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Quale nuovo rapporto tra scienza ed etica?

Vi è qualcosa di apparentemente poco spiegabile nello sviluppo della scienza e tecnologia occidentale. Al tempo della Grecia classica, tra i filosofi della natura, pochissimi tenevano separata la scienza dall’etica; e anche quando lo facevano (p.es. con Anassagora e Democrito), era solo per poter affermare meglio l’indipendenza della natura da qualunque cosa, cioè i princìpi dell’ateismo. Nella vita privata, infatti, questi filosofi-scienziati tenevano un comportamento etico ineccepibile, mostrando che una professione di ateismo non comportava affatto la rinuncia ai valori morali.

La cosa strana è che tenevano unite scienza ed etica all’interno di un contesto sociale, così fortemente caratterizzato dallo schiavismo, che avrebbe invece dovuto indurli a fare il contrario. Nell’ambito dello schiavismo, infatti, il concetto di “persona” è quasi inesistente. Non si riconoscono i cosiddetti “valori umani fondamentali”, quelli inalienabili, che si possiedono in quanto appunto si fa parte del genere umano. Lo schiavismo è la negazione esplicita della libertà della persona, e quindi della possibilità di avere una propria identità, di essere ritenuto responsabile delle proprie azioni. Essere “giuridicamente libero” era in assoluto la cosa più importante di tutte.

Generalmente si aveva una concezione molto negativa dello schiavo: lo si considerava un fannullone, un bugiardo, un ladro, uno poco abituato a pensare, in quanto tenuto soltanto a obbedire, uno di idee opportunistiche, tendenzialmente amorali, in quanto, pur di avere il consenso del proprio padrone, sarebbe stato disposto a dire o a fare qualunque cosa. Lo schiavo non aveva alcun diritto e andava costantemente sorvegliato. Agli schiavisti non interessava sapere che molti di questi comportamenti erano proprio il frutto di una condizione di forte subalternità. Preferivano dipingere i loro schiavi con mille difetti pur di giustificare l’esigenza di sottometterli e di muovere guerra a popolazioni ritenute, per definizione, “inferiori”.

D’altra parte sia i Greci che i Romani ritenevano se stessi i migliori popoli del mondo allora conosciuto: non avrebbero potuto esprimere pareri favorevoli neanche nei confronti degli stranieri liberi, a meno che tali stranieri non mostrassero una particolare intelligenza, mettendola al servizio della stessa civiltà greca o romana.

Dunque il fatto che i filosofi della natura tendessero a non separare la scienza dall’etica non può certo essere attribuito alla presenza dello schiavismo. Almeno non direttamente. Infatti indirettamente lo schiavismo c’entra. La storia dimostra che là dove esso è presente, la scienza si sviluppa poco in senso tecnologico.

La regina delle scienze pratiche, nel mondo antico, era la medicina, che aveva saputo unire alla plurisecolare fitoterapia uno studio accurato del corpo umano. Viceversa la regina delle scienze teoriche era la matematica, che però aveva scarsa applicazione alla fisica (salvo la leva e gli specchi di Archimede, p.es.) e, ancor meno, all’economia (ferma all’uso dell’abaco). La matematica poteva essere applicata all’astronomia (p.es. per stabilire fasi lunari, equinozi, eclissi, ecc.), all’arte (in riferimento alla proporzione tra le parti), all’architettura (per tenere in piedi i ponti, per stabilire la pendenza degli acquedotti, per edificare teatri, anfiteatri, archi di trionfo ecc., si doveva per forza fare dei calcoli), all’arte militare (per costruire un campo, misurare la parabola dei proiettili, l’efficacia delle armi…).

Ma in fondo era una matematica abbastanza semplice; più che altro era una geometria, che si avvaleva di mezzi facili da costruire e di molta esperienza personale, basata su prove ed errori. Generalmente si sostiene che dal 2500 a.C. al 500 d.C. lo sviluppo tecnologico fu relativamente scarso. Quello che mancava alle civiltà schiavistiche era la sperimentazione in laboratorio, cioè la capacità di riprodurre, in forma ridotta e quindi simulata, le condizioni presenti in natura o in società. Non si avvertiva la necessità di fare progressi significativi in campo tecnico-scientifico o, quanto meno, di renderli di dominio pubblico.

Per conquistare i territori altrui ci si affidava alla forza fisica dei militari (fanti e cavalieri). Quando si ricorreva a una strumentazione ingegneristica (per costruire catapulte, torrette, arieti…), si usava sempre la stessa, quella consolidata per espugnare una città, una rocca, un bastione fortificato… Anche quando si costruivano navi militari, la forza propulsiva era sempre determinata dagli schiavi rematori.

Chi comandava si accontentava di vincere con la forza dovuta alla quantità numerica dei militari e ovviamente alla loro destrezza, frutto di accurati addestramenti. Tutto il resto veniva considerato accessorio. Semmai si considerava rilevante il coraggio da mostrare di fronte a un nemico temibile.

Quindi il mancato sviluppo di una tecnologia avanzata era dovuto proprio al fatto che la presenza dello schiavismo lo riteneva irrilevante. L’imperatore Vespasiano addirittura puniva chi provava a migliorare la tecnologia. D’altra parte la principale ricchezza era data solo da due cose: terre e schiavi. Chi si dedicava al commercio aveva più che altro esigenza di sicurezza, in quanto faceva degli investimenti rischiando di perderli.

In una società schiavista è già molto se si riesce a essere liberi, e chi lo è non può essere troppo tenero con gli schiavi, proprio perché sa che la sua libertà dipende anche dalla loro sottomissione. Ecco perché allo schiavista non si negava mai il diritto di vita e di morte sui propri schiavi.

In epoca moderna invece i ragionamenti sono molto diversi. In Europa occidentale, priva di schiavitù, come si poteva affermare, al tempo di Galilei, la propria esigenza al successo economico? Il cristianesimo aveva introdotto il concetto di “persona”, stabilendo che di fronte a dio si è tutti uguali e che nel paradiso entravano soltanto le persone che sulla terra si era pentite dei loro peccati o che avevano subìto ingiustizie. Lo stesso Cristo s’era fatto “servo” per redimere l’umanità dal peccato originale, per insegnare la legge dell’amore universale.

Certo, sulla terra il cristianesimo non chiedeva di eliminare lo schiavismo; però, siccome spostava nell’aldilà la realizzazione effettiva della libertà personale, era evidente che uno schiavo cristiano, rimasto fedele al suo padrone, anche quando questi lo trattava male, poteva essere considerato dalla chiesa un modello da imitare.

Tuttavia, sulla base di questa concezione di vita non poteva svilupparsi la scienza. Infatti, anche se si tendeva a preferire il servo della gleba, dotato di una relativa autonomia, allo schiavo, che ne era totalmente privo, la rivoluzione scientifica si ebbe soltanto alla fine del Medioevo, dapprima in campo fisico-astronomico, poi, nel Settecento, in campo industriale, grazie al carbone e al ferro.

È vero, durante il Medioevo vi furono varie migliorie tecniche nella gestione della terra (si pensi ad es. alla diversa tipologia degli aratri, al collare rigido per gli animali da tiro, alla staffa nella sella dei cavalli, alla ferratura dei loro zoccoli, ai mulini a vento…), ma non fu da queste cose che si sviluppò la moderna tecnologia.

Paradossalmente possiamo dire che neppure l’inizio dell’avventura coloniale vi contribuì. Le spedizioni navali di due paesi feudali come Spagna e Portogallo costituirono semmai un impedimento allo sviluppo scientifico, proprio perché nelle colonie nacque una nuova forma di schiavismo, da utilizzarsi liberamente per sfruttare le enormi risorse di quei territori.

La mentalità cominciò a cambiare solo quando qualcuno (Bartolomeo de Las Casas, Montaigne, Rousseau, ecc.) cominciò a dire che la civiltà europea, per come si comportava nelle colonie, era più barbara degli indigeni schiavizzati, e che, in ogni caso, non si potevano trattare da “schiavi” i nativi convertiti al cristianesimo.

Ecco la rivoluzione tecnico-scientifica vera e propria avvenne quando l’uso della schiavitù nelle colonie prese ad essere considerato una vergogna (non fu solo una questione di interesse pratico). La coscienza cristiana, per quanto laicizzata fosse, avvertiva come un’insopportabile contraddizione la pratica dello schiavismo con le idee di giustizia e libertà affermate in Europa.

Ora però si faccia attenzione a cosa avvenne riguardo ai rapporti tra etica e scienza. Siccome ai tempi di Galilei (ma anche a quelli di Newton) tutta la morale era determinata dalla religione, si cominciò a dire che tra scienza e fede non vi poteva essere alcun rapporto organico; nel senso cioè che una scienza, imbrigliata dal giudizio dei teologi, non avrebbe mai potuto svilupparsi. E così, proprio nel momento in cui la civiltà europea prendeva atto che la schiavitù era intollerabile (per motivi cristiani), si trovò il modo di estromettere il cristianesimo dallo sviluppo della scienza e della tecnica.

Chi si rese responsabile di questa decisione fu la borghesia, la quale, nel tentativo di ovviare agli evidenti limiti del cristianesimo in campo scientifico, pensò di sbarazzarsi anche di qualunque valutazione etica. La scienza si sarebbe sviluppata meglio rispondendo a esigenze materiali e demandando alle applicazioni delle proprie scoperte e invenzioni le considerazioni di tipo morale. La morale cioè sarebbe entrata nello sviluppo scientifico solo a posteriori, quando tale sviluppo avesse comportato svantaggi sociali insostenibili.

Ora però è venuto il momento di andare oltre questa concezione borghese della scienza (ovviamente senza concedere nulla al cristianesimo). Alla luce dei disastri ambientali ch’essa ha provocato, dobbiamo porre all’ordine del giorno il problema di come unire scienza ed etica. E questa sinergia deve avvenire a priori, prima ancora che gli scienziati e gli ingegneri si mettano a lavorare.

Il presupposto perché ciò avvenga può essere uno solo: concedere all’ecologia un primato significativo sull’economia. Cioè occorre fare della tutela ambientale la condizione irrinunciabile per un qualunque sviluppo socioeconomico. Va ripensato il concetto stesso di lavoro, poiché non ha più alcun senso svolgere determinati lavori quando questi distruggono l’ambiente e minacciano la salute umana.

Occorre ripensare il concetto di benessere, che non può dipendere da indici esclusivamente quantitativi (tipico quello del prodotto interno lordo, che è così fondamentale che anche quando sono presenti degli indici qualitativi, non lo si mette mai in discussione).

Va ripensato il concetto di comodità, nei cui confronti è del tutto ingiustificato l’atteggiamento di chi non si chiede quali effetti sull’ambiente possono avere gli oggetti che usa. Non possiamo più accettare che tali effetti vengano pagati dalle generazioni future.

Soprattutto va ripensato il concetto di progresso, nei cui confronti non si possono assumere atteggiamenti fatalistici: il progresso non è una sorta di divinità cui occorre prostrarsi senza discutere. Se il progresso materiale non sviluppa la personalità umana e riduce la facoltà di scelta, incatenando a decisioni altrui, è meglio rinunciarvi. Una moderna società tecnologica è quella dove i soggetti sono padroni dei propri destini, e questo è possibile solo se a livello locale possono controllare le loro risorse, senza dover dipendere dai grandi mercati.

La scienza come nuova religione

Che l’artificiale stia sostituendo completamente il naturale lo si vede in tutto il mondo, non solo nei paesi a capitalismo avanzato, dove si è cominciato a farlo, in maniera considerevole, a partire dalle rivoluzioni industriali.

L’uomo ha sempre modificato la natura per i suoi bisogni, ma oggi lo fa impedendo alla natura di soddisfare i suoi propri bisogni. Manca il rispetto e, quel che è peggio, manca la convinzione che il rispetto sia necessario per la sopravvivenza dell’intero pianeta, inclusa quindi la specie umana.

Non riusciamo più a capire quale sia il limite oltre il quale l’uso di strumenti lavorativi diventa, agli occhi della natura, un abuso. Non è un caso che il capitalismo si sia sviluppato di pari passo con la devastazione ambientale. Solo che con la scoperta del “Nuovo Mondo”, in virtù della quale abbiamo potuto trasferire altrove il peso delle nostre contraddizioni, non ce ne siamo accorti più di tanto. Da un lato infatti abbiamo potuto rendere gli abitanti del Terzo mondo più “schiavi” degli operai occidentali; dall’altro abbiamo potuto saccheggiare le loro risorse, ritenendo che questo processo sarebbe durato in eterno.

La percezione di una vastità immensa di risorse umane e materiali da utilizzare ci ha permesso di guardare con molta benevolenza i problemi che nei nostri territori occidentali sono stati creati dallo sviluppo del capitalismo. Il concetto di “vastità geografica” ci ha permesso di restare a un livello di “profondità” molto superficiale.

Noi non abbiamo mai una vera consapevolezza dei problemi che creiamo: pensiamo sempre di poterli risolvere in maniera relativamente semplice. E ci stupiamo enormemente quando vediamo le crisi prolungarsi troppo nel tempo. Preferiamo non guardarci mai direttamente allo specchio, ma restando sempre dentro una bolla di sapone. Ci piace guardare la realtà in maniera deformata, per poter sognare ad occhi aperti, come i grassoni in quegli specchi dimagranti di certi luna park.

Quando l’Europa occidentale ha fatto scoppiare le due ultime guerre mondiali, sembrava che nessuno le volesse, ma, appena si sono verificati i primi conflitti, subito quasi tutti hanno voluto prendervi parte, perché sappiamo bene che, in caso di vittoria, i vantaggi sono considerevoli.

La guerra fa parte del nostro DNA, nel senso che non ci viene istintivo fare di tutto per evitarla. Noi siamo figli di quel Carl von Clausewitz secondo cui “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”.

Forse pochi si ricordano che quando, nella seconda guerra irachena, gli americani adottarono la dottrina militare nota col nome di shock and awe (colpisci e terrorizza), si comportarono, più o meno, come i nazisti nelle loro battaglie, a partire da quella di “prova” che fu il bombardamento di Guernica, durante la guerra civile spagnola.

I moderni Clausewitz oggi si chiamano H. Ullman e J. P. Wade, per i quali i bombardamenti massicci devono imporre un livello travolgente di distruzione e di terrore in un lasso di tempo sufficientemente breve da paralizzare del tutto la volontà del nemico di proseguire una qualunque forma di resistenza. E’ il blitzkrieg hitleriano in salsa yankee, cioè con l’aggiunta di armi molto più potenti e sofisticate, cui vanno aggiunte quelle dei mezzi di comunicazione di massa, utili a creare un clima “patriottico” di euforia per la potenza tecnologica e militare dispiegata. L’importante è non far vedere le immagini delle vittime civili.

Oggi, quando distruggiamo tutto, siamo convinti di poterlo ricostruire abbastanza facilmente, in tempi relativamente rapidi, proprio in virtù dei mezzi che disponiamo, e non ci preoccupa granché il fatto che l’ambiente abbia subìto, a causa delle nostre azioni scriteriate, dei danni enormi. Nel nostro vocabolario non esiste la parola “irreparabile”, anche perché non andiamo certo a chiederlo a chi, vivendo a Hiroshima e Nagasaki, ha subìto bombardamenti atomici, o ai vietnamiti che hanno subito bombardamenti chimici (agent orange), né ai serbi che hanno subito bombardamenti all’uranio impoverito (che peraltro hanno fatto ammalare di cancro persino i nostri militari) e neppure agli iracheni che hanno subito bombardamenti al fosforo. Che c’importa di sapere se la popolazione e l’ambiente bombardati hanno subito danni irreversibili, al punto che non si è più nemmeno in grado di riprodursi normalmente?

Quando nel mondo antico e medievale si considerava la natura praticamente immutabile, in quanto l’uomo sembrava poterla modificare solo parzialmente, in realtà ci s’illudeva. Nel senso cioè che non ci si rendeva conto che anche delle piccole modifiche ripetute nel tempo, possono provocare sconvolgimenti inarrestabili, com’è successo con la formazione dei deserti in seguito alle deforestazioni compiute nell’area del Mediterraneo.

Oggi l’illusione di poter riportare le cose a com’erano prima delle nostre devastazioni è ancora più grande, proprio perché riteniamo la potenza della nostra tecnologia una realtà praticamente invincibile. Se c’è una cosa che oggi non vogliamo assolutamente mettere in discussione è l’emancipazione che l’umanità ha compiuto nei confronti della religione medievale, grazie alle scoperte scientifiche e alle innovazioni tecnologiche. Senza volerlo abbiamo fatto della scienza una nuova religione.

Una storiografia olistica e planetaria (II)

Storia e Tecnologia

Approfittiamo dell’occasione per aprire una piccola parentesi dedicata ai rapporti tra storia e tecnologia. Se ci facciamo caso, nei nostri manuali di storia quasi neppure esiste una “tecnologia medievale”. Una vera e propria “storia della tecnologia” nasce solo in epoca moderna, soprattutto a partire dal torchio per la stampa.

Se si vuole avere una conoscenza dello sviluppo storico della tecnologia bisogna andarsi a leggere i manuali di educazione tecnica, dove si viene p.es. a scoprire che nel Medioevo furono introdotte due innovazioni fondamentali per quella che diventerà la moderna meccanizzazione della filatura: la conocchia lunga e soprattutto la ruota per filare. Quando, intorno al 1770, furono inventate le prime macchine inglesi per filare: la “jenny” di Hargreaves, la “water frame” di Arkwright e la “mula” di Crompton, tutte imitavano i filatoi intermittenti e continui del Medioevo, moltiplicandone soltanto il numero dei fusi.

Il telaio orizzontale, di derivazione egizia, usato in Europa sino alla fine del Settecento, era già perfettamente funzionante nel Medioevo e soddisfaceva in pieno le esigenze di un’intera famiglia.

Eppure nei libri di storia la “modernità” non viene associata al fatto che il singolo tessitore era in grado di fare tutto ciò che gli serviva al telaio, ma viene associata al fatto che con l’invenzione del telaio meccanico si poteva ottenere molto di più in molto meno tempo, il che permetteva di arricchirsi facilmente vendendo i prodotti sul mercato: negli anni ’20 dell’Ottocento una bambina che controllava due telai meccanici poteva produrre fino a 15 volte di più di un abile artigiano casalingo.

Peccato che in questa analisi non si sottolinei mai con la giusta enfasi che l’unico soggetto veramente in grado di arricchirsi era non il lavoratore diretto ma il proprietario del mezzo di produzione.

E se si passa dai tessuti al legno il discorso non cambia. Stando ai manuali di storia medievale si ha un’impressione alquanto negativa sul modo di usare il legno da parte della civiltà che trattano: tutte le popolazioni infatti non facevano altro che tagliare e tagliare, costringendo poi la modernità a passare al carbone (quelle di origine “barbarica”, essendo prevalentemente nomadi, addirittura “tagliavano e bruciavano”).

Ora, se è vero che il legno nel Medioevo era la base di tutto (esattamente come oggi in buona parte della bioedilizia), è anche vero che nella produzione di mattoni, ceramica, vetro e nell’uso della pietra naturale si erano ereditate tradizioni antichissime, perfezionandole ulteriormente, al punto che non si aveva affatto bisogno di utilizzare materiali che non fossero naturali.

Acciaio, cemento armato, materie plastiche…: per millenni s’è andati avanti senza l’uso di queste false comodità e false sicurezze e soprattutto senza la necessità di dover far pagare interamente il loro prezzo alla natura.

Che poi non è neppure esatto dire che nell’antichità pre-industriale gli uomini non fossero capaci d’inventarsi materiali non naturali: quello che mancava era l’esigenza di farli diventare il perno attorno a cui far ruotare tutto il progresso (come oggi alcuni vorrebbero fare col nucleare in sostituzione del petrolio). L’acciaio, p.es., era già conosciuto dai fabbri ferrai della tribù armena dei Chalybi nel 1400 “avanti Cristo”.

Ma perché meravigliarsi di questo quando anche in tutti i manuali di storia dell’arte si associa l’idea di “modernità artistica” all’uso della prospettiva, facendo di quest’ultima un’invenzione della mentalità razionale dell’occidente borghese? È da tempo che si sa che la prospettiva geometrica era già conosciuta nel mondo bizantino, che però si rifiutava di adottarla come canone stilistico, in quanto riteneva spiritualmente più profonda la cosiddetta “prospettiva inversa”, con cui si mettevano in risalto le qualità interiori dei soggetti rappresentati.

Ma viene addirittura da sorridere quando i manuali medievali sono costretti ad ammettere che la bardatura moderna del cavallo, quella col collare rigido di spalla, in uso ancora oggi, non fu inventata nell’evoluto mondo greco-romano, che usava il cavallo più che altro nelle battaglie, ma nel Medioevo, che aveva bisogno d’usarlo come potenza di traino nei trasporti e nei lavori agricoli. Viene da sorridere, amaramente, perché, dicendo questo, evitano poi di aggiungere che tale progresso tecnico fu causato non semplicemente da un’esigenza astratta o generica di produttività ma proprio dalla trasformazione dello schiavo in servo (gli schiavi non avevano alcun interesse a migliorare la tecnologia che usavano, anzi gli stessi proprietari romani ne ostacolavano lo sviluppo, temendo ch’esso potesse abbassare il valore della forza-lavoro acquistata a caro prezzo sui mercati).

In ogni caso, se proprio si vuole considerare la meccanica o la metallurgia una scienza fondamentale per lo sviluppo dell’idea di “progresso”, ebbene si dica anche, contestualmente, ch’essa venne messa al servizio di esigenze tutt’altro che naturali, come p.es. le guerre di conquista. È forse un caso che l’idea di “imperialismo” trovò il suo compimento solo dopo che, intorno al 1850, era stata inventata la maggior parte delle macchine utensili moderne? Ed è forse un caso che si possa parlare soltanto di “colonialismo” almeno sino al 1770, periodo in cui le macchine per lavorare i metalli erano molto simili a quelle usate nel Medioevo?

Tutti i libri di storia, invece di chiedersi se nell’uso naturalissimo della forza umana (che tale è rimasto sino al 1800) non ci fossero elementi innaturali che si dovevano rimuovere senza per questo rinunciare a quella tipologia di lavoro (che al massimo si serviva dell’aiuto degli animali) – e questi elementi innaturali sappiamo benissimo ch’erano quelli dello sfruttamento indebito del lavoro altrui -, preferiscono sostenere la tesi della necessità di passare dalla forza muscolare e animale a quella meccanica e industriale, proprio perché in questo passaggio estrinseco, di forme esteriori, si è realizzato, sic et simpliciter, un progresso “qualitativo” nella condizione di vita dei lavoratori.

Gli stessi manuali di educazione tecnica, quando analizzano l’evoluzione della tecnologia nella storia, danno per scontata la medesima necessità, che è poi quella che ha portato alla odierna meccanizzazione; sicché la storia dello sviluppo della tecnologia che presentano, appare come dettata da una semplice esigenza di maggiore produttività o di maggiore comodità, oppure dall’esigenza di passare a fonti energetiche più convenienti, perché più facilmente reperibili.

Non viene mai collegato tale sviluppo con la necessità di trasformare i rapporti di sfruttamento del lavoro. Lo sviluppo della tecnologia viene evidenziato come un merito specifico dell’Europa occidentale, la quale, se anche in taluni casi, adottò scoperte, invenzioni, sistemi di lavorazione elaborati in oriente, fu comunque la prima a universalizzarli, implementando la produzione in serie di merci vendibili sul mercato.

È in questo senso incredibile che, pur essendo passati ormai due secoli dalle primissime analisi del socialismo utopistico, nei nostri manuali scolastici ancora non si riesca a connettere in maniera organica e strutturale le storie dei due sviluppi fondamentali della nostra epoca: quello tecnologico e quello capitalistico.