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La pubblicità del serpente ingannatore

Di ogni parola possiamo dire che esiste una qualche corrispondenza, reale o virtuale. Ecco perché, astrattamente, nessuna parola in sé è “falsa”. Le parole sono false quando non corrispondono alla realtà, ma per poterlo dire bisogna prima intendersi sul concetto di “realtà”. Sappiamo soltanto che la falsità può essere incidentale o voluta, cioè dovuta a ignoranza o malafede.

Non si può sostenere che sono vere solo le parole di cui possiamo “dimostrare” la corrispondenza alla realtà. Non esiste la possibilità di una dimostrazione del genere. E, se esiste, ha un valore molto relativo, cioè circoscritto solo a determinate condizioni ambientali di spazio e di tempo. Non c’è nessun cartello stradale che non possa essere trasgredito sulla base di qualche eccezione. Non c’è nessuna rilevazione statistica che non possa essere interpretata in maniera opposta.

Se io dicessi: sto scrivendo queste righe con una penna a sfera e non con una stilografica, potrei facilmente dimostrarlo. Chiunque, da solo, saprebbe farlo, anche osservando la scrittura degli altri. Ma in tal caso avremmo determinato una verità poverissima di contenuto, che non va a incidere minimamente sul significato dei nostri testi, che peraltro sarebbe identico usando qualunque mezzo.

Dunque, su certe forme di corrispondenza delle parole alla realtà e viceversa, non val neppure la pena soffermarsi. Non sono queste forme empiriche di verità che ci aiutano a cambiare la vita, anche se indubbiamente con una biro posso scrivere più velocemente e senza timore di macchiare il foglio o le dita. E con questo non voglio affatto dire che la penna a sfera sia stata un “progresso” rispetto alla stilografica, poiché se guardassimo l’impatto ambientale che ha la plastica di queste penne, dovremmo invece pensare a un regresso, senza poi considerare che il costo economico finale di tale operazione di scrittura è di molto aumentato da quando abbiamo iniziato a usare le penne inventate dal giornalista ungherese Bíró nel 1938.

Quindi se io dicessi che una qualunque parola è più vera di un’altra, subito mi si dovrebbero porre una serie di domande: in che senso? in rapporto a cosa? da quale punto di vista? E’ solo rispondendo a queste domande che posso dimostrare (ma sarebbe meglio dire “mostrare”) quanto una parola sia più vera di un’altra.

Prendiamo p. es. la parola “dio”. Gli atei ritengono che non abbia alcun senso, in quanto indimostrabile. Eppure, in nome di questa parola quante storie e quante guerre si sono fatte? quante esistenze sono state cambiate? Una parola è vera nella misura in cui ci si crede. Anche nei confronti dell’ippogrifo o del minotauro possiamo dire che non sono mai esistiti, eppure essi hanno fatto sognare gli uomini e le donne del passato, li hanno fatti divertire, incuriosire: anche oggi ascoltiamo volentieri i loro miti, che ci inducono a fare riflessioni su quelle lontane epoche. Ci piace pensare che, anche se sono frutto di fantasia, potrebbero essere stati veri.

L’essere umano ha un modo di ragionare unico nel suo genere, in quanto è disposto a credere in qualunque cosa, anche in quelle che non si vedono, non si sentono, non si possono toccare. Vien quasi da pensare che non sia stato l’uomo ad avere inventato il linguaggio, ma il contrario. Noi siamo determinati, anzi immersi in un linguaggio che ci precede nel tempo e ci sovrasta con la sua infinita possibilità di sensi e di significati, espressi in un altrettanto infinità di segni e di simboli.

Il linguaggio è la forma più espressiva dell’universo, e la sua grandezza sta proprio nel fatto che si rinnova di continuo. Se c’è una cosa che non può essere definita in maniera chiara e univoca è proprio l’espressione linguistica degli umani. La sua bellezza sta proprio nell’ambiguità, la cui evidenza è in fondo soltanto un atto di fede.

Una cosa ci appare vera solo se ci crediamo. Non è la “dimostrazione” che ci fa credere nella verità di una cosa, ma il modo come essa si mostra. Quanti divieti sono più efficaci se non si pongono in maniera tassativa, senza possibilità di discussione? Ecco perché, in definitiva, le parole in sé non contano: conta di più il modo in cui vengono dette.

Saremmo però degli ingenui se continuassimo a ritenere vere quelle parole che ci hanno incantato per il modo con cui sono state dette, quando sappiamo benissimo che il loro contenuto è falso. Siamo stanchi di credere nel serpente tentatore e nella sua continua pubblicità.

Verità e linguaggio

Il bambino comprende la madre e poi il padre perché li vede quotidianamente, ed è in grado di associare progressivamente le parole ai loro significati, che non sono solo significati concreti (oggettuali) ma anche astratti (emotivi).

Se il bambino li sentisse parlare senza poterli vedere, perché magari cieco, probabilmente ci metterebbe molto più tempo a capire gli aspetti astratti del linguaggio, ovvero la differenza tra semplici riferimenti oggettuali e complessi riferimenti emotivi. Un bambino cieco, per poter comprendere meglio il linguaggio astratto degli adulti, avrebbe continuamente bisogno d’essere toccato. In tal caso il contatto servirebbe come forma di rassicurazione.

Sotto questo aspetto tutte le religioni che presumono d’avere aspetti dogmatici nelle loro teorie non fanno altro che usare una intangibilità astratta per supplire alla mancanza di un contatto fisico con la divinità, che sanno bene di non poter avere (e che s’illudono d’avere nelle estasi mistiche). I credenti son come dei bambini ciechi con un corpo da adulto. E non si rendono conto che se la verità (in tal caso espressa attraverso il linguaggio) fosse una determinazione proveniente da una realtà totalmente esterna, come appunto una divinità, l’essere umano non riuscirebbe neppure a comprenderla.

Invece di dire che, se esiste un dio, non può in alcun modo essere più grande dell’uomo, almeno non negli aspetti di sostanza che qualificano l’essenza umana, i credenti preferiscono rimpicciolirsi al massimo, facendo della divinità un qualcosa di assolutamente sproporzionato, che, in ultima istanza, suscita sentimenti inquietanti, non avendo alcuna caratteristica umana.

Essi infatti s’immaginano un dio onnipotente e onnisciente, in grado di leggere i pensieri, di compiere qualunque cosa, di prevedere il futuro, di esprimere giudizi infallibili… Un dio del genere non potrebbe esistere neppure se ogni essere umano fosse destinato a diventare come lui. Infatti una condizione del genere è la negazione dell’elemento fondamentale che costituisce l’essenza umana, e cioè la libertà, soprattutto la libertà di coscienza.

E’ stato sicuramente per questo motivo che il politeismo non ha mai conosciuto il dogmatismo. Pur essendo la religione dello schiavismo e pur avendo quindi ogni motivo per elaborare dei dogmi con cui confermare la discriminazione sociale, il politeismo era ancora troppo vicino alla cultura pre-schiavistica per poterla offuscare del tutto. I miti greci, dove gli dèi hanno sempre la meglio su degli umani negativizzati, come p.es. Prometeo, quando non addirittura ridicolizzati, come nel caso di Polifemo, lo dimostrano eloquentemente: eppure quegli umani, nella realtà, cercavano disperatamente di non perdere la loro autonomia di pensiero e di azione.

La loro infatti era una cultura della libertà, che s’era dovuta piegare all’uso di quella forza che aveva prodotto la schiavitù, e che gli aristocratici latifondisti e guerrieri, insieme ai loro sacerdoti pagani, avevano fatto credere di poter conservare, illudendo schiavi e nullatenenti che sarebbe stato sufficiente coltivare infiniti culti a infinite divinità. A quel tempo era impossibile sostenere la pratica dello schiavismo giustificandolo con una religione monoteistica, caratterizzata dall’elaborazione di dogmi indiscutibili.

Il monoteismo è nato quando i rapporti con le culture primordiali erano stati del tutto dimenticati. A quel punto s’imponeva una duplice esigenza: quella di superare sia lo schiavismo che il politeismo. Purtroppo la storia ha voluto che il superamento dello schiavismo avvenisse non in direzione del recupero del comunismo primitivo, insieme all’ateismo naturalistico, ma in direzione di una transizione al servaggio, che ha appunto favorito l’evoluzione dal politeismo al monoteismo.

Il monoteismo appariva certamente come una forma più autoritaria di credenza, ma allo stesso tempo era anche più vicino alla condizione di un essere umano che, almeno formalmente, si sentiva più libero dello schiavo.

L’ulteriore passaggio dalla servitù al lavoro salariato del capitalismo ha comportato la trasformazione del monoteismo assoluto in un monoteismo privo di dogmi, liberamente interpretabile, cioè a una sorta di cripto-ateismo o di pratico agnosticismo, in cui s’impone una certa indifferenza alle verità dogmatiche. Questo spiega il motivo per cui il passaggio dal lavoro salariato a quello autogestito liberamente dovrà necessariamente comportare anche quello dall’agnosticismo religioso all’ateismo vero e proprio.

Il linguaggio quindi non può mai avere una connotazione religiosa che gli impedisca di evolversi. I dogmi sono una forma di ingenuità; e, in ogni caso, se può essere giusta l’esigenza di trovare delle definizioni più obiettive di altre, in quanto non esistono solo verità soggettive (personali), ma anche verità oggettive (collettive), non ha alcun senso perseguitare chi non le condivide. Usare i dogmi in chiave politica è un’aberrazione, di cui non s’è resa responsabile solo la chiesa romana ma anche i moderni totalitarismi.

Un collettivo può usare un dogma per espellere da sé chi non lo condivide, ma non può muovergli guerra. Peraltro chiunque dovrebbe sapere che i dogmi non si reggono in piedi da soli. Essi riflettono esperienze in atto, le quali, a loro volta, rispondono a bisogni e interessi specifici, e anche questi, col tempo, mutano enormemente.

Se proprio si volessero elaborare dei dogmi, sarebbe meglio farlo in maniera negativa, cioè apofatica, quella che viene usata non per affermare delle verità, ma per negare delle falsità, poiché tutti sanno che un’affermazione è allo stesso tempo una negazione che tende a escludere qualcosa che potrebbe col tempo rivelarsi molto importante.

Una negazione ha il pregio di lasciare aperto il campo a più possibilità. Se p.es. viene detto “non rubare”, sono infinite le possibilità in cui uno può vivere in maniera onesta. Se si dà invece una definizione astratta dell’onestà, che pretende d’essere, nella sua astrattezza, molto precisa, alla maniera filosofica o teologica, saranno infinite le obiezioni circa la sua effettiva applicabilità. Perché costringere gli uomini alle definizioni di una teoria quando sarebbe meglio lasciarli liberi nel cercare la pratica migliore?

Ecco perché bisogna sempre affermare che la verità è relativa, limitandosi, al massimo, a distinguere quella soggettiva, dell’individuo singolo, da quella oggettiva, decisa da istanze collettive, le quali devono dare per scontato che la verità assoluta è un obiettivo il cui raggiungimento non può certo essere stabilito a priori.