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Giulio Regeni, un cadavere gettato contro l’Eni e Al Sisi

La ricerca della verità riguardo l’uccisione al Cairo di Giulio Regeni a volte appare se non proprio pilotata almeno spintonata rudemente verso direzioni prestabilite. Vale a dire:

1) verso la chiusura del cerchio dando tutte le responsabilità agli apparati polizieschi e di sicurezza egiziani, cioè in definitiva al presidente Al Sisi, indicandolo come colpevole quanto meno di omertà
2) e verso il biasimo dell’operato della nostra Eni per metterle almeno i bastoni tra le ruote, colpevole dell’enorme duccesso colto, come vedremo, proprio in Egitto. 

A guardar meglio le cose Al Sisi potrebbe essere invece vittima del tentativo di un qualche “servizio” egiziano di screditarlo, date le lotte feroci che da sempre esistono in Egitto tra militari, anche perché sono loro i veri padroni dell’economia del Paese. Colpevole o vittima Al Sisi, sta di fatto che in ogni caso viene esercitata una pressione enorme anche sull’Eni.
 
La clamorosa notizia sparata di recente dal New York Times con un lungo articolo a firma dell’autorevole giornalista Declan Walsh sembra voler dire tutto, ma in realtà a leggerlo bene non chiarisce nulla, a partire da chi sia la fonte e se racconta fatti veri o no. Chiarisce però invece bene la volontà, appunto, di chiudere il cerchio attorno al collo di Al Sisi.
 
Ecco i passi più importanti – riportati dai giornali italiani – dell’articolo di Walsh, dove il virgolettato è quanto detto a lui dalla fonte, purtroppo anonima, mentre il resto sono parole del giornalista: 

“Gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive, prove che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziani”. Fonti dell’allora Amministrazione Obama citate dallo stesso giornale affermano che l’amministrazione USA era in possesso di “prove incontrovertibili delle responsabilità egiziane”. A questo punto il materiale venne girato “al governo Renzi su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca”. Ma “per evitare di svelare l’identità della fonte non furono passate le prove così come erano, né fu detto quale degli apparati di sicurezza egiziani si riteneva fosse dietro l’omicidio”. Altre fonti sempre citate dal New York Times affermano: “Non è chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, quello di uccidere” Regeni, ma “quello che gli americani sapevano per certo, e fu detto agli italiani, è che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze dell’uccisione “del ricercatore””. 
 
Il racconto pubblicato dal New York Times purtroppo è privo di qualunque elemento di prova e quindi potrebbe anche essere falso, la fonte potrebbe avere ingannato a bella posta Walsh per strumentalizzarne l’autorevolezza, tant’è che il governo italiano ha subito seccamente smentito la parte che lo tira in ballo. Ma vediamo come prosegue il racconto dell’articolo del New York Times, sempre tenendo presente che il virgolettato è quanto detto a Walsh dalla sua fonte, mentre il resto sono parole del giornalista:

““Non abbiamo dubbi di sorta sul fatto che i fatti questo fosse conosciuto anche dai massimi livelli”. Insomma, non sapevamo se fosse loro la responsabilità, ma sapevano, sapevano”. Questo portò alcune settimane dopo “l’allora segretario di Stato, John Kerry, a un aspro confronto con il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry, nel corso di un incontro che si tenne a Washington”. Si trattò di una conversazione “quanto mai burrascosa” anche se da parte della delegazione americana non si riuscì a capire se il ministro stesse erigendo un muro di gomma o semplicemente non conoscesse la verità”.
 
Come si vede, con la prima frase la fonte ammette che gli USA non sapevano se Al SISI e dintorni fossero colpevoli o no, si limita ad affermare che sapevano cosa fosse successo, e con l’ultima frase riporta tutto in alto mare: il ministro degli Esteri egiziano forse del caso Regeni non ne sapeva nulla, cosa piuttosto inspiegabile se Al Sisi e i vari apparati fossero davvero colpevoli. 
 
Dobbiamo ricordare che nell’agosto di due anni fa, qualche giorno prima della scomparsa e uccisione di Regeni, l’ENI aveva scoperto nelle acque del mare egiziano il più grande giacimento di gas del Mediterraneo. Si chiama Zhor e contiene la mostruosa quantità di 850 miliardi di metri cubi di gas, in grado di dare all’Egitto l’autonomia energetica per un bel pezzo e alla società italiana un bel pacco di miliardi di euro. Ce n’è abbastanza per scatenare gli appetiti e la concorrenza dei vari Stati che, come la Francia e l’Inghilterra, per non parlare degli Stati Uniti, per accaparrarsi le altrui fonti energetiche hanno ampiamente e sempre dimostrato di non arretrare di fronte a nulla, guerre comprese.
 
Gli egiziani sono così imbecilli da alienarsi le simpatie dell’Italia dell’ENI con un delitto spettacolare da incapaci? Gli agenti dello spionaggio ti fanno sparire e basta, senza lasciare tracce, e lo sanno fare a iosa anche quelli egiziani, senza ricorrere a torture e sevizie da vecchi film. 
 
Regeni invece è stato ucciso con metodi più da camorra che da “servizi” e il suo cadavere, con bene in vista le prove di quei metodi, è stato dato in pasto all’opinione pubblica indirizzando di conseguenza le indagini in modo fin troppo scoperto. Come se le polizie e i servizi segreti di Al-Sisi dovendo liquidare qualcuno fossero così scemi e autolesionisti da autodenunciarsi mettendo in piazza la via crucis e la crocifissione finale della loro vittima anziché farla sparire totalmente come avvenuto e avviene regolarmente non solo in Egitto. Se del povero Regeni non si fosse fatto trovare nulla, non sarebbe scoppiata nessuna tempesta. 

Bisogna inoltre per onestà e completezza  ricordare che secondo il quotidiano La Stampa ( 
https://www.lastampa.it/2016/02/16/esteri/regeni-a-londra-lavor-per-unazienda-dintelligence-Ue3kZmmArej9wuMH279t5J/pagina.html    ) il 28enne Giulio Regeni, da dieci anni in Inghilterra, dove si è laureato, conoscitore della lingua araba,  e dottorando in un’Università sempre inglese, collaborava – a propria insaputa o no – con i servizi segreti inglesi, il famoso, mitico e sempre sfuggente M16. L’articolo, scritto a Londra, prende lo spunto dal fatto che Regeni aveva lavorato un anno per la Oxford Analytica ( https://en.m.wikipedia.org/wiki/Oxford_Analytica ), società che a detta dell’autore dello stesso articolo, Alessandra Rizzo, è dei servizi inglesi. Affermazione che però non trova conferma ufficiali, ovviamente. Interessante comunque notare che la Oxford Analytica è stata fondata da un ex consigliere del Segretario di Stato Usa Henry Kissinger ed ex membro del potentissimo National Security Council all’epoca di Nixon, nel cui Watergate fu coinvolto, tale David Young ( https://en.m.wikipedia.org/wiki/David_Young_(Watergate)   ).

Forse Regeni con l’M16 non c’entrava nulla, ma l’intervista (  http://www.corriere.it/esteri/16_febbraio_16/regeni-lavoro-ad-oxford-analytica-genitori-giulio-non-era-servizi-23c620a8-d4af-11e5-8855-fe9a1275bf2e.shtml ) al Numero Uno della Oxford Analytica, Graham Hutchings, pubblicata il 16 febbraio dell’anno scorso dal Corriere della Sera e gli annessi “No comment” di una sua collega di lavoro lasciano perplessi. Come che sia, è impensabile che l’M16 dato il campo di studi e ricerche del nostro connazionale non abbia preso diligentemente nota della sua presenza. 
Il giornalista Marco Gregoretti, ex inviato di “Panorama” e vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, ha ipotizzato anche una collaborazione con i servizi segreti civili italiani ( 
http://www.marcogregoretti.it/cronaca-misteri/giulio-regeni-era-un-agente-segreto-dellaise/ ). Che però hanno prontamente smentito, anche se in ogni caso non avrebbero potuto fare altro. 
Difficile, se  non impossibile, stabilire con certezza cosa ci sia di vero in quelle notizie. Che a onor del vero paiono un po’ tirate per i capelli, possibile frutto del sensazionalismo che in certi casi non manca mai, ma contribuiscono a rendere il quadro meno decifrabile di quel che sembra o si vuole far sembrare. Il caso riguardante la scomparsa di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, è un caso da manuale per quanto riguarda i danni da sensazionalismo e scoopismo a tutt i costi.

Altre perplessità e domande possono nascere dal fatto che è molto impegnata nella campagna “Verità per Regeni” l’organizzazione non governativa (ONG) Amnesty International. I malpensanti hanno notato infatti che il suo organigramma USA riporta presenze come quella della direttrice esecutiva dal 2012 al 2013, Suzanne Nossel, con un passato al Dipartimento di Stato americano, e come quella di chi ne ha preso il posto, Margaret Huang, nel cui curriculum figura un impiego presso il Comitato per gli Affari Esteri del Senato, sempre Usa. Ovviamente c’è chi si chiede se le due manager una volta entrate in Amnesty abbiano o no reciso ogni legame con i citati ambienti di provenienza.
Domande eccessive e fuori luogo? Può darsi. Però non manca neppure chi fa notare che tra i maggiori finanziatori di Amnesty sono comparse la Ford Foundation e la Open Society Foundations. La prima è tra le più ricche fondazioni statunitensi, sovvenziona fin dal 1954  il famoso e molto chiacchierato gruppo Bilderberg. La seconda è invece la cassaforte della quale lo straricco speculatore globale George Soros si serve per finanziare rivoluzioni e sommosse ovunque ci sia da lucrare attirando interi Paesi, dalla Libia all’Ucraina, nell’orbita occidentale e magari anche Nato. 

 Insomma, non si può affatto escludere che Regeni, in nome della ormai secolare lotta feroce per le fonti energetiche, possa essere stato ucciso o fatto uccidere e fatto ritrovare apposta cadavere martoriato, se non per mano almeno per ispirazione dei servizi di Sua Maestà out similia. Che potrebbero anche avere “solo” suggerito a poliziotti e 007 egiziani a libro paga di fare quello che è stato fatto. Non c’è bisogno di accusare in blocco l’M16 o uno degli organi di sicurezza egiziani: noi italiani sappiamo benissimo che certe cose, specie se orrende, possono essere farina del sacco non dei servizi segreti in quanto tali, quelli ufficiali, ma dei loro “pezzi deviati”…
 
Mettere in difficoltà Al Sisi e l’Eni avrebbe l’indubbio vantaggio di prendere due piccioni con una fava. Nonostante tutto, l’Eni in quei giorni tempestosi è però riuscita comunque a portare a casa il contratto per lo sfruttamento di Zhor. Ma è da notare che qualche giorno dopo il ritrovamento del cadavere del nostro connazionale la British Petroleum è riuscita a concludere con l’egiziana Natural Gas Holding Company (EGAS) un bel contratto che prevede tra l’altro lo sviluppo del giacimento Atoll di gas, a nord di Damietta, e una concessione offshore nel delta orientale del Nilo. 
In aggiunta, l’allora presidente francese Hollande è riuscito a vendere all’Egitto armi per oltre un miliardo di dollari, compresi aerei piuttosto vecchi. È impressionante vedere a volte all’aeroporto del Cairo la sterminata quantità di aerei piuttosto obsoleti dismessi soprattutto dall’Europa. Aerei a parte, è noto che Italia e Francia dietro le quinte dei bei sorrisi sono da sempre in lotta dura tra loro per accaparrarsi gas e petrolio altrui. La nostra ENI (in origine acronimo di Ente Italiano Idrocarburi) per poter avere ottimi rapporti con l’Algeria, importante produttrice di gas naturale e petrolio, ne ha finanziato sotto banco la Resistenza contro la Francia coloniale occupante. La Francia in tempi più recenti ha ricambiato il favore organizzando, assieme agli inglesi, la caduta di Gheddafi e la “rivoluzione” libica anche per scalzare l’Italia prendendone almeno in parte il posto nei buoni rapporti, vale a dire negli 11 miliardi di euro di interscambio. Come conferma il recente tentativo della francese Total di soppiantare l’Eni.
 
Così stando le cose, le proteste per la ripresa in questi giorni delle relazioni diplomatiche con l’Egitto, fatta oltretutto passare per uno schiaffo in faccia alla famiglia Regeni, ha un sapore leggermente strumentale, oltre che buonista e “politicamente corretto” a metà tra il libro Cuore e Alice nel Paese delle Meraviglie. Buono solo a farsi un po’ di (dubbia) pubblicità.

Come e perché NON hanno voluto salvare Aldo Moro

Domenica 16 marzo ricorre l’anniversario del rapimento dell’onorevole democristiano Aldo Moro, ex ministro ed ex capo del governo, e del massacro della sua scorta, avvenuti per opera delle Brigate Rosse nel 1978. Moro come è noto è stato ucciso dopo 55 giorni di prigionia, il 9 luglio,  in un angusto “carcere del popolo” ricavato dietro una parete di un appartamento in via Camillo Montalcini n. 8 a Roma.  Desidero raccontare quanto ho appreso casualmente nell’agosto 1993 riguardo la mancata possibilità che lo Stato italiano liberasse Moro. E come è stata sprecata la possibilità di fare piena luce sui perché e per ordine di chi il manipolo di “baschi neri” del ministero dell’Interno venne bloccato pochi minuti prima di assaltare la prigione brigatista. Prima però è bene inquadrare la vicenda nel suo contesto storico non sufficientemente noto. Vado quindi per ordine.

Un primo tentativo di assassinare moralmente Moro è del 1976 e porta già la firma di Kissinger. Negli Usa la commissione Frank Church del senato USA comincia quell’anno le sue indagini sulle attività delle multinazionali tese a organizzare in tutto il mondo scandali contro le frazioni pro-sviluppo dei propri Paesi e scopre, tra l’altro, che la potente industria aeronautica militare Lockheed usava corrompere con ricche bustarelle i politici di più parti del globo per convincerli ad acquistare i propri aerei. A prendere le mazzette in Italia era un misterioso personaggio soprannominato in codice Antelope Cobbler. Per farne naufragare la politica di apertura ai comunisti e ai palestinesi, è un assistente del Dipartimento di Stato, cioè di Kissinger, tale Loewenstein, filosionista e antiarabo come il suo famoso principale, a proporre di dare in pasto alla stampa Moro indicandolo come l’Antelope Cobbler. La proposta è resa operativa da Luca Dainelli, ambasciatore italiano negli Usa e membro dell’International Institute for Strategic Studies. Continua a leggere

Ballando sull’orlo della fine dell’Europa: “Venghino, siòri, venghino: dopo le panzane sulle atomiche di Saddam ora vi rifiliamo le panzane sulle atomiche di Gheddafi e di Ahmadinejad”. Così Israele, forse in interessata compagnia di Londra, può realizzare il vecchio sogno di bombardare l’Iran, uno dei due motivi per il quale è stato eletto Netanyahu (l’altro è impedire a tutti i costi che nasca lo Stato palestinese)

E’ difficile da credere, ma ormai viene dato per certo che con la classica scusa della “produzione di bombe atomiche”, sperimentata con successo dagli USA per invadere l’Iraq, Israele attaccherà quanto prima l’Iran, con l’appoggio degli inglesi, per mettere anche la Casa Bianca di fronte al fatto compiuto. Il presidente Obama infatti, per timore di perdere voti, è contrario a una tale azione militare prima della sua rielezione, ma alcuni collaboratori lo esortano invece ad autorizzarla e appoggiarla perché ricompatterebbe l’elettorato riportandolo di sicuro alla Casa Bianca e scongiurando la temuta candidatura di Hilary Clinton, sempre più popolare nell’elettorato non solo del Partito Democratico. E’ dal 2006 che l’attacco militare all’Iran da parte degli Usa e di Israele viene dato per imminente e certo, senza però che sia poi stato sferrato. Ecco per esempio cosa dichiarava nel 2006, poco dopo la terza invasione israeliana del Libano, Seymour Hersh, il famoso giornalista americano che ebbe il coraggio di denunciare il massacro di tutti gli abitanti di My Lai compiuta dai marine in Vietnam e che per primo ha denunciato le torture americane nel carcere iracheno di Abu Ghraib:

L’amministrazione Bush era molto direttamente impegnata nel pianificare la guerra libanese-israeliana. Il presidente Bush ed il vice presidente Cheney erano convinti che il successo della campagna militare israeliana in Libano avrebbe non soltanto raggiunto gli obiettivi desiderati da Tel Aviv, ma sarebbe anche servito come preludio ad un possibile attacco contro le strutture nucleari iraniane”.

La scusa è anche oggi quella del “pericolo atomico” iraniano. Nella vulgata corrente infatti l’Iran sarebbe così idiota e suicida da produrre atomiche per affrettarsi a lanciarne già la prima su Israele, nonostante Israele di atomiche ne possieda circa 400 e possa quindi cancellare non solo l’Iran dalla faccia della terra. Senza contare che la signora Clinton ha dichiarato senza arrossire di vergogna che “prima di finire di schierare per il lancio il suo primo missile nucleare l’Iran sarebbe riportato all’epoca delle caverne”, con un olocausto fulmineo di oltre  80 milioni di esseri umani, più o meno quanti ne ha  l’Italia intera. Embé c’è olocausto e olocausto. Quello sulla pelle di 70-80 milioni di iraniani evidentemente per la signora Hilary&C è buono, nonostante sia ben 12-14 volte quello che purtroppo c’è stato davvero per mano dei nazisti. Continua a leggere