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NEWS del 10 maggio 2025

È normale che, in certe famiglie, dove l’educazione dei genitori è stata molto severa, i figli si ribellino. A volte si tratta proprio di scontri generazionali, come quelli accaduti durante la contestazione operaio-studentesca, che all’incirca coinvolse il decennio 1968-78.
Ecco, in un certo senso si può dire la stessa cosa per spiegare l’odio che gli ex Paesi sovietici provano nei confronti dell’attuale Russia. Non riescono a liberarsi da quell’incubo che hanno vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale all’implosione dell’URSS (1945-91), ch’era poi l’incubo del socialismo statalizzato, cioè di quel socialismo da caserma o poliziesco che lo stalinismo volle imporre senza tante discussioni, semplicemente avvalendosi del fatto che il nazi-fascismo era stato soprattutto sconfitto dal comunismo sovietico.
Oggi l’odio è così forte che viene addirittura messa in dubbio l’attribuzione di tale vittoria. Si guarda la storia con una visione deformata e si distruggono i monumenti che la fanno ricordare. E a nessuno importa che la stessa Russia abbia fatto il “mea culpa” per gli errori compiuti nel passato. Gli Stati che la odiano continuano a ripetere che, nella sostanza, è rimasta uguale a se stessa e che Putin è un dittatore come tutti gli altri.
Tuttavia, guardando bene questi Stati che, con tanta fatica, si sono liberati del cosiddetto “socialismo reale”, si resta molto delusi dalle alternative che sono riusciti a costruire. Praticamente sono tutti passati dalla padella del socialismo statale alla brace del capitalismo privato di marca euro-americana. Prima avevano un’uguaglianza imposta, ora hanno una libertà fittizia. Hanno fatto le loro rivolte, le loro rivoluzioni, i loro colpi di stato per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano (ad eccezione ovviamente degli oligarchi e dei soliti noti).
In effetti non è semplice passare da un socialismo statale a uno democratico. Sembra che nessuno Stato vi sia riuscito, anzi, sembra che nessuno “Stato” vi possa riuscire. Infatti, nel mentre si compie il tentativo, arrivano subito i canti delle sirene di Ulisse, con le loro promesse mirabolanti, le loro fantastiche illusioni…
Ecco, la guerra russo-ucraina può essere inserita in questo contesto: i russofoni del Donbass preferiscono tornare alla “madre Russia”, piuttosto che soffrire sotto i nazionalisti e neonazisti di Kiev.
Avevamo già visto una cosa del genere coi russofoni della Transnistria in Moldavia e con quelli dell’Abcasia e Ossezia del Sud in Georgia. Ora cominciamo a vederla, molto timidamente, con l’Ungheria di Orbán, la Slovacchia di Fico, la Serbia di Vučić. E possiamo scommettere che qualcosa di simile la vedremo anche coi Paesi Baltici.
Certo, non si tratta sempre di aspirazioni da parte di russofoni, ma piuttosto di rivendicazioni di maggiore sovranità nazionale da parte di taluni Stati che, dopo essere entrati nell’Unione Europea, ora cominciano a chiedersi come uscirne e come aderire alla nuova formazione geopolitica chiamata BRICS+, che tanto successo ha avuto, grazie al proprio multipolarismo, in questi ultimi tempi.
La domanda cui tutti dovremmo cercare di rispondere è però un’altra: esiste una terza via tra socialismo e capitalismo? No, non c’è, ma questo non vuol dire che sia facile costruire la democrazia. La Russia non vinse il nazi-fascismo perché aveva un socialismo migliore, ma perché l’intera popolazione avvertì che quella era una “guerra esistenziale”, in cui l’alternativa era “vivere o morire”.

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Bisogna ammettere che fa abbastanza impressione vedere una fetta di mondo concentrata sull’elezione del nuovo pontefice, che parla di “pace disarmata e disarmante”, e un’altra fetta di mondo che assiste alla parata di un esercito che chiede la pace esibendo la propria forza.
Istintivamente vien voglia di credere che le parole di Leone XIV siano più umane, più democratiche di quelle di Putin. Ripensandoci un po’, invece, è tutto il contrario.
Il papa è sicuramente una figura politica, oltre che religiosa, altrimenti non ci sarebbe questo gran clamore sulla sua intronizzazione. In un mondo in guerra come il nostro (in cui si spara non solo coi cannoni, ma anche con sanzioni embarghi dazi e confische di beni privati e statali) è normale che popolazioni inermi, sprovvedute, ripongano le loro ultime speranze in una sorta di “pastore superman”, dotato di poteri sovrumani.
Non si sono mai viste analoghe aspettative in altre confessioni, né queste ambiscono a coltivarle. Alcuni considerano Prevost l’unico vero statista internazionale: negli USA addirittura la destra più conservativa lo qualifica come “marxista”!
Purtroppo però al cattolicesimo romano è rimasto solo il papa per sopravvivere. Questa infatti è una confessione piena zeppa di scandali, anche molto gravi, da cui ha sempre meno forza per uscire. Tant’è che gli stessi pontefici li coprono, anche perché spesso vi è coinvolto l’alto clero.
È vero, ogni tanto dai papi vengono fuori parole indovinate, come quando Bergoglio parlò della NATO che abbaia alle porte della Russia, o come quando disse a Zelensky che arrendersi non è umiliante.
Tuttavia, in genere, proprio mentre parlano di pace senza fare riferimento alla giustizia e alla sicurezza collettiva, non fanno altro che avvalorare l’arroganza dell’occidente globalista e unipolare.
Non serve a niente parlare in astratto, senza entrare nel merito dei problemi. Alla fine non si fa altro che favorire il culto della personalità e le illusioni che i conflitti possano essere risolti da una sorta di messia spirituale, equidistante dai cosiddetti “potentati”.

Comprendere e confrontarsi

A volte mi stupisco che le cose, nella storia, si ripetano in maniera così straordinaria, seppur nell’ovvio mutamento di forme e modi.
La differenza tra forme e modi è nota: le prime riguardano la materialità della vita, che incontriamo nascendo; i secondi invece riguardano i rapporti umani, che si costruiscono strada facendo. Forme e modi s’influenzano a vicenda.
Ma perché cambiano forme e modi e non cambia la sostanza dell’essere umano? Perché, se siamo umani, abbiamo il libero arbitrio, che ci permette, entro certi limiti, di fare determinate scelte.
I limiti sono predeterminati, nel senso che non è possibile compiere azioni di bene o di male la cui bontà o malvagità sia infinita o illimitata. Ci muoviamo in un range che appartiene alla nostra natura umana.
Viceversa la sostanza o essenza (in italiano non facciamo molta differenza tra le due parole) dev’essere sempre quella, altrimenti tra gli esseri umani la reciproca comprensione sarebbe impensabile. “L’essere è e non potrebbe non essere”, sentenziava Parmenide, pur senza capire che il “non essere”, cioè la negatività, può essere di aiuto, indirettamente, alla coscienza della libertà. Tutto serve nella vita, se lo si sa prendere nella giusta misura.
Se esistesse una dimensione ultraterrena in cui vivono tutti gli esseri umani che ci hanno preceduti, dovrebbe per forza essere possibile confrontarsi con ognuno di loro, senza alcuna eccezione. E il confronto non dovrebbe servire solo per “capirsi”, nel senso di “intendersi”, come quando due persone parlano lingue diverse, ma anche e soprattutto per “comprendersi”, che è un di più, cioè una specie di condivisione della giustezza di determinate scelte: diciamo una forma di compartecipazione.
A volte, di fronte a certe situazioni, siamo soliti dire una frase rituale: “Lo capisco ma non l’accetto” (cioè non lo giustifico). Viceversa, quando si pensa, implicitamente, al verbo “comprendere”, la frase dovrebbe essere questa: “Al tuo posto avrei fatto la stessa cosa”.
Ma come si fa a sapere che una certa scelta è giusta? Esiste appunto il “confronto”, da non confondere con quella parola che, nel linguaggio politico, traduce l’inglese “confrontation”, che vuol dire l’opposto. Nessuno ha la scienza infusa, nessuno è infallibile.
Ecco, quando vedo certi statisti contemporanei, così chiusi nei loro pregiudizi, così attaccati ai loro interessi, penso che manchino proprio della capacità di “confrontarsi” con le esigenze altrui. Non riescono proprio a comprenderle. Ebbene, non credo sia possibile che gente così mentalmente gretta e moralmente cinica abbia il diritto di governare intere popolazioni.

REITERAZIONI STORICHE E DISASTRI ECONOMICI

Nell’antica civiltà romana si doveva essere sempre in guerra per poter avere quanti più schiavi possibile. Gli schiavi arricchivano in varie maniere: erano oggetto di compravendita, come oggi le azioni di borsa; svolgevano lavori domestici o produttivi al posto delle persone giuridicamente libere; intrattenevano il pubblico con giochi o sport di vario genere; istruivano i figli degli schiavisti, se erano intellettuali, ecc.
Quando non fu più possibile continuare le guerre in maniera facilmente vittoriosa, in quanto il nemico aveva capito come difendersi efficacemente, gli schiavi ovviamente diminuirono. Ma siccome gli schiavisti volevano continuare a vivere una vita comoda, pensarono, astutamente, di trasformare il rapporto sociale da schiavile a servile. Cioè allo schiavo potevano essere riconosciuti taluni diritti, se in cambio continuava a sentirsi in obbligo nei confronti del proprio padrone. Fu così che nacque il Medioevo, una civiltà rurale, assai poco urbanizzata, almeno sino al Mille.
Quando le popolazioni germaniche e asiatiche fecero a pezzi l’impero romano d’occidente non conoscevano come sistema di vita né lo schiavismo né il servaggio, però nei confronti di quest’ultimo ebbero un certo apprezzamento. E quelle, di loro, che si convertirono al cattolicesimo-romano, furono le più fortunate. I Franchi, in particolare, diventarono egemonici in tutta l’Europa occidentale, il cui sovrano, spalleggiato dalla Chiesa, pretendeva addirittura di qualificarsi come imperatore del sacro romano impero, un titolo che in quel momento spettava solo al basileus bizantino.
Oggi sta avvenendo qualcosa di simile. L’occidente collettivo non è più in grado di espandersi, non solo sul piano militare, ma neppure su quello economico e finanziario. Glielo impediscono Russia, Cina, India e, in genere, i Paesi dei Brics+ o del Sud Globale.
Questo vuol dire che USA, UE, ecc. dovranno per forza abbassare, entro i propri confini, gli standard consueti di benessere. Le popolazioni protesteranno, perché non abituate a eccessive restrizioni. Si lasceranno strumentalizzare dai poteri dominanti per compiere nuove guerre, che inevitabilmente risulteranno perdenti, poiché il declino non potrà essere fermato. Dopodiché i cittadini saranno costretti a subire sempre maggiori controlli, da parte di poteri sempre più autoritari, sempre più militarizzati. Si può persino scommettere che il fulcro vitale si trasferirà dalle città alle campagne, e che la gente rinuncerà alla propria libertà giuridica pur di sopravvivere.

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Dietro Trump, che non sa nulla di economia, c’è Scott Bessent, ex chief investment officer di Soros Fund Management e figura influente nei circuiti della finanza globale.
Dall’alto della sua sapienza ha detto queste parole dal sapore magico: “Il governo degli Stati Uniti non andrà mai in default. Aumenteremo il tetto del debito.”
Per lui non sono niente 36 trilioni di dollari di debito (122% del PIL). In fondo il Giappone ha una percentuale doppia e nessuno se ne preoccupa. L’importante è che gli USA abbiano la fiducia di chi crede nella loro capacità di pagare i tassi d’interesse sul debito.
Tuttavia non è molto rassicurante sapere che gli USA possono evitare l’insolvenza non per solidità economica, ma perché stampano moneta a volontà, scaricandone il peso su inflazione e mercati esterni.
Finché il mondo accetta dollari, Washington non fallisce. Questo lo sappiamo, ma sarebbe meglio non darlo per scontato. Anche perché la crescente de-dollarizzazione promossa da BRICS e ASEAN mette a nudo la fragilità strutturale del sistema, che si regge in piedi solo con le stampelle.
Non è una bella cosa che il “tetto del debito” venga alzato tutte le volte che lo richiede la politica. L’economia ha proprie leggi, che non dipendono dalla volontà dei governi. Nessuno è obbligato a comprare i titoli di stato americani. Non foss’altro che per un sospetto: quando un impero afferma di non poter fallire, è il segno che ha già cominciato a temere il crollo.

Quale villaggio globale

Uno potrebbe chiedersi che male ci sia a vivere l’intero pianeta come un unico villaggio globale. Nessuno, se per “villaggio globale” s’intendesse qualcosa di libero, aperto, senza barriere o confini, senza pretese di dominio o di sfruttamento di risorse altrui.
Purtroppo però, anche quando gli esseri umani mostrano d’avere delle idee apprezzabili, le vivono nel modo peggiore. Non a caso molti ritengono che la nostra specie (o comunque quella sapiens) sia nata o si sia evoluta con un bug letale. Sembra che noi tutti si sia destinati all’autodistruzione, in forza del fatto che le nostre armi, col tempo, non lasciano scampo a nessuno, ovunque si viva.
Può darsi che la natura abbia da guadagnare dal nostro destino, riprendendosi ciò che le abbiamo sottratto. Ma per i sopravvissuti all’apocalisse sarebbe una magra consolazione apprezzare la rinascita della natura in cambio di uno spopolamento catastrofico del genere umano.
Possibile che non ci sia una via di mezzo tra libertà personale, giustizia sociale, tutela ambientale? Probabilmente, per quanti sforzi si possa fare, non c’è. Forse perché partiamo da un punto di vista sbagliato. Lo facciamo tutti, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Siamo tutti fermamente convinti che il modo migliore per trasformare qualcosa di “informe” in qualcosa per noi apprezzabile, vantaggioso sia quello di utilizzare una tecnologia così evoluta da rendere il nostro lavoro sempre meno faticoso.
Cerchiamo un benessere in cui la fatica sia ridotta al minimo. È evidente che con una tale visione delle cose a rimetterci sono le popolazioni con una tecnologia meno evoluta. La stessa natura, lì per lì, sembra non essere in grado di opporsi alle nostre pretese egemoniche, salvo poi farcelo capire dopo un certo tempo, quando avvengono taluni fenomeni atmosferici molto preoccupanti, come desertificazione dei suoli, scioglimento dei ghiacciai, surriscaldamento dei mari, inquinamento dell’aria, esondazioni dei fiumi, e così via.
L’evoluzione per noi è diventata sinonimo di artificiosità. Quanto più ci sentiamo lontani dalla naturalità delle cose, tanto più ci sentiamo avanzati. Aspiriamo a recuperare qualcosa di naturale nel tempo libero, e ci illudiamo di trovarlo, pur sapendo che abbiamo tutto antropizzato. Ci mancano persino i parametri per distinguere una cosa dall’altra. Non abbiamo neanche la manualità per compiere azioni che non siano caratterizzate da qualcosa di evoluto. Chi riuscirebbe a sopravvivere in una foresta dopo essere sopravvissuto a una guerra urbana?
È importante pensare a queste cose, poiché, anche nel caso in cui un vero ideale di giustizia prevalesse su una palese violazione dei diritti umani, alla fine resta sempre la domanda di fondo: “Adesso che facciamo perché la cosa non si ripeta? Esiste un paradigma positivo cui possiamo fare riferimento in maniera oggettiva?”.