreda nel cestino della carta straccia e me e Mario in una lunga amicizia fraterna, intessuta anche di vacanze estive nella sua bella barca a vela, uno sloop di nome Bella.
Nonostante la vicenda borse fosse il clou del libro che stavo scrivendo, accettai di portare Scialoja – un mostro di incontenibile simpatia e spirito di iniziativa, oltre che automobilista da cardiopalma – a casa del mio amico. Giorgio diffidava della stampa al punto che la sua vecchia Mossbach&Grueber preferì venderla a me (per 5.000 lire, poco più di 2 euro e mezzo) perché la regalassi io al giornalista anziché cedergliela direttamente lui. Come si legge a pagina 53 de Il Silenzio di Stato, già il giorno dopo – 2 settembre – il magistrato Gerardo D’Ambrosio si vide consegnare a Milano da Scialoja la prova che innescò la distruzione della montatura su piazza Fontana e dintorni. Nel numero datato non ricordo se 7 od 8 settembre L’Espresso pubblica lo scoop intitolato “C’è un’orma nuova”, nel quale Scialoja racconta come abbia appreso da me l’esistenza della borsa di Caniglia, del quale fa il nome, e come sia stato da me portato a casa sua per prenderla in consegna:
“A mettermi al corrente dell’esistenza di questa borsa e a portarmi dal suo proprietario, Giorgio Caniglia, è stato un militante del Comitato di lotta antifascista promosso a Padova da Potere Operaio e Lotta Continua e che sta preparando un libro bianco sulle “responsabilità” della polizia e della magistratura padovana”.
Le virgolette della parola “responsabilità” si riveleranno una  prudenza davvero eccessiva, anzi proprio fuori luogo, e il libro “bianco” si rivelerà invece nero,  nerissimo…. D’Ambrosio inviando a Padova a fare ricerche il maresciallo dei carabinieri Alvise Munari poteva finalmente scoprire dove erano state vendute le borse utilizzate per trasportare e nascondere le bombe del 12 dicembre ’69.

Mario per prudenza non ha fatto il mio nome, onde evitarmi possibili guai, e conclude con queste parole:
“Comunque, prima di rendere pubblica questa storia ne ho informato direttamente il giudice D’Ambrosio nel suo ufficio al secondo piano del palazzo di giustizia di Milano”.

Imboccata finalmente la pista giusta, il magistrato in seguito ha potuto scoprire anche come sia il ministero degli Interni che i servizi segreti militari mentissero per proteggere in vario modo i colpevoli: vale a dire, un gruppo di nazifascisti veneti, capitanati dal padovano Giorgio Franco Freda, alcuni dei quali i servizi fecero fuggire e nascosero all’estero per evitarne la cattura. Si scoprirà in seguito, tra molto altro, che la questura padovana e il ministero degli Interni già 48 ore dopo la strage sapevano da una commessa della valigeria Al Duomo che c’era chi aveva acquistato in quel negozio 4 o 5 borse Mossbach&Grueber pochi giorni prima degli attentati e qualche tempo dopo seppero dalla stessa commessa che l’acquirente era proprio Freda. Sarà il più volte ministro della Difesa e capo del governo Giulio Andreotti a dover infine rendere pubblico che i servizi segreti militari erano da tempo in contatto con quei terroristi tramite il giornalista Guido Giannettini, arruolato a libro paga come “l’agente Z”. Se quegli organi dello Stato non avessero cospirato, mentito, depistato e insabbiato, il “mistero” della strage del 12 dicembre sarebbe stato risolto in meno di una settimana. E se non ci fossero stati Caniglia con la sua borsa, L’Espresso e Scialoja la verità su piazza Fontana e dintorni sarebbe rimasta sepolta con i suoi morti.

L’ultimo mio libro è “Triplo inganno. Il Vaticano, gli apparati, i mass media e il caso Orlandi”, in libreria dal 18 settembre 2017. Ho anche scritto un romanzo: Vicolo Skandenderg, pubblicato da Marsilio nel 1994.

Il mio articolo su L’Espresso “La brigata manda a dire” ha permesso di individuare nell’ottobre 1980 gli autori dell’uccisione del giornalista milanese Walter Tobagi.

Nel numero de L’Espresso dell’11 ottobre 2001 ho pubblicato un’inchiesta col seguente titolo e sommario:  “Musulmani d’Italia. Fondamentalismo alla milanese. Il Corano e la Legge Divina. Anche un po’ di Bakunin e di anarchia. L’incredibile storia del “Messaggero dell’Islam””. Con questa inchiesta sono stato il primo e per molti anni l’unico giornalista in Italia e in Europa ad avere denunciato la predicazione islamista della Sharia in Italia e in Europa intesa come obbligo di tutti gli immigrati musulmani.