A che serve l’antropologia?

È assurdo che un antropologo debba limitarsi ad andare presso una comunità primitiva per poi tornare a riferire qualcosa alla società da cui è partito. Ciò avrebbe un senso se quella comunità soffrisse di un dramma per colpa di chi la vuole distruggere o comunque espropriare delle risorse del territorio in cui vive. Diversamente si tratterebbe soltanto di un rapporto meramente intellettuale o di semplice mediazione culturale tra due realtà opposte, di cui il ricercatore sa già quanto sia profonda la loro differenza.

Non serve a nulla soddisfare la nostra (di noi occidentali) “curiosità esotica”, anche perché, comportandosi così, solo per dare un senso alla sua attività accademica, l’antropologo non farà che aumentare la diffidenza che quelle comunità provano già, e giustamente, nei nostri confronti.

Se uno vuol fare un mestiere del genere, dovrebbe aver chiaro, in via preliminare, che la società da cui parte non è un modello per le comunità primitive che vorrà incontrare. È anzi impossibile che al giorno d’oggi un ricercatore non sappia che le differenze tra noi e loro, causate da lunghi e drammatici processi storici, sono abissali, al punto che i nostri sistemi di vita non sono assolutamente titolati a insegnare a quelle comunità il modo migliore per vivere in maniera sociale e rapportarsi alla natura.

È inoltre impossibile che non sappia – se è intellettualmente onesto – che oggi la società da cui egli proviene (sia essa fondata sul capitalismo o sul socialismo) tende ad essere un pericolo per la comunità che vuole incontrare. Qualunque società contemporanea che non metta in discussione il rapporto di “dominio” che ha nei confronti della natura, per non parlare dei rapporti antagonistici tra ceti sociali economicamente forti e ceti deboli, è una sicura minaccia per la sopravvivenza di una comunità che definiamo, dal nostro punto di vista, come “arcaica”. Siamo troppo diversi per poterci capire. Non è una semplice questione di linguaggio o di cultura.

Ecco perché la funzione dell’antropologo non dovrebbe essere, in prima e ultima istanza, quella di “capire” razionalmente tale diversità, ma anche quella d’introdurre il concetto di “alternativa” o di “transizione” all’interno della propria società, eventualmente servendosi di esperienze “arcaiche” o “primitive” (ma sarebbe meglio usare il termine “primordiali” o “native”, “autoctone” o “etniche”, onde evitare il rischio di paragonarle a qualcosa di “selvaggio”).

L’antropologo deve saper proporre alla propria società una discussione sulle condizioni irrinunciabili per non nuocere alle esperienze completamente diverse da quelle della stessa società da cui lui proviene e in cui vuole continuare a esistere. S’egli decidesse di andare a vivere nella comunità indigena che vuole conoscere, il discorso sarebbe diverso, ma quando mai viene fatta (o nel passato è stata fatta) una scelta del genere? Al massimo la si fa per un certo periodo di tempo, e sempre per motivi di studio o di carriera accademica. E in ogni caso, se davvero la si facesse come scelta di vita, non avrebbe più senso definirsi “antropologi”. Si diventerebbe membri effettivi di quella comunità, dando in un certo senso per scontato che la società da cui si proviene non abbia alcuna possibilità di migliorare qualitativamente se stessa. Il che sarebbe un errore.

Se l’antropologo vuol prendere le difese delle cosiddette “comunità arcaiche”, dovrebbe chiarire esplicitamente, là dove vive, che la società da cui proviene rappresenta una minaccia per la loro sopravvivenza. Dovrebbe cioè assumersi la responsabilità di dire che il suo compito di ricercatore non è tanto quello di “andare” dagli indigeni, come se avesse da insegnare a loro qualcosa che non sanno, quanto piuttosto quello di permettere agli indigeni di dire qualcosa a noi, di far presente a noi le incredibili difficoltà che devono superare per far fronte alla continua espansione planetaria delle nostre società.

Loro” dovrebbero venire da “noi” per dire a “noi” come dovremmo vivere, permettendo a “loro” di continuare a esistere. Il problema n. 1 infatti è che la nostra esistenza sembra essere del tutto incompatibile con la loro. È come se chiedessimo a un neonato di guidare un’automobile: sarebbe una richiesta stupida non tanto perché, prima di poterlo fare, gli occorrerebbe un certo tempo, quanto perché oggi siamo noi che dobbiamo chiederci se davvero abbia ancora un senso usare delle automobili per spostarsi.

Lo vediamo tutti i giorni che le auto sono una delle principali fonti dell’inquinamento del pianeta. Mentre noi guidiamo un qualunque mezzo motorizzato, stiamo procurando un problema alle comunità arcaiche che non lo usano.1 Il mondo è interconnesso, che ci si creda o no, che lo si voglia o no. Lo sanno bene le multinazionali, gli istituti finanziari, i broker delle borse di titoli e valori, gli ecologisti… Ormai lo sanno tutti che non ci si può più approcciare alle suddette comunità come se fossero un fenomeno locale, geograficamente circoscritto, soggetto a specifiche problematiche.

Anche gli antropologi lo sanno e sanno anche che le contraddizioni del sistema capitalistico si stanno acutizzando. Non è più possibile pensare che con la scienza e la tecnica si possano risolvere i problemi che sono stati creati proprio dalla rivoluzione industriale. O che tali problemi possano essere risolti trasferendo gli impianti industriali, soprattutto quelli più inquinanti, nei paesi del Terzo Mondo (o trasferendo qui le scorie che quegli impianti producono o i relitti inutilizzabili per essere smantellati).

Oggi non è neppure questione di “proprietà privata” capitalistica o di “proprietà statale” socialistica, per quanto sia fuor di dubbio che, al fine di ridurre gli effetti nocivi sui nostri ambienti, la proprietà dei mezzi produttivi vada “socializzata”, essendo questo l’unico modo per responsabilizzare le comunità locali.

Oggi bisogna porre all’ordine del giorno il problema di come uscire dal concetto di “civiltà”, intesa in senso “industriale”. L’antropologo deve poter mostrare ai propri concittadini che esiste la possibilità di vivere un’esistenza molto diversa. E l’indigeno, dal canto suo, può farci capire che questa possibilità non è utopica ma reale.

Tuttavia, affinché venga percepita come “reale”, noi occidentali dobbiamo rovesciare i criteri di fondo con cui viviamo nelle nostre società. Il discorso antropologico deve per forza associarsi a una critica dell’economia politica liberistica (o di derivazione borghese), e diventare, esso stesso, un discorso politico-eversivo.

L’antropologo deve impegnarsi non solo a favore della sopravvivenza delle comunità arcaiche, ma deve anche saper porre le basi per un mutamento radicale della società in cui lui stesso vive. Senza questo mutamento, la sopravvivenza di una qualunque comunità indigena è a rischio. Ed è a rischio anche la nostra.

Se l’antropologo si limita a voler “conoscere” tali comunità e non si preoccupa di fare altro, involontariamente fornisce informazioni utili ai nostri sistemi sociali per eliminare, in qualche maniera, quelle stesse comunità. Diventa, anche contro le sue migliori intenzioni, “una spia del sistema” e un imbonitore per gli indigeni, capace solo di vendere nuove illusioni.

Ai tempi della prima rivoluzione industriale erano gli economisti borghesi che svolgevano questo ruolo mistificatorio nei confronti dei contadini infeudati. Sarebbe triste che oggi venisse ereditato dagli antropologi nei confronti delle ultime comunità arcaiche rimaste in vita. È bene quindi guardare con molto sospetto qualunque teoria antropologica che non metta sul tappeto le questioni più urgenti dell’umanità.

Nota

1 Si potrebbe anche aggiungere che la potenza (espressa in cavalli fiscali) delle auto diventa sempre più irrilevante, a causa del fatto che, essendo state prodotte in gran numero sin dalla loro nascita, esse provocano nelle città degli ingorghi insopportabili, sicché ciò ch’era stato progettato per accorciare le distanze, oggi inevitabilmente le allunga.

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Dal punto di vista degli Azande

Gli Azande, un popolo dell’Africa centrale, considerano illogici gli europei, in quanto questi, pur sostenendo che chi uccide volontariamente sia un assassino, negano che lo siano i piloti dei loro bombardieri.

È un ragionamento semplice, molto efficace, privo dei nostri fronzoli pseudo-etici. Infatti per noi occidentali chi esegue ordini militari, implicanti l’uccisione di nemici individuati da una dichiarazione di guerra, fatta da un governo in carica, non può essere considerato un assassino, a meno che non compia azioni spregevoli non richieste da ordini superiori. Anche al processo di Norimberga si arrivò a dire che vi è una certa differenza tra un militare “delinquente” e un militare “normale”, ovvero che il soldato tedesco poteva rifiutarsi tranquillamente di obbedire a ordini contrari alla sua coscienza e non per questo veniva fucilato. Non aveva quindi senso che i gerarchi nazisti sotto processo si giustificassero dicendo che avevano obbedito agli ordini di Hitler. Se avessero potuto processare anche lui, sicuramente avrebbe risposto che i suoi ordini erano largamente condivisi dal suo stato maggiore.

Oggi però, in virtù delle spaventose armi che abbiamo, dovremmo ribadire a chiare lettere che, in mancanza di uno scontro diretto col nemico, un militare non dovrebbe mai arrivare a colpire alla cieca un determinato territorio, senza chiedersi se esso sia abitato da persone inermi o disarmate (come è stato fatto a Guernica, a Coventry, a Hiroshima e Nagasaki, a Dresda e nelle tre città sovietiche di Mosca, Leningrado e Stalingrado). Non dovrebbe muovere un dito neppure nei confronti di uno specifico obiettivo militare, se avesse un dubbio circa l’effettiva presenza, in quell’obiettivo, di soli militari e non anche di civili.

Se un avversario militare si serve di ostaggi civili nella speranza di non essere attaccato, compie sicuramente un gesto vergognoso, ma lo compie anche chi, sapendolo, lo colpisce ugualmente. Oggi, quando si muove guerra a qualcuno, bisognerebbe dirlo sin dall’inizio che non si farà differenza tra militari e civili (una volta si diceva che non si sarebbero fatti prigionieri). In tal modo si eviterebbe la retorica di chi dice di comportarsi correttamente per dimostrare d’essere eticamente superiore.1

Chi usa mezzi di sterminio di massa andrebbe considerato un criminale a prescindere non solo dal numero di morti che le sue armi sono in grado di procurare (in potenza o in atto), ma anche dal livello di coscienza con cui sarebbe disposto a eseguire ordini del genere. Anche tale conseguenza bisognerebbe conoscerla preventivamente, proprio perché non può essere accampata la “legittima difesa” quando si usano mezzi del genere. Non ci si può mettere la coscienza a posto solo perché non si vede il nemico in faccia, o solo perché si condividono le motivazioni dei propri superiori, o perché, pur non condividendole, si accetta di eseguirle per spirito di obbedienza.

O il confronto bellico è diretto, corpo a corpo, cioè alla pari, oppure andrebbe vietato da leggi internazionali. L’ideale sarebbe che lo scontro fosse solo simbolico, di tipo sportivo o tecnico-scientifico, senza morti. Ogni parte in causa si sceglie i migliori e chi perde accetta le condizioni di chi vince, come in qualunque gioco, dopo che si sono fissate delle precise regole comuni. Ovviamente se si fosse molto più intelligenti di quel che siamo, non vi sarebbe necessità che qualcuno dominasse qualcun altro: la tradizionale diplomazia dovrebbe essere sufficiente.

Andrebbero vietate anche le armi a scoppio ritardato o differito (come p.es. le mine antiuomo), cioè tutte quelle armi che possono entrare in funzione quando, a guerra già finita, qualcuno fa scattare accidentalmente il detonatore. Chi ha predisposto armi del genere (sia chi le ha progettate, sia chi le ha costruite, sapendo ciò che faceva, sia chi le ha posizionate) andrebbe sottoposto a una corte di giustizia. Non ci può essere prescrizione per crimini così altamente immorali.

Andrebbero infine proibite tutte le armi il cui uso nefasto si prolunga oltre il tempo effettivo del conflitto. Infatti le parti in causa devono prevedere che si arriverà, prima o poi, a firmare un trattato di pace, che si ristabiliranno le relazioni diplomatiche, che si riprenderanno gli scambi commerciali e culturali. Com’è possibile tornare alla normalità quando le armi chimiche, batteriologiche, neutroniche e nucleari possiedono effetti sugli esseri umani e sulla natura che non si possono in alcun modo controllare? Anzi, per molti versi non si possono neppure prevedere. La nube tossica di Černobyl’ arrivò tranquillamente, a causa dei venti, persino in Italia, a 1700 km di distanza, e tutti ci mettemmo a mangiare cibo inscatolato. Molti non riuscirono a risparmiarsi il tumore alla tiroide.

Chi usa armi del genere andrebbe bandito dalla comunità internazionale, espulso dagli organismi rappresentativi delle nazioni, isolato politicamente, diplomaticamente e anche economicamente, poiché non ci si può fidare dei suoi prodotti commerciali. Il suo Paese dovrebbe essere sottoposto a un embargo permanente, almeno fino a quando il mondo intero non sia sicuro, previo controllo super partes, che tutte le armi di questo tipo siano state smantellate.

Gli Stati che hanno usato armi del genere dovrebbero risarcire materialmente le vittime, proferendo scuse ufficiali, promettendo che non le fabbricheranno mai più e impegnandosi a impedire che altri Stati abbiano comportamenti analoghi.

Chi possiede armi del genere dovrebbe dare il buon esempio iniziando per primo, in maniera unilaterale, a eliminarle, evitando di sostenere che vuole conservarle per potersi difendere. Non serve a nulla neanche dire che, in caso di guerra, verranno usate soltanto per rispondere a un attacco del genere, cioè non per un attacco preventivo. Chi si disarma per primo a livello nucleare dovrebbe sentirsi autorizzato a pretendere che chi non lo fa venga boicottato a livello internazionale.

Nota

1 C’è da dire che mentre per i nazisti i russi, in generale, era un popolo sub-umano che andava sottomesso, i russi invece cercarono sempre di far capire che non stavano facendo una guerra contro i tedeschi bensì contro il nazismo. È difficile tuttavia far capire queste cose quando per decenni un popolo viene indottrinato a odiarne un altro. Si arriva a un punto tale per cui, se si attacca senza fare differenza tra obiettivi militari e obiettivi civili, si finisce col credere, quando ci si difende, che l’avversario si comporterà nella stessa maniera.

Capitalismo e grande industria nell’Anti-Dühring di Engels

Le rivoluzioni nel capitalismo maturo

È difficile cercare di capire il motivo per cui, nel suo Anti-Dühring, Engels ritenesse che solo “la grande industria sviluppa quei conflitti che rendono ineluttabilmente necessario un rivoluzionamento del modo di produzione: conflitti non solo tra le classi ch’essa forma, ma anche tra le stesse forze produttive e le forme di scambio ch’essa parimenti crea”. È come se avesse voluto dire: “Siamo arrivati a un punto tale di progresso tecnologico e produttivo che è impossibile andare avanti senza cambiare qualcosa di molto significativo”. La grande industria, nata intorno al 1830, “sviluppa, proprio in queste gigantesche forze produttive, anche i mezzi per risolvere questi conflitti”. Come se prima della grande industria non ci fossero stati i mezzi e i modi per risolvere alla radice i problemi dell’antagonismo sociale!

Questo modo di ragionare è quanto meno deterministico. Forse saremmo esagerati a sostenere che per Engels le rivoluzioni “socialiste” sono possibili solo in presenza di un capitalismo maturo; però di sicuro voleva dire che, in assenza di tale capitalismo, le rivoluzioni sono destinate a fallire i loro obiettivi, a inverarsi nel loro contrario. Nella sua concezione di socialismo il capitalismo maturo porta le contraddizioni a un tale livello di conflittualità che le rivoluzioni diventano inevitabili. È un modo di accontentarsi: anche nel caso in cui manchi la volontà politica di emanciparsi, ci penseranno le circostanze, con tutta la loro crudezza, a farla venir fuori. Detto altrimenti: il proletariato farà la rivoluzione quando sarà disperato, quando non avrà più nulla da perdere, se non avrà saputo farla prima, in condizioni più decenti, più vivibili.1

Tuttavia, anche se ciò fosse vero, non si capisce perché in questa condizione estrema il proletariato dovrebbe saper creare il migliore socialismo possibile, quello più democratico. In genere, quando si reagisce alla disperazione, si compiono azioni impulsive, scriteriate, tutt’altro che democratiche. Non ha alcun senso dire che le rivoluzioni non sono mai state coerenti con se stesse perché mancava il capitalismo maturo.

Volendo, si potrebbe sostenere il contrario, e cioè che proprio il capitalismo maturo, disponendo di immense risorse persuasive e coercitive, è in grado d’impedire qualunque rivoluzione socialista.2 Ovvero che sarebbe stato più facile realizzarla al tempo dello schiavismo o del servaggio feudale, quando ciò che impediva di emanciparsi era uno stato di coercizione fisica, priva di un raffinato condizionamento ideologico. Oggi il capitalismo maturo pretende di esportare la democrazia nel mondo intero.

Probabilmente Engels era così fatalista perché non aveva visto un proletariato industriale davvero capace di imporsi. Era rimasto profondamente deluso degli esiti delle rivoluzioni europee del 1848-50. Esattamente come Marx, che aveva però avuto un sussulto al tempo della Comune di Parigi del 1871, analizzata in maniera intelligente, e che sperava si compisse una rivoluzione socialista almeno nella Russia dei populisti. Engels invece detestava persino il movimento operaio inglese, che pur era molto combattivo sul piano sindacale e molto propositivo su quello cooperativistico.

Lenin, che conosceva tutto della Comune di Parigi, arrivò alla conclusione che la rivoluzione comunista sarebbe stata possibile in Russia proprio perché questo immenso Paese costituiva l’anello debole del capitalismo avanzato e perché qui esisteva una resistenza più dura alle contraddizioni del capitale. O meglio, aveva capito che se il proletariato industriale fosse stato lasciato a se stesso, al massimo si sarebbero avuti dei moti ribellistici spontanei o delle rivendicazioni salariali compatibili col sistema, con risultati politici di tipo riformistico, del tutto parziali. La rivoluzione avrebbe potuto essere realizzata solo se il proletariato si fosse fatto guidare da un partito di intellettuali organici, consapevoli che il sistema andava superato in quanto tale, sin dalle sue fondamenta.

Engels, ma anche il Marx inglese, parlavano come dei rivoluzionari sconfitti, come dei teorici privi di un partito di professionisti della politica eversiva. Con Lenin invece abbiamo capito che, per fare la rivoluzione, non un colpo di stato, ci vuole un partito organizzato, disciplinato, abituato a lavorare anche nella clandestinità, capace di aggregare masse imponenti intorno a qualunque battaglia significativa e che, al momento opportuno, può essere mandato alla conquista del potere, come se fosse un potente esercito.

Quando mai è esistito un partito socialista del genere in Europa occidentale? I partiti socialisti o anche comunisti sono stati prevalentemente dei partiti parlamentari, soprattutto quello tedesco di Kautsky e di Bernstein, epigoni dei classici del marxismo. I partiti extraparlamentari sono sempre stati del tutto inconsistenti sul piano numerico. Solo in rare occasioni hanno svolto un’attività che si può definire “rivoluzionaria” o “eversiva”: nel cosiddetto “Biennio rosso” della III Internazionale oppure durante la Resistenza (che coincisero coi due grandi traumi post-bellici), o nel periodo che va dal 1968 al 1977, dopo la sfuriata del cosiddetto “boom economico” degli anni Cinquanta e Sessanta. Forse l’unico vero momento in cui la borghesia europea ha tremato per colpa della sinistra è stato quello della Comune di Parigi, durata però dal 18 marzo al 28 maggio del 1871.

In nessun momento questi partiti socialcomunisti sono stati capaci di vera coerenza rivoluzionaria. Il motivo probabilmente sta nel fatto che mancava la determinazione in carattere, la ferma volontà di procedere sino in fondo nella realizzazione degli obiettivi strategici generali. Il benessere aveva corrotto le menti, infiacchito la volontà. I dirigenti dei partiti socialcomunisti si sono rivelati, nei momenti decisivi, degli opportunisti. E non si può dire che il proletariato industriale abbia saputo fare di meglio.

Il capitalismo è un sistema sociale che condiziona le coscienze, più di ogni altro sistema sociale precedente. Questo perché il tipo di schiavismo che impone di vivere è raffinato, appare poggiante su basi democratiche e l’industrializzazione garantisce delle comodità materiali impensabili nel passato. Il proletariato industriale è giuridicamente libero. Tutti i cittadini lo sono, per cui lo sfruttamento economico sembra essere il frutto di una libera scelta. Il mercato del lavoro è libero, impostato su una contrattazione tra domanda e offerta, esattamente come quello delle merci. Chi vende e chi compra vengono fatti passare per persone equivalenti, paritetiche. La schiavitù sembra essere accettata liberamente, non perché imposta da una forza fisica o materiale esterna (p.es. l’abilità militare o il possesso della terra).

Engels sapeva perfettamente come stavano le cose, al pari di Marx, ma non ne traeva le debite conseguenze operative. Infatti era convinto che quando la schiavitù salariata sarà allargata a dismisura, coinvolgendo anche i ceti relativamente indipendenti della piccola borghesia, il cosiddetto “ceto medio”, cioè quando la stragrande maggioranza della popolazione sarà “proletarizzata” e non avrà più nulla da perdere, la rivoluzione diventerà inevitabile, e a quel punto sarà la forza delle circostanze a suggerire le misure migliori per superare il capitalismo maturo.

Bisogna dire che questo suo determinismo peccava d’ingenuità. Come si può pensare che un aumento generalizzato, quantitativo, della sofferenza sociale possa portare a una migliore consapevolezza delle alternative da realizzare? Sono cose completamente diverse. La crescita esponenziale della miseria non comporta affatto, in maniera automatica, un aumento della lucidità mentale. Anzi, può anche creare dei mostri che compiono azioni criminali, prive di qualunque forma di eticità: il nazismo o lo stalinismo o il maoismo non sono forse nati così?

Quando si ragiona in questi termini, non si è poi capaci di valorizzare chi dice di essere in grado di realizzare una vera alternativa al sistema prima ancora che si formi una miseria generalizzata. Lo si etichetterà facilmente di avventurismo, proprio perché si preferirà aspettare un improvviso rivolgimento delle masse popolari, nella convinzione che, così facendo, esse potranno dimostrare di avere una medesima coscienza eversiva.

Se le “condizioni oggettive” per fare la rivoluzione non ci sono, chiunque le desideri, verrà immediatamente considerato un utopista. Come se ci potesse essere qualcuno in grado di stabilire quando tali condizioni oggettive s’impongono in maniera evidente! Come se tali condizioni non possano essere il frutto di un lavoro soggettivo, finalizzato alla loro creazione! Un partito rivoluzionario non deve forse saper approfittare delle debolezze del sistema in qualunque momento? L’unica cosa che deve garantire non è forse che la rivoluzione sia davvero popolare? E che essa sia in grado di difendersi dalla reazione delle classi privilegiate, che tenderanno a opporsi in tutti i modi e con qualunque mezzo alla loro espropriazione?

Engels non aveva idea di come si dovesse gestire un partito rivoluzionario. Ancorato com’era a una rigida successione di diversi stadi di sviluppo del modo di produzione, per lui la rivoluzione alla fine diventava un unico atto storico, la cui necessità era lapalissiana. L’Internazionale comunista, che aveva organizzato insieme a Marx, non aveva una caratterizzazione rivoluzionaria vera e propria. Era solo un punto d’incontro tra le varie esperienze politico-partitiche del socialismo europeo e nordamericano, ed era tutta presa a combattere, al proprio interno, le varie forme di estremismo (p.es. quella anarchica di Bakunin o del blanquismo cospirativo, tipico anche dei mazziniani) e di moderatismo (p.es. quella proudhoniana, lassalliana o delle trade-unions inglesi). Abbiamo dovuto aspettare Lenin per vedere un vero partito comunista.

Le condizioni oggettive non sono soltanto quelle create spontaneamente dall’economia capitalistica. Sono anche quelle che si ottengono contestando tutte le contraddizioni del sistema. Se la critica è puntuale, circostanziata, su ogni più piccolo particolare, e non si presenta come fine a se stessa o per avere una direzione politica ancora più autoritaria, ma per realizzare una vera transizione al sistema, è impossibile non ottenere un vasto consenso. È la borghesia stessa che alimenta l’odio sociale nei suoi confronti. E se in seguito a tali contestazioni s’impone l’autoritarismo cesarista, deve essere chiaro a tutti che ciò avviene per paura di una rivoluzione socialista, non tanto per gestire meglio le contraddizioni del capitale.

Bisogna dimostrare che si vuole maggiore democrazia e che il sistema non è in grado di offrirla proprio perché poggia sul mero profitto industriale e sulla rendita finanziaria e, più in generale, sulla proprietà privata dei mezzi produttivi. Non si possono concepire i processi economici e politici come una “necessità naturale”, in cui gli uomini sono rappresentanti oggettivati, privi di vera personalità. Anche perché in tal modo il socialismo scientifico assume la funzione di un dogma, perdendo quella, più specifica, di “guida per l’azione”.

Capitalismo maturo e imperialismo

Engels precisa meglio il suo pensiero facendo questa osservazione: “Il proletariato [industriale] che cominciava [appena finita la rivoluzione francese] a distaccarsi da queste masse nullatenenti, come ceppo di una nuova classe, ancora assolutamente incapace di un’azione politica indipendente, si presentava come un ceto oppresso, sofferente, al quale, nell’incapacità in cui era di aiutarsi da se stesso, un aiuto poteva tutt’al più portarsi dall’esterno, dall’alto”. È così che Engels spiega la nascita del socialismo utopistico di Saint-Simon, Fourier e Owen. In pratica egli considerava politicamente immaturo il proletariato industriale proprio perché non era adeguatamente sviluppata la grande industria.

Questo modo di ragionare è davvero curioso: Engels faceva dipendere la consapevolezza politica a favore della transizione socialista dallo sviluppo del capitalismo industriale, cioè proprio dalla condizione che meno favorisce quella transizione. Per lui era solo la grande industria il demiurgo che produce la classe operaia che lotta, ovvero l’inevitabile crollo del sistema. Vedeva il movimento operaio come un proletariato omogeneo di fabbrica e non come una coalizione eterogenea di varie classi sfruttate. Ignora, p.es., le lotte anticapitalistiche del XVIII secolo.

Ragionamenti del genere probabilmente dipendevano dal fatto che quando non si dirige un partito politico rivoluzionario, e nel contempo si desidera il compiersi di una transizione al socialismo, l’unica alternativa che resta è quella di augurarsi che le contraddizioni diventino così esplosive da generare esse stesse un soggetto rivoluzionario. In pratica il meglio sarebbe dovuto venir fuori dal peggio, come nella dialettica hegeliana la sintesi non è che la negazione della negazione. Un atteggiamento del genere, in antropologia, potrebbe essere definito di tipo “magico”.

Engels, in sostanza, era convinto che il capitalismo maturo avrebbe generato una crescente miseria, e siccome gli operai industriali erano quelli più consapevoli dei limiti del sistema, in quanto erano loro a produrre la maggiore ricchezza, ricevendo in cambio solo un misero salario, avrebbero dovuto essere proprio loro a prendere le redini della rivoluzione. Peraltro il proletariato industriale, a differenza di tutti gli altri lavoratori, andava considerato anche come classe molto organizzata e disciplinata: erano gli stessi imprenditori a pretenderlo.

In quali forme la storia si è incaricata di dimostrare che questo modo di vedere le cose era completamente sbagliato? Anzitutto il capitalismo maturo basa prevalentemente le proprie ricchezze non tanto o non solo sullo sfruttamento dei propri lavoratori, ma anche e soprattutto su quello dei lavoratori delle “colonie”3, le quali sono anche ricche di risorse naturali a buon mercato e costituiscono ampi sbocchi commerciali per le merci del capitalismo occidentale. È vero che nel capitalismo maturo dovrebbe, in teoria, aumentare la miseria, ma in pratica ciò sembra avvenire (almeno in maniera macroscopica) soltanto nelle “colonie”, e gli imponenti flussi migratori verso l’occidente (tanto per fare un esempio) starebbero lì a dimostrarlo. Cioè finché esistono “colonie” da sfruttare, la miseria che si vive in occidente è ben poca cosa rispetto a quella che si patisce nelle “colonie”. E chi nelle “colonie” vuole emanciparsi da questa miseria, facilmente acquisisce stili di vita o modelli di comportamento tipicamente occidentali, a meno che non sia in grado di maturare autonomamente una consapevolezza “socialista” delle cose.

In secondo luogo la crescita del benessere in occidente, a scapito del Terzo Mondo, ha reso il proletariato industriale (ma anche chiunque investa in titoli provenienti dai Paesi emergenti) responsabile, seppure indirettamente, dello sfruttamento delle “colonie”. In tale atteggiamento oggettivo, squisitamente economico e finanziario, non si può ravvisare alcuna premessa per la futura rivoluzione socialista. Anzi, il proletariato occidentale, nel momento stesso in cui ha visto aumentare i propri salari (e quello industriale è addirittura diventato, nell’ambito del proletariato in genere, una sorta di casta privilegiata), ha smesso di rivendicare un’alternativa globale al sistema. Generalmente, infatti, ci si limita ad avanzare richieste di tipo sindacale. Gli stessi dirigenti socialisti o democratici si sono ampiamente imborghesiti. Il socialismo è diventato solo riformistico, di piccolo cabotaggio, e s’impegna, oggettivamente, a puntellare il sistema borghese, non avendo alcun interesse a mettere in relazione il benessere dell’occidente con lo sfruttamento del Terzo Mondo.

Quindi non solo il proletariato industriale non è la classe meglio predisposta a compiere la rivoluzione, ma, oggettivamente, è anche quella che più contribuisce allo sfruttamento delle “colonie”, tant’è che reagisce negativamente quando nuove masse di diseredati provenienti dal Terzo Mondo si riversano in occidente in cerca di fortuna. Gli operai occidentali meno qualificati vedono i derelitti dell’emisfero Sud, disposti a lavorare sotto qualunque condizione, come dei pericolosi concorrenti. E nessuno in occidente (se non quelli che ci ricavano un utile o che hanno un cuore compassionevole) è disposto a mantenere con l’assistenza pubblica decine di migliaia di indigenti che giungono da noi in massa. L’elemosina può essere fatta solo entro certi limiti, oltre i quali diventa un fardello insopportabile, anche perché è facile argomentare che il denaro utilizzato per i migranti potrebbe essere devoluto ai ceti più bisognosi dell’occidente.

D’altra parte quando nessun politico socialista mette in relazione il benessere dell’occidente col malessere del Terzo Mondo, è difficile che in occidente vi sia qualcuno che esamini, oggettivamente, la situazione di dipendenza economica del Terzo Mondo nei confronti delle economie più sviluppate del pianeta. Per poter sapere qualcosa sulla dipendenza coloniale e neocoloniale del Terzo Mondo, bisognerebbe, come minimo, andare a consultare le opere di Samir Amin, A. Gunder Frank, Hosea Jaffe…, le quali però sono quasi sconosciute in Europa occidentale (in Italia però stanno cominciando ad avere un certo riscontro quelle di Luciano Vasapollo).

Si dirà che ai tempi di Marx ed Engels non vi era uno sfruttamento coloniale così sofisticato come quello odierno, dove gli strumenti finanziari (si pensi solo alla questione del debito) paiono più persuasivi delle cannonate del colonialismo classico. Sappiamo tutti che lo sfruttamento coloniale sistematico è iniziato già con le spedizioni ispanico-lusitane di mezzo millennio fa. Ai tempi dei fondatori del socialismo scientifico4 si era in presenza di un neonato imperialismo europeo (anzitutto anglo-francese in varie parti del mondo, ma anche italo-tedesco e belga in Africa) e ovviamente statunitense in America Latina e nipponico in Asia, quello che scatenerà le prime due guerre mondiali. Ma per avere un quadro chiaro di questa ulteriore forma di colonialismo ci volle l’analisi di Lenin, che non si avvalse, in merito, delle opere di Marx ed Engels, i quali, tutto sommato, ne parlarono poco, probabilmente perché erano ancora troppo affascinati dai successi produttivi della grande industria e auspicavano che il capitalismo industriale si diffondesse in tutto il mondo, per poter avere un enorme proletariato che l’avrebbe affossato come un becchino.

Nella visione dei due ideologi tedeschi il proletariato avrebbe dovuto accettare l’industria così com’era, sul piano materiale, modificandone solo l’assetto proprietario. L’industria andava socializzata nella proprietà, mentre a livello tecnologico non poteva che essere ulteriormente perfezionata. Inutile dire che questo modo di porsi era completamente sbagliato, poiché proprio l’industrializzazione massiva costituisce il più grande handicap della storia per la riproduzione della natura. Marx ed Engels erano convinti che con la scienza e la tecnica, una volta realizzato il socialismo, si sarebbero risolti tutti i problemi creati dalla stessa scienza e tecnica, gestita in maniera capitalistica.

Oggi la moderna ecologia nutre seri dubbi su questa capacità. I difetti dell’industrializzazione sembrano essere del tutto indipendenti dalla gestione politica dei processi economici. Su questo però bisogna dire che nessun comunista, neppure Lenin, ha mai avuto le idee chiare. Marx sapeva bene che l’agricoltura capitalistica danneggia la qualità del suolo, ma in Russia, durante l’edificazione del socialismo statale, tutti erano convinti che l’industria pesante, unitamente alla statizzazione della proprietà, avrebbe portato a un benessere progressivo, generalizzato, senza che la natura ne avesse da soffrire granché. Le forze produttive della borghesia non si potevano mettere in discussione. Inoltre lo stalinismo era convinto che senza l’industria pesante sarebbe stato impossibile affrontare militarmente l’occidente.

Oltre il socialismo scientifico

La contraddizione maggiore in queste riflessioni di Engels è bene espressa in questa frase lapidaria: “All’immaturità della produzione capitalistica, all’immaturità della posizione delle classi corrispondevano teorie immature”. Di qui l’esigenza di creare “esperimenti modello” (tipici del socialismo utopistico), destinati a essere assorbiti dal sistema borghese.

Che i limiti del socialismo utopistico anche oggi vengano considerati evidenti, è pacifico. È letteralmente impossibile costruire isole economiche di socialismo all’interno di un sistema chiaramente capitalistico. Per costruire il socialismo occorre anzitutto abbattere politicamente il sistema. Su questo non vi sono dubbi. Semmai oggi ci chiediamo come creare un’alternativa alla statizzazione della proprietà. Il cosiddetto “socialismo reale” è fallito proprio perché aveva statalizzato tutto, alla maniera “asiatica”, come al tempo dello schiavismo il cosiddetto “modo di produzione asiatico” rappresentava una specie di “schiavismo statale”5. Invece di lavorare per eliminare progressivamente lo Stato, lo stalinismo aveva finito col rafforzarlo all’estremo, trasformandolo in una sorta di “Grande Fratello”, come se a ciò si fosse obbligati proprio per la mancanza di un diffuso benessere economico.

Non a caso oggi, nell’ambito della migliore sinistra, si parla di “socializzazione della proprietà”, antitetica alla “statalizzazione”. Ma come ciò possa essere fatto è ancora tutto da stabilire. Infatti se lo Stato deve avere un ruolo marginale sul piano economico, allora vuol dire che devono risultare centrali le comunità locali e regionali, e che se un “piano” deve esserci, al fine di eliminare l’anarchia produttiva, esso va deciso a livello locale e regionale.

Dare importanza a tali comunità, renderle responsabili di se stesse, significa, inevitabilmente, favorire l’autoconsumo e quindi la vendita sui mercati soltanto delle proprie eccedenze. Il che vuol dire considerare il valore d’uso di molto superiore al valore di scambio. Tutte cose che il socialismo scientifico non avrebbe visto di buon occhio, proprio perché ha sempre temuto di propagandare l’immagine di un “socialismo della miseria”.

I classici del marxismo han sempre detto che il socialismo è una sintesi di rivoluzione industriale, compiuta dalla borghesia, e di gestione centralizzata dell’economia da parte di un organismo statale (almeno nella fase iniziale). La proprietà privata veniva prevista solo nelle piccole cose, estranee allo sfruttamento del lavoro altrui (p. es. un pezzo di terra lavorato in proprio). Poi col tempo l’autorganizzazione dei produttori diretti avrebbe fatto a meno anche dello Stato.

Tuttavia il cosiddetto “socialismo reale”, sovietico o cinese, non ha mai promosso una responsabilità del genere a favore delle masse popolari. Difficile dire se i rispettivi governi non abbiano fatto in tempo o se proprio non l’avessero nel loro dna. Un esperimento è addirittura imploso, trasformandosi in una sorta di capitalismo statale. L’altro ha invece conservato la dittatura politica del “socialismo reale”, autorizzando però lo sviluppo capitalistico sul piano sociale, sulla base di un compromesso che non si sa quanto tempo potrà durare. Noi occidentali, infatti, sappiamo bene che il capitalismo favorisce l’individualismo, e questo non sopporta d’essere gestito dall’alto, almeno non oltre un certo limite.

Il ruolo della soggettività nelle rivoluzioni

Ma torniamo all’argomento di prima. Dove sta la contraddizione più stridente di Engels? Semplicemente nel fatto che le sue teorie e, ancora più, quelle di Marx maturano in un paese, la Germania prussiana, ch’era ancora molto indietro sul piano dello sviluppo capitalistico. Anche prescindendo dal fatto ch’essi provenivano dalla regione della Renania, che sicuramente era tra i länder tedeschi la più sviluppata in senso borghese, non è assolutamente vero che le teorie rivoluzionarie si sviluppano solo nell’ambito del capitalismo maturo.

In realtà nessuno sa come si formino le teorie rivoluzionarie. Anzi, potremmo sostenere il contrario di ciò che dice Engels, e cioè che la resistenza allo schiavismo era sicuramente più forte quando ancora esistevano tracce significative del comunismo primordiale, quello preistorico; e che tale resistenza è andata tanto più scemando quanto più tali tracce sono andate definitivamente scomparendo. Non a caso lo schiavismo classico, quello nato seimila anni fa e che è durato sino alla nascita del feudalesimo, era impostato su rapporti di forza fisica, brutale, legittimato dalla mitologia e dalle religioni politeistiche pagane. Non aveva bisogno di ricorrere a sofisticate argomentazioni ideologiche per potersi imporre, benché tali argomentazioni servano sempre in una fase iniziale: oggi, p.es., in occidente il capitale può farne a meno, in quanto il diffuso benessere (in rapporto a quell’80% dell’umanità che invece non fruisce di alcuna forma di protezione sociale) ha fatto piazza pulita dello spirito critico.

Oggi la resistenza all’oppressione nasce non in virtù di un’esperienza comunitaria del passato, che si voleva conservare nella memoria, ma in virtù di un desiderio disperato di superare delle contraddizioni assolutamente insopportabili, che rendono indegna la vita. Oggi è la disperazione che, nel migliore dei casi, porta a desiderare il socialismo. Ma nella disperazione si possono compiere errori colossali, proprio perché si è persa la memoria del socialismo più democratico della storia, quello che si viveva prima che si formasse lo schiavismo e che gli storici han posto, con molta supponenza, fuori della storia, chiamandolo appunto “preistorico”.

Come sia stato possibile che nella Germania arretrata sia venuto fuori un socialista come Marx, di origine ebraico-borghese, seguito a ruota da Engels, di origine pietistico-borghese, nessuno può saperlo. Come nessuno può sapere come sia emerso Lenin in Russia, ch’era ancora più arretrata della Germania, la ruota di scorta di tutto il capitalismo europeo. Di questi geni dell’umanità bisognerebbe prendere atto e basta, riconoscendoli come tali. Cosa che però raramente succede, in quanto nessuno è profeta pro domo sua. Ognuno di loro ha dovuto subire difficoltà a non finire prima che le proprie teorie venissero accettate.

Il problema, semmai, è un altro, ed è tutto pratico. Cos’hanno fatto questi geni dell’umanità, mentre erano in vita, per convincere i loro contemporanei che le loro idee erano sufficienti per mutare qualitativamente la realtà? Potremmo forse dire che tali persone eccezionali non hanno potuto far molto a causa del fatto che le condizioni storico-oggettive non erano sufficientemente mature per compiere una rivoluzione socialista o per compierla in maniera democratica? Quando c’è di mezzo la violazione della dignità umana e soprattutto della libertà di coscienza (quella che permette di scegliere il proprio destino) le condizioni oggettive sono sempre mature per ribellarsi. Ci mancherebbe, infatti, che una popolazione oppressa, prima di compiere una rivolta, debba attendere passivamente che le contraddizioni si esasperino da sole, cioè che la negatività del sistema diventi così grande da indurre la gente a ribellarsi. Il rivoluzionario non è un cinico con aspirazioni alla magia.

Ciò che manca è, nelle persone comuni, la consapevolezza di dover prendere delle decisioni radicali, e soprattutto la capacità di organizzare una strategia operativa con cui compiere la conquista del potere. Ciò che è mancato, in questi geni dell’umanità, che pur avevano piena consapevolezza delle cose da cambiare, è stata la capacità organizzativa di compiere la rivoluzione. Fino adesso la si è vista solo in Lenin. Neppure in Mao la si è vista. Infatti non si tratta solo di “compiere” la rivoluzione, ma anche di saperla “gestire”. E bisogna dire che nella fase della gestione, Mao fu un disastro completo, al pari di Robespierre o di Stalin o di Pol Pot. Lenin invece continuò a essere lungimirante sia prima che dopo, pur con tutti i suoi limiti e anche se purtroppo morì prematuramente.

Tuttavia, in seimila anni di storia “schiavistica”6 un solo vero genio dell’umanità è troppo poco. Forse ne avremmo potuti aver due, se Gesù Cristo non fosse stato tradito dai suoi stessi discepoli. Peraltro, proprio a proposito di Lenin vien da chiedersi come sia stato possibile che subito dopo la sua morte si sia formata una delle peggiori dittature della storia. Quali premesse, per scongiurarla, erano venute meno? Poteva Lenin porre le basi per favorire uno sviluppo davvero democratico del socialismo? E quali sono queste basi? Sarebbe importante saperlo per la volta successiva. Hanno mai saputo indicarle i classici del socialismo scientifico? È forse possibile farlo astrattamente, sul piano etico o umanistico, a prescindere dal confronto politico vero e proprio? O forse queste basi esistono già da qualche parte e non ce ne siamo accorti? Dobbiamo forse guardare con occhi diversi quello che è stato e che ancora oggi è, molto debolmente, in qualche luogo remoto del pianeta, il cosiddetto “comunismo primitivo”? Cioè quella fase della storia umana, durata decine di migliaia di anni, in cui gli antagonismi sociali non esistevano affatto o non erano comunque irriducibili?

Individualismo e statalismo nel capitalismo europeo

L’ultima parte degli “Elementi teorici” dell’Anti-Dühring (pp. 334-41) è tutta dedicata al capitalismo monopolistico-statale.

In via preliminare va detto che Engels non vede l’aspetto statale del capitalismo nell’industria più propriamente produttiva, bensì in quelli che lui definisce “grandi organismi di comunicazione”: poste, telegrafi e ferrovie. Forse anche meglio di Marx aveva capito che, a certi livelli, lo sviluppo capitalistico ha bisogno di un intervento esplicito dello Stato nella gestione dell’economia, un intervento organico, di lunga durata, non estemporaneo, per ripianare situazioni di emergenza. Argomento, questo, che Lenin tratterà ampiamente nel suo Imperialismo.

Il tema è indubbiamente complesso, anche perché Engels vede questo capitalismo statale come anticamera del socialismo, quando invece non lo è affatto, poiché è proprio in questa forma gestionale che il capitalismo cerca di screditare al massimo l’idea stessa di “socialismo”.7 E questo senza poi considerare che in una nazione ad elevato PIL è relativamente facile che anche i “grandi organismi di comunicazione” vengano privatizzati, o che gli Stati intervengano a ripianare i debiti delle grandi imprese o banche private (ovvero a “socializzare le perdite” con le tasse dei cittadini), senza assumersene direttamente l’amministrazione. Anzi, in un momento come questo (siamo quasi alla fine del secondo decennio del XXI sec., ancora alle prese con la crisi mondiale scoppiata nel 2008), dettato da esigenze europeistiche e globalistiche, le imprese private in difficoltà non hanno scrupoli a cedere i loro diritti di proprietà a imprese private straniere. Gli stessi Stati sono costretti a cedere una parte significativa della loro sovranità nazionale.

Questo per dire che il capitalismo occidentale, per tradizione o per cultura storica, è più portato a favorire le privatizzazioni che le statizzazioni, e quando si sviluppa a livello mondiale, guarda con sufficienza i limiti degli Stati nazionali: non ha paura di spersonalizzarsi. Semmai è il continente asiatico che si comporta diversamente. L’individualismo è una caratteristica dell’occidente dai tempi della Chiesa romana, che lo praticava sul piano politico, facendo del pontefice un soggetto infallibile, superiore a qualunque istanza conciliare e sempre in aperta competizione con gli imperatori. Poi, a partire dal 1517, tale individualismo è stato generalizzato a livello sociale dal protestantesimo, che ha eliminato gli aspetti oggettivi dell’istituzione ecclesiastica, trasformando il singolo credente in un pontefice di se stesso. Cosa che non riuscì a fare la borghesia italiana, che pur conduceva uno stile di vita individualistico sin dalla nascita dei Comuni.

Probabilmente l’unica nazione protestantica, in Europa occidentale, che ha continuato ad attribuire una certa importanza allo Stato politico è stata la Germania, il cui capitalismo oggi mostra d’essere ben solido, nonostante lo scandalo delle emissioni della Volkswagen e la crisi senza fine della Deutsche Bank. Ma i motivi di ciò vanno cercati nella cultura militaresca dei Sassoni. È vero che nell’ambito del capitalismo occidentale vi sono Paesi in grado di competere tranquillamente con la Germania, come p.es. Stati Uniti, Regno Unito e Francia, dove lo Stato non ha la stessa importanza, ma ciò è dovuto alle opportunità offerte dalle passate imprese imperialistiche, che fanno sentire il loro peso ancora oggi. La Germania cercò di dotarsi di colonie, scatenando due guerre mondiali, ma le perse entrambe, e per recuperare il tempo perduto fu costretta a rinunciare alla propria identità specifica, di cui tanto si vantava, non essendo stata colonizzata dai Romani, e dovette diventare un Paese di forte immigrazione (attualmente il 12% dell’intera popolazione), soprattutto sul versante turco (Berlino è la più grande città turca in Europa).

L’Italia invece può essere considerata un caso particolare, poiché, pur non avendo uno Stato forte come quello tedesco, né una tradizione imperialistica come quella statunitense, britannica e francese, possiede un elevato PIL (attestato al settimo posto nel mondo), dovuto a una miriade di piccole e medie imprese la cui cultura risale alla formazione e allo sviluppo dei Comuni, delle Signorie, dei Principati. La mentalità capitalistica è nata proprio in Italia (oltre che nelle Fiandre), anche se la Controriforma ha impedito ad essa di svilupparsi in forme moderne, quelle più propriamente industriali. In Italia il capitalismo industriale è stato un prodotto d’importazione, come nel resto del mondo, esclusa ovviamente la Gran Bretagna.

La statizzazione dell’economia borghese

Ma torniamo all’Anti-Dühring. In una lunga nota di p. 335 Engels prende in esame il caso della Prussia, dove il capitalismo sembra aver assunto una connotazione statalistica più accentuata che negli altri Paesi europei. Egli intende riferirsi alla statalizzazione delle ferrovie compiute da Bismarck; e si lamenta che, a seguito di ciò, una parte dei socialisti dica che ogni atto di statizzazione è una forma di socialismo.

Siccome però ha sostenuto in precedenza che proprio la statizzazione di alcuni “grandi organismi di comunicazione” è la prova più lampante della necessità di passare al socialismo, ora si sente in dovere di spiegare la differenza tra la sua posizione socialista e quella degli altri (è da presumere si stesse riferendo soprattutto a Ferdinand Lassalle, il quale era convinto che, con progressive e mirate riforme, si potesse controllare lo Stato borghese dall’interno, senza aver bisogno di compiere alcuna rivoluzione comunista, e questa sua idea condizionerà tutta la II Internazionale).

E cosa dice Engels di così convincente da far meritare al suo socialismo l’appellativo di “scientifico”, cioè di “non borghese”? Ecco la frase-chiave: “solo nel caso in cui i mezzi di produzione o di comunicazione si siano effettivamente sottratti al controllo delle società anonime, in cui quindi la statizzazione sia divenuta economicamente inevitabile, solo in questo caso essa, anche se viene compiuta dallo Stato attuale, rappresenta un progresso economico, il raggiungimento di un nuovo stadio preliminare nella presa di possesso di tutte le forze produttive da parte della società”.8

In pratica Engels avrebbe affermato che il capitalismo statale può essere considerato l’anticamera del socialismo (“un nuovo stadio preliminare”) solo se lo Stato elimina le grandi imprese private capitalistiche (qui chiamate col termine di “società anonime”).

Lo stalinismo, quando iniziò a smantellare la NEP leniniana, doveva aver guardato con molta soddisfazione una nota del genere. Qui infatti si arriva a dire, nella maniera più deterministica possibile, che lo Stato costituisce l’istanza più significativa per il passaggio dal capitalismo avanzato al socialismo vero e proprio. Naturalmente, mentre Engels lo diceva senza poter fare riferimento a una preliminare rivoluzione politica da parte dei comunisti, lo stalinismo invece poteva dirlo proprio in forza di quella rivoluzione.

Una posizione, quella engelsiana, d’incredibile ingenuità. Come si può pensare che lo Stato borghese, nato per risolvere i problemi della borghesia ben 500 anni fa, possa tradire la sua fondamentale classe di riferimento per fare gli interessi del proletariato industriale? Come si può pensare che lo Stato borghese possa avere i poteri per eliminare le cosiddette “società anonime”? La gestione delle grandi imprese capitalistiche può essere eliminata solo da una rivoluzione socialista, la quale può servirsi delle funzioni statali per fronteggiare la resistenza della borghesia, che certamente non si farà espropriare senza reagire.

Ma c’è di più. Eliminato il pericolo di una generale controrivoluzione, occorrerà da subito fare una cosa che la Russia post-leniniana non riuscì assolutamente a fare: porre le basi per il superamento delle stesse istituzioni statali, poiché, se c’è una cosa che deresponsabilizza i cittadini, è proprio lo Stato.9 Se non si formano immediatamente delle comunità locali autogestite, non sarà possibile scongiurare il rischio che le istituzioni statali vengano usate dai governi in carica per una svolta autoritaria. Le comunità locali devono essere messe in grado di difendersi da sole dagli attacchi dei nemici interni ed esterni, eventualmente stringendo alleanze tra loro, laddove la situazione del momento lo richieda. Se la gestione dell’economia non è autonoma, le comunità locali non saranno mai in grado di difendersi da sole, e vedranno sempre lo Stato come un potenziale nemico, anche quando si aspetteranno aiuti assistenziali.

Le istanze politiche sovralocali non possono essere “istituzionalizzate”. Può esserlo, semmai, la periodicità con cui convocare degli organi collegiali in cui si mettono a confronto i problemi locali delle varie comunità. Ma in genere la convocazione di tali organi ha senso se viene richiesta da quelle comunità che hanno effettivamente dei problemi da risolvere. Neppure la frequenza delle convocazioni può essere regolamentata. Semmai tutte le comunità vanno lasciate libere di confrontare le loro esperienze, eliminando qualunque barriera che le divida, che impedisca lo scambio reciproco delle esperienze. Sono i confini che vanno eliminati, onde favorire decisioni autonome in relazione agli scambi culturali. L’omologazione o l’uniformità degli stili di vita va evitata come la peste. Solo la diversità arricchisce.

La trasformazione della borghesia

Ma questo argomento è così importante che Engels merita d’essere citato alla lettera, anche perché il cosiddetto “socialismo reale” è crollato proprio perché veniva amministrato dall’alto, e una qualunque alternativa al capitalismo oggi non può non prevedere un superamento del socialismo statale, pena l’impossibilità di scongiurare i rischi della burocratizzazione del sistema.

Scrive dunque Engels, mostrando, in questo, una certa perspicacia previsionale: “Se le crisi hanno rivelato l’incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società anonime e in proprietà statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine. Tutte le funzioni sociali del capitalista sono oggi compiute da impiegati salariati”. E poi ancora: “Il capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l’intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in borsa, dove i capitalisti si spogliano a vicenda dei loro capitali”.

Si noti anzitutto la sopravvalutazione dell’importanza delle crisi, che spesso compie chi non è impegnato a costruire un vero partito rivoluzionario. Molti economisti marxisti han sempre sostenuto il contrario, e cioè che proprio grazie alle sue crisi periodiche il sistema si rafforza ulteriormente. Detto altrimenti: un conto è se la crisi viene sfruttata dai lavoratori per porre in atto una transizione; un altro conto è se i lavoratori la subiscono passivamente, permettendo al capitale di ristrutturarsi.

Nell’ambito del capitalismo, infatti, non esiste solo la contrapposizione tra operai e imprenditori, ma anche tra gli stessi imprenditori, che a volte può essere anche più forte. P.es. la II guerra mondiale non iniziò con uno scontro tra Paesi capitalisti e Russia socialista, ma all’interno dell’Europa occidentale. Soltanto quando la Germania nazista poté avvalersi delle risorse umane e materiali dell’Europa, avvenne l’attacco all’Urss.

La seconda cosa da sottolineare è che Engels non capiva che, pur nella sua varietà di forme in cui si presenta sulla scena, lo stile di vita borghese, in occidente, presuppone sempre sia il carattere privatistico dell’appropriazione del plusvalore, sia l’aspetto individualistico dei soggetti sfruttatori. Chi penserebbe oggi che il mafioso va in giro con la coppola e il fucile a canne mozze? Dunque, per quale ragione si dovrebbe pensare che il borghese non esiste più proprio in quanto l’attività capitalistica è gestita da società anonime o dallo stesso Stato? Non sono le forme che cambiano la sostanza. È questa che assume varie forme a seconda delle circostanze, restando immutata la sua essenza. La borghesia non coincide con soggetti specifici più di quanto non coincida con una rappresentazione ideale.

Già Marx l’aveva detto, in una Prefazione del Capitale: i soggetti dell’agire economico sono personificazioni di categorie astratte. Sotto questo aspetto è del tutto fuori luogo pensare che nell’attuale Cina non si possa parlare di capitalismo privato solo perché al governo vi è un partito comunista. Semmai – dal punto di vista borghese – ci si dovrebbe complimentare con quei dirigenti per aver compiuto un’operazione del tutto inedita sulla scena mondiale, per quanto l’idea di un “socialismo di mercato” fosse già presente nella ex-Jugoslavia degli anni Sessanta e nella cosiddetta “Primavera di Praga” del 1968.

In terzo luogo bisogna dire che i manager che gestiscono le imprese capitalistiche non possono far nulla senza confrontarsi con chi detiene la maggioranza dei pacchetti azionari. Essi prendono delle cifre colossali, sottratte al plusvalore estorto agli operai, ma restano dei dipendenti dei proprietari delle imprese. Il fatto che degli “impiegati salariati” svolgano un mestiere che in precedenza veniva svolto dagli stessi proprietari, sta solo ad indicare che la gestione delle imprese, su scala planetaria, è diventata una cosa molto complessa, richiedente competenze molto specifiche, studi qualificati, che non necessariamente deve possedere il proprietario (singolare o plurale) della stessa impresa (senza poi considerare che oggi una stessa impresa produce cose molto diverse tra loro, che esigono competenze multilaterali). I manager di oggi son come i fittavoli del periodo medievale, che il nobile assumeva per dirigere l’azienda agraria secondo criteri capitalistici. Se un proprietario agricolo ha una mentalità borghese, può anche mettersi a gestire in proprio i suoi terreni, ma se non l’ha, può tranquillamente vivere di rendita.

In quarto luogo bisogna dire che se è vero che oggi un capitalista tende a vivere come un parassita, è anche vero che non smette mai di controllare le sue proprietà, proprio perché è questo possesso materiale delle cose che dà senso alla sua vita. È solo in apparenza che gli imprenditori non svolgono più, direttamente, il lavoro di prima, preferendo approfittare della maturità del capitalismo per affidare a terzi la gestione dei loro patrimoni. È vero, si fidano molto di più dei loro consiglieri e non temono affatto di essere derubati dei loro averi a causa di una insurrezione popolare. Quando diventano molto sospettosi è perché hanno incontrato dei borghesi più furbi di loro (p.es. degli hacker che entrano nei loro conti correnti bancari, o dei manager estremamente capaci di falsificare i bilanci a loro vantaggio, o delle mogli che approfittano di risarcimenti colossali in caso di divorzio). Ma un imprenditore non smette mai di esserlo. Il senso della sua vita sta unicamente nell’accumulare capitali e, per farlo, è disposto a qualunque cosa, anche a far credere, con grande soddisfazione personale, che, avendo già il mondo in mano, non può essere corrotto da nessuno.

www.socialismo.info

Note

1 Ai tempi di Marx ed Engels, quando l’imperialismo era ancora in fasce e gli imprenditori non potevano tenere alti i salari nelle madrepatrie utilizzando tutte le risorse umane e materiali nei continenti asiatico, africano e sudamericano, lo sfruttamento degli operai era molto più intenso di oggi. Ma tutto è relativo, nel senso che oggi, p.es., i macchinari sono molto più sofisticati e, a parità di unità lavorativa, producono molto di più, anche se l’operaio lavora con meno fatica e in meno ore. Inoltre le attività più nocive alla salute o più onerose il capitale tende a trasferirle nei paesi cosiddetti “emergenti”, dove chiunque è disposto a fare qualunque lavoro per qualunque salario e dove i diritti sindacali e persino quelli in generale sono molto risicati. Questo per dire che lo sfruttamento psico-fisico-intellettuale è una cosa, quello più propriamente economico-produttivo un’altra, proprio perché ci sono sempre di mezzo le macchine, da cui il capitalismo non può prescindere, pena la sua trasformazione in schiavismo allo stato puro.

2 I governi degli Stati Uniti, il paese più capitalistico del mondo, concepiscono il socialismo solo come un nemico da abbattere. Non sono abituati a confrontarsi con le sue idee. Fanno molta fatica a tollerare la presenza di un partito socialista o comunista all’interno del loro Paese. Lo stesso popolo americano sembra non chiedersi affatto se questo atteggiamento governativo sia da considerarsi normale: semplicemente lo danno per scontato. Quando contestano le azioni dei loro governi, non lo fanno mai appellandosi a qualche idea del socialismo, anche se ne avrebbero tutti i motivi. Per loro l’uguaglianza non proviene dal socialismo, ma solo dalla democrazia. Eppure non si può dire che gli Stati Uniti non abbiamo conosciuto idee ed esperienze di “socialismo”: basterebbe guardare che cos’erano le tribù native sino alla seconda metà del XIX sec. Oggi comunque il comunismo americano è sostanzialmente filo-cinese.

3 Mi rendo conto che un termine del genere oggi può apparire obsoleto e, per molti versi, fastidioso, in quanto non si parla più del Terzo Mondo come di un’area colonizzata bensì “emergente”. Tuttavia una cosa è la dipendenza economica, che per molti Paesi perdura sin dal XVI sec., un’altra è la dipendenza politica, che effettivamente si è parzialmente ridotta dopo la fine della II guerra mondiale. I fatti dell’imperialismo o del globalismo cosa dimostrano? Che non sempre una indipendenza politica implica, di necessità, anche una indipendenza economica: che questo sia vero lo si vede anche nella situazione che attualmente stanno vivendo i Paesi europei dell’ex “socialismo statale”, i quali hanno deciso di abbracciare il capitalismo senza rendersi ben conto di non avere armi sufficienti per competere con quello occidentale. Si potrebbe anzi dire che i modi economici o finanziari per tenere un Paese in uno stato di “dipendenza” si sono col tempo raffinati in maniera proporzionale all’aumentata richiesta di indipendenza politica.

4 A dir il vero la denominazione di “socialismo scientifico” risale al solo Engels, e proprio in relazione alla polemica contro Dühring, che da alcuni politici della socialdemocrazia tedesca veniva visto come un eccellente scienziato in grado di criticare Marx. Per Engels il socialismo scientifico era un prodotto essenzialmente tedesco, proprio perché qui era nata la dialettica. Bernstein, il cui riformismo avrà la meglio nella II Internazionale, preferiva invece usare la formula “socialismo critico”, opponendo alla filosofia hegeliana quella kantiana.

5 Il che non riguardava unicamente l’Asia (India, Cina, ecc.), ma anche l’Africa (Egitto dei faraoni) e l’America delle civiltà precolombiane.

6 Anche il feudalesimo e il capitalismo, seppure in modi diversi, sono due forme di schiavitù: che la dipendenza sia fisica, personale o contrattuale non cambia molto lo stato di soggezione del lavoratore. Sotto il cosiddetto “socialismo reale” abbiamo anche assistito alla dipendenza più strettamente ideologica.

7 È forse qui il caso di ricordare che sia il fascismo che il nazismo si ponevano, nella loro fase iniziale, come realizzatori del “socialismo” dal punto di vista della piccola-borghesia. Di qui l’aspetto apparentemente “rivoluzionario”.

8 È probabile che una nota così lunga sia stata inserita successivamente, dopo che qualcuno (Marx?) gli avrà detto che tra il suo socialismo e quello dei prussiani iscritti all’Internazionale non vi era, in definitiva, una differenza sostanziale.

9 Da notare che già nel Manifesto si afferma che nelle mani dello Stato avrebbero dovuto esserci, transitoriamente, fino al superamento del concetto stesso di “Stato”, la proprietà fondiaria, la produzione industriale, una banca nazionale e i mezzi di trasporto.

Il superamento della religione nell’Anti-Dühring di Engels

L’ateismo del comunismo primitivo

È impossibile dar torto a Engels quando considera ridicola l’idea di Dühring di “abolire” la religione nella società socialista. Infatti il socialismo scientifico ha sempre detto ch’essa è soltanto un epifenomeno, una sovrastruttura che si estinguerà da sé, insieme allo Stato politico, quando il socialismo sarà realizzato.

Ciò che non piace, nella sintesi engelsiana sulla posizione del socialismo in merito al fenomeno religioso, è un’altra cosa. Scrive nel suo Anti-Dühring: “Agli inizi della storia sono anzitutto le potenze della natura quelle che subiscono questo riflesso…”, assumendo col tempo “svariate e variopinte personificazioni”. Quale riflesso? “Ogni religione non è altro che il fantastico riflesso nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la sua esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene assumono la forma di potenze ultraterrene”.

Molto feuerbachiana questa definizione della religione. Cerchiamo di capir bene cosa Engels voleva dire. Anzitutto non si sta riferendo alle religioni politeistiche, tipiche dello schiavismo, poiché subito dopo parla di “mitologia comparata” dei popoli indoeuropei, di cui i Veda induistici costituiscono l’origine ancestrale. Egli si sta riferendo alle religioni più primitive, quelle clanico-tribali, cioè quelle passate alla storia col nome di “totemico-animistiche”.

Queste però non erano religioni che riflettevano rapporti sociali di tipo antagonistico. Erano dunque così alienanti? così predisposte a fuorviare gli uomini dall’idea di doversi liberare da rapporti sociali frustrati? Assolutamente no, anche perché appunto non esisteva ancora lo schiavismo.

Ma facciamo ora mente locale e cerchiamo di ricordare come sono fatte le tante pitture rupestri dell’uomo preistorico trovate in vari luoghi del pianeta. Presentano forse una simbologia magico-religiosa o animistico-totemica? Purtroppo per Engels dobbiamo dire che appaiono molto realistiche e naturalistiche, per quanto le figure siano stilizzate, appena abbozzate. Esse dovevano soltanto rimandare ad altro, non avevano la pretesa d’aver un significato in sé. Il pittore preistorico non voleva rappresentare tutto se stesso, né faceva della sua arte una forma di consolazione o di evasione o di protesta in rapporto alle contraddizioni della sua vita. Picasso rimase molto stupito di questo realismo ingenuo e cercò d’imitarlo nelle sue raffigurazioni dei tori.

Ora, perché questa assenza di riferimenti religiosi? Il motivo è molto semplice: nel comunismo primitivo non esisteva alcuna religione. Il fatto che seppellissero i loro morti con tutto ciò che d’importante avevano usato in vita, non voleva affatto dire che basassero la loro esistenza in funzione di una credenza religiosa. Non c’erano sacerdoti che si distinguevano dal resto della comunità, rivendicando un potere particolare. Se c’erano sciamani o stregoni, non svolgevano riti non compatibili con le funzioni attribuite alla natura. Alcuni eminenti studiosi han detto che non c’era la religione perché il cervello degli uomini primitivi non era sufficientemente sviluppato. Allora non lo è neppure quello dei socialisti! Ancora oggi ci si imbatte in qualche studioso di mentalità borghese che legge il passato con gli occhi del presente o che ritiene sia impossibile non credere in un’entità superiore.

Gli uomini primitivi erano forse religiosi perché mancava la scienza? Ma la fede cieca nella scienza non rende forse altrettanto superstiziosi? L’unica vera scienza è forse quella occidentale? La conoscenza diretta della natura, trasmessa per prove ed errori attraverso le generazioni, va considerata non scientifica? La scienza è davvero “scientifica” solo quando fa esperimenti in laboratori asettici, neutrali, non influenzati dall’ambiente esterno? La vera scienza è soltanto quella che sa “dominare” la natura perché ne conosce a fondo tutte le sue leggi?

Sono tutte domande le cui risposte, oggi, dovrebbero essere scontate, anche perché l’uomo primitivo, avendo una visione olistica delle cose, era inevitabilmente molto più scientifico degli odierni scienziati, sempre molto settoriali e privi di senso etico, in quanto, se sono idealisti, non si ritengono responsabili quando le loro ricerche vengono usate dalla politica o dall’economia in maniera negativa, oppure, se sono venali, si chiedono come ricavare dalle loro ricerche un utile economico. Quando parliamo di medicina non stiamo forse lì a chiederci perché in occidente si curi soltanto l’organo malato e non si abbia un vero rapporto col paziente?

Vivendo rapporti sociali naturali, l’uomo primitivo non poteva avere alcuna religione, e se aveva delle credenze che oggi qualifichiamo, sbagliando, col termine di “religiose”, esse non lo facevano sentire in balìa delle forze della natura, non provenivano da un senso d’impotenza nei confronti di tali forze, poiché la natura era considerata “madre”, non “matrigna”. Semmai è sotto lo schiavismo che si inizia ad attribuire a forze innaturali o sovrannaturali la causa e, insieme, il rimedio delle proprie frustrazioni. È così che si creano delle personificazioni simboliche, astratte, di ciò che si vive (il male) e che si vorrebbe vivere (il bene) nella realtà.

Gli uomini primitivi non si sentivano “dominati” dalla natura, né avvertivano il desiderio di “dominarla”. Per loro la natura era una partner dotata di personalità autonoma (che, p.es., non si poteva ferire con l’uso dell’aratro, per non devastarne il ventre, come dicevano tante popolazioni antiche). Era considerata una madre severa, esigente, ma anche protettiva, rassicurante, con cui misurarsi alla pari, man mano che si diventava adulti, senza mai scordarsi che gli esseri umani sono tutti “figli della natura”. Concepivano la natura come fonte esclusiva1 delle loro risorse, della loro stessa vita. Se per il fatto di ritenerla una sorta di “divinità” è necessario definirli “religiosi”, indubbiamente lo erano. Ma allora dovremmo considerare tali anche gli antichi filosofi ilozoisti o panpsichisti, quando invece erano fondamentalmente atei.

Credere che esista un aldilà o che la morte sia una forma di passaggio da un’esistenza a un’altra non significa essere “religiosi”, poiché anche la scienza parla di eternità e infinità della materia e dell’universo che la contiene, e della sua perenne trasformazione. Per non essere “religiosi” è sufficiente non credere in un dio onnipotente, onnisciente, onnipresente, preveggente…, in grado di leggere il pensiero umano, di anticiparne le decisioni, di condizionarne le scelte, di indurlo in tentazione e altre amenità del genere, che fanno sentire l’uomo una marionetta nelle mani di dio. Chi crede nell’eternità della natura, non ha bisogno di credere in dio, oppure crederà in un dio che sostanzialmente avrà caratteristiche umane. Il livello massimo di religione che potevano avere gli uomini preistorici era il culto degli antenati, che è quanto di più umano vi possa essere.

Schiavismo e paganesimo

Il secondo aspetto sbagliato nella sintesi di Engels, sullo sviluppo del fenomeno religioso, è che non mette in relazione il paganesimo con lo schiavismo. Eppure avrebbe dovuto essere scontato. Tutte le religione cosiddette “pagane” o politeistiche sono nate quando già esisteva la fine del comunismo primitivo. Tali religioni avvertivano la natura come un pericolo o una minaccia, in quanto gli uomini vivevano così i loro rapporti sociali. Cioè consideravano la natura uno strumento nelle mani degli dèi, che lo usavano a loro discrezione, il più delle volte per punire gli uomini di qualche mancanza; oppure veniva invocato l’aiuto degli dèi per nuocere al nemico.

Non è mai esistito – come invece dice Engels – un periodo in cui gli uomini temevano le forze della natura, antecedente a un secondo periodo in cui hanno iniziato a temere le forze sociali antagonistiche. Dopo la fine del comunismo primitivo l’uomo ha subito avvertito il proprio simile come un nemico, e là dove non riusciva a sconfiggerlo, a sottometterlo, s’inventava delle forze supplementari astratte che potessero aiutarlo. Oppure chi era in grado d’imporsi con la forza o l’astuzia, escogitava delle entità simboliche per giustificare la propria superiorità.

Che poi sotto il paganesimo ci fossero tante divinità, mentre sotto le cosiddette “religioni del libro” ve ne fosse una sola, non ha molta importanza. Forse le religioni monoteistiche sono emerse quando il peso dei condizionamenti sociali antagonistici era troppo forte per essere sopportato. Esse infatti appaiono come una forma d’illusione a un livello superiore, più astratto e sofisticato: hanno sostituito qualcosa che aveva fatto il suo tempo, nella convinzione che occorressero ideali più elevati, da realizzarsi a tutti i costi. Le religioni monoteistiche sono legate più alla storia che non alla natura, più all’azione che non alla contemplazione, più a una organizzazione collettivistica con addentellati politici che non a un approccio alla divinità di tipo clanico-parentale o individuale, più a una sensibilità universale che non a un riferimento urbano o locale, più a rigidi dogmi che non a riti conformi ai ritmi della natura. Il passaggio da tante divinità che si possono rappresentare visivamente a un unico dio non rappresentabile o, come nel cristianesimo, a un personaggio che insieme è umano e divino, potrebbe anche essere visto come una forma di cripto-ateismo, di disincantamento da una certa ingenuità di fondo.

Insomma la formazione e lo sviluppo delle religioni sono stati molto sfaccettati nei secoli e nei diversi luoghi geografici, per cui non è possibile stabilire un “prima” e un “dopo” tra una forma e l’altra. L’unica cosa che si può dire è che, se si escludono le religioni animistico-totemiche, tutte le altre riflettono rapporti sociali conflittuali, cui s’è cercato di trovare una spiegazione fantastica a seconda delle circostanze. Tutti gli dèi servono per giustificare la posizione delle classi dominanti, o possono essere inventati per contrastare tale posizione. Le divinità possono assumere col tempo nomi, funzioni, caratteristiche, modalità d’azione… incredibilmente diversi, a seconda della fantasia umana: quello che non cambia è che esse vengono sempre usate in rapporto agli antagonismi sociali.

Anche oggi esistono divinità laicizzate che chiamiamo Stato politico, Libero mercato, Scienza laboratoriale, Diritti umani universali, Democrazia parlamentare… Persino la Scrittura, rispetto alla semplice Oralità, è considerata una divinità. Siamo in grado di “deificare” qualunque cosa, vivendo in sua funzione, sottomettendoci come servi: il denaro da accumulare, lo shopping per spendere il denaro accumulato, il sesso da godere, la droga per evadere, lo sport della squadra del cuore, l’attività ginnica che tiene sempre in forma, la medicina che risolve ogni problema fisico, l’alimentazione che rende sani, giovani e belli, i film che fanno sognare, la musica che distrae, le chat che coinvolgono, il gioco d’azzardo che ipnotizza, l’analista cui confidare i nostri problemi… Quando dominano i rapporti antagonistici, tutto può essere trasformato in una “religione”, persino l’ideologia con cui vengono criticati questi rapporti.

La religione è una fissazione da cui è molto difficile liberarsi, se non ci si libera di ciò che la origina. Con uno sforzo di volontà personale al massimo si può passare da una fissazione a un’altra. Tutto può diventare una forma di dipendenza, esattamente come le classiche religioni. L’oppio dei popoli oggi è il capitalismo, ma, in alcuni Paesi del mondo, per 70 anni è stato il cosiddetto “socialismo reale”. Gli stessi Marx ed Engels avevano il culto per la scienza e la tecnica e avevano concepito una transizione socialista che non prescindesse minimamente da ciò che la borghesia aveva realizzato sul piano tecnologico.

Ecco perché oggi, se davvero vogliamo realizzare un socialismo democratico, dobbiamo rimettere tutto in discussione. Oggi ci vantiamo di conoscere la natura molto meglio di quanto potessero fare gli uomini prima della rivoluzione tecnico-scientifica del Settecento. Ma chiediamoci: forse per questo abbiamo eliminato il concetto di “religione”? O non l’abbiamo piuttosto trasformato in qualcosa di più laico, conseguente al fatto che la società borghese ha aumentato, col consumismo, gli oggetti di cui possiamo disporre per illuderci di superare le nostre alienazioni?

Tutte queste opinioni limitate di Engels non dipendono solo dal fatto che risalgono a 150 anni fa, ma anche e soprattutto da una visione piuttosto terribile della preistoria. Scrive a tale proposito: “Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia: ancora mezzo animali, rozzi, ancora impotenti di fronte alle forze della natura, ancora ignari delle proprie; perciò poveri come gli animali e di poco più produttivi di essi”. In queste condizioni verrebbe da chiedersi come sia stata possibile un qualunque forma di progresso.

Se osserviamo che talune comunità primitive, ancora oggi esistenti, sono rimaste ferme al neolitico, pur essendo consapevoli, almeno a grandi linee, di un certo progresso tecnico-scientifico e urbanistico, avvenuto non molto lontano dai loro villaggi, verrebbe quasi da pensare che i membri di tali comunità non appartengano affatto alla specie “homo sapiens”. A Engels sarebbe parso del tutto incredibile che, pur consapevoli di un certo progresso tecnologico al di fuori del loro habitat, tali comunità abbiano preferito rinunciarvi altrettanto consapevolmente, nella convinzione che, così facendo, avrebbero potuto conservare meglio le caratteristiche della loro identità, le proprietà del loro ambiente vitale.

Purtroppo gli stessi etnologi che visitano tali comunità spesso non sono in grado di capire ch’esse, a causa dei condizionamenti esterni che subiscono, non sono più come vorrebbero essere. Esse sanno benissimo che il cosiddetto “mondo civilizzato” non vede l’ora di espropriarle delle loro risorse naturali. Il fatto stesso che vi siano degli studiosi che vanno a conoscerle come se fossero animali in via di estinzione, è indicativo del profondo abisso che ci separa da loro. Per Engels il criterio fondamentale che spiega la differenza tra “loro” e “noi” è il rapporto con la natura, che per loro sarebbe di “dipendenza”, mentre per noi è di “dominio”, come se il concetto di “dominio” ci caratterizzasse, nei confronti della natura, come “esseri umani”.

Dunque a che serve il sedicente “socialismo scientifico” se nei confronti della natura ha lo stesso atteggiamento “imperialistico” del liberismo borghese? Abbiamo davvero bisogno di “razionalizzare” un atteggiamento che è sbagliato nei suoi presupposti di fondo? Finché per noi il rapporto con la natura si configura solo come dominio, che possibilità abbiamo di diventare noi stessi, cioè “enti di natura”? È forse giusto ritenere che nel mondo primitivo l’uguaglianza fosse soltanto un prodotto inevitabile della loro impotenza nei confronti della natura? un effetto della loro povertà materiale? della loro incapacità produttiva? Per quale motivo è così difficile capire che una qualunque produzione umana deve essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura?

Addendum riepilogativo

Là dove c’è paganesimo, c’è sempre schiavismo. E lo schiavismo è sempre basato sui rapporti di forza, in cui p.es., sul piano personale/sessuale, l’uomo domina la donna. Se esistono riferimenti ancestrali al primato della natura, all’eternità-infinità dell’universo ecc., ciò va considerato un retaggio del comunismo primitivo, che ha caratterizzato la vita del genere umano in tutto il pianeta per almeno un milione di anni (in genere si fa partire lo schiavismo a circa 6000 anni fa).

Là dove c’è schiavismo, non è possibile considerare il paganesimo migliore del cristianesimo: semmai si possono fare differenze tra ortodossia religiosa (di derivazione greco-bizantina) e cattolicesimo-romano, in cui il papato si considerava politicamente superiore agli imperatori.

Il cristianesimo è quella religione che favorisce il passaggio dallo schiavismo al servaggio, in quanto ha un maggior senso dell’etica, proveniente dall’ebraismo. Questo almeno fino a quando, assumendo atteggiamenti neopagani, desunti dalla passata civiltà greco-romana, il cristianesimo non arriverà a trasformare la dipendenza personale del servaggio in dipendenza contrattuale del lavoro salariato. Un processo, quest’ultimo, iniziato in Italia, con la formazione dei Comuni borghesi e sviluppatosi enormemente con la Riforma protestante, specie nella variante calvinistica. Criticando il cattolicesimo borghese del papato, la Riforma sembrava voler riprendere la severità del cristianesimo primitivo; invece estese soltanto la corruzione a tutta la società civile, facendo di ogni credente il pontefice di se stesso.

Tutte queste cose: schiavismo/paganesimo, servaggio/ortodossia-cattolicesimo, capitalismo/protestantesimo vanno superate con una forma di socialismo democratico e ateistico (umano-naturalistico), che riprenda lo stile di vita del comunismo primitivo, l’unico in cui vigeva l’uguaglianza sociale e quindi quella di genere. Questo per dire che non potremo ereditare nulla di significativo né dallo schiavismo pagano, né dal servaggio cristiano, né dal capitalismo borghese, e neppure dal socialismo statale (di matrice russa) o mercantilistico (di matrice cinese).

Nota

1 Oggi non usiamo più il termine “esclusiva” ma “prioritaria”, in quanto ci vantiamo di poter costruire artificialmente ciò di cui abbiamo bisogno.

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Amo Giovanni. Il vangelo ritrovato

Amo Giovanni precisa meglio la tesi del Cristo ateo e sovversivo affrontando estesamente il quarto vangelo, il più manipolato di tutti, proprio perché, originariamente, il più lontano dalla impostazione mistica del protovangelo marciano, che ha determinato la configurazione principale degli altri due sinottici. Il misticismo stava nel fatto che di fronte alla tomba vuota Pietro elaborò l’interpretazione della “resurrezione”, quando al massimo si sarebbe dovuto parlare di “strana scomparsa di un cadavere”, visto che l’unica cosa che avevano in mano era la sindone (che io considero autentica, in quanto le analisi scientifiche compiute sono troppo precise per ritenerla un falso medievale).

Il vangelo originario di Giovanni si può solo intravedere nell’attuale vangelo canonico, ma gli indizi sono sufficienti per capire che il Cristo non solo non aveva nulla di “religioso”, ma doveva anche essere un personaggio politicamente pericoloso per i poteri costituiti, in particolare per quello romano (che gli comminò non solo l’esecuzione capitale ma anche una pesantissima flagellazione, unitamente a varie torture) e per quello sadduceo, che gestiva il Tempio di Gerusalemme e che non poteva certo tollerare un intellettuale estraneo ai dogmi della fede.

Se l’impostazione cronologica di Giovanni è esatta, e noi pensiamo che lo sia, i tentativi insurrezionali del Cristo furono due: uno contro il Tempio, all’inizio della sua carriera politica, quando cercava l’appoggio degli esseni o dei seguaci del Battista, senza disdegnare quello dei farisei; l’altro nel corso dell’ingresso messianico, quando il tentativo insurrezionale era principalmente rivolto contro i romani e indirettamente contro i sadducei.

In entrambi i casi non si riuscì a realizzare nulla, per mancanza di coraggio decisionale nel momento cruciale della rivolta. Il Battista non ebbe il coraggio di occupare il Tempio pur tuonando contro i sacerdoti corrotti; il fariseo Nicodemo apprezzò il tentativo del Cristo, ma temeva la perdita dell’identità nazionale, che per i farisei era legata a tradizioni religiose consolidate; Giuda lo tradì probabilmente perché riteneva prematura la rivoluzione senza l’appoggio dei farisei.

Di particolare in Amo Giovanni è la convinzione che il Cristo non fosse affatto uno zelota, altrimenti avrebbe cercato di fare la rivoluzione quando i cinquemila galilei gliela chiesero sul monte Tabor. L’insurrezione doveva essere “nazionale”, basata su un’intesa tra giudei, galilei e samaritani, e non doveva avere riferimenti specifici alla religiosità, come si evince dal dialogo di Gesù con la samaritana, in cui per la prima volta si parla di “libertà di coscienza”. Cioè la rivoluzione popolare doveva andare al di là delle differenze di atteggiamento nei confronti delle idee religiose. Quindi viene esclusa a priori l’idea ch’egli volesse realizzare una sorta di “regno di dio”, di cui egli dovesse far la parte del monarca assoluto. Quando lo definivano il “messia”, chiedeva di non avvalorare questa convinzione, poiché nell’immaginario popolare voleva dire ritornare al passato “regno davidico”, tanto glorioso quanto dittatoriale.

Il suo obiettivo era quello di liberare la Palestina dall’occupante romano, che in quel periodo si trovava in gravi difficoltà, essendo appena avvenuto il passaggio dalla repubblica all’impero, e di liberarla dalla corruzione dei sacerdoti che gestivano il Tempio, il cui discredito era cosa nota, tant’è che il sommo sacerdote era una carica decisa da Roma.

L’idea era quella di tornare a una sorta di “comunismo primitivo”, in cui vigesse la democrazia e l’uguaglianza sociale. Oggi parleremmo di “democrazia diretta”, ma dovremmo escludere il parlamentarismo nazionale, in quanto una democrazia autentica può essere soltanto gestita da piccole comunità autonome, che cooperano tra loro liberamente, senza dover dipendere da alcuna entità esterna.

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