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Mille anni di storia di una chiesa corrotta

La lotta medievale per le investiture ecclesiastiche, scoppiata a partire dalla pubblicazione del Dictatus papae (1075), non ebbe alcun aspetto democratico, in quanto fu soltanto un’aspra controversia tra due istanze autoritarie: il papato e l’impero.

La prima, rappresentata da Gregorio VII, approfittò della decadenza morale del clero per affermare un potere assoluto e universale della sede romana, che non tramonterà se non con la cattività avignonese (1309-77) e con l’unificazione della penisola italiana.

Il papato diede una risposta dittatoriale, sul piano politico-istituzionale, a un problema di corruzione morale e di abusi economici a livello locale, in quanto i vescovi, nelle città, avevano un potere considerevole.

La corruzione del clero era già stata contestata dai primi movimenti ereticali pauperistici (p.es. la Pataria), e di essa avevano approfittato gli imperatori, i quali, a partire dal sassone Ottone I (963), avevano preso a nominare dei vescovi a loro fedeli, facendo così nascere il cesaropapismo.

La figura del vescovo-conte, se ci pensiamo, era un vero e proprio controsenso, in quanto un vescovo non dovrebbe essere scelto da un’istituzione civile, senza il consenso della chiesa; e, meno che mai, gli si potrebbe attribuire un ruolo politico-amministrativo da esercitare nelle città.

Gli imperatori si comportavano così perché sapevano bene che, non essendo sposati, i vescovi, alla loro morte, non potevano trasmettere ai loro discendenti i beni ricevuti in gestione: tutto tornava all’impero.

Un sistema del genere, agli occhi di un papato che voleva sempre più dotare di uno Stato la propria chiesa, era assai poco conveniente. Ecco perché nella lotta per le investiture si giocava il destino di una chiesa particolarmente venale e corrotta.

Il colpo di genio di Gregorio VII fu quello di approfittare della crisi per affermare, contemporaneamente, un proprio potere personale su tutti i vescovi e sull’imperatore (papocesarismo), mettendo altresì a tacere le proteste che partivano dalla base dei fedeli più rigorosi. Egli poteva altresì disinteressarsi completamente delle inevitabili contestazioni che sarebbero venute dalla chiesa bizantina, in quanto la rottura con tale chiesa era già stata consumata nel 1054 (e, da allora, mai più ricomposta).

Gli bastò servirsi delle potenti città borghesi dell’Italia centro-settentrionale per avere la meglio su Enrico IV. Egli non solo riuscì a vincere la lotta per le investiture in quasi tutta Europa, ma anche a porre le basi per l’affermazione della teocrazia pontificia, con cui il papato poté scatenare le crociate in Medioriente e nei Paesi Baltici, sottomettere, con la quarta crociata, sia il basileus bizantino che la chiesa ortodossa, e soprattutto sottomettere, con l’arma della scomunica, tutti gli imperatori feudali, con quella dell’interdetto tutte le città ghibelline e con l’accusa di eresia tutti i movimenti religiosi eversivi.

Quando il sovrano francese, Filippo IV il Bello, pose fine a questo delirio di onnipotenza, trasferendo la sede vaticana ad Avignone e affermando un nuovo (questa volta nazionale) cesaropapismo in piena regola, in quanto tutti i papi, di origine francese, venivano scelti dalla corona, i giochi erano fatti. La chiesa romana non sarebbe più tornata alla conciliarità della chiesa ortodossa, ma, anzi, la tendenza sarebbe stata quella di continuare a vivere nella più grande corruzione, accettando, nel contempo, l’idea di scristianizzarsi progressivamente, favorendo (o comunque non ostacolando) lo sviluppo dell’Umanesimo e del Rinascimento.

Dopo aver eliminato tutte le possibili contestazioni religiose al proprio interno, e aver stretto una forte intesa laica con la borghesia, il papato non riuscì a capacitarsi quando vide che in Germania esisteva ancora una forte critica teologica condotta da un monaco agostiniano chiamato Lutero.

Sottovalutò completamente il fenomeno della Riforma e, quando decise di reagire col Concilio di Trento, le guerre di Carlo V, i gesuiti e l’inquisizione era, ancora una volta, troppo tardi: l’Europa si era spaccata in due. Se prima il papato aveva favorito economicamente la borghesia, a condizione ch’essa non rivendicasse un potere politico anticlericale, ora deve fare marcia indietro. La borghesia, che nel nord Europa era molto favorevole al protestantesimo (con cui poteva credere in un dio a buon mercato), andava ostacolata in tutti i modi. E fu così che l’Italia sprofondò nel baratro sino al 1861 (per non parlare dei due grandi imperi coloniali, di Spagna e Portogallo).

A quella data il papa scomunicò i Savoia e non accettò alcun risarcimento per la perdita del millenario Stato della Chiesa, obbligando i cattolici a non partecipare all’attività politica, almeno finché col Concordato fascista del 1929 capì che indietro non si poteva più tornare. Cercò di strappare al duce il massimo possibile dei privilegi, molti dei quali durano ancora oggi (p.es. l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali), in forza di quello sciagurato art. 7 della Costituzione.

Tuttavia la svolta ideologica a favore della borghesia non avvenne col compromesso politico del 1929, bensì col Concilio Vaticano II del 1962-65, inaugurato in pieno boom economico, all’insegna del consumismo all’americana. Ciò a testimonianza che gli aspetti materiali del capitalismo sono molto più forti di quelli politici.

A partire da quel Concilio la chiesa romana iniziava finalmente a protestantizzarsi a tutti i livelli. L’ultimo sussulto profondamente clericale l’ebbe con papa Wojtyla, che, provenendo da una Polonia assai poco borghese e da una chiesa politicizzata, in costante lotta col proprio Stato comunista, ambiva a sconfiggere il socialismo internazionale e ad affermare una sorta di teologia politica alternativa sia a Marx che al capitale.

Il socialismo autoritario, in effetti, crollò, ma la chiesa dovette rinunciare a porsi come “terza via”. Una teologia troppo anticomunista non può sperare d’indirizzare il capitale verso la dottrina sociale della chiesa. L’unica teologia che avrebbe potuto farlo era quella sudamericana della “liberazione”, che però fu scomunicata senza appello dalla coppia Wojtyla-Ratzinger.

La chiesa romana, intesa come istituzione, non è in grado di risolvere alcun problema: al massimo, con l’attuale papa sudamericano, può rivolgere appelli generici alla pace, al rispetto dei valori umani, alla tolleranza interconfessionale e alla tutela ambientale. Essa stessa, infatti, deve imparare a vivere, al proprio interno, la democrazia e i valori umani, proprio perché gli scandali continuano a colpirla come mille anni fa, con la differenza che oggi riguardano anche il basso clero.

Quale futuro per la chiesa romana?

In genere l’atteggiamento della chiesa romana (ma si è notevolmente accentuato con gli ultimi due pontefici) è quello di voler far credere che senza cristianesimo c’è solo irrazionalismo e che tutta la follia dell’occidente (ben documentabile nel XX sec.), per non parlare di quella del cosiddetto “socialismo reale”, ha, in ultima istanza, radici culturali, anzi, ideologiche, che sono l’agnosticismo e l’ateismo, cioè l’indifferenza se non l’ostilità nei confronti della fede cristiana. Le motivazioni di ordine sociale (l’opposizione tra classi antagonistiche) ed economico (lo sfruttamento del lavoro altrui) passano in secondo piano.

Tuttavia il nemico che questa chiesa considera “mortale” non è tanto il capitalismo, quanto piuttosto il socialismo, poiché qui l’ateismo è senza soluzione di continuità. Quando critica l’agnosticismo della borghesia lo fa per farle capire che se continua così, renderà inevitabile il socialismo, cui l’ateismo è organico. Essa infatti sa bene che il limite del capitalismo non sta solo nell’agnosticismo, ma anche nel suo individualismo, basato sul profitto, sull’interesse economico.

E sa anche che se questo individualismo sfrenato non viene stemperato dall’illusione religiosa, la crescita del socialismo sarà ancora più veloce, nonostante l’implosione di quello da caserma.

Una volta questa illusione si esprimeva nella minaccia del castigo eterno (che Wojtyla, p.es., usò nel suo famoso discorso contro la mafia). Oggi, subendo i condizionamenti del laicismo, essa preferisce usare la filosofia dei diritti umani, in virtù della quale è convinta di poter risolvere tutti i problemi sociali.

Del capitalismo alla chiesa dà più fastidio l’agnosticismo, l’indifferenza alla religione, l’ateismo implicito, indiretto, che non il profitto come criterio di vita, proprio perché essa stessa vive di interessi bancari, rendite parassitarie, finanza occulta. E’ da un millennio che detta chiesa pratica il compromesso con la borghesia, sancito definitivamente col Concilio Vaticano II, e se anche i suoi teologi continuano a parlare di “terza via”, di fatto questa chiesa, nei suoi vertici istituzionali, non ha dubbi da che parte stare.

E’ solo nei suoi livelli di base (in occidente sino alla fine degli anni Settanta) che si vanno a cercare rapporti col socialismo (oggi in verità neppure nel Terzo mondo, in quanto non si vedono all’orizzonte alternative realmente praticabili al crollo di quello est-europeo).

E così, mentre nel capitalismo è il profitto che valorizza i capitali, nella chiesa romana è la fede che lo fa. Con la fede infatti si possono ottenere non solo lasciti e donazioni, ma anche evasioni ed elusioni fiscali e persino contributi statali e gettito fiscale (dall’otto per mille al finanziamento delle scuole private, dall’esenzione dell’ici a quella dell’iva, e via dicendo).

In virtù della fede si può tenere in piedi un meccanismo di potere (politico, economico e finanziario) in cui il capitale s’incrementa da sé, a prescindere dalla fede stessa, esattamente come nel capitalismo lo si incrementa a prescindere dalla coscienza degli imprenditori e affaristi in generale.

La chiesa cattolica, non meno di questa protestante, è per definizione una “chiesa di stato”, anche quando giuridicamente non lo è. E’ una chiesa che vede lo Stato borghese come suo concorrente, ma anche come suo protettore, perché sa che al di fuori di questo Stato il suo destino di “chiesa politica” è segnato.

La chiesa romana paga il pizzo della propria sopravvivenza a uno Stato agnostico e borghese che la protegge e che sa di poterla usare per legittimare se stesso. D’altra parte una chiesa abituata da secoli a pensarsi solo come “istituzione di potere”, cos’altro potrebbe fare? quale spiritualità potrebbe mai proporre?

Se il papato potesse, preferirebbe porsi come “Stato di se stesso” (lo Stato della chiesa è durato circa un millennio e ancora oggi esiste nella minuscola ma influente porzione geografica del Vaticano). Sono state soltanto le circostanze storiche che hanno costretto il papato ad accettare di vivere in uno Stato che non gli appartiene, col quale però può e anzi deve intavolare ogni giorno rapporti di reciproco interesse.

Lo Stato borghese, infatti, pur essendo agnostico, ha bisogno dell’illusione della fede per imbonire le masse più deprivate o più ingenue, come d’altra parte ha bisogno di altre forme profane di illusione (dal consumismo alla discoteca, dal calcio alle droghe vere e proprie).

Questa chiesa non serve a nulla di positivo; il suo umanesimo è del tutto astratto; non ha occhi per il futuro; l’unica cosa che le preme è difendere i propri interessi. Sta svolgendo lo stesso ruolo del paganesimo al tempo della decadenza dell’impero romano, anche se Ratzinger è convinto che questo ruolo appartenga solo agli Stati indifferenti alla fede.