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La Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo

La recente Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo è uno strumento per cercare di capire come si manifesta l’antisemitismo nei vari Paesi del mondo.

È stata realizzata da un gruppo di studiosi nei campi della storia dell’olocausto, degli studi ebraici e degli studi sul Medio Oriente, ed è stata sottoscritta da 200 firmatari.

Si sono ispirati alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1969, alla Dichiarazione del forum internazionale di Stoccolma sull’olocausto del 2000 e alla Risoluzione delle Nazioni Unite sulla giornata della memoria del 2005.

Ritengono che la lotta contro l’antisemitismo sia inseparabile dalla lotta globale contro tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere.

Hanno preteso di dare una definizione di base, più generale, dell’antisemitismo, da declinare nelle varie situazioni, in alternativa alla Definizione IHRA, il documento adottato nel 2016 dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, che sicuramente cercava di proteggere Israele dalla responsabilità nei confronti del diritto internazionale e di proteggere il sionismo da critiche razionali ed etiche.

Ora, con questa nuova Dichiarazione, si è cercato di ammettere che l’ostilità verso Israele potrebbe essere non solo un’espressione di ostilità antisemitica, ma anche una reazione alla violazione dei diritti umani, o il sentimento che una persona palestinese prova a causa dell’esperienza fatta trovandosi nelle mani di quello Stato. Detto altrimenti, se l’antisemitismo è sempre una forma di razzismo, l’antisionismo invece può essere considerato legittimo.

Ma procediamo con ordine. In generale – sostiene la Dichiarazione – è una forma di razzismo considerare un tratto caratteriale come innato o fare generalizzazioni negative indiscriminate su una data popolazione, quindi è razzistico anche l’antisemitismo.

Non si può infatti sostenere, come già si faceva nel passato, l’idea di una “cospirazione ebraica”, nella quale gli ebrei in quanto tali possiedono un potere nascosto che usano a spese di altri popoli. Il che oggi vorrebbe dire che sarebbero in grado di controllare i governi o i media o le banche di qualunque Stato, come se fossero “uno Stato nello Stato”.

Esempi di antisemitismo a parole includono affermazioni del tipo: gli ebrei sono ricchi, intrinsecamente avari o antipatriottici; i Rothschild controllano il mondo, ecc. Ma è antisemitico anche negare o minimizzare l’olocausto, sostenendo che il deliberato genocidio nazista degli ebrei non ebbe luogo, o che non c’erano campi di sterminio o camere a gas, o che il numero delle vittime fu una piccola parte del totale reale.

Fin qui nulla da eccepire. I problemi però sorgono quando si scende nella questione spinosa dei rapporti tra Israele e Palestina.

Stando alla suddetta Dichiarazione sarebbe antisemitico ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per la condotta di Israele o trattare gli ebrei, semplicemente perché ebrei, come agenti di Israele. Ma anche richiedere alle persone, perché ebree, di condannare pubblicamente Israele o il sionismo. Oppure presumere che gli ebrei non israeliani, semplicemente perché ebrei, siano necessariamente più fedeli a Israele che non al proprio Paese.

Naturalmente la Dichiarazione è costretta ad ammettere che non può essere considerato antisemitico il fatto di sostenere la richiesta di giustizia e di piena concessione dei diritti politici, nazionali, civili e umani da parte dei Palestinesi. E neppure opporsi al sionismo come forma di nazionalismo.

Però poi fa capire, velatamente, che schierarsi contro un qualunque tipo di accordo costituzionale tra ebrei e palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, sia che questo accordo avvenga con due Stati, con uno Stato binazionale, con uno Stato democratico unitario, con uno Stato federale o in qualsiasi altra forma, può diventare un atteggiamento antisemitico.

Infatti, secondo la Dichiarazione, se è legittimo paragonare Israele ad altri esempi storici di colonialismo d’insediamento o di apartheid, non è legittimo, proprio perché rischia di diventare antisemitico, negare il diritto agli ebrei dello Stato d’Israele di esistere e prosperare come ebrei.

In ogni caso il vero problema è che c’è molta differenza tra le diverse tipologie di rapporto statuale tra Israele e la Palestina. E sulla scelta politica di quale deve essere l’attuale tipologia o di quale sarà quella definitiva, i palestinesi non hanno e non sono destinati ad avere alcuna voce in capitolo.

I rischi del credere

Qualunque credenza religiosa comporta sempre il rischio che, al cospetto di un’esigenza di liberazione nei confronti di contraddizioni insostenibili, il soggetto assuma atteggiamenti nocivi o controproducenti al raggiungimento di uno scopo comune.

Il credente, infatti, oscilla sempre tra due atteggiamenti opposti: l’ingenuità e il fanatismo, che spesso portano a medesime conseguenze, anche del tutto involontarie.

L’ingenuità sta nel fatto che il soggetto crede in entità astratte, ritenute onnipotenti sotto ogni aspetto, per cui può essere facilmente raggirato o tratto in inganno. Può infatti diventare fanatico quando gli si chiede di compiere determinate azioni, in virtù delle quali gli viene fatto credere d’essere molto più in linea con la volontà divina.

In genere è abbastanza facile riconoscere credenti del genere, poiché sono quelli che antepongono le idee ai fatti, che privilegiano l’ideologia alla politica, che subordinano la soddisfazione dei bisogni al rispetto dei precetti religiosi, che praticano discriminazioni di vario tipo: fede religiosa, genere sessuale, provenienza geografica, lingua parlata e cose analoghe.

Con questo ovviamente non si vuole sostenere che per realizzare una liberazione nazionale o una qualche forma d’insurrezione non debbano esserci dei martiri. Semplicemente non dovrebbero esserci dei martiri influenzati dalle idee estremistiche di qualche intellettuale.

Si può morire per una giusta causa, ma a condizione che questa sia “popolare”, cioè condivisa da ampi strati della popolazione. Quando si lotta per una giusta causa, non si può venir meno ai princìpi della democrazia o ai valori umani universali.

Una minoranza non può imporre le sue regole di vita, i suoi punti di vista alla maggioranza. Non si possono fare rivoluzioni o insurrezioni o moti popolari senza il consenso di ampi strati di cittadini e di lavoratori, senza dibattiti pubblici, senza confronto alla pari con chiunque voglia impegnarsi in progetti del genere.

La persuasione ragionata è la prima arma della democrazia. La seconda è l’autodifesa. Sarebbe assurdo, infatti, rinunciare a difendere le conquiste di un moto eversivo o di una qualche rivendicazione popolare solo perché l’avversario ha scatenato una controffensiva.

Dunque, ci si può fidare dei credenti? Diciamo fino a un certo punto. Quando sono in gioco interessi collettivi, che coinvolgono credenti di varie religioni e anche non credenti, sarebbe bene non affidare ad alcun credente delle responsabilità direttive o strategiche, proprio perché qualunque credente è una persona potenzialmente inaffidabile.

Non è infatti possibile sapere fino a che punto egli s’impegni, come cittadino, a favore della democrazia in sé o non piuttosto per ottenere dei privilegi proprio in quanto credente. D’altra parte non si può indurlo a compiere determinate azioni facendo leva sulla sua fede religiosa, poiché ciò implicherebbe una strumentalizzazione delle sue convinzioni. Neppure è possibile farlo agire come se tali convinzioni non le avesse (chi avrebbe il coraggio d’imporre a un ebreo o a un islamico di mangiare carne di maiale?), e tanto meno è possibile rinunciare alla sua disponibilità a lottare per il bene comune solo perché ha determinate convinzioni.

Bisogna sapere trovare un punto d’incontro che soddisfi l’obiettivo comune della liberazione dagli antagonismi sociali. Di regola, al cospetto di obiettivi del genere, si chiede ai partecipanti d’impegnarsi a prescindere dall’atteggiamento che si può avere in campo religioso, ma è evidente che i credenti, proprio perché tali, non mancheranno di far valere, quando lo riterranno opportuno, la loro diversità. Ecco perché non ci si può fidare ciecamente di loro.

Tuttavia bisogna fare attenzione a non ostacolarli per motivi di opinione e a non offenderli nei loro sentimenti, cioè a non creare, da parte degli organi di potere, degli inutili martiri. Se c’è una cosa, infatti, che induce a credere ancora di più nella verità delle proprie idee, è vedere che per queste stesse idee qualcuno è disposto ad accettare qualunque persecuzione.

Le regole generali, democratiche, da far valere nell’atteggiamento da tenere nei confronti delle religioni dovrebbero essere le seguenti: 1) la religione dev’essere dichiarata un affare privato (della coscienza), senza ch’essa possa aspirare a pretese di tipo politico o nazionalistico; 2) ognuno dev’essere lasciato libero di professare qualsiasi religione o di non riconoscerne alcuna, cioè di essere ateo o agnostico; 3) è inammissibile tollerare delle differenze sostanziali nei diritti dei cittadini motivate da credenze religiose, ovvero ci si può opporre a determinati comportamenti o leggi degli organi di potere se viene violata la libertà di coscienza, che è un diritto riguardante chiunque, credente o non credente che sia; 4) un partito politico può anche fare propaganda a favore dell’ateismo senza per questo violare la libertà di coscienza di nessuno; anche le chiese o le associazioni religiose possono fare propaganda delle loro idee; 5) sono possibili alleanze fra credenti e atei sulla base di piattaforme politico-programmatiche che nulla hanno a che vedere né con l’ateismo né con la religione; 6) se un credente accetta la linea politi­ca di un partito aconfessionale, deve poi preoccuparsi da solo di risolvere le sue in­coerenze sul piano ideologico: dal partito avrà soltanto l’assicurazione che non verrà discriminato per la sua diversa ideologia; 7) si può ammettere all’interno di un partito la libertà di opinione, ma entro i limiti fissati dalla libertà di associazione: non possono essere ammessi predicatori attivi di concezioni respinte dalla maggioranza del parti­to.

 

Diritti e bisogni

Dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789
una ipotetica Dichiarazione sui bisogni e le libertà universali dell’essere umano

Nei secoli XVII e XVIII la classe borghese ha svolto un ruolo progressivo in tutte le parti del mondo, non solo sul piano socioeconomico, ma anche su quello giuspolitico. L’esempio di questa Dichiarazione dei diritti elaborata nel corso della rivoluzione francese lo dimostra. Ancora oggi potremmo dire di esserne figli, almeno in parte. L’altra parte, infatti, quella relativa ai diritti sociali, emerse nel XIX secolo, quando venne alla ribalta il proletariato industriale e la sua rappresentanza socialista. Questa tabella è frutto di un ragionamento fatto col senno del poi. Una cosa del tutto antistorica, che forse però sarebbe piaciuta a Rousseau, cui Robespierre faceva costante riferimento. Ci si è messi nei panni di un giacobino con una consapevolezza che non poteva avere, anche se le prime idee socialiste in Francia, vennero fuori da due seguaci del giacobinismo: Babeuf e Buonarroti.

Diritti dell’Uomo e del Cittadino

Articolo 1 Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.

Bisogni e Libertà dell’essere umano

Articolo 1 Tutti i diritti sono basati sui bisogni, in maniera proporzionale: quanto più grandi sono i bisogni tanto maggiori sono i diritti.

Articolo 2 Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Articolo 2 Ogni essere umano deve concorrere, sulla base delle proprie capacità, a soddisfare i bisogni altrui.
Articolo 3 Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa. Articolo 3 Nessuna distinzione sociale può essere imposta con la forza. L’utilità comune va decisa dalla stessa comunità che usa le distinzioni sociali.
Articolo 4 La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di quegli stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla Legge. Articolo 4 La libertà personale consiste nel promuovere la libertà altrui. Si è tanto più liberi quanto più lo sono gli altri. La libertà quindi è un impegno volto a rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono agli altri di essere liberi.
Articolo 5 La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina. Articolo 5 L’esercizio della libertà è un bisogno universale, illimitato nello spazio e nel tempo. La libertà non può essere definita una volta per tutte da alcuna affermazione, né può essere codificata da una legge. La libertà definisce l’essere umano e la libertà di coscienza è l’aspetto più significativo della libertà in generale.
Articolo 6 La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve quindi essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti. Articolo 6 Ogni violazione dell’esercizio della libertà non può essere risolta né con la forza né col diritto, ma solo con la persuasione ragionata e la condivisione del bisogno.
Articolo 7 Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente; opponendo resistenza si rende colpevole. Articolo 7 La proprietà deve soddisfare un bisogno, che può essere quello all’esistenza, alla sicurezza personale, alla libertà di movimento: non può essere rivendicata come un diritto che non tenga conto dei bisogni altrui. Non si tratta tanto di conservare dei diritti naturali quanto di soddisfare dei bisogni comuni.
Articolo 8 La Legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata. Articolo 8 Il principio di sovranità piena e diretta risiede nella stessa comunità che gestisce i propri bisogni. La comunità elegge i propri rappresentanti, il cui mandato può essere esercitato solo all’interno della stessa comunità e nei rapporti con le altre comunità. Il mandato deve poter essere revocato in qualunque momento. Una democrazia solo delegata è sempre un abuso.
Articolo 9 Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge. Articolo 9 La volontà generale di una comunità non può essere codificata in una legge, proprio perché i bisogni sono illimitati e mutevoli. Gli usi e i costumi sono superiori a qualunque legge, anche perché prescindono totalmente dall’esercizio della scrittura e quindi sono più universali. Solo la volontà generale di una comunità può decidere quando una consuetudine va modificata o superata.
Articolo 10 Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge. Articolo 10 Nessuna sanzione può risultare lesiva della dignità di una persona. Ogni sanzione ha lo scopo di rieducare a una convivenza civile. L’esercizio della critica senza quello dell’autocritica non aiuta lo sviluppo della convivenza civile.
Articolo 11 La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.
Articolo 12 La garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica; questa forza è dunque istituita per il vantaggio di tutti e non per l’utilità particolare di coloro ai quali essa è affidata.
Articolo 13 Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d’amministrazione, è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini, in ragione delle loro sostanze.
Articolo 14 Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare, da loro stessi o mediante i loro rappresentanti, la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente, di controllarne l’impiego e di determinarne la quantità, la ripartizione e la durata.
Articolo 15 La società ha il diritto di chieder conto a ogni agente pubblico della sua amministrazione.
Articolo 16 Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione.
Articolo 17 La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità. Articolo 17 La proprietà dei fondamentali mezzi produttivi di una collettività è sempre pubblica. Nessuno può usare una proprietà personale contro gli interessi della collettività.

Chiedere perdono dei propri crimini

In un universo infinito nello spazio ci si può nascondere dove si vuole pur di non pentirsi del male che s’è fatto. Poiché l’universo è anche eterno nel tempo, ci si può nascondere per sempre. Nell’universo infatti si ha consapevolezza che il suicidio non può essere fisico ma solo spirituale. Ci si nasconderà per l’eternità in un luogo remoto per la vergogna di ciò che s’è fatto, ma anche per la pervicace volontà di non pentirsi.

Sulla terra le cose sono un po’ diverse. Se uno ha compiuto crimini orrendi e, a un certo punto, s’accorge di non poter sfuggire alla giustizia, può arrivare a suicidarsi oppure a rassegnarsi ad avere il massimo della pena, che è la sentenza capitale o l’ergastolo. Cioè uno può pensare che, prima o poi, finirà di provare vergogna d’essere stato condannato per il reato compiuto.

Ma nell’universo questa stessa persona cosa dovrà pensare? A dir il vero uno può anche pensare d’aver compiuto i propri crimini secondo una certa plausibile motivazione o razionale giustificazione, per cui non ritiene di doversi pentire o comunque di non doverlo fare più di tanto. Quanti sostengono d’aver agito come criminali senza essere stati pienamente coscienti o perché condizionati da un drammatico passato o perché dovevano obbedire a un ordine superiore o perché accecati da un’ideologia o perché convinti che, in quel modo, avrebbero evitato un male peggiore? All’interno di considerazioni così particolari è difficile pentirsi al 100%, o almeno è molto difficile farlo da soli.

Ci vuole qualcuno che ci faccia capire fino a che punto si giocava la nostra responsabilità al momento di compiere un determinato crimine. Uno ha il diritto d’essere aiutato a pentirsi in qualunque momento, anche se gli si deve sempre garantire la libertà di non volerlo fare. Sono situazioni complesse, anche perché l’aiuto non può certo essere dato sulla base di motivazioni superficiali o schematiche. Bisogna saper tener testa alle argomentazioni sofisticate dei grandi criminali, che in genere sono uomini politici o militari o anche uomini di chiesa o intellettuali in grado di esercitare poteri significativi, come p. es. gli scienziati, i consiglieri, i funzionari…

Una differenza sostanziale, comunque, c’è: nell’universo la prigione o, se vogliamo, la pena è tutta interiore. Questo perché, essendo infinito nello spazio, l’universo permette a chiunque di non essere condizionato negativamente dall’atteggiamento altrui. Su questa terra, invece, gli uomini hanno sempre paura dei criminali: temono che i loro crimini possano ripetersi, anche se, essendo i grandi criminali le persone di potere, i comuni cittadini cercano di difendersi come meglio possono.

Paradossalmente là dove le condizioni di spazio e di tempo sono illimitate, l’importanza delle questioni di coscienza cresce in maniera esponenziale. Se non c’è alcun limite esterno all’agire, tutto dovrà giocarsi sulle potenzialità interne che uno dovrà per forza scoprire d’avere. E sarà su queste potenzialità che si dovrà prendere una decisione: o giocarsele tutte, mettendosi a disposizione di un proprio cambiamento significativo, o non giocarsele affatto, rendendo la propria coscienza impermeabile alle influenze altrui.

Di sicuro il tempo per ripensarci non mancherà. Nessuno può essere obbligato né a pentirsi né a non pentirsi: questa regola dovremmo adottarla anche sulla terra. Se esiste un inferno, è solo per chi lo vuole: non può esserci nessuna porta con scritto sopra: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Quindi niente torture, ma anche niente condanne definitive.

Naturalmente questo discorso vale anche per chi ha subito il crimine, il quale, con non meno intensità emotiva del criminale, deve essere disposto a perdonare. E, per poterlo fare, deve essere convinto di almeno due cose: la prima è che il criminale può aver avuto delle motivazioni plausibili; la seconda è che nessuno è mai totalmente innocente. Cioè dentro quelle motivazioni ce ne può essere una che riguarda, in qualche modo, la stessa vittima. Si pensi solo al fatto che esiste colpevolezza anche quando, vedendo compiere un crimine contro qualcuno, si pensa che ciò non ci riguardi. La storia è stracolma di questi peccati di omissione. Non si è abbastanza vigili e solerti per colpa del nostro opportunismo qualunquismo egoismo cinismo…: possiamo chiamarlo come ci pare.

Bisogna infine stare attenti che nell’universo non è come su questo pianeta, dove i criminali, abituati a ragionare in termini giuridici, fanno calcoli sulla possibile convenienza che hanno a pentirsi. Nell’universo l’unica vera legge umana sarà quella della libertà di coscienza: sarà impossibile dimostrare d’essere pentiti senza versare fiumi di lacrime. Non avrà alcun senso dimostrare d’essere pentiti rivelando i nomi dei propri complici o restituendo il maltolto: la verità sui grandi crimini dell’umanità sarà alla portata di tutti. L’unica “indagine” da fare sarà quella nei confronti di se stessi.

Non solo, ma anche dopo aver versato fiumi di lacrime, non si potrà pretendere che le nostre vittime ci perdonino. La riconciliazione tra vittima e carnefice potrà avvenire solo nella più assoluta libertà reciproca. Per questo motivo dovremmo sin da adesso abituarci a compiere significativi gesti di riparazione là dove si sono compiuti orrendi crimini. Dobbiamo abituarci a chiedere scusa con insistenza, nella speranza che la vittima, quando vorrà, si convincerà della nostra buona fede.

Che cos’è la libertà di coscienza?

Gli uomini devono imparare a disobbedire agli ordini che violano la libertà di coscienza. Come facevano i cristiani quando gli imperatori romani li volevano obbligare a rinnegare la loro fede in Cristo. Quella volta i cristiani avevano ragione anche se oggi sappiamo che la loro fede storicamente non aveva alcun senso, essendo la fede non in un “liberatore” ma in un “redentore”.

E’ preferibile che gli uomini si facciano ammazzare piuttosto che violare questa libertà, da cui dipendono tutte le altre. Non per passare alla storia pur avendo mentito sulle proprie visioni – come nel caso di Giovanna d’Arco -, ma proprio per ribadire che sulle questioni di coscienza non si scherza, vere o false che siano le proprie convinzioni o quelle altrui. Ricordiamoci sempre di Tommaso Moro che, nei confronti del proprio sovrano, politicamente aveva torto ma eticamente aveva ragione.

Non serve a niente avere la libertà di associazione, di voto, di culto, di insegnamento o qualunque altra libertà, se viene negata o non viene adeguatamente rispettata quella di coscienza.

Prendiamo p.es. il fenomeno della guerra. Una pura e semplice dichiarazione di guerra è già una violazione della coscienza, non solo di quella del “nemico”, che sarà costretto a difendersi, ma anche di quella dei cittadini dello Stato che ha dichiarato guerra, perché saranno costretti a considerarla come un dato di fatto, essendo stata decisa dal governo in carica senza previa consultazione popolare e, una volta accettata, saranno costretti ad accettare mille altre limitazioni, in un crescendo continuo, soprattutto se i “nemici” saranno in grado di difendersi.

L’unica guerra ammissibile dovrebbe essere quella difensiva, da considerarsi come gesto estremo dopo il fallimento di tutti i negoziati politici, e solo per evitare conseguenze peggiori, come la sottomissione di un intero popolo o il suo genocidio o la sua deportazione in altri territori, e così via. In tal caso la guerra difensiva va giudicata come l’ultima possibilità di sopravvivenza.

Dobbiamo ritenere altamente significativo che nella nostra Costituzione sia stato posto il divieto di usare la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali; anzi tutte le Costituzioni del mondo dovrebbero prevedere il principio secondo cui i crimini compiuti contro l’umanità non possono mai cadere in prescrizione, come si disse al processo di Norimberga contro i nazisti.

Questo perché occorre dare una qualche soddisfazione ai sopravvissuti, i quali devono essere indotti a credere che la giustizia non è una parola vuota e che, per ottenerla, non hanno bisogno di nutrire sentimenti di vendetta o di farsi giustizia per conto loro o di pretendere pene che violano il diritto ad avere una propria umanità.

Generalmente nelle situazioni belliche la libertà di coscienza viene ridotta al minimo. Nelle forze armate esiste una rigida gerarchia: l’inferiore è tenuto ad obbedire agli ordini del superiore di grado, a meno che non venga violata – oggi finalmente lo diciamo – la sua libertà di coscienza. Un soldato dovrebbe rifiutarsi di giustiziare i prigionieri o le persone disarmate, ferite o che si sono arrese.

Quando un soldato afferma, sotto processo, ch’era stato costretto a compiere determinate cose contro la sua coscienza solo perché gli era stato ordinato, in genere mente, poiché, se si fosse davvero rifiutato, non gli sarebbe successo nulla di particolarmente grave. I superiori sanno bene che se in casi del genere agissero con mano pesante creerebbero dei precedenti che poi risulterebbero ingestibili. Di qui la necessità di formare dei picchetti per le fucilazioni sulla base della libera adesione o di caricare a salve almeno uno dei fucili o di non intervenire se i componenti del plotone non colpiscono il bersaglio o lo colpiscono non per farlo fuori ma solo per ferirlo.

In genere i superiori devono convincere con la persuasione il plotone d’esecuzione che il soggetto da giustiziare meritava d’esserlo senza alcuna attenuante, in quanto le prove erano schiaccianti o il suo reato era assolutamente infame. Prediche analoghe, in grande stile, a interi eserciti, vennero fatte non solo ai giapponesi che bombardarono Pearl Harbor, ma anche agli americani che bombardarono Hiroshima e Nagasaki. Stessa cosa fecero Napoleone e Hitler alle loro truppe quando invasero la Russia.

E’ molto difficile rispettare la libertà di coscienza nelle situazioni-limite, i cui comportamenti unilaterali sono dettati da decisioni schematiche, semplificate al massimo. Frasi di questo genere: “Se tu non uccidi lui, lui ucciderà te”, “Non fate prigionieri”, “T’assicuro che in un modo o nell’altro parlerai”, “Sii spietato se vuoi che il nemico abbia paura di te”, “Bruciate tutto!”, “Ci teniamo il diritto a un colpo preventivo”, “Per sicurezza non rischiare”, “Quando uccidi degli innocenti, devi considerarlo un incidente di percorso” ecc., non dovrebbero mai essere pronunciate da un soldato e tanto meno da un ufficiale, che è preposto a dare l’esempio.

Quando non si rispetta la libertà di coscienza altrui, ci si mette nelle condizioni di non veder rispettata neppure la propria: sia perché si teme sempre che la vendetta del nemico, nel caso in cui abbia la meglio, sarà terribile; sia perché, temendo di dover sottostare a trattamenti analoghi ai propri, si preferisce il suicidio.

Suicidarsi per non diventare schiavi, come fecero gli ebrei a Masada, si può capire; ma suicidarsi piuttosto che pentirsi, è un grave atto contro la propria coscienza. Ancora più grave è l’atteggiamento di chi vuol mascherare il proprio suicidio accusando qualcuno d’averlo assassinato, ma qui siamo già nell’ambito della follia (come quella di Kierkegaard nei confronti della Chiesa danese).

La libertà di coscienza è la cosa più seria di questo mondo. E’ il metro di giudizio di ogni nostra azione, ma se uno pensa di potersi giudicare da solo, s’illude enormemente. L’essere umano è un animale sociale: nessuno è in grado di giudicare obiettivamente se stesso, se non si confronta con altre persone.

Da soli non abbiamo nessun criterio per stabilire la differenza tra bene e male, poiché per ogni azione sappiamo sempre trovare una giustificazione, anche a costo d’ingannare consapevolmente noi stessi.

Arcigay Vs Francesco Bruno che afferma: “L’omosessualità è una patologia”

Pensavamo di esserci liberati da certe diatribe scientifiche, in nome della verità, su certe attribuzioni verso l’omosessualità. Ci eravamo sbagliati. Esistono ancora uomini di cultura scientifica che trattano l’omosessualità come aberrazione, dichiarando senza peli sulla lingua che l’omosessualità non è altro che un disturbo che distacca l’uomo dalla norma. Si resta basiti a leggere quanto il noto criminologo e psichiatra Francesco Bruno dice in una intervista rilasciata al sito cattolico pontifex.roma

Alla domanda se l’omosessualità sia normalità o si tratti di patologia, il criminologo risponde:

Io ero e resto della convinzione che la omosessualità sia una patologia, una anormalità della sessualità e quindi un disturbo. Per disturbo si intende un distacco dalla realtà e non ci piove sul fatto che la sessualità abbia come primo e principale scopo la riproduzione della specie. Ora non é possibile questo evento nell’atto sessuale tra persone del medesimo sesso. Nessuno, tanto meno io, vuole fare delle discriminazioni, ma é così“. Continua a leggere