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Separare ragione e fede

Ragione e fede devono per forza restare separate, così come la chiesa, anzi le chiese dallo Stato, poiché la fede non può obbligare la ragione a credere in cose indimostrabili. Certo, anche la ragione può credere in cose indimostrabili, ma non deve farlo perché glielo chiede la fede. Semplicemente fa parte della natura umana credervi: che si sia amati dal proprio partner o che l’universo sia eterno e infinito, non può certo essere dimostrato razionalmente, eppure, non per questo, pensiamo d’essere affetti da misticismo.

Il campo della fede dovrebbe essere tutto quello che non si può dimostrare razionalmente e in cui ci si può credere senza alcun obbligo di farlo. E, in tal senso, non dovrebbe essere di pertinenza della sola religione, ma anche dell’etica e della morale laica. Ecco perché una fede politicizzata o una chiesa che voglia svolgere una funzione di supplenza nei confronti dello Stato, sono aspetti del tutto estranei alla democrazia e quindi alla libertà di coscienza.

Con questo non si vuole affatto dire che una società in cui esistesse solo lo Stato e nessuna religione, sarebbe, solo per questo motivo, più democratica. E non si vuol neppur dire che una società deve esistesse solo una fede, sarebbe più antidemocratica di quella in cui esistesse solo la ragione. La democraticità di una società è questione pratica, non teorica, cioè va dimostrata di volta in volta, anche se resta fuor di dubbio che non c’è democrazia là dove manca la libertà di coscienza, che è quella di credere o non credere nel valore di determinate cose, o – se si preferisce – in ciò che si vuol far passare come “vero”.

Ritenere che la verità sia un’evidenza in cui si “deve” (per forza) credere, o per fede o secondo ragione, è una pretesa insensata, poiché non c’è nulla che sia evidente di per sé. Persino il fatto di esistere è relativo, in quanto la morte potrebbe essere solo una trasformazione da una condizione di vita a un’altra.

L’ideale sarebbe che non esistessero affatto le istituzioni, poiché è il concetto stesso di “istituzione” (laica o ecclesiastica che sia) che induce a credere che la verità sia un’evidenza.

Facciamo un esempio molto banale: quello degli incroci stradali, così frequenti nelle città. Un tempo erano i vigili che decidevano quando un automobilista doveva passare. Esercitavano un potere secondo coscienza. Ci si doveva affidare al loro buon senso e alla loro intelligenza. Poi vennero i semafori, per risparmiare sul personale e per non obbligarlo ad ammalarsi d’inquinamento. Ma i semafori sono schematici: hanno una regolamentazione predeterminata una volta per tutte, e non possono tener conto delle reali esigenze del momento. Invece di agevolare il traffico, i semafori lo intasavano, portando lo stress a livelli insostenibili, tanto che, ad un certo punto, furono sostituiti dalle rotonde. Era il trionfo dell’autonomia decisionale. L’automobilista diventava prudente per libera scelta, dovendo rispettare soltanto la regola che chi è già dentro la rotonda ha la precedenza.

Ma perché c’è voluto così tanto tempo prima di capire che bastava un piccolo accorgimento per potersi autogestire? Il motivo sta nel fatto che noi viviamo in società dominate da istituzioni, le quali vogliono far credere che le cose funzionano solo quando le decisioni vengono prese dall’alto. Le istituzioni non si fidano dei cittadini, né della democrazia e tanto meno della libertà di coscienza, per quanto ci si voglia far credere ch’esse siano preposte proprio a questo.

Le istituzioni sono nate quando una piccola minoranza le ha volute per imporsi sulla grande maggioranza. Le loro regole cambiano soltanto quando la grande maggioranza non ne può più, cioè non quando iniziano ad apparire sbagliate determinate decisioni di vertice, ma proprio quando la loro assurdità ha raggiunto livelli assolutamente insopportabili. Ecco perché il progresso a favore della democrazia e della libertà di coscienza è così incredibilmente lento. Le istituzioni devono prima convincersi che i cambiamenti di forma non pregiudicheranno la sostanza del privilegio. I mutamenti sono veloci solo quando scoppiano le rivoluzioni, che però, purtroppo, vengono facilmente tradite.

Ora però torniamo al punto di partenza. Perché oggi diamo per scontato che ragione e fede debbano marciare separate? Qui la motivazione non può che essere di natura storica. Se nel passato l’esperienza della fede avesse soddisfatto le esigenze umane (di giustizia, di libertà, di sicurezza, di autenticità, ecc.), è evidente che la ragione non avrebbe chiesto di agire autonomamente. Ciò però non toglie che, storicamente, non sia accaduto anche il contrario, e cioè che la fede sia sorta in seguito a un cattivo uso della ragione. La fede nel non-razionale, in altre parole, può essere emersa quando un uso arbitrario della ragione ha reso la vita molto difficile, facendo apparire irrisolvibili le sue contraddizioni.

In un certo senso la fede appare come una ragione rassegnata al male, che spera di poterlo risolvere solo in una dimensione ultraterrena. Tuttavia gli uomini “ragionevoli” possono anche stancarsi di questa rassegnazione e prendersi la loro rivincita sugli uomini di chiesa.

Ecco, a questo punto vien d’obbligo chiedersi: perché ancora oggi la fede sussiste? La risposta va cercata unicamente nelle modalità in cui la ragione ha cercato di vivere la propria emancipazione. Se queste modalità non erano davvero democratiche e quindi rispettose della libertà di coscienza di ogni essere umano, appare del tutto naturale che si continui ad avere un atteggiamento di fede. Non è dunque la fede che impedisce alla ragione di svilupparsi, ma è la stessa ragione che non riesce a trovare in sé motivi sufficienti, anzi, modalità adeguate per diventare sempre più democratica.

La fede è come un sadico che gode quando vede fallire i tentativi che la ragione compie per essere libera. Assomiglia a quegli animali opportunisti che si avventano sulle loro prede quando le vedono in gravi difficoltà. In realtà la vera fede è quella che vive la ragione senza concedere nulla alla religione. È inammissibile che, a causa della naturale fede o fiducia umana, si possa formare una casta privilegiata chiamata “clero”, sia esso laico o ecclesiastico. E tanto più lo è il fatto che, in presenza di tali caste, ci si chieda di credere nelle istituzioni per risolvere i problemi che quelle stesse caste hanno creato o che impediscono, solo per la loro presenza, di risolvere.

Sperare contro ogni speranza

Quando si finisce sulle Ande, perché l’aereo vi si è schiantato contro, e i soccorsi non arrivano e i viveri sono molto scarsi e non c’è alcun modo di comunicare con l’esterno, perché la radio non funziona, e i passeggeri, chi per le ferite riportate, chi per inedia, finiscono, uno dopo l’altro, per morire, e la disperazione comincia a farsi strada nei sopravvissuti, che, guardandosi attorno, avevano per un momento pensato d’essere stati “fortunati” – si vede subito la differenza tra l’ateo e il credente.

Uno prega, l’altro no; uno è passivo, rassegnato, l’altro no; uno dice di aspettare i soccorsi, l’altro invece li vuole andare a cercare tra quelle montagne impervie e innevate. Uno si affida a dio, l’altro al proprio io e cerca di convincere altri io a rischiare il tutto per tutto. Preso dalla terribile fame l’ateo propone di mangiare i cadaveri degli altri passeggeri; il credente, invece, si oppone per motivi di coscienza: ne fa una questione ideologica.

Dov’è dunque la vera differenza tra i due atteggiamenti? Dobbiamo forse pensare che l’ateo faccia di tutto per sopravvivere perché ritiene che non esista alcun aldilà? E che il credente faccia bene ad essere indifferente nei confronti della morte, perché sa che comunque tornerà a vivere? Dei due quindi dobbiamo ritenere più immaturo, più sprovveduto l’ateo, che non sa come stanno davvero le cose nell’universo?

No, la differenza non può stare in queste cose, poiché anche l’ateo può pensare che la vita continui dopo la morte. Se ritiene che l’universo sia infinito e che tutto quanto vi è contenuto si trasforma perennemente, niente gli impedisce di crederlo.

In fondo il credente non può avere alcuna certezza del suo “paradiso”: è solo una sua convinzione personale, in cui chiunque può credere, senza per questo dover scomodare l’esistenza di un fantomatico dio. La differenza, tra i due, non può essere così banale: deve per forza essere un’altra.

Il credente pensa di poter esibire ciò che lo distingue dall’ateo, per far vedere che è migliore, che il suo atteggiamento rassegnato e autoconsolatorio è quello giusto. Lui attende fiducioso un intervento miracoloso e si sente autorizzato a pensare che, se questo non arriva, la loro o la sua sia soltanto una prova da superare, magari per misurare la fede o per punire, lui o qualcun altro, di qualche peccato compiuto. Lui è lì, tutto pronto a fare delle supposizioni metafisiche.

No, l’ateo non farebbe mai ragionamenti del genere, così paralizzanti: tanto meno accetterebbe l’idea che quella tragica avventura deve servirgli per mutare opinione sulle questioni della fede. Anzi, troverebbe il modo di organizzarsi per cercare di salvare tutti, perché per lui la vita va vissuta sino in fondo, è tutto quello che è in suo potere di fare, deve farlo.

In questo sta la sua diversità: se deve morire, vuol farlo camminando, non stando a sedere, chiuso in quel rottame abbandonato da dio. Cercherà un modo per comunicare, anche a costo di attraversare a piedi quell’enorme catena montuosa. Si attrezzerà, pensando di dover sopravvivere a 40 gradi sotto zero e in un sacchetto metterà una scorta di carne umana. Non darà per scontato, senza prima provarci, che non ci sia più nulla da fare.

E una volta che avrà trovato i soccorsi, farà capire al credente cosa vuol dire l’espressione “sperare contro ogni speranza”. Sì, farà capire proprio a lui cosa vuol dire “aver fede”.

La violenza umana e animale

La violenza tra esseri umani è intollerabile. Siamo tutti parte di un’unica specie, suddivisa in due generi. Persino tra gli animali di una stessa specie non si vede mai una lotta così furibonda da determinare l’estinzione dell’avversario o anche solo una sua distruzione significativa, né, tanto meno, una sua sottomissione forzata.

Generalmente tra gli animali bastano pochi scontri dimostrativi, a volte soltanto poche esibizioni minacciose, che raramente comportano la morte dell’avversario (tali scontri, come noto, accadono o durante la stagione degli amori o per esigenze alimentari, soprattutto quando queste diventano disperate).

Le specie animali tendono a rispettarsi nella reciproca autonomia e non s’è mai visto che una specie faccia di tutto per eliminare fisicamente le altre. La Terra viene vista dagli animali come più che sufficiente per vivere senza particolari problemi. Generalmente infatti i carnivori servono per impedire la sovrappopolazione agli erbivori, o per eliminare gli elementi più deboli o malati o incapaci di riprodursi. Se non ci fossero i carnivori, gli erbivori potrebbero avere seri problemi di sopravvivenza e potrebbero addirittura mutare la loro natura, uccidendosi tra loro per mancanza di cibo sufficiente o di spazio in cui riprodursi.

Il più delle volte i grandi problemi tra le specie animali sono causati dagli stessi umani, che le obbligano a vivere in territori sempre più ristretti o a incattivirsi nel cercare di difendersi per sopravvivere.

Non esistono animali rabbiosi, se non quelli che vengono addestrati dagli umani. Gli animali, in un certo senso, sono tutti pacifici: non possono conoscere l’odio, il risentimento, la collera, la vendetta… Non si può definire rabbioso un animale che caccia o si difende. Lo diventa piuttosto se lo si mette in una gabbia o lo si costringe a fare cose contronatura, come spesso vediamo in taluni allevamenti industriali o nei circhi o in certi esperimenti da laboratorio.

Gli animali vivono d’istinto e, anche quando pungono, mordono o azzannano, lo fanno senza passione emotiva. Non uccidono perché odiano, anche se, nel mentre lo fanno, possono provare l’ebbrezza della caccia, della cattura della preda o il piacere del sapore del cibo, cose che proviamo anche noi.

Siamo così disabituati a vedere gli animali in natura, che di loro ormai non sappiamo più nulla; non sappiamo più trarre insegnamento dai loro stili di vita, ma, anzi, pretendiamo d’imporre loro il nostro, pretendiamo di addomesticarli, sino al punto in cui possiamo anche arrivare a parlare con loro, convinti che ci possano capire.

Gli animali in realtà comprendono solo poche cose, molto chiare e distinte. Siamo noi umani che, quando li chiamiamo per nome, ci illudiamo che vengano da noi proprio perché hanno capito il significato delle nostre parole. Vivendo un’esistenza innaturale, ci comportiamo come esseri infantili.

Quando accarezziamo un animale, per dargli affetto, in realtà lo stiamo ricevendo. E’ come se stessimo accarezzandolo noi stessi. Quando ci sentiamo soli, cerchiamo nell’animale l’affetto che ci manca e ci illudiamo di riceverlo, anche perché è un animale addomesticato e facilmente continuerà a restare con noi, soprattutto perché l’abbiamo abituato a un riparo sicuro e a pasti regolari.

Chi ama troppo gli animali dovrebbe chiedersi se non sarebbe meglio investire la medesima energia su delle persone umane. Gli animali sono soltanto compagni della nostra vita: non sono soprammobili, né robottini a nostra disposizione. Quando li uccidiamo per alimentarcene, dovremmo poi fare come gli indiani del nord America: chiedergli scusa.

Noi siamo soliti dipingere alcune specie animali come assolutamente più feroci di noi: gli squali, i coccodrilli, gli orsi o i dinosauri (soggetti di tanti film e documentari), o più pericolosi di noi perché velenosi, come i serpenti, i ragni, le meduse…, ma in realtà non c’è nessun animale più feroce e pericoloso dell’essere umano. Non c’è nessun animale più egoista e violento dell’uomo. Possono esserci animali parassiti, opportunisti, approfittatori…, ma questi comportamenti, in genere, servono per la loro sopravvivenza o per riprodursi; non vi è alcun piacere personale a comportarsi così.

Dobbiamo smetterla di dire, quando un essere umano si comporta in maniera indegna, che è simile a un animale. Nessuna azione disumana può mai essere compiuta da un animale.