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“In Israele il terrorismo ha vinto già 20 anni fa” (in realtà da 65)

L’israeliano Etgar Keret autore per il Corriere della Sera del seguente  articolo riconosce che con l’uccisione venti anni fa del primo ministro Yitzahk Rabin, colpevole agli occhi di settori del rabbinato, delle forze armate e dei servizi segreti di volere la pace con i palestinesi, in Israele ha vinto il terrorismo. Che infattti è riuscito a bloccare la via della pace facendo imboccare la Israele la via disastrosa e sanguinosa della guerra permanente e della dittatura militare sui territori palestinesi, che, non dimentichiamolo, sono governati dall’arbitrio di ufficili militari.

In realtà però in Israele il terrorismo ha vinto sin dalla sua nascita, anzi fin dalla sua gestazione. Nel ’48 infatti è proseguita la “pulizia etnica” iniziata già l’anno prima contro i palestinesi, cacciati in massa con le armi – almeno 700 mila esseri umani – dalle loro case e dalle loro terre (cosa di cui non si parla mai, sono stati derubati in massa anche dei loro risparmi depositati in banca e dei gioielli delle loro donne) perché colpevoli di trovarsi nella parte della Palestina assegnata dall’Onu in maggior parte alla minoranza ebraica. Tale violenta pulizia etnica è stata condotta con l’esecuzione dell’ormai famoso Piano D, studiato fin nei minimi particolari già da anni e tradotto in realtà da bande militari e paramilitari con la bandiera della stella di Davide.

L’esistenza del Piano D è stata rivelata decenni dopo dai “nuovi storici” israeliani come Ben Morris e Ilan Pappè, che servendosi degli stessi archivi militari finalmente resi almeno in parte accessibili hanno scoperto e reso pubblico che la nascita di Israele, alla pari di quella di molti Stati specie nelle Americhe, è stata realizzata “con la violenza, la menzogna e il sangue”. Ovviamente a spese dei più deboli.

E sempre nel ’48, per l’esattezza il 17 settembre, venne ucciso a Gerusalemme dai terroristi israeliani della banda Stern l’inviato dell’Onu conte Volke Bernadotte, colpevole di voler rendere operante la soluzione dell’Onu che prevedeva la nascita anche dello Stato palestinese. E non dimentichiamo che i successivi uomini di governo  israeliano provenivano, compreso lo stesso Rabin, dalle fila della banda Stern e delle altre organizzazioni che nel ’47 avevano cacciato brutalmente i palestinesi tramite l’esecuzione del Piano D.

Tutto ciò premesso, ecco l’articolo di Etgar Keret:

“Quella dell’assassinio di Rabin non è una storia nuova. È una storia che noi israeliani ci raccontiamo da venti anni. Alcuni dettagli sono scomparsi col passar del tempo ma il pathos si è intensificato e alla fine siamo rimasti con la seguente versione: vent’anni fa qui regnava un re coraggioso e benvoluto, pronto a fare qualsiasi cosa per il bene del suo popolo. Un giorno, dopo aver radunato il popolo nella piazza principale della città e aver cantato insieme un inno alla pace, l’amato sovrano fu assassinato da uno dei suoi sudditi che, con tre colpi di pistola, non solo uccise lui ma anche la speranza della pace. Al posto di quel monarca ne arrivò un altro, grande nemico del precedente, che sostituì la speranza con il sospetto e con una guerra senza fine.

Ogni anno raccontiamo a noi stessi questa storia triste e piena di autocommiserazione in cui c’è tutto ciò che serve: un eroe, un malvagio, un crimine imperdonabile e una brutta fine. Manca però una cosa, un personaggio chiave che è stato cancellato dalla trama senza che quasi ce ne accorgessimo: il popolo di Israele.
Infatti, per quanto sia triste ammetterlo, Benjamin Netanyahu non ha strappato la corona a Rabin dopo la sua morte autoproclamandosi re. Netanyahu è stato eletto dopo la morte di Rabin nel corso di elezioni democratiche. Lo stesso popolo che ha pianto la morte dell’amato sovrano ha scelto Netanyahu subito e senza esitazione, accantonando completamente l’idea della pace, rieleggendolo più volte e optando per la sua linea politica. Così, a distanza di tempo, l’assassinio di Yitzhak Rabin si è rivelato uno degli omicidi politici più riusciti dell’era moderna che deve il suo successo non solo alla mano ferma del killer ma anche al popolo di Israele, il quale ha aiutato l’assassino a promuovere la sua visione ideologica.

La storia è piena di assassinii politici che hanno ottenuto l’effetto opposto di quello auspicato dai loro esecutori. L’assassinio di Martin Luther King promosse il processo di uguaglianza dei neri e quello di Lincoln non ripristinò la schiavitù negli Usa. Quello di Rabin, invece, ha realizzato il progetto dell’assassino, Yigal Amir, e fermato il processo di pace. Ma Amir non sarebbe riuscito nella missione senza l’elezione di Netanyahu da parte di noi cittadini d’Israele. Quel Netanyahu che pochi mesi prima aveva incitato le piazze a opporsi a Rabin e al processo di pace. Così, nella vera storia, a differenza di quella che noi amiamo raccontarci, il popolo di Israele non è solo vittima ma anche partner del crimine. E in questa tragedia, come in ogni tragedia, il castigo non è tardato a venire.

Vent’anni dopo l’assassinio di Rabin siamo nel pieno di una nuova ondata di terrorismo. La prima Intifada, iniziata più di venti anni fa con lanci di sassi e accoltellamenti durante gli accordi di Oslo, si fece via via più ingegnosa. Terroristi suicidi cominciarono a farsi saltare in aria con cinture esplosive e infine si passò a una grandine di missili. Ora siamo al punto di partenza, ai brutali accoltellamenti e ai lanci di pietre. Sembra che più si vada avanti, più le cose rimangano le stesse. O forse, sarebbe giusto dire, «quasi le stesse». In questa seconda ondata di accoltellamenti, infatti, le atrocità sono le stesse ma qualcosa per noi, cittadini di Israele, è cambiato. E il cambiamento si è avvertito soprattutto in occasione del linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo scambiato per un terrorista avvenuto a Be’er Sheva una settimana fa. Nonostante non avesse compiuto alcun gesto minaccioso né avesse armi da fuoco con sé, Zarhum è stato colpito con sei proiettili e quando già giaceva a terra sanguinante è stato picchiato da alcuni presenti, preso a calci e colpito in testa con una pesante panchina. Uno degli aggressori, arrestato dopo il fatto, ha detto: «Se fosse stato un terrorista tutti mi avrebbero ringraziato». Certo non sarebbe stato condannato dai ministri membri del governo che hanno chiesto di rendere più flessibili le norme che regolano l’uso delle armi da fuoco. E non sarebbe stato condannato nemmeno da uno dei leader dell’opposizione, Yair Lapid, secondo cui troppi terroristi palestinesi vengono catturati vivi. Il tono dominante nei corridoi della Knesset durante l’attuale ondata di terrore è chiaro: dimenticate le regole e il rispetto della legge, chiunque brandisce un coltello, merita la morte.

L’assassinio di Rabin, vent’anni fa, ha segnato un punto di svolta. Che, contrariamente a quanto la maggior parte di noi ama pensare, non è quello in cui abbiamo smesso di prendere l’iniziativa e siamo diventati vittime. Quel riuscito omicidio a sfondo ideologico non ha influito sul grado di controllo che abbiamo sulle nostre vite ma solo sul sistema di valori in base al quale alcuni di noi scelgono di agire. Di recente, a una figura di spicco dei coloni, Daniella Weiss, è stata fatta una domanda a proposito delle minacce di morte ricevute dal presidente di Israele Reuven Rivlin da parte di elementi dell’estrema destra. «Nessuno ucciderà Rivlin», ha risposto lei sprezzante, «non è abbastanza importante». E con questa affermazione ha rivelato una dolorosa verità: in Israele, dopo l’era Rabin, un omicidio politico viene visto non solo come un trauma nazionale ma anche come uno strumento pragmatico, efficace e sempre presente in sottofondo, capace di ribaltare la situazione.

E così, nel ventesimo anniversario dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin gli israeliani moderati continuano a sperare in due cose: in un nuovo e coraggioso leader che riesca a riempire il grande vuoto lasciato da Rabin e, nel caso si trovi un simile leader, che non venga ucciso pure lui”.

Per la Chiesa ci sono copti e copti: protesta, giustamente, per la strage dei 21 ad Alessandria d’Egitto, ma continua a tacere sui 1.600 monaci copti etiopi massacrati dagli italiani. Le (inesistenti) “offese agli ebrei” dell’ex Nar romano Francesco Bianco, ultimo caso delle sempre più sbracate bufale sul “dilagare dell’antisemitismo”

1) – Il Vaticano e la Chiesa italiana continuano a mantenere viva l’attenzione e la condanna per la strage di 21 cristiani copti a Capodanno ad Alessandria d’Egitto. Il cardinale Bagnasco nelle ultime ore ha pubblicamente invocato l’intervento della Comunità Europea a protezione dei copti e dei cristiani in genere nei Paesi dove non sono ben visti. Iniziativa condivisibile. Le stragi di fedeli, per giunta in una chiesa mentre pregano, sono infatti una cosa particolarmente orribile, quale che sia la fede delle vittime. Però in questo caso l’intervento della Chiesa italiana e del Vaticano sorprendono. Il problema non è solo il loro silenzio nei confronti delle vittime musulmane della guerra angloamericana in Iraq, silenzio denunciato nei giorni scorsi dalla maggiore autorità religiosa musulmana d’Egitto, o nei confronti dei bombardamenti “per errore” della Nato in Afganistan che fanno stragi di civili innocenti, bambini compresi, anche alle feste di matrimonio. A essere pignoli ci sarebbe da notare che papa Wojtyla dopo avere inutilmente scongiurato l’intervento in Iraq, patrocinando di fatto il movimento pacifista Arcobaleno, si è poi affrettato a invocare “Dio benedica l’America!” non appena il mentitore guerrafondaio George W. Bush andò a fargli visita in Vaticano. Ma tralasciamo.

Quello che non convince è invece il fatto che il Vaticano e la Chiesa italiana PRIMA di protestare, giustamente, per la strage dei copti d’Alessandria dovrebbero pubblicamente ammettere d’avere sbagliato e chiedere perdono per il silenzio tombale con il quale nascosero la strage di almeno 1.600 monaci copti per mano italiana nel 1937 in Abissinia, oggi Etiopia ed Eritrea. Pur di non dispiacere al Cavaliere di turno, l'”uomo della Provvidenza” Benito Mussolini e ai suoi fascisti, che avevano invaso l’Abissinia, il Vaticano fece spallucce per la rappresaglia al fallito attentato al maresciallo Graziani, rappresaglia che sterminò dai 4.000 ai 20.000 civili abissini, e tacque totalmente e vergognosamente per la strage di tutto il clero copto della capitale religiosa di Debre Libanos: almeno 1.600 tra monaci, giovani seminaristi e ragazzini chierici. In totale, l’equivalente di 20-50 volte la strage delle Fosse Ardeatine perpetrata a Roma dai nazisti tedeschi. Continua a leggere