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Tornare alla preistoria

Il concetto di “lavoro”, inteso come mansione ripetitiva, rispetto degli orari, di determinati obblighi, ovvero l’impegno quotidiano imposto da circostanze esterne, è un concetto innaturale, che può essere nato soltanto in un sistema di vita già segnato dai conflitti di ceto o di classe. Un lavoro del genere è determinato in realtà dal concetto di “forza”, in quanto è appunto un “lavoro forzato”.

Per l’uomo preistorico lavorare significava andare alla ricerca di cibo per sfamarsi o di oggetti utili per costruirsi armi per la caccia o per la raccolta di frutti, bacche, radici… Anche quando non c’era di mezzo l’esigenza di alimentarsi, vi erano comunque altre esigenze naturali da soddisfare, come p. es. quella di ripararsi dalle intemperie o da altri animali affamati o pericolosi o fastidiosi.

Sia come sia, egli non aveva mai l’impressione che qualcuno volesse “obbligarlo” a fare qualcosa: si trattava soltanto di trovare una soluzione a esigenze del tutto naturali, che sorgevano spontaneamente dalla sua persona o dalla vita di gruppo. Era impossibile parlare di “alienazione”. La natura non era mai vista come una “nemica”, ma anzi come la fondamentale risorsa per soddisfare le proprie esigenze.

Là dove s’è imposto il concetto di “forza”, lì s’è affermata la “proprietà privata”, e quindi l’obbligo, da parte dei più deboli, di lavorare per i più forti. Oggi questo obbligo s’è esteso in tutto il pianeta, tanto che s’è ridotta a un nulla la possibilità di esistere ricavando liberamente dalla natura ciò che occorre alla propria sopravvivenza. Tutta la natura è dominata dalla forza dell’uomo, la quale domina anche quelle popolazioni che considerano la natura più importante dell’uomo.

L’alienazione si è dunque sviluppata in due direzioni parallele: quella del rapporto tra debole e forte e quella del rapporto tra uomo e natura. quanto più il forte vuole imporsi sul debole, tanto più l’uomo (debole e forte insieme) vuole imporsi sulla natura.

Il forte costringe il debole ad avere un rapporto alienato non solo nei confronti dell’oggetto del proprio lavoro, in quanto deve produrre cose che non gli appartengono e la cui quantità è di molto superiore al suo fabbisogno quotidiano, ma anche nei confronti della stessa natura, poiché è proprio dallo sfruttamento indiscriminato delle sue risorse che egli viene messo in condizione di condurre un “lavoro forzato”.

La storia non è stata altro che un tentativo di trasferire a livelli sempre più elevati, in estensione e profondità, lo sfruttamento della natura, con cui poter rispondere all’istanza, avanzata dai più deboli, di porre fine al loro sfruttamento da parte dei più forti. Cioè la mancata soluzione al problema dello sfruttamento umano ha comportato un’accentuazione sempre più esasperata del saccheggio delle risorse naturali. E poiché questo saccheggio oggi avviene a livello planetario, è evidente che anche lo sfruttamento degli uomini deve sottostare a una regolamentazione di tipo planetario.

Oggi esistono organismi preposti allo sfruttamento planetario degli esseri umani e della natura, gestiti dalle nazioni economicamente, militarmente e politicamente più potenti. Questi organismi sono la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e, per molti aspetti, le stesse Nazioni Unite. Oltre a queste organizzazioni, che sono le principali, ne esistono molte altre di carattere regionale o con scopi più specifici, come p. es. l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, la Nato ecc.

Una lotta mondiale contro questi organismi, che vanno assolutamente ripensati nelle loro fondamenta, in quanto tendono a schiavizzare il mondo intero, non potrà prescindere dall’idea secondo cui l’unico modo di salvaguardare la natura e superare ogni forma di alienazione è quello di far tornare l’uomo alla preistoria, cioè a quel periodo in cui non esisteva la proprietà privata dei mezzi produttivi e il rapporto con la natura era vincolato all’esigenza di rispettarne tutti i cicli riproduttivi.

Come uscire dal circolo vizioso del sistema

Il capitalismo funziona bene quando il tasso di sfruttamento del lavoro è molto elevato. Esattamente come lo schiavismo funzionava bene quando, in seguito alle guerre vittoriose, era molto elevato il numero degli schiavi sul mercato (questo spiega perché i Romani crearono la loro ricchezza sotto la Repubblica senatoriale e si limitarono a gestirla sotto l’Impero dittatoriale).

Se le guerre non sono più vittoriose o se ci si deve limitare a una mera strategia difensiva, oppure se gli schiavi di ribellano, o se cominciano a rendersi autonome le colonie (che i Romani chiamavano province) o a rivendicare sempre più diritti, le cose non possono funzionare più come prima.

Oggi dobbiamo dire lo stesso nei confronti delle rivendicazioni salariali degli operai e degli impiegati o nei confronti della volontà di emergere dei paesi del Terzo Mondo. Il capitale non riesce più a sfruttare come prima, al punto che qualcuno comincia a rimpiangere i tempi in cui c’era più dittatura.

D’altra parte quando c’è antagonismo sociale non si può vincere in due: uno deve per forza perdere. Darwin, quando pensava al mondo animale, chiamava questo processo “selezione naturale” e la definizione, applicata poi agli “umani”, ha avuto molta fortuna.

Gli imprenditori oggi sono come i generali romani di una volta, che coi loro eserciti andavano in guerra per fare fortuna. Poi, quando l’avevano fatta, diventavano senatori, ricchi latifondisti, governatori di province, alti funzionari, oppure addirittura imperatori.

Oggi non si ha bisogno di fare guerre di tipo militare: è sufficiente farle con le armi dell’economia e della finanza. Tra i Romani e noi ci sono di mezzo le tecnologie, l’uso capitalistico del denaro e anche il fatto che il lavoratore gode della libertà personale, quella formale di tipo giuridico.

Le ferite che ci lecchiamo non sono più quelle procurate da una spada, ma dall’aumento dei prezzi, delle tariffe, dei tassi sui mutui, delle imposte dirette e indirette, delle perdite in borsa, dei debiti, degli affitti e soprattutto sono procurate dal fatto che i salari e gli stipendi non riescono a tenere il passo di tutte queste cose.

Oggi un imprenditore sa bene che se la manodopera non viene sfruttata al massimo, rischia di dover chiudere (eventualmente trasferendosi in quei paesi dove il costo del lavoro è irrisorio). Questo perché deve sostenere spese sempre più ingenti nei macchinari, nell’amministrazione, nelle tangenti al potere politico e criminale, nelle strategie di marketing, ecc.

La concorrenza li obbliga a uno stress insostenibile, a dei rischi inaccettabili. La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto – che Marx elaborò nel III libro del Capitale e che non ebbe mai il tempo di approfondire – li spaventa, perché, pur non conoscendola, la possono constatare abbastanza facilmente. Ecco perché tendono a delocalizzare le loro ricchezze dai paesi più avanzati a quelli meno, oppure dall’economia alla finanza, dove hanno problemi più facili da affrontare.

Il capitalismo ha bisogno di avere situazioni di precarietà sociale, in cui la gente è disposta a lavorare per un salario minimo. Situazioni del genere si verificano quando un paese entra in guerra, cioè quando parte della ricchezza sociale di una nazione viene distrutta molto velocemente. Le guerre infatti sono periodiche in questo sistema. D’altra parte quando i debiti sono talmente grandi che per potervi in qualche modo far fronte bisogna per forza impoverirsi, è relativamente facile che da una situazione del genere si passi all’esigenza di dichiarare guerra a qualcuno, magari anche solo per scongiurare il rischio di una guerra civile interna.

Purtroppo per noi il sistema ci ha insegnato che solo quando le cose sono sufficientemente devastate, si può ricominciare a sperare che la situazione migliori. Si arriva a un punto oltre il quale non si può andare avanti e, se si vuole sopravvivere con i medesimi criteri e metodi, bisogna prima distruggere buona parte della ricchezza collettiva.

E’ come passare da un mazzo di 104 carte a uno di 52 per poter continuare a giocare. Ci vuole una specie di peste bubbonica, come quella che nel Trecento eliminò un terzo della popolazione europea. Fu proprio la peste che accelerò la trasformazione delle Signorie italiane in Principati: cosa resa possibile, naturalmente, anche a causa della scarsa combattività del mondo del lavoro, il cui apice in Italia fu raggiunto col Tumulto dei Ciompi a Firenze, nel 1378.

Questo meccanismo infernale che ha il capitalismo, di autodistruggersi parzialmente per poi rinascere come l’Araba fenice, andrebbe superato una volta per tutte. L’unico modo per poterlo fare è noto da molto tempo: togliere agli imprenditori e a tutti i gestori dell’economia finanziaria il potere di decidere da soli quali debbano essere i criteri con cui vivere la vita.

Bisognerebbe però precisare, a scanso di equivoci, che non può più essere considerato sufficiente togliere al capitale la proprietà degli strumenti produttivi e finanziari, senza ripensare completamente gli stili di vita. E, in tal senso, non dobbiamo dare per scontato l’utilizzo delle stesse tecnologie del capitalismo, seppur gestite da lavoratori-proprietari.

Dobbiamo tenerci pronti o a far saltare tutto il sistema (e non solo una sua parte), o ad approfittare delle sue debolezze quando sarà costretto a saltare da solo per potersi autorigenerare. Se non approfitteremo di quel momento favorevole, stiamo pur certi che il capitale farà pagare al lavoro le conseguenze della propria crisi, partendo ovviamente dai ceti più deboli. La crisi infatti non è di crescita (quella che permette ai lavoratori, col tempo, di migliorare le loro condizioni), ma solo di autoconservazione. Sarà un bagno di sangue soprattutto per chi ha già il corpo piagato.

Ecco perché sin da adesso dovremmo chiederci come uscire da questo inferno – che è in fondo un assurdo circolo vizioso -, partendo dai criteri di soddisfazione dei bisogni primari quotidiani. Se non recuperiamo un rapporto stretto, diretto, con la natura, se non ci riappropriamo di ciò che costituisce la base materiale della nostra esistenza, sottraendola a una gestione anonima, eterodiretta, incontrollabile (quale quella che si verifica negli attuali mercati di beni e servizi), noi saremo condannati in eterno a ripetere i nostri errori.

Solo con l’autogestione completa di un territorio ha senso parlare di democrazia. “Esta selva selvaggia e aspra e forte, / che nel pensier rinnova la paura”, non può essere vinta coi metodi e mezzi tradizionali. Bisogna fare una rivoluzione copernicana del pensiero, in virtù della quale l’uomo possa finalmente camminare coi propri piedi e non al guinzaglio di qualcuno.

Il fatto è purtroppo che noi occidentali, così abituati a sentirci onnipotenti, non riusciremo mai ad accettare un rapporto paritetico con la natura, a meno che delle gravissimi catastrofi non ci costringano a farlo. Forse l’unico momento in cui in Europa siamo stati capaci di questo, da quando sono sorte le civiltà antagonistiche, è quello che i manuali scolastici definiscono col termine di “epoca buia”, e cioè l’alto Medioevo. Ma in Europa son dovuti entrare i cosiddetti “barbari” per insegnarci a recuperare con la natura un rapporto equilibrato.

Tuttavia, già a partire dal Mille avevano ripreso, in Italia, un rapporto di sfruttamento delle risorse naturali, analogo a quello di epoca greco-romana. A partire dal Mille sono state tantissime le catastrofi che l’Europa ha subìto (innumerevoli guerre, terribili epidemie, carestie, devastazioni ambientali…), eppure non s’è mai avuta la forza d’invertire la marcia.

In un millennio la borghesia non solo è diventata potentissima, approfittando spesso proprio di quelle catastrofi, ma, quel che è peggio, è riuscita a diffondersi in tutto il pianeta, come un gigantesco virus. Lo sviluppo della borghesia capitalistica – che ha avuto il suo esordio proprio in Italia – è stata la più grande catastrofe dell’umanità. E ora che il testimone sta per essere preso da colossi numerici come Cina e India, il peggio, molto probabilmente, deve ancora venire. E nuovi “barbari” che tornino a insegnarci a vivere non se ne vedono all’orizzonte…

Hosea Jaffe e il colonialismo

I

Giustamente Hosea Jaffe sostiene, in Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (ed. Jaca Book, Milano 2007), che l’idea engelsiana di favorire il colonialismo europeo per accelerare il processo di industrializzazione nelle periferie coloniali, al fine di porre le basi per una transizione al socialismo, era un’idea non “socialista” ma “imperialista”, frutto di un’interpretazione meccanicistica o deterministica del materialismo storico-dialettico.

E ha altresì ragione quando afferma che la contraddizione principale, nell’ambito del capitalismo, è diventata, a partire dalla nascita del colonialismo, non tanto quella tra capitalista e operaio delle aziende metropolitane, quanto quella tra Nord e Sud, dove con la parola “Nord” non si deve intendere solo l’imprenditore ma anche lo stesso operaio che nell’impresa capitalista si trova a sfruttare, seppure in maniera indiretta, le risorse del Terzo Mondo.

Detto questo però Jaffe non è in grado di porre le basi culturali per comprendere la nascita del capitalismo (che non può essere considerato una mera conseguenza del colonialismo, in quanto quest’ultimo s’impose già nel Medioevo con le crociate ed esisteva già al tempo della Roma e della Grecia classica e non per questo è possibile parlare di capitalismo, che storicamente nasce solo nel XVI sec.). Jaffe non è neppure in grado di porre le basi politiche di un accordo tra il proletariato del Nord e quello del Sud.

Alla fine del suo percorso egli si ritrova su posizioni speculari a quelle engelsiane: laddove infatti si considerano interi continenti (Asia, Africa, America latina) incapaci di avviare l’industrializzazione borghese in maniera autonoma e quindi di favorire una transizione al socialismo, qui invece si considera l’occidente, en bloc, del tutto inadatto a comprendere i meccanismi mondiali dello sfruttamento economico; il che fa diventare assolutamente inutile il tentativo, da parte del proletariato coloniale, di cercare, nelle aree metropolitane dell’occidente, quei soggetti che possono condividere i suoi processi di democratizzazione sociale.

Hosea Jaffe assume una posizione deterministica rovesciata, al punto che gli diventa impossibile esprimere dei giudizi obiettivi sui limiti delle esperienze socialiste dei paesi coloniali (come quelle avvenute a Cuba, in Cina, nella Corea del Nord ecc.).

Pur di poter manifestare una posizione contraria all’occidente in sé, considerato quasi come una categoria metafisica, Jaffe è disposto a transigere su molti difetti dei regimi socialisti. Anche perché continuamente ribadisce la tesi trotskista secondo cui una transizione al socialismo è più facile in un paese economicamente arretrato che non nell’occidente avanzato.

Alla fine non gli resta che auspicare una terza guerra mondiale in cui lo scontro non avvenga più tra potenze imperialistiche ma tra Nord e Sud. Col che lascia del tutto irrisolto il nodo relativo al modello di sviluppo. A lui interessa soltanto che il Sud si liberi del Nord, non che si liberi anche della sua assurda industrializzazione.

II

In realtà non è di nessuna importanza che un paese sia industrialmente “avanzato” o “arretrato” ai fini della transizione al socialismo. Quello che più importa è la capacità di saper organizzare una rivoluzione che porti effettivamente a vivere una transizione verso il socialismo democratico.

In astratto infatti si può dire che un paese arretrato, sul piano industriale, è più vicino alle idee del socialismo in quanto è più vicino al pre-capitalismo, cioè alla cultura pre-borghese. Ma si può anche dire il contrario, e cioè che quanto più un paese è industrialmente avanzato, tanto più avverte il problema di uscire dalle contraddizioni del sistema, che rendono la vita invivibile, specie per le conseguenze ambientali che ha.

Nei paesi avanzati non sono avvenute rivoluzioni socialiste non perché è più facile che queste avvengano nei paesi arretrati – come diceva Trotski -, ma perché i paesi avanzati industrialmente sono anche quelli che praticano il colonialismo, oggi a livello internazionale, seppur, rispetto a ieri, in forme più economico-finanziarie che politico-militari.

Nel mondo non esistono paesi avanzati o arretrati autonomi, in grado di sperimentare percorsi indipendenti gli uni dagli altri. Nel mondo esistono paesi avanzati sul piano tecnologico che dominano politicamente o anche solo economicamente altri paesi arretrati sul piano industriale.

Tale dipendenza impedisce di servirsi liberamente delle tradizioni pre-borghesi per realizzare una transizione al socialismo. Questo peraltro il motivo per cui Lenin non credeva che il populismo russo, con la sua idea di “comune agricola”, sarebbe riuscito a impedire la diffusione del capitalismo in Russia.

Se i paesi avanzati non avessero colonie da sfruttare, le loro contraddizioni interne, a causa dei rapporti fortemente antagonistici, diverrebbero esplosive in poco tempo. Invece, grazie allo sfruttamento coloniale, il peso di queste contraddizioni può essere scaricato sui paesi arretrati.

L’Europa occidentale ha iniziato a comportarsi così già con la civiltà cretese, ereditata poi da quella ellenica; ha continuato a farlo, in grande stile, coi Romani; ha proseguito nel Medioevo col fenomeno delle crociate; e in epoca moderna ha inaugurato con la scoperta dell’America il colonialismo su scala mondiale.

Sono almeno tremila anni che l’Europa ha una pretesa di dominio verso le realtà più deboli. Ogniqualvolta i conflitti sociali diventano troppo acuti per poterli risolvere pacificamente, in politica interna si usano i sistemi autoritari, i metodi repressivi, e in politica estera si adottano programmi di conquista coloniale, di sfruttamento delle risorse altrui, umane o naturali che siano.

Ai problemi di natura sociale ed economica si risponde con soluzioni poliziesche (all’interno) e militari (all’esterno). Dopo aver represso il dissenso interno, si cerca di contenere il malcontento generale, facendo pagare a popolazioni estranee il prezzo delle proprie contraddizioni.

Ecco perché il dissenso interno riesce a trovare, temporaneamente o in territori circoscritti, uno sfogo alle proprie frustrazioni. I dissidenti si trovano a vivere nelle colonie quegli stessi rapporti antagonistici che subivano in patria, con la differenza che ora, nelle colonie, sono loro che li fanno subire alle popolazioni e ai loro territori conquistati.

Anche ammettendo che nella loro terra d’origine i dissidenti volevano realizzare una qualche transizione al socialismo, bisogna dire che questa esigenza non s’è mai realizzata nelle colonie ch’essi hanno conquistato o semplicemente abitato. E non solo perché la loro stessa madrepatria non gliel’avrebbe mai permesso.

I coloni hanno sì potuto riscattarsi dal peso delle contraddizioni subìte in patria, ma solo perché sono diventati i nuovi padroni in casa altrui. Non hanno mai cercato un rapporto di collaborazione con le popolazioni incontrate, onde potersi opporre al dominio della madrepatria. E se l’hanno fatto, è stato in maniera strumentale, per necessità di circostanza, per aumentare il loro potere di colonizzatori. Il dissenso frustrato nella madrepatria s’è trasformato nelle colonie in dominio nei confronti dei territori conquistati e delle popolazioni sottomesse.

Questa cosa è potuta andare avanti finché ci sono state terre da conquistare e popolazioni da sfruttare. Ma oggi tutto il pianeta è stato colonizzato. Se le popolazioni sottomesse cominciassero a ribellarsi, non ci sarebbe più modo, da parte dei paesi tecnologicamente avanzati, di trovarne di nuove da sottoporre a nuovi sfruttamenti.

L’antagonismo non può più espandersi geograficamente, può solo acutizzarsi a livello sociale, là dove riesce a dominare. Se non riusciamo a realizzare una transizione al socialismo, le barbarie è assicurata.

III

Detto questo, resta sempre da chiarire che cosa s’intenda per “socialismo democratico” e, su questo, Jaffe è incredibilmente lacunoso. Non avendo posto alcuna premessa per un discorso di tipo culturale, si trova a ripetere sempre le stesse cose, senza riuscire ad offrire suggerimenti significativi per uscire non solo dalla dipendenza coloniale, ma neppure dai meccanismi sociali e culturali che creano il bisogno di avere un dominio coloniale.

Qui il discorso si fa davvero ampio e tutto da costruire. Se Jaffe si fosse concentrato sulle origini socio-culturali del capitalismo, non avrebbe dato così grande peso al colonialismo, che pur di quelle origini è parte organica, ma sarebbe stato costretto a darne alla religione, alla teologia, alla filosofia, al diritto, all’arte, alla scienza, all’etica e alla morale, cioè a tutte quelle discipline che il marxismo ha sempre definito come “sovrastrutture” dell’economia e che, per questa ragione, sono sempre state considerate dagli studiosi di sinistra come una sorta di mero rispecchiamento della realtà concreta dell’economia. In realtà tra struttura e sovrastruttura esiste un reciproco condizionamento, che impone allo studioso un’analisi di tipo olistico, obbligata a tener conto di tutti gli aspetti nel loro insieme.

Lo stesso colonialismo dipende da una determinata cultura, esattamente come il capitalismo. Se gli uomini di una civiltà, di una religione, di una nazione ecc. si sentono, ad un certo punto, in diritto di dover conquistare territori altrui, significa che già al loro interno esiste questa deformazione, esiste già il senso del dominio da parte del più forte nei confronti del più debole. Questo senso o sentimento o atteggiamento sociale non dipende dalla psicologia dei popoli, ma da una cultura, da una concezione della realtà. E questa concezione, nell’antichità, si esprimeva soprattutto in chiave religiosa (mitologica o metafisica o razionale che fosse).

Le cause del colonialismo possono anche essere state sociali, politiche, economiche, ma noi dobbiamo cercare le cause culturali, quelle precedenti a tutto. Bisogna scoprirle e combatterle, proprio perché di fronte a una determinata situazione sociale non si debba nuovamente rispondere con la scelta dell’antagonismo e quindi inevitabilmente del colonialismo. Il problema principale infatti è quello di non ripetere, in forme diverse, gli errori del passato.

In occidente le forze progressiste non possono aspettare la fine del colonialismo prima di cercare un’alternativa al capitalismo. Se il problema sta anzitutto “fuori” (nelle colonie), alla fine soltanto quelli di “fuori” potranno risolverlo. Ma se la borghesia avesse aspettato la fine spontanea della rendita feudale, non sarebbe mai riuscita a far trionfare l’idea di profitto.

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