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A una condizione non firmerò il Testamento biologico

A volte mi chiedo cosa farei se diventassi tetraplegico a causa di un incidente stradale. Ammesso e non concesso che mi lascerebbero “fare” qualcosa. Cioè se volessi rifiutare di essere assistito, rispetterebbero la mia volontà? Oppure, vedendomi in un momento di grave sconforto, in cui una qualunque valutazione della realtà non può essere obiettiva, i medici o i parenti farebbero meglio a non ascoltare la mia richiesta?

Mi chiedo insomma che senso possa avere fare una dichiarazione preventiva, chiamata “testamento biologico”, su quello che dovrebbero farmi o non farmi, nel caso in cui diventassi tetraplegico o entrassi in coma vegetativo. Che senso ha fare una dichiarazione mentre si è sani, da utilizzare nell’eventualità che si sia gravemente ammalati? Peraltro se uno avesse già fatto una dichiarazione a favore della donazione dei propri organi, quale delle due dichiarazioni – visto che potrebbero essere tra loro in contraddizione – dovrebbe prevalere?

E se proprio nell’esperienza della malattia io potessi scoprire nuovi valori umani, nuovi criteri di comportamento? Perché impedirmelo? Se nel testamento biologico io dichiarassi che non voglio, in determinati casi, alcuna assistenza medica, come farei a sapere se proprio in virtù di quella assistenza potrei trovare un qualche giovamento morale?

Qual è il limite oltre il quale la difesa del diritto alla vita può trasformarsi in una violazione della libertà di coscienza? Può un medico impormi la sua assistenza in nome del diritto alla vita (che in tal caso diverrebbe un mio dovere irrinunciabile), senza tener conto che con la mia libertà di coscienza avrei il diritto di rinunciarvi?

Se io fossi in coma, una qualunque assistenza medica non potrebbe tener conto in alcun modo della mia volontà, e il giorno in cui mi risvegliassi potrei sì ringraziare il medico, ma potrei anche – naturalmente con la stessa cortesia – maledirlo. Perché una differenza così abissale di reazioni psicologiche? Il motivo è semplice: se il medico mi fa tornare come prima (o quasi come prima), probabilmente non avrei motivo di maledirlo, specie se ho ancora molti anni da vivere. Il problema invece sussiste quando ci si risveglia che non si è neppure in grado di mangiare da soli, si deve reimparare a parlare, si ha una memoria quasi azzerata, insomma si è come neonati in procinto di ricominciare da capo.

Per quale ragione uno dovrebbe essere obbligato a fare questo? Solo perché lo vogliono i medici, gli amici e i parenti? C’è un limite di tempo oltre il quale un qualunque risveglio dal coma ci farebbe tornare a vivere in condizioni che per un adulto sarebbero sub-umane? Se i medici non sanno definire, con ragionevole sicurezza, questo limite, se non possono sapere, se non molto ipoteticamente, le conseguenze effettive di alcun coma, perché rischiare una soluzione che sarebbe peggiore di un decesso naturale, senza assistenza farmacologica attraverso le moderne tecnologie?

Ha senso parlare – come fanno i cattolici – di un diritto “assoluto” alla vita? La vita è forse un valore in sé, a prescindere dai suoi valori spirituali? Se una vergine si suicidasse per non essere violentata, la chiesa la metterebbe all’inferno? Che cos’è la vita? Essere alimentati da un sondino nasogastrico, senza poter far nulla? Il corpo di cui sono rivestito appartiene non a me ma allo Stato “padre e padrone” o a un dio in cui non credo?

Io dunque penso che in caso di perdita di coscienza, in cui il soggetto non sia in grado di esprimere in alcun modo la propria volontà, i medici, dopo aver lasciato passare un tempo utile per poter ipotizzare un ritorno sufficientemente dignitoso alle proprie funzioni vitali, dovrebbero staccare la spina, cioè dovrebbero avere il dovere di farlo.

Supponiamo invece il caso in cui io non sia in coma ma vigile, cosciente, benché enormemente paralizzato, come appunto i tetraplegici: un caso sicuramente estremo, ma non infrequente e sicuramente non paragonabile a quelli che perdono l’uso delle gambe o della vista.

In questo caso il medico deve per forza interagire con me. E che medico sarebbe se non rispettasse la mia volontà? Se io non voglio essere assistito e sono in grado di comunicarlo, foss’anche solo col battito delle palpebre, lui non dovrebbe approfittare della mia condizione per non esaudirmi.

Se mia madre mi dicesse di mettere le sue ceneri in un tombino e io invece le mettessi in un altro, non avrei violato la sua volontà, proprio perché sarebbe già morta: al massimo sarei venuto meno a una promessa, a un impegno. Ma se io dico che non voglio vivere in una condizione da tetraplegico e il medico invece mi costringe a farlo con le sue macchine, lui mi sta sicuramente facendo violenza.

E tuttavia voglio venirgli incontro: come lui, in quanto medico, ha bisogno di un certo tempo per ipotizzare un’uscita dal coma in condizioni sufficientemente accettabili, anch’io mi voglio dare un certo tempo, in condizioni da tetraplegico, prima di chiedergli di staccare la spina. Cioè se restassi cosciente in condizioni pietose, vorrei potermi sentire libero di chiedere al medico di staccare la spina e di riattaccarla, in caso di ripensamento, subito dopo.

Posso continuare a pretendere questa forma di libertà o devo considerarmi un semplice “caso clinico”, incapace di intendere e di volere come un comune mortale, su cui è possibile esercitare qualunque terapia?

Io vorrei dare a me stesso un po’ di tempo per vedere cosa è possibile fare in una condizione di sopravvivenza che di umano sembra non avere più nulla. Vorrei poter mettere liberamente alla prova me stesso, la mia capacità di sopportazione del dolore, la mia disponibilità ad apprendere nuove forme comunicative.

Se un dottore mi garantisse questa possibilità, io non firmerei alcun testamento biologico. Piuttosto dovrebbe essere lui a dover firmare una dichiarazione in cui s’impegna a non usare quello che per lui è un diritto-dovere alla vita come occasione per violare la mia libertà di coscienza.

Il fatto è purtroppo che il disegno di legge approvato dal Senato il 26 marzo 2009 è lontanissimo da questa preoccupazione (infatti definisce la vita umana un “diritto indisponibile” anche nella fase terminale dell’esistenza), e se passa anche alla Camera, così com’è, la firma dovrò metterla subito dopo sulla richiesta di referendum abrogativo, anche per impedire che il divieto a esercitare il diritto all’autodeterminazione non finisca coll’istigare al suicidio.

Eutanasia e Testamento biologico

Nessuna discussione sul testamento biologico può prescindere da una discussione sull’eutanasia, proprio perché in entrambi i casi si chiede di evitare l’accanimento terapeutico e quindi in entrambi i casi chi è contrario parla di “omicidio” (così come ne parla quando c’è di mezzo l’aborto).

Ma, mentre sull’espressione “accanimento terapeutico” ci si può confrontare abbastanza serenamente, cercando di chiarirsi, tecnicamente, quando è lecito cominciare a parlarne e quando no, viceversa sulla parola “eutanasia” (“buona morte”, alla lettera) – condizionati come siamo ancora dall’uso mistificatorio che ne fece il nazismo – le opinioni sembrano convergere verso un assunto abbastanza condiviso: legalizzare l’eutanasia è troppo rischioso, potrebbe portare a conseguenze eticamente imprevedibili.

Ciò su cui ci si scontra è la difficoltà di poter stabilire fin dove può arrivare la libera volontà in un individuo consapevole di essere affetto da una malattia molto dolorosa e/o incurabile (si pensi ai casi di Piergiorgio Welby o di Giovanni Nuvoli). Tanto più ci si chiede come sia possibile stabilire tale volontà in un soggetto giovane clinicamente morto ma tenuto in vita vegetativa da una strumentazione specifica, nell’ovvia speranza che possa risvegliarsi e concludere il suo ciclo vitale in maniera naturale.

Partiamo da quest’ultima ipotesi, che ha trovato in un caso molto famoso, quello di Eluana Englaro, materia sufficiente per scatenare durissime polemiche, al punto che il parlamento non è ancora riuscito a varare una legge sul testamento biologico (l’unico testo a disposizione è quello approvato dal Senato il 26 marzo 2009).

Intorno a questo caso i dibattiti si sono concentrati su due argomenti: uno tecnico (fino a che punto l’alimentazione forzata è un atto dovuto e non una terapia arbitraria?) e l’altro etico (ha senso parlare di violazione del diritto alla vita in un soggetto incapace non solo di intendere e volere, ma anche di percepire e sentire?).

Ad un certo punto ci si chiese se non fosse necessario che ogni persona maggiorenne stabilisse, preventivamente, per iscritto, le proprie ultime disposizioni in caso di improvvisa situazione comatosa, anche per sollevare il personale medico dagli inevitabili dubbi amletici.

Tuttavia anche in questo caso la domanda restava in tutta la sua pregnanza: davvero si viola la libertà di coscienza quando si cerca di tenere in vita una persona giovane che pur aveva preventivamente dichiarato di fare nulla in caso di situazioni disperate? E se quella persona si risvegliasse e fosse contenta di averlo fatto?

Ci può essere una soluzione convincente a questo problema? Fino a che punto il proprio diritto alla vita può diventare un dovere altrui senza violare la propria libertà di coscienza? Ci si può sostituire alla coscienza di un individuo caduto improvvisamente in coma, decidendo se farlo morire o se farlo vivere in una condizione vegetativa?

E se il soggetto, una volta risvegliatosi, non fosse affatto contento della nostra iniziativa terapica? Se si ritrovasse in una condizione di estrema difficoltà, in cui dovesse p.es. imparare di nuovo a parlare o a mangiare o a fare movimenti coordinati, sarebbe davvero contento di ricominciare da capo?

Qual è dunque il limite oltre il quale una legittima assistenza medica, volta a tutelare il diritto alla vita, può trasformarsi in un atto arbitrario che viola la libertà di coscienza? Il limite può essere deciso solo dal soggetto e il soggetto può stabilirlo solo se viene informato di tutte le possibili conseguenze della sua decisione. Quindi ciò presuppone ch’egli sia cosciente, poiché solo se è cosciente può arrivare a capire che anche un’esperienza di dolore può essere significativa.

Nessun diritto alla vita può diventare un obbligo a vivere, né può sostituirsi a una libera scelta di un’esperienza di dolore. Quindi se da un lato è giusto rendersi conto che anche la scelta di vivere un’esperienza dolorosa può essere un atto umano, dall’altro bisogna convincersi che un’esperienza del genere non può essere imposta.

Dunque in caso di coma, qual è il limite oltre il quale un eventuale risveglio non garantirebbe il ripristino delle precedenti funzioni vitali nelle condizioni in cui erano? Esiste un limite ragionevole di tempo? La scienza è in grado di stabilirlo? Se il rischio è quello che un eventuale risveglio non è assolutamente in grado di garantire il recupero integrale delle proprie facoltà (o almeno un loro recupero significativo, che non pregiudichi la dignità della vita), per quale ragione la scienza deve avere più potere della coscienza?

Per quale motivo deve essere la scienza a decidere quando uno in coscienza preferirebbe morire piuttosto che trovarsi in una condizione assolutamente diversa da quella che aveva quand’era sano? Questo potere della scienza non rischia di trasformarsi in un potere politico e amministrativo sul corpo di un paziente?

Altri testi si trovano qui http://www.homolaicus.com/uomo-donna/eutanasia.htm