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LE GRANDI PANZANE VITTORIOSE DI TRUMP SEGNO DELLA NOSTRA EPOCA

Mentre è possibile che il riconteggio dei voti in tre Stati degli Usa tolga la poltrona presidenziale sotto il sedere di Trum prima che ve lo appoggi, sfrattandolo dalla Casa Bianca prima ancora che ci si installi, vale la pena leggere questo articolo.  Illuminante fin dal titolo.

Vivere ai tempi della post-verità

Post-truth, cioè post-verità, è la parola dell’anno per l’Oxford dictionary. La prima notizia è che l’uso di questo termine cresce del duemila per cento nel 2016 rispetto all’anno precedente. Il termine “denota o si riferisce a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli a emozioni e credenze personali nel formare l’opinione pubblica”. Volendo, potete anche dare un’occhiata al breve video che segnala le altre parole prese in esame per quest’anno: tutte assieme, costituiscono una interessante rassegna delle tendenze e delle idiosincrasie contemporanee.

Tra tutte le parole considerate, post-truth è apparsa come quella che, per dirla con Katherine Martin, a capo dell’edizione americana dell’Oxford dictionary, cattura meglio l’attuale spirito del tempo e ha il potenziale per restare “culturalmente significativa nel lungo periodo”.

Siamo proprio messi bene.

La seconda notizia interessante è che, come non sempre succede, la medesima parola è selezionata dall’Oxford dictionary sia per gli Stati Uniti sia per il Regno Unito. Del resto, tra Brexit e Trump, entrambi i paesi hanno avuto la loro dose da cavallo di post-verità.

Le notizie di Pinocchio
La terza notizia interessante è che la scelta del termine post-truth era stata compiuta già prima che i risultati delle elezioni americane fossero noti. È proprio la recente campagna elettorale statunitense a offrirci una collezione di elementi tale da restituire una vivida idea di quel che significa vivere ai tempi della post-verità.

Dovete sapere che i fact-checker del Washington Post valutano il grado di verità delle affermazioni assegnando Pinocchi. Un Pinocchio corrisponde a una quasi-verità, due Pinocchi sono una verità con omissioni o esagerazioni, tre Pinocchi sono una quasi falsità, o una verità espressa in maniera molto fuorviante, quattro Pinocchi sono una bufala totale.

La verità o la falsità palese sono ininfluenti in termini di successo politico, ma a spararle davvero grosse poi si vince

Infine, un Pinocchio capovolto corrisponde al ritrattare un’affermazione precedente facendo finta di niente, e un segno di spunta (o Geppetto) corrisponde alla pura verità. Bene: nel corso della sua campagna elettorale Trump batte ogni record collezionando ben 59 affermazioni da quattro Pinocchi, e dicendo cose come: “La disoccupazione negli Usa è al 49 per cento” – in realtà è al 5 per cento. Oppure: “Risparmierò 300 miliardi sulle prescrizioni di Medicare” – in realtà l’intera spesa ammonta a 78 miliardi. Clinton rimane nella media: cioè mente, ma più o meno quanto mentono di norma i politici, e le sue menzogne da quattro Pinocchi riguardano quasi esclusivamente la faccenda delle email.

La conclusione ottimistica è che la verità o la falsità palese sono del tutto ininfluenti in termini di successo politico. La conclusione pessimistica è invece che, a spararle davvero grosse blandendo le peggiori emozioni e credenze personali, poi si vince alla grande.

Ma vivere ai tempi della post-verità non è solo questo: mentre Trump spara impunemente raffiche di Pinocchi, più di 300 siti, in quasi la metà dei casi (140) basati a Veles, in Macedonia, e gestiti da smanettoni a cui della politica americana importa meno che nulla, diffondono in rete bufale di estrema destra, le più ghiotte, le più condivise, e dunque le più remunerative.

L’unico obiettivo degli smanettoni è raccattare milioni di clic e fare soldi grazie a Facebook e ad Adsense, la pubblicità di Google. Con le bufale sui social network si possono guadagnare anche diecimila dollari al mese. L’influenza esercitata sui risultati elettorali americani è, chiamiamola così, l’effetto collaterale di un modello d’impresa macedone tanto efficace quanto fuori di testa.

C’è un ulteriore elemento sconcertante. Il Guardian segnala l’esistenza del business macedone della bufala già a fine agosto. Google e Facebook fanno finta di niente e reagiscono solo a frittata fatta, il 14 novembre, dichiarando che non concederanno più pubblicità ai siti e alle pagine di bufale. Ma, fino a tre giorni prima, Zuckerberg negava che Facebook potesse influire sulle elezioni presidenziali, con ciò aggiungendo un ulteriore pezzetto di post-verità all’intero quadro.

Ci siamo ritirati nelle nostre camere dell’eco, ripetendoci a vicenda opinioni di cui siamo già convinti

Se fosse la trama di un romanzo distopico, ci sembrerebbe non solo esagerata, ma troppo stupida. Dai, come è possibile che, per esempio, la gente creda alla bufala che il papa sostiene Donald Trump (quasi centomila condivisioni)? E, d’altra parte, come è possibile che migliaia di analisti, sondaggisti, esperti, giornalisti brillanti e scafatissimi caschino giù dal medesimo pero per ben due volte a distanza di pochi mesi, prima con la Brexit e poi con Trump, continuando a sottovalutare la rilevanza del cocktail velenoso e pervasivo di frustrazione, disinformazione, complottismo e falsità veicolate in rete?

Oh-oh, oggi il 44 per cento della popolazione si “informa” tramite Facebook. È un fatto che, per le élite che si informano in modi più canonici, è difficile da credere, accettare e interiorizzare.

Oh-oh, oggi i social media, ai quali ci piace continuare a pensare come a uno strumento paritario e democratico di interscambio e condivisione, possono trasformarsi, e spesso si trasformano, in palazzi degli specchi nei quali ciascuno cerca e trova solo conferme alle proprie opinioni, e vede riflessi solamente se stesso, la propria rabbia e il proprio malessere.

Gli anglosassoni parlano di “camere dell’eco” (echo-chambers). Un bell’articolo dell’Independent descrive perfettamente il fenomeno delle echo-chambers, dove non esiste la verità dei fatti, perché ciascuno ha selezionato e riceve solo le notizie e i commenti con i quali concorda a priori. Ed eccoci a un altro punto interessante: “Anche noi”, scrive ancora l’Independent, “ci siamo ritirati nelle nostre camere dell’eco, ripetendoci a vicenda opinioni di cui siamo già convinti”. Dunque, ragiona l’Independent, se sono camere dell’eco le pagine d’odio alimentate, per esempio, dalle bufale macedoni, perfino il complesso dei mass media più autorevoli si è trasformato in una grande echo chamber, magari più ariosa e meglio decorata.

Uscire dalla bolla
Questo, credo, succede perché sono state fatte due cose giuste, doverose e legittime, e una sbagliata: giusto e legittimo sbugiardare bufale e menzogne, e ignorarne l’esistenza all’interno della narrazione sui mezzi d’informazione più autorevoli.

Sbagliato e ingenuo, però, sottovalutare la crescente rilevanza e il peso del fenomeno costituito dalla vorticosa diffusione delle bufale, e il conseguente avvento della post-verità. Le bufale e le credenze in sé sono false, ma il fenomeno delle bufale e delle credenze diffuse in rete è del tutto reale.

È così reale da risultare pervasivo. È così reale da causare conseguenze dirompenti. Torniamo per un momento alla Brexit: ce lo ricordiamo tutti, vero?, che nel Regno Unito molte persone sono andate a cercare in rete che cosa sia l’Unione europea solo dopo aver votato contro l’Unione europea in base a emozioni e credenze personali?

Prima, tutti chiusi a crogiolarsi nelle proprie echo-chambers.

Il New York Times disegna questa situazione offrendoci una metafora visiva potente della condizione odierna degli Stati Uniti. Due diverse immagini mostrano il paese dell’oceano trumpista e quello delle isole clintoniane. Con ogni probabilità oggi i due paesi si percepiscono, comunicano e si capiscono talmente poco che potrebbero trovarsi su due pianeti differenti, ciascuno chiuso nella bolla della sua post-verità.

Non ho la più pallida idea di come si possano concretamente migliorare le cose, restituendo all’opinione pubblica nel suo complesso una più fedele e meno post-veritiera rappresentazione del reale. So anche che la complessità del reale è così scoraggiante da spingerci tutti, élite comprese, a rifugiarci ciascuno nella propria bolla.

L’unica cosa di cui sono certa è che per cominciare a prendere contatto con il problema bisogna che qualcuno esca dalla sua bolla. Farlo è sgradevole, è destabilizzante e chiede una serie di assunzioni di responsabilità. Ci vogliono calma, coraggio, realismo e buonsenso: qualità sempre più rare e difficili da coltivare, ai tempi della post-verità.

Articolo tratto da http://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2016/11/22/post-verita-facebook-trump

 

Ballando sull’orlo della fine dell’Europa: “Venghino, siòri, venghino: dopo le panzane sulle atomiche di Saddam ora vi rifiliamo le panzane sulle atomiche di Gheddafi e di Ahmadinejad”. Così Israele, forse in interessata compagnia di Londra, può realizzare il vecchio sogno di bombardare l’Iran, uno dei due motivi per il quale è stato eletto Netanyahu (l’altro è impedire a tutti i costi che nasca lo Stato palestinese)

E’ difficile da credere, ma ormai viene dato per certo che con la classica scusa della “produzione di bombe atomiche”, sperimentata con successo dagli USA per invadere l’Iraq, Israele attaccherà quanto prima l’Iran, con l’appoggio degli inglesi, per mettere anche la Casa Bianca di fronte al fatto compiuto. Il presidente Obama infatti, per timore di perdere voti, è contrario a una tale azione militare prima della sua rielezione, ma alcuni collaboratori lo esortano invece ad autorizzarla e appoggiarla perché ricompatterebbe l’elettorato riportandolo di sicuro alla Casa Bianca e scongiurando la temuta candidatura di Hilary Clinton, sempre più popolare nell’elettorato non solo del Partito Democratico. E’ dal 2006 che l’attacco militare all’Iran da parte degli Usa e di Israele viene dato per imminente e certo, senza però che sia poi stato sferrato. Ecco per esempio cosa dichiarava nel 2006, poco dopo la terza invasione israeliana del Libano, Seymour Hersh, il famoso giornalista americano che ebbe il coraggio di denunciare il massacro di tutti gli abitanti di My Lai compiuta dai marine in Vietnam e che per primo ha denunciato le torture americane nel carcere iracheno di Abu Ghraib:

L’amministrazione Bush era molto direttamente impegnata nel pianificare la guerra libanese-israeliana. Il presidente Bush ed il vice presidente Cheney erano convinti che il successo della campagna militare israeliana in Libano avrebbe non soltanto raggiunto gli obiettivi desiderati da Tel Aviv, ma sarebbe anche servito come preludio ad un possibile attacco contro le strutture nucleari iraniane”.

La scusa è anche oggi quella del “pericolo atomico” iraniano. Nella vulgata corrente infatti l’Iran sarebbe così idiota e suicida da produrre atomiche per affrettarsi a lanciarne già la prima su Israele, nonostante Israele di atomiche ne possieda circa 400 e possa quindi cancellare non solo l’Iran dalla faccia della terra. Senza contare che la signora Clinton ha dichiarato senza arrossire di vergogna che “prima di finire di schierare per il lancio il suo primo missile nucleare l’Iran sarebbe riportato all’epoca delle caverne”, con un olocausto fulmineo di oltre  80 milioni di esseri umani, più o meno quanti ne ha  l’Italia intera. Embé c’è olocausto e olocausto. Quello sulla pelle di 70-80 milioni di iraniani evidentemente per la signora Hilary&C è buono, nonostante sia ben 12-14 volte quello che purtroppo c’è stato davvero per mano dei nazisti. Continua a leggere