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Elogio della precarietà

La precarietà è il segreto della vita che voglia restare umana. Dire una cosa del genere quando la gran parte dei lavoratori vive nella precarietà e fa di tutto per uscirne, può apparire offensivo.

In realtà oggi esiste, nell’ambito del lavoro, la precarietà delle mansioni o delle funzioni proprio perché alcuni han cercato di superarla a spese altrui, sfruttando risorse umane e naturali che storicamente non gli appartenevano.

Molti sono precari perché pochi, coi loro atteggiamenti autoritari, son voluti diventare dei privilegiati e han voluto conservare a tutti i costi questa loro prerogativa. La precarietà è di molti perché qualcuno l’ha arbitrariamente rifiutata e si è servito della precarietà altrui per vivere una vita da privilegiato. Così gli uni non sono umani perché miseri, gli altri perché benestanti.

Un tempo non era così. La precarietà era di tutti, era quella che la natura imponeva a tutti, senza esclusione.

La natura non può rendere facile la vita, proprio perché sa che gli esseri viventi sono in evoluzione continua, devono crescere, svilupparsi. E sa anche che nella sicurezza, negli agi, nelle comodità uno smette di crescere, si atrofizza.

Oggi nella precarietà ci si odia, si avverte l’altro come un rivale, un nemico, un concorrente da eliminare. Un tempo, essendo la precarietà una comune condizione, ci si aiutava per meglio sopportarla. Non la si fuggiva, la si dava per scontata. Al massimo si cercava di attenuarne il peso nei limiti che la stessa natura imponeva.

La natura infatti da un lato offre le condizioni per vivere, dall’altro chiede uno sforzo collettivo per attingere alle sue risorse. E’ lei che indica il livello delle comodità oltre il quale si rischia di perdere la nostra caratteristica umana.

La natura non è cosa che possa essere affrontata in maniera individuale. Chi ha voluto farlo, usando la forza, ha sconvolto dei meccanismi che per millenni avevano garantito a tutti la sopravvivenza.

Tuttavia, siccome l’esistenza della natura, con le sue leggi, è anteriore a quella dell’uomo, essa non può lasciarsi sconvolgere senza reagire. Di tanto in tanto ci fa ricordare, spesso dolorosamente, le sue prerogative e soprattutto il fatto che la sua esistenza non dipende da quella dell’uomo.

Quando la natura non ha sufficienti forze per resistere alle umane devastazioni, si trasforma in deserto, rendendo a tutti impossibile la vita. Per poter vivere nel deserto, che è la precarietà assoluta, bisogna essere uomini assolutamente speciali, quali non si potrebbero mai incontrare nelle grandi città, dove la ricerca delle comodità è l’obiettivo n. 1 per tutti.

E’ stata infatti proprio l’idea di comodità che ha distrutto il comunismo primordiale. E’ stata l’idea di surplus o di eccedenza che ha minato il principio della precarietà collettiva.

Alcuni han voluto far credere ai molti (usando miti e religioni) che si sarebbe potuto raggiungere il benessere accumulando riserve per i momenti più difficili. E’ stato così che è nato il problema di come controllare queste riserve e di come ripartirle.

Si è voluto por fine alla precarietà aumentando i tempi del lavoro, obbligando la natura a uno stress produttivo, diversificando in modo arbitrario le funzioni, i ruoli all’interno del collettivo.

La precarietà ha cominciato a essere vista non come una condizione naturale dell’esistenza, ma come un limite da superare con tutti i mezzi e i modi, senza neppur distinguere tra lecito e illecito, se non con la retorica delle parole. Chi superava prima e meglio degli altri la precarietà, difendeva con maggior forza le comodità acquisite; anzi, quando vedeva che queste diminuivano o non rispondevano più alle aumentate esigenze di comodità, diventava sempre più bellicoso, non essendo più abituato a sopportare la precarietà.

Dopo aver creato discriminazioni sociali all’interno del loro collettivo, gli strati privilegiati, preoccupati di conservare le acquisite posizioni di rendita, sono andati a cercare al di fuori delle loro comunità le risorse da integrare alle proprie. Chi si sentiva minacciato nel proprio lusso, nel proprio sfarzo, ha esportato all’esterno il malessere che viveva all’interno.

Si sono cominciate a condizionare, a minacciare, a conquistare le comunità altrui. L’antagonismo è diventato progressivamente un male di vivere che si è diffuso sull’intero pianeta. A volte il nomadismo, cioè la precarietà come stile di vita, è riuscita a porre un argine alla stanzialità, che è la comodità per eccellenza, ma nel complesso bisogna dire che la stanzialità ha vinto, al punto che oggi, chiunque scelga di emigrare dal luogo in cui la vita gli sembra impossibile, lo fa per diventare stanziale.

Tutti vogliono vivere in maniera urbanizzata, senza rendersi conto che le città sono nate solo dopo aver sottomesso a sé tutto il mondo rurale.