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Contro la grammatica italiana

Il difetto principale di tutte le grammatiche della lingua italiana non sta solo nella loro astrattezza tecnicistica, simile a quella dei manuali di matematica, ma anche nel fatto che i loro autori, dopo aver spiegato una determinata regola, si preoccupano di offrire molti esempi per dimostrarne la validità, senza rendersi conto che ciò non invoglia lo studente a fare ricerche in proprio.
L’apprendimento scolastico, nei manuali di grammatica (e non solo di questa disciplina), è generalmente impostato in maniera nozionistica: lo studente (soprattutto quello delle Medie, che, se si escludono i Licei, fa molta più grammatica di quelli delle Superiori) è tenuto a imparare più o meno a memoria quante più nozioni possibili, per poi ripeterle più o meno meccanicamente.
In questa metodologia non c’è un invito a fare delle «ricerche personali», che sono poi quelle che in ultima istanza permettono davvero di memorizzare le regole, anche per un tempo indefinito.
Questo non vuol dire che nelle grammatiche non ci dovrebbero essere «innumerevoli esempi», ma, semplicemente, che questi esempi dovrebbero fare parte del «corredo» dell’insegnante, non dello studente.
A scuola e nella vita in generale ciò che più importa non è tanto la quantità di nozioni assimilate, quanto piuttosto il metodo con cui lo si fa, e quello principale, che rende interessante ogni cosa, è il gusto della ricerca personale.

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Oggi si fanno dei testi di grammatica, nelle scuole medie, che potrebbero andar bene anche per l’Università. Si mette tutto lo scibile possibile e immaginabile, senza curare minimamente la didattica, che è quella scienza che sa dosare gli argomenti in rapporto all’età e alle capacità d’apprendimento dell’interlocutore.

Sono testi che non servono tanto per imparare a scrivere quanto piuttosto per abituare la mente a perdersi nel mare magnum delle eccezioni e dei sofismi. È difficile infatti capire quanto possa essere importante sapere quando l’aggettivo «vicino», l’avverbio «davanti» o il verbo «escluso» non sono, rispettivamente, aggettivo, avverbio e verbo, ma, niente di meno, che «preposizioni improprie»: una categoria che «ai nostri tempi» neppure esisteva e che non per questo ci ha impedito di scrivere correttamente.
Didattica non vuol dire semplicemente elaborare degli esercizi utili all’apprendimento di determinate regole, ma anche saper formulare delle regole adeguate alla comprensione di chi le deve imparare. Senza poi considerare che non tutte le regole vanno imparate per raggiungere determinati risultati. Molte regole infatti si possono imparare dopo averli raggiunti, per approfondire qualcosa che si sapeva già.
I grammatici dovrebbero pensare di più a scrivere manuali per i ragazzi, non per ostentare la loro erudizione.

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Perché bisogna imparare tutte le possibili varianti di una regola grammaticale, quando poi le parole che si usano, soprattutto nel parlato, sono relativamente poche? Che senso ha usare delle parole che la maggioranza delle persone «parlanti» ritiene da tempo superate?

Se dunque molte parole non vengono più usate, perché costruire attorno ad esse delle regole grammaticali? P.es. l’aggettivo «ciascuno» si usa sempre meno, in quanto sostituito da «ognuno» o da «ogni». Son pochi che dicono: «ciascuno di voi» o «ciascuna bambina riceverà un regalo».
La nostra grammatica si concentra sulle singole parole, cercando di prevederle tutte, cioè si preoccupa di attribuire un qualche significato grammaticale a ogni singola parola, anche a quelle desuete. Come se il senso di una frase fosse la risultante del significato delle singole parole.
La nostra è una grammatica analitica, pedante, astrusa, per molti versi incomprensibile. Prendiamo questo esempio, che per uno straniero che dovesse o volesse imparare la nostra lingua, sarebbe come risolvere un rebus impossibile.
«Luca ha vari problemi». Quel «vari», siccome è posto prima del sostantivo, è un aggettivo indefinito; ma se lo mettiamo dopo diventa un aggettivo qualificativo. Questo perché nel primo caso vorrebbe dire «alcuni, molti, parecchi», mentre nel secondo vorrebbe dire: «variati, differenti».
Ora, davvero si può pensare che un alunno di scuola media possa capire una differenza del genere? La grammatica dovrebbe servire per semplificare il modo di parlare e di scrivere, lasciando che la complessità delle parole stia in realtà nella profondità del pensiero ch’esse vogliono esprimere. Questa profondità non è data dalle singole parole, altrimenti dovremmo considerare i vangeli i testi più insignificanti della letteratura religiosa.
Lo studio della grammatica italiana porta a utilizzare un linguaggio asettico, burocratico, molto vicino a quello della matematica. Non aiuta sicuramente a scrivere testi poetici. Dovrebbero essere le immagini a parlare: si fissano molto di più nella mente. La poesia, in tal senso, è un esercizio insostituibile.
Ma non è finita qui. Sono tante altre le domande da porsi.
P.es. esistono parole che possiamo definire «chiarissime»? Cioè esistono parole, frasi, espressioni linguistiche il cui significato s’imponga da sé, a prescindere dalla facoltà interpretativa di chi le ascolta o le legge? e quindi parole espressioni frasi la cui interpretazione non possa non essere che oggettiva, univoca, immodificabile?
Si può pretendere che nell’applicare determinate parole frasi espressioni, lo si faccia «alla lettera», senza impegnarsi in un’interpretazione soggettiva? Quali sono le condizioni in cui un’interpretazione del genere va considerata «sbagliata»? Che cosa significa essere «ambasciatori»?
Si può pretendere un’applicazione «alla lettera» delle proprie parole, quando è proprio lo scorrere del tempo, ovvero il mutare delle circostanze di luogo e di tempo, che le rende relative? L’oggettività delle parole non è forse tale solo quando le consideriamo «relative» a determinate circostanze di riferimento?
E se col passare del tempo un’interpretazione soggettiva apparisse più vera di quella oggettiva che si pretendeva al momento in cui quelle parole erano state dette? Cioè il fatto che determinate parole appaiano, nel momento in cui vengono formulate, più oggettive di altre, è di per sé sufficiente a garantire della loro oggettività in assoluto?
Qui si vuole dimostrare che non esistono parole oggettive che esulano da una possibile interpretazione soggettiva. Questo tuttavia non vuol dire che ogni parola non possa pretendere un’interpretazione oggettiva e quindi un’applicazione «alla lettera». Nessuno può pretendere che determinate parole vengano applicate alla lettera a prescindere dall’interpretazione che se ne può dare.
Anche perché può capitare che l’interpretazione di chi ascolta o legge determinate parole, sia essa soggettiva o oggettiva, possa risultare più significativa di quella che s’era data chi per primo le aveva pronunciate.
- Non posso dirvi tutto perché non sareste in grado di reggerlo.
- Sì però dacci la chiave con cui potremo farlo.

Il libro è qui
http://www.lulu.com/content/libro-a-copertina-morbida/contro-la-grammatica-italiana/9648876